Solidarietà assoluta al buon repubblicano Trump

Solidarietà assoluta al buon repubblicano Trump

Messaggioda Berto » ven gen 13, 2023 11:12 pm

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Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Solidarietà assoluta al buon repubblicano Trump

Messaggioda Berto » ven gen 13, 2023 11:13 pm

Capitolo 20)
Le denuncie dei redditi di Trump e famiglia usati come arma mediatico-giudiziario-politica per indurre sospetti in funzione diffamatoria, calunniatoria, demonizzante e persecutoria.


Pagare poche tasse ma fare impresa e generare nuovi posti di lavoro e in tal modo ridistribuire la ricchezza accumulata investendola e così generare nuova ricchezza è un circolo virtuoso moralmente, socialmente ed economicamente più utile e preferibile che pagare tasse e imposte che spesso vanno ad alimentare rendite e redditi parassitari, ingiustamente privilegiati e magari spese irresponsabili, demenziali e criminali.
Certo molti imprenditori e ricchi americani non pagano tasse o ne pagano poche perché preferiscono fare donazioni, investire e creare posti di lavoro che producono stipendi, salari, contributi, tasse e imposte versate dalle loro società e dai loro dipendenti.
A Trump finora, il fisco USA che è tra i più efficienti del Mondo non ha mai trovato alcunché da contestare in tanti anni.
Ad Al Capone l'IRS è riuscito di perseguirlo e di farlo condannare per evasione fiscale ma a Trump finora no, il che significa soltanto che Trump è un cittadino americano onesto e rispettoso delle leggi del paese e non certo un criminale evasore più furbo dell'IRS, delle leggi americane e dei tribunali USA.



Trump, più tasse all’estero che a casa: svelati i tributi (bassissimi) dell'ex presidente
Viviana Mazza
30 dicembre 2022

https://www.corriere.it/esteri/22_dicem ... b8ed.shtml

Svelati dal Congresso 6 anni di (bassissimi) tributi del presidente. A sorpresa i versamenti in Cina superiori a quelli negli Usa Confermati gli anni a zero reddito

DALLA NOSTRA CORRISPONDENTE
NEW YORK — Dopo un lungo braccio di ferro arrivato fino alla Corte suprema tra Donald Trump e la Commissione di sorveglianza della Camera, 6.000 pagine di dichiarazioni fiscali dell’ex presidente e della moglie Melania dal 2015 al 2020 che erano state consegnate ai deputati la scorsa settimana sono state divulgate ieri. Dal Watergate, Trump era il primo presidente a tenerle segrete.

I documenti mostrano che, dichiarando perdite milionarie, in quei sei anni Trump pagò 750 dollari di tasse sia nel 2016 che nel 2017, 1,1 milioni nel 2018-2019 e zero tributi nel 2020. Uno scoop del New York Times nel 2018 rivelò che Trump aveva pagato zero tributi in 10 dei 15 anni precedenti. Nel suo piccolo Melania ha dichiarato guadagni di 3.848 dollari come modella nel 2019 e 2020 ma spese per 3.848 dollari e quindi si è ritrovata a zero di reddito netto. Il tycoon, che spesso si è vantato della propria furbizia con il fisco, ha usato ogni metodo legale per pagare il meno possibile, ma gli esperti hanno individuato 26 casi sospetti in quei sei anni, per i quali potrebbe essere accusato di frode fiscale. Ci sono voci e numeri, come gli interessi ottenuti da Trump per prestiti ai propri figli oppure cifre spese esattamente corrispondenti alle entrate che avrebbero dovuto essere controllati. La Commissione «Ways and Means» non dice di avere le prove che Trump dovesse pagare di più, ma che in quanto presidente in carica per legge avrebbe dovuto ricevere un «auditing» dall’IRS, l’Agenzia tributaria che invece per i suoi primi due anni alla Casa Bianca non l’ha fatto, iniziando solo nel 2019 — quando la Camera si è interessata al caso — e senza mai concludere l’esame dei documenti. L’IRS era guidata da Charles Rettig, un avvocato tributarista nominato da Trump.

Un altro aspetto che i giornalisti erano ansiosi di valutare sono i conti all’estero. Le pagine divulgate ieri mostrano che l’ex presidente aveva conti correnti all’estero per tutta la durata del suo mandato: nel 2016 nel Regno Unito, in Irlanda, in Cina e St. Martin, nel 2017 nel Regno Unito, in Irlanda e Cina, e poi negli ultimi due anni solo nel Regno Unito. Ha guadagnato milioni da una dozzina di Paesi, inclusi Azerbaigian, Panama, India, Qatar, Emirati, spesso grazie a licenze per usare il marchio «Trump». Il New York Times nel 2020 rivelò per primo il conto in banca di Trump in Cina (connesso — replicò l’avvocato — allo sviluppo dei suoi hotel); il quotidiano scrisse che aveva versato tra il 2013 e il 2015 200mila dollari in tasse a Pechino, anche se accusava Joe Biden di svendere il Paese alla Repubblica popolare e Hunter Biden per gli affari in Ucraina e in Cina. I documenti divulgati ieri mostrano che Trump ha mantenuto il conto in Cina per i primi due anni del suo mandato e che nel suo primo anno ha pagato più in tasse all’estero che tasse federali: 750 dollari in patria e quasi un milione di dollari oltre confine (usando queste ultime anche per ottenere deduzioni).

Il dossier mostra tra le altre cose che, benché Trump da candidato avesse promesso di donare l’intero salario presidenziale di 400mila dollari per scopi caritatevoli, l’entità dei finanziamenti variò negli anni e fu pari a zero nel 2020.

In un comunicato il tycoon ha definito la pubblicazione delle sue tasse un grosso errore della «sinistra radicale» e della Corte suprema, che dividerà ulteriormente la nazione e diventerà una nuova arma politica. E contesta le analisi: «Ancora una volta emerge quanto orgogliosamente ho avuto successo nell’usare l’ammortamento e altre deduzioni fiscali come incentivo per creare migliaia di posti di lavoro e magnifiche strutture e imprese».



Stati Uniti, la Camera pubblica la dichiarazione dei redditi di Trump, aveva conti anche in Cina. The Donald …
La Stampa
30 dicembre 2022

https://www.lastampa.it/esteri/2022/12/ ... -12440068/

I democratici al Congresso hanno reso pubbliche le dichiarazioni dei redditi dell'ex presidente Usa Donald Trump per un periodo di sei anni, dal 2015 al 2020. La pubblicazione, che arriva dopo un duro braccio di ferro con il tycoon, è avvenuta poco prima che i repubblicani riprendano il controllo della Camera dai dem, e solleva il potenziale di nuove rivelazioni sulle finanze di Trump, mentre l'ex presidente ha lanciato la campagna elettorale per le presidenziali del 2024.

Le dichiarazioni dei redditi dell'ex presidente Usa, che includono la rielaborazione di alcune informazioni personali sensibili come i numeri di previdenza sociale e i conti bancari, fanno seguito al voto del Ways and Means Commitee della Camera dei rappresentanti, avvenuto la scorsa settimana. I democratici della commissione hanno sostenuto che erano in gioco la trasparenza e lo stato di diritto, mentre i repubblicani hanno controbattuto che la pubblicazione avrebbe creato un pericoloso precedente per quanto riguarda la perdita della protezione della privacy.

Trump si era rifiutato di rendere pubbliche le sue dichiarazioni quando si era candidato alla presidenza e ha condotto una battaglia legale per tenerle segrete mentre era alla Casa Bianca. Il mese scorso, però, la Corte Suprema ha stabilito che doveva consegnarle al Ways and Means Commitee della Camera.

La pubblicazione delle tasse degli ultimi sei anni è un nuovo duro colpo per Trump, che ha esaurito tutte le strade legali a sua disposizione per mantenerle segrete. I democratici hanno fatto un pressing incessante per anni per ottenere e pubblicare le dichiarazioni dei redditi dell'ex presidente.

I documenti fanno luce sulle finanze del presidente e vanno a completare le informazioni parziali trapelate nel corso degli anni e il sommario pubblicato dalla stessa commissione nei giorni scorsi. Donald Trump ha avuto conti correnti bancari all'estero fra il 2015 e il 2020, incluso uno in Cina dal 2015 al 2017.

Per il Congresso si tratta di un'iniziativa rara: una simile azione non avveniva dal 1973, quando l'agenzia delle entrate americana consegnò le dichiarazioni dei redditi del presidente Richard Nixon a una commissione del Congresso.

L'ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, è furioso: «I Democratici non avrebbero mai dovuto farlo, la Corte Suprema non avrebbe mai dovuto approvarlo, e questo porterà a cose orribili per molte persone», ha detto Trump in una dichiarazione venerdì, «i Democratici radicali e di sinistra hanno armato tutto, ma ricordate, questa è una strada pericolosa a doppio senso!».

L'ex presidente americano ha anche aggiunto che le sue dichiarazioni dei redditi «dimostrano ancora una volta il mio orgoglioso successo e la mia capacità di utilizzare l'ammortamento e varie altre deduzioni fiscali come incentivo per la creazione di migliaia di posti di lavoro e di magnifiche strutture e imprese».



Trump, il conto corrente in Cina che imbarazza l'ex presidente Usa (e nel 2020 niente beneficenza)
Venerdì 30 Dicembre 2022

https://www.ilmessaggero.it/mondo/trump ... 41331.html

Le dichiarazioni dei redditi di Donald Trump sono finalmente pubbliche. Dopo anni di battaglia legale, i democratici alla Camera ne hanno autorizzato la diffusione, uno schiaffo pesante all'ex presidente e alla sua campagna elettorale per il 2024. Un affronto a cui il tycoon ha risposto duramente attaccando i liberal di «estrema sinistra» pronti a usare «qualsiasi cosa come un'arma», ma anche la Corte Suprema conservatrice che «non avrebbe mai dovuto consentire» la pubblicazione. Una pioggia di critiche è arrivata anche dai repubblicani, che hanno promesso battaglia non appena si saranno insediati alla Camera agli inizi di gennaio.

Trump ha pagato «zero tasse sui redditi del 2020»: la rivelazione del New York Times
Tasse all'estero
Le migliaia di pagine di documentazione mostrano un Trump "allergico" alla filantropia. Nel 2020 non ha infatti versato neanche un dollaro in beneficenza pur avendo dichiarato nel 2015, al momento della sua candidatura, di voler donare per intero il salario da presidente annuale, pari a 400.000 dollari. E soprattutto un Trump che, mentre era alla Casa Bianca, aveva conti corrente all'estero, anche in Cina. Pur essendosi impegnato a non perseguire tramite l'azienda di famiglia accordi all'estero durante la presidenza per evitare conflitti di interesse, l'ex presidente ha incassato più di 55 milioni di utile lordo da una decina di Paesi stranieri, fra i quali Azerbaijan, Panama, Canada e Qatar.

Le accuse sulla mancata beneficenza
Nel 2017 il tycoon ha addirittura pagato più tasse all'estero che negli Stati Uniti, dove aveva staccato al fisco un assegno di soli 750 dollari. Una cifra analoga a quella versata nel 2016. Nel 2020, invece, l'ex presidente ha pagato zero in tasse federali a fronte di una perdita di quasi cinque milioni di dollari, realizzata nonostante i 133.173 dollari incassati in royalty. I documenti rivelano inoltre come Melania Trump abbia guadagnato 3.848 dollari dalla sua attività di modella nel 2019 e nel 2020, ma in tutti e due gli anni ha registrato spese per 3.848 dollari e quindi si è ritrovata con zero di reddito netto. Le rivelazioni sono un duro colpo alla campagna elettorale di Trump per il 2024, che già stenta a decollare e sulla quale pesa la commissione di indagine sul 6 gennaio che continua, giorno dopo giorno, a pubblicare le trascrizioni delle testimonianze raccolte. Una delle ultime è quella di Stephanie Grisham, l'ex portavoce della Casa Bianca. Ai deputati della commissione Grisham ha rivelato lo scetticismo di Melania nei confronti del ristretto circolo di consiglieri del marito. L'ex First Lady nutriva dubbi e non si fidava neanche di Donald Trump Jr e della sua fidanzata Kimberly Guilfoyle, ritenendo che non agissero nel miglior interesse del marito.

La risposta di Trump
Attaccando i democratici dell'estrema sinistra per la pubblicazione delle sue tasse, che rischia a suo dire di tradursi in «cose orribili per molte persone», Trump ha comunque ostentato sicurezza. Le dichiarazioni dimostrano che «ho avuto successo e sono stato in grado di usare alcune deduzioni fiscali per creare migliaia di posti di lavoro», ha affermato. Parole dure sono arrivate anche dai repubblicani che vedono nella pubblicazione un precedente pericoloso e minacciano, una volta assunto il controllo della Camera, azioni a tappeto contro l'amministrazione Biden.




I super-ricchi d’America pagano (quasi) zero tasse
Forbes.it
9 giugno 2021

https://forbes.it/2021/06/09/miliardari ... e-reddito/

Gli Stati Uniti vivono un momento storico in cui le questioni della distribuzione disuguale della ricchezza e degli ultra-ricchi che evitano di pagare le tasse sono centrali nel dibattito politico di Washington. Ora una nuova analisi, condotta da ProPublica su documenti fiscali personali ottenuti da fonti confidenziali, relativi a un periodo di oltre 15 anni, dimostra che le persone più ricche d’America hanno pagato ben poco – o, in alcuni casi, niente – in fatto di imposte federali sul reddito.

Gli elementi chiave

Una famiglia americana media, che guadagna circa 70mila dollari all’anno, paga imposte federali annue pari al 14%. ProPublica ha scoperto che i 25 americani più ricchi (secondo le stime di Forbes) hanno pagato una “aliquota reale” pari ad appena il 3,4% sulle nuove ricchezze accumulate tra il 2014 e il 2018, pari a 401 miliardi di dollari.

La “aliquota reale” di ProPublica è un nuovo parametro – di certo destinato a fare discutere – per misurare quante tasse un individuo ha pagato in ciascun anno fiscale, in rapporto all’incremento patrimoniale stimato da Forbes per quello stesso periodo. Ciò significa che ProPublica conteggia anche i guadagni da capitale non ancora concretizzati, che, in base alle normative statunitensi, non sono tassati.

Secondo l’analisi di ProPublica, l’investitore miliardario Warren Buffett, sostenitore di un innalzamento delle tasse per i ricchi, ha visto la sua fortuna crescere di oltre 24 miliardi di dollari tra il 2014 e il 2018 e ha pagato un’imposta reale dello 0,10%. Il numero riflette il fatto che Buffett ha dichiarato guadagni per soli 125 milioni durante quel periodo, compie generose donazioni in beneficenza e (poiché corrisponde a se stesso un salario minimo) la maggior parte delle sue entrate sono sotto forma di guadagni da capitale, per i quali le tasse sono più basse.

Il fondatore e amministratore delegato di Amazon, Jeff Bezos, ha pagato un’imposta reale dello 0,98% tra il 2014 e il 2018. Un periodo durante il quale il suo patrimonio è cresciuto dell’incredibile cifra di 99 miliardi di dollari. Bezos ha dichiarato guadagni per appena 4,22 miliardi di dollari durante quegli anni.

Elon Musk, il miliardario amministratore delegato di Tesla, ha visto la sua fortuna lievitare di 13,9 miliardi di dollari tra il 2014 e il 2018. In quel lasso di tempo ha dichiarato guadagni per 1,52 miliardi e ha pagato un’aliquota reale del 3,27%.

Un fatto sorprendente

ProPublica ha scoperto che Bezos non ha pagato imposte federali sul reddito nel 2007, nonostante, in quell’anno, la sua fortuna sia cresciuta di 3,8 miliardi di dollari. Ciò è accaduto, secondo l’analisi, perché è riuscito a compensare i 46 milioni di dollari di entrate dichiarate con le perdite legate a investimenti e le deduzioni su debiti e altre spese. ProPublica ha rilevato anche che Musk non ha pagato imposte sul reddito nel 2018.

Il numero

175 miliardi di dollari all’anno. Secondo uno studio di marzo, è questo il contributo annuale dei principali contribuenti americani (il primo 1%) al tax gap, cioè la differenza tra le tasse federali legalmente dovute e quelle effettivamente riscosse. La ricerca stima che quell’1% di contribuenti non paghi le tasse sul 20% delle sue entrate. Va sottolineato, tuttavia, che il rapporto di ProPublica non afferma che quei miliardari hanno infranto la legge e calcola l’imposta reale non sul reddito, ma sulla ricchezza. Una quantità che, per i super-ricchi, è molto più grande, perché i guadagni da capitale non sono tassati.


Che cosa aspettarsi

Per finanziare il suo piano da 1.800 miliardi di dollari per le famiglie americane – un ambizioso programma di investimenti pensato per incrementare drasticamente gli investimenti nell’istruzione, nell’assistenza ai bambini e nei congedi familiari e per malattia -, il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha proposto una serie di aumenti delle tasse per gli americani più ricchi. Biden vuole convogliare più denaro verso l’Internal Revenue Service (l’equivalente statunitense dell’Agenzia delle entrate), in modo che possa rafforzare il processo di riscossione e l’esame dei conti dei più ricchi. Gli aumenti delle tasse proposti da Biden includono un incremento dell’imposta sul reddito dal 37 al 39,6%. Il presidente intende anche tassare i guadagni da capitale e i dividendi allo stesso livello del reddito (che, come detto, è più alto) per le famiglie che guadagnano più di un milione di dollari all’anno.

Biden vuole anche eliminare lo “step-up” in vigore sui guadagni da capitale trasmessi agli eredi per cifre superiori a un milione di dollari (nel caso di individui) o a 2 milioni di dollari (per le coppie): somme che, al momento, non sono tassate. Oggi, lo “step-up” implica che tutti i guadagni di capitale non concretizzati spettanti a un ricco appena morto non vengono mai tassati.


Amazon non paga tasse su oltre 50 miliardi di vendite in Europa: ecco perché
Tommaso Lecca

https://europa.today.it/economia/amazon ... uropa.html

Nel 2021 Amazon ha incassato oltre 50 miliardi di euro dalle vendite al dettaglio in otto Paesi europei, inclusa l’Italia. Ciononostante, la filiale Ue del gigante del commercio online non ha dovuto pagare alcun importo in imposte societarie al Lussemburgo, Paese in cui si trova la sede di Amazon EU Sarl, la filiale europea della società fondata da Jeff Bezos. L’agenzia di stampa Bloomberg ha avuto accesso ai documenti aziendali che spiegano come sia possibile avere un trattamento fiscale così vantaggioso.

“La principale attività di vendita al dettaglio europea di Amazon - ha precisato l’agenzia di stampa - ha registrato 1,16 miliardi di euro di perdite nel 2021”, nonostante il fatturato in crescita del 17% rispetto all’anno precedente. Il bilancio in rosso “ha consentito alla società di non pagare l'imposta sul reddito” e persino “di ricevere un miliardo di euro in crediti d’imposta”.

Interrogato su come mai Amazon abbia concluso l’anno in passivo nonostante il successo in termini di volumi d’affari, il portavoce dell’azienda ha spiegato: “Stiamo investendo molto nella creazione di posti di lavoro e in infrastrutture in tutta Europa”. Il che ha comportato spese “per più di 100 miliardi di euro dal 2010”. “L'imposta sulle società - ha fatto notare l’azienda - si basa sui profitti, non sui ricavi, e l'anno scorso Amazon EU Sarl ha registrato una perdita poiché abbiamo aperto più di 50 nuovi siti in tutta Europa e creato oltre 65 mila posti di lavoro ben pagati, portando la nostra forza lavoro permanente europea a un totale di oltre 200 mila unità”, ha aggiunto il portavoce. Investimenti che hanno consentito ad Amazon di non versare tasse al fisco lussemburghese per le vendite effettuate in Regno Unito, Germania, Francia, Italia, Spagna, Polonia, Svezia e Paesi Bassi.

“In tutta Europa, paghiamo un'imposta sulle società per centinaia di milioni di euro”, ha precisato il portavoce. Tuttavia, la versione di Amazon non convince le tante organizzazioni per la giustizia fiscale che puntano il dito contro la legislazione lussemburghese che permetterebbe al gigante del commercio online di avere un vantaggio iniquo sui competitor più piccoli.

La stessa Commissione europea in passato ha provato a rompere il patto Amazon-Lussemburgo che, secondo Bruxelles, andrebbe a danno della competitività nel mercato europeo. L’esecutivo Ue aveva infatti stabilito che gli accordi con il Lussemburgo risalenti al 2003 erano aiuti di Stato illegittimi ai sensi delle norme Ue. La società americana aveva poi vinto un ricorso contro il pagamento da 250 milioni di euro richiesto da Bruxelles. L'anno scorso, la Commissione europea ha presentato ricorso alla Corte di giustizia dell'Ue contro quest’ultima scelta dei giudici.


???
Come ti eludo il fisco: le strategie dei miliardari USA per non pagare le tasse
Gennaro Mansi
19 dicembre 2022

https://lavocedinewyork.com/news/primo- ... -le-tasse/

Spulciando le sue dichiarazioni dei redditi, tra il 2014 e il 2018 il sig. Jeff di Medina, WA ha pagato un’aliquota fiscale effettiva dello 0,98%. Il che significa, in sostanza, che meno dell’1% della ricchezza guadagnata ogni anno è finito nelle casse dell’erario. Una percentuale che farebbe impallidire anche i più ferventi fautori di flat tax e night-watchman state, che a confronto apparirebbero una comitiva di bolscevichi dirigisti. Ora aggiungete che il sig. Jeff ha scelto di vivere ad appena 8 miglia di distanza dal quartier generale della sua società, una multinazionale dell’e-commerce con sede a Seattle (ricorda qualcosa?). Si tratta di un’impresa che tra il 2014 e il 2018 ha generato un giro d’affari ($738 miliardi) grossomodo equivalente al PIL dell’Arabia Saudita. E aggiungeteci pure che il sig. Jeff, che di cognome fa Bezos per chi non l’avesse capito, tra 2014 e 2018 ha guadagnato a titolo personale la bellezza di 99 miliardi di dollari.

Se i conti sono tutti esatti, dovreste avere la soluzione: $973 milioni pagati all’IRS a fronte di $990.000 milioni guadagnati. Se si applicasse la stessa logica alla famiglia media USA, questa pagherebbe in tasse appena il 5% di quello che le viene richiesto abitualmente dagli esattori di Washington. Un esempio scolastico? La famiglia Smith, che ha un reddito medio annuale di $67.521, teoricamente ne versa in tasse quasi 15.000, a causa dell’aliquota progressiva del 22%. Se gli Smith applicassero l’aliquota Bezos, dovrebbero staccare un assegno di soli 661 dollari. La metà di uno smartphone di ultima generazione.

L’aliquota Bezos, però, non sembra essere valida per il resto della popolazione. Né tantomeno per il solo Bezos, dato che alcuni sono riusciti a fare lo stesso, se non di meglio: ad esempio il rivale miliardario Elon Musk, assurto a guru della Gen Z e pioniere dello spazio. Sulla Terra, invece, nel 2018 Musk non ha versato nemmeno un centesimo di imposte sul reddito (traguardo che anche Bezos, a onor del vero, era riuscito a tagliare nel 2007). Ma il Nobel per le magie fiscali dei super-miliardari va senza dubbio a George Soros, l’imprenditore ungherese-statunitense al centro di dietrologie politiche di ogni sorta, e che per ben tre anni di fila non ha messo mani al portafoglio a fronte di un patrimonio personale di 8,6 miliardi di dollari. Un quasi-record (tra i giganti) che in molti hanno cercato di superare – l’ex sindaco newyorkese Michael Bloomberg e l’imprenditore Carl Icahn tra i più agguerriti pretendenti – ma che resiste ancora.


Palazzo dell’Internal Revenue Service a Washington DC – Flickr, Tim Evanson

Quella dei mega-ricchi statunitensi e delle loro maniere creative per eludere le tasse è una storia lunga almeno un secolo. Peraltro, di vera e propria “elusione” si può parlare tenendo in considerazione che gli schemi hanno in realtà un costo occulto: le esose parcelle da corrispondere a pletore di avvocati e fiscalisti specializzati che riescono a muoversi nella Babilonia fiscale a mo’ di Tarzan nella giungla delle scimmie. Considerando le masse di denaro in gioco, comunque, l’equivalente di un trancio di pizza al formaggio.

Una lunga inchiesta di ProPublica si è concentrata in particolare sulla parabola elusiva di tre famiglie che costituiscono l’essenza dell’American Dream: gli Scripps, i Mellon, e i Mars. Secondo Forbes, la loro ricchezza combinata supera i 114 miliardi di dollari. Tre dinastie plutocratiche che, però, non risultano davvero tali dai registri dei contribuenti. C’è un’imposta in particolare a cui le famiglie sembrano essere allergiche: quella di successione. Introdotta dal Congresso nel 1916, il suo scopo è prelevare una parte del patrimonio trasferito dal defunto agli eredi nelle famiglie più facoltose. Attualmente la misura si applica solo ai redditi superiori ai $11.700.000, e a pagarla sono appena in 1.275 in tutto il Paese. I più furbi, invece, preferiscono ingaggiare professionisti per trovare maniere creative (e ai confini della legalità) per aggirare l’obbligo, quasi tutte consistenti nel trasferire i fondi quando il testatore è ancora in vita.

Dopo anni di interpretazione creativa del diritto, i magnati sembrano aver finalmente identificato il sacro Graal dell’elusione fiscale: il loro nome tecnico è grantor retained annuity trusts (trusts di rendita trattenuti dal concedente), in sigla GRAT, uno strumento societario che permette di “congelare” il patrimonio in un trust per metterlo al riparo dall’imposta di successione (titolare formale della somma è infatti il trustee, che non è un erede). L’unica tassa da pagare è quella per costituire il trust stesso. La cifra depositata nei GRAT, inoltre, genera interessi su cui il fisco non può mettere naso. Quindi, se un patrimonio di 200 milioni di dollari genera un interesse annuo del 3%, non solo gli eredi non pagheranno imposte di successione fintantoché la somma è al sicuro nel GRAT, ma intascheranno anche 6 milioni di dollari netti esentasse. Quello dei trusts (e dei GRAT) è un istituto giuridico disciplinato dal diritto dei singoli stati. Normalmente, ogni trust ha una scadenza, al sopravvenire della quale i fondi vengono assegnati dal trustee al beneficiario finale (gli eredi). Tuttavia, per attrarre società e ricchi alcuni stati hanno preso a disapplicare uno dei pilastri del common law anglo-statunitense, la rule against perpetuities, che impedisce di protrarre un trust oltre 21 anni dopo la morte dei beneficiari originariamente designati. Un affare perpetuo, insomma.


Il CEO di Amazon Jeff Bezos nel 2019 (foto di Daniel Oberhaus, Daniel Oberhaus, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons)

Lo scandalo fiscale riaffiora periodicamente sulla stampa, ma con scarsi effetti pratici. Nel 1924 diversi quotidiani pubblicarono in prima pagina le tasse pagate dai più potenti imprenditori e politici statunitensi: inter alios, ne uscì fuori che il ricchissimo banchiere J.P. Morgan pagava meno tasse ($98.643) di un suo socio junior. Anche i numerosi tentativi del Congresso di tenere il passo dell’aristocrazia a stelle e strisce hanno sortito effetti irrilevanti – non da ultimo perché a scrivere le leggi a volte sono stati proprio i presunti elusori; oppure, i soldi dei trusts sono stati spesi per foraggiare lobbies anti-tasse (come nel caso dei Mellon ai tempi della Reaganomics). Non bisogna riavvolgere le lancette troppo indietro: basta tornare allo scorso autunno, quando i membri democratici del Congresso hanno proposto una tassa sui miliardari e una stretta sui loro sotterfugi fiscali. La controffensiva delle lobbies è consistita nel far credere ai cittadini statunitensi che la misura danneggiasse agricoltori e piccoli imprenditori (dato statisticamente travisato, per non dire falso). A far naufragare la proposta di legge è stato, insieme ai repubblicani, il no decisivo del dem Joe Manchin. Forse sotto suggerimento di un suo ex alto consigliere, ingaggiato per l’occasione dalle stesse lobbies anti-tasse a libro paga delle dinastie del dollaro.

Oltre ai GRAT, un altro stratagemma impiegato abitualmente dai super-ricchi, e svelato in altre inchieste della solita ProPublica, consiste nel compensare il proprio reddito imponibile con spese o perdite. In sostanza, alcuni milionari/miliardari hanno scoperto che, spendendo a fondo perduto somme di denaro in determinate attività (imprenditoriali o filantropiche), potevano ricavarne abbastanza deduzioni per far passare in cavalleria i restanti guadagni e patrimoni. Così, aver perso circa $600 milioni al Kentucky Derby si è rivelato l’affare della vita per sei famiglie di milionari che possedevano altrettanti cavalli: le perdite hanno infatti consentito loro di non dover pagare imposte sulle decine di milioni che già possedevano, deducendo sia il costo di mantenimento degli animali che il rosso accumulato. A volte le perdite si rivelano una vera e propria manna dal cielo: così è stato per Ty Warner, l’imprenditore di giocattoli che grazie alla “visionaria” scelleratezza imprenditoriale (perdite superiori ai guadagni) nel settore alberghiero non ha pagato imposte sul reddito per ben 12 anni.

L’élite statunitense ha insomma fatto incetta di deduzioni previste dal regime tributario nazionale, registrando perdite ad hoc per non pagare imposte sul reddito – o pagarne una minima parte. Gran parte dei “furbetti” si concentra nei settori degli immobili commerciali o dell’energia. E tra questi sembrebbe esserci anche l’ex presidente Donald Trump, che alle spalle conta una serie di fallimenti e nel 2016 avrebbe pagato appena 750 dollari di imposte sul reddito. L’ex presidente si è ripetutamente rifiutato di svelare le sue dichiarazioni dei redditi dal 2015 al 2020, ma un giudice federale ha recentemente stabilito che il Congresso potrà accedere ai documenti.

Tra i casi più particolari c’è infine quello dell’imprenditrice texana Phyllis Taylor. Dal 2004, dopo la morte del marito Patrick, la sig.ra Taylor ha ereditato la direzione di una società energetica, la Taylor Energy di New Orleans, ritenuta responsabile del più duraturo e consistente sversamento di greggio nelle acque del Golfo del Messico, avvenuto in conseguenza dell’uragano Ivan del 2004. Ebbene, dal 2005 al 2018 la signora ha applicato il sempreverde trucco: le somme impiegate dalla società per ripulire (per quanto possibile) il Golfo sono infatti servite a non farle pagare imposte sul reddito per 14 anni.

Una catastrofe per la collettività divenuta benedizione per pochi eletti. Metafora perfetta di un intero sistema fiscale.


Come fanno Bezos e Musk a non pagare le tasse: un'inchiesta
Marco Pratellesi
10 giugno 2022

https://www.repubblica.it/tecnologia/20 ... 305255678/

Nel 2007 e nel 2011, il fondatore di Amazon, Jeff Bezos, attualmente l'uomo più ricco del mondo, non ha pagato un solo penny di tasse. La stessa cosa è riuscita, nel 2018, al fondatore di Tesla, Elon Musk, al secondo posto nella graduatoria degli uomini più ricchi del mondo. Un privilegio condiviso per anni da altri multimiliardari, come Michael Bloomberg e George Soros.

A scoprire, analizzare e spiegare come gli uomini più ricchi d'America siano riusciti a pagare, legalmente, tasse "ridicole" e in alcuni casi ad evitarle del tutto, è una inchiesta di ProPublica, testata già vincitrice di Pulitzer, il riconoscimento giornalistico più prestigioso d'America, grazie a un file proveniente dall'Internal Revenue Service (IRS) del governo americano. Il file segreto permette per la prima volta di spulciare 15 anni della vita finanziaria dei giganti multimiliardari americani, inclusi Warren Buffet, Bill Gates, Rupert Murdoch e Mark Zuckerberg.

Complessivamente "The Secret IRS Files" costituiscono un duro colpo al mito del sistema fiscale americano, secondo il quale ognuno paga per quello che guadagna e i più ricchi, ovviamente, pagherebbero di più. Dati alla mano, non è così. I documenti dell'IRS, analizzati dai giornalisti di ProPublica, Jesse Eisinger, Jeff Ernsthausen e Paul Kiel, dimostrano il contrario: i più ricchi riescono - in maniera perfettamente legale - a pagare tasse in una percentuale infinitesimamente piccola rispetto alle centinai di milioni, quando non miliardi, delle loro fortune personali che crescono ogni anno di più. E comunque, tasse molto inferiori alle percentuali che ogni americano si vede sottrarre ogni mese dalla busta paga.

Mentre una famiglia media che guadagna circa 70 mila dollari l'anno ha una tassazione federale del 14%, che sale fino al 37% per chi guadagna oltre i 600 mila dollari, i "Secret Files" dell'IRS mostrano che gli ultraricchi riescono ad eludere questo sistema. Come? Le loro ricchezze derivano soprattutto dai loro asset, come azioni e proprietà, guadagni che per la legge americana non sono tassabili finché non vengono ceduti. Inoltre, molti dei miliardari della lista riescono a compensare ogni penny guadagnato con "perdite collaterali", investimenti e varie detrazioni, come spese per interessi sui debiti e altre "spese generiche". Poi ci sono altri "trucchetti" che emergono dal rapporto, come ad esempio il fatto che gente come il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, possa scegliere di farsi pagare solo un dollaro di salario, potendo contare su altre forme di guadagni.

I giornalisti di ProPublica hanno comparato le tasse pagate ogni anno dai 25 uomini più ricchi d'America con la crescita della loro ricchezza stimata da Forbes nello stesso periodo. I risultati sono impressionanti: fra il 2014 e il 2018, la ricchezza di questi personaggi è cresciuta collettivamente di 401 miliardi di dollari. Bene, nello stesso periodo hanno pagato 13.6 miliardi di tasse federali, tutti insieme. Un misero 3,4% di quanto hanno accumulato, che fa rabbrividire la classe media americana che si dibatte fra un 14% e l'aliquota massima del 37% prevista per i più benestanti. Difficile spiegare e capire come le persone più ricche del mondo possano cavarsela con tassazioni così basse a chi vede prelevare ogni mese parte dei propri guadagni di lavoro direttamente dalle proprie buste paga.

Secondo Forbes, ad esempio, Warren Buffet, tra il 2014 e il 2018 ha visto lievitare la sua ricchezza di 24.3 miliardi di dollari, ma i files rivelati da ProPublica mostrano che in quegli stessi anni ha pagato tasse per 23.7 milioni di dollari: lo 0,1%, meno di 10 centesimi per ogni 100 dollari che ha potuto aggiungere alla sua ricchezza.

Tra il 2006 e il 2018, secondo Forbes, Jeff Bezos ha incrementato la sua ricchezza di 127 miliardi di dollari, ma ha dichiarato un reddito totale di 6.5 miliardi pagando 1.4 miliardi di tasse, che è un numero alto in assoluto, ma rappresenta solo l'1.1% della reale crescita della sua fortuna.

Ineguaglianza e ridistribuzione della ricchezza sono alcuni dei punti chiave della nostra era, che vede i ricchi diventare sempre più ricchi e le classi medie scivolare sempre più verso la povertà. L'inchiesta di ProPublica, e sono già annunciate nuove puntate, è destinata a fare scalpore, soprattutto in un momento in cui il presidente Joe Biden e il Congresso Usa stanno discutendo un ambizioso aumento delle tasse per il popolo americano, portando la rata più alta al 39.6% rispetto all'attuale 37%. Anche perché, se le cose resteranno così, per i super ricchi cambierà poco o niente.

Nella approfondita e dettagliata inchiesta i giornalisti di ProPublica non rivelano come sono riusciti ad ottenere i dati dell'IRS - sul caso le autorità americane hanno aperto un'inchiesta - ma spiegano come abbiano impiegato mesi a processare e analizzare il materiale per trasformarlo in un database utilizzabile e a verificare le informazioni così ottenute. Ora lo scenario che emerge getta molte ombre sull'iniquità del sistema fiscale made in Usa.


"Dovete tassarci di più": l'appello di oltre 100 super ricchi | Assenti Musk e Bezos
HDblog.it
21 Gennaio 2022

https://www.hdblog.it/mercato/articoli/ ... e-appello/

"Non contribuiamo abbastanza al benessere della società: tassateci di più". È questo in sostanza il succo di In tax we trust - crediamo nelle tasse -, l'appello firmato da 102 tra milionari e miliardari di tutto il mondo sostenuto dalle associazioni Patriotic Millionaires, Millionaires for Humanity e taxmenow. Ricchi e super ricchi che credono nel potere della tassazione, e perciò chiedono di poter contribuire direttamente e con costanza al benessere di chi non è altrettanto fortunato.

La fiducia - nella politica, nella società - non si costruisce in stanzini accessibili solo ai più ricchi e potenti. Non è costruita da miliardari che viaggiano nello spazio dopo aver accumulato una fortuna con la pandemia sulla quale pagano tasse irrisorie e con la quale elargiscono stipendi miseri ai lavoratori. La fiducia si costruisce attraverso la responsabilità, attraverso democrazie ben oliate, eque e aperte che forniscono servizi adeguati e supportano tutti i loro cittadini.

Il riferimento dell'oligarchia dei milionari responsabili, nemmeno troppo velato, è evidentemente a Jeff Bezos che con Blue Origin va alla conquista dello spazio dopo aver accumulato una fortuna con Amazon durante la pandemia, e a Elon Musk con SpaceX, entrambi bacchettati a settembre dall'ONU ("che pensino alla fame sulla Terra!").

Bezos, che come Musk non è tra i firmatari di In tax we trust (avevate dubbi? ndr), in tempi recenti ha stanziato tramite Earth Fund, la sua fondazione contro il cambiamento climatico, un miliardo di dollari per la salvaguardia delle specie in via di estinzione. Ma, a interpretare il pensiero dei 102 firmatari l'appello, sebbene si tratti di una cifra considerevole è un contributo una tantum che peraltro, a differenza della tassazione, non passa dalla politica, la quale invece ha una visione d'insieme sulle impellenze immediate e future.

L'elemento fondante di una democrazia forte è un sistema fiscale equo. Un sistema fiscale equo. Come milionari, sappiamo che l'attuale sistema fiscale non è equo. Gran parte di noi può dire che, mentre il mondo soffriva enormemente, negli ultimi due anni la nostra ricchezza è aumentata, ma pochi o nessuno di noi può dire con onestà di aver pagato il giusto di tasse.

L'appello della élite arriva in tempi strategici, a pochi giorni dal World Economic Forum, fondazione che riunirà (virtualmente) intorno a un tavolo i "big" della politica e dell'economia, del mondo intellettuale e del giornalismo per discutere delle questioni più urgenti che il mondo si trova ad affrontare, anche in fatto di salute e di ambiente. Un portavoce ha commentato l'appello dei super ricchi sostenendo che il pagamento di una giusta quota di tasse è tra i principi del WEF, e che un’imposta sul patrimonio potrebbe essere un buon modello.

Scorrendo l'elenco dei firmatari (rigorosamente in ordine alfabetico) non c'è alcun nome altisonante, fatta eccezione per l'erede Disney - Abrigail - che attraverso il suo profilo su Millionaires for Humanity chiede una patrimoniale: "È l'unica cosa giusta, l'unica che prenderà parte di questa vasta riserva di ricchezza che si è accumulata in modo innaturale tra una manciata di persone e si assicurerà che vada a beneficio delle persone che ne hanno davvero bisogno".

A far parte della stessa associazione, senza essere però tra i firmatari dell'appello, l'italiano Leonardo Turra di Turra Petroli, che nella bio scrive: "Voglio assicurarmi di consegnare un mondo migliore ai miei figli e ai miei nipoti, e credo che Millionaires for Humanity svolga un ruolo importante affinché ciò accada". A differenza di Turra, tra le firme di In tax we trust si scorge Giorgiana Notarbartolo di Villarosa, discendente del ramo dei Duchi di Villarosa (comune in provincia di Enna) che oggi risiederebbe in Regno Unito. È l'unico nome italiano tra i sostenitori di una maggiore tassazione.


Usa, quanto costa non pagare le tasse?
Stefano Latini
20 Ottobre 2007

https://www.fiscooggi.it/rubrica/dal-mo ... gare-tasse

Anche il Paese dei sogni, ovvero gli Stati Uniti, patria d'una interminabile compagnia di self-made man e modello d'un liberismo intransigente votato quasi liturgicamente alla deregulation e al ridimensionamento della mano pubblica e della relativa infrastruttura burocratica di supporto, offre da tempo, e senza mediazioni, il volto rigoroso e affatto incline al compromesso d'una realtà statuale impegnata nel confronto incessante, e alle volte davvero aspro, con il fenomeno dell'evasione fiscale. Un fattore questo di perturbazione della quiete domestica che sembra proprio non riconoscere l'imposizione di confini, d'altra parte sempre d'imposizione si tratta anche se in tema di frontiere, non di tasse.

Il tariffario dell'evasione fiscale: 3 anni al riparo dal sole
E così non stupisce il fatto che Mr Smith - naturalmente si tratta d'un nome di convenienza - rivenditore di automobili a Detroit, città simbolo della quattro ruote a stelle e strisce, magari sicuro di averla fatta franca nascondendo al fisco una transazione di 200mila euro, o semplicemente mal consigliato chissà, a fine corsa ha trovato ad attenderlo proprio gli ispettori dell'unità speciale del fisco federale che, al termine d'un breve procedimento, gli hanno esibito un conto piuttosto salato, in pratica contabilizzabile in 18 mesi di pena detentiva e 60mila euro di sanzioni. In realtà, non c'è nulla di strano, anzi le cronache riportano che al Signor Smith è andata di lusso. Infatti, a un altro operatore del settore, questa volta impegnato a Indianapolis, altra grande meta del popolo delle quattro ruote, gli stessi ispettori del fisco hanno invece chiesto di restituire 6 milioni di euro e di ritirarsi a meditare sul tema delle tasse e delle imposte e della relazione del loro regolare versamento all'erario federale con il bene pubblico e l'interesse della collettività nella quale si vive. Meta del soggiorno? Il carcere. E per quanto tempo? Per 43 mesi, 3 anni e mezzo.

Dal 2004 a oggi: sono oltre 7mila gli evasori condannati a pene restrittive
Peraltro, come sottolineato dai Democratici oggi maggioranza al Congresso e ribadito da una quota significativa di candidati già in gara per la Casa Bianca, anche da quelli Repubblicani, i conti pubblici statunitensi non attraversano un momento segnato da copiosa abbondanza di risorse, proprio in coincidenza con la necessità di finanziare un welfare federale in condizioni pessime e una serie infinita di operazioni e di iniziative proiettate oltrefrontiera. Quindi, l'evasione fiscale ha finito per trovarsi al centro d'una serie quasi infinita di proposte e di soluzioni, non soltanto normative, il cui unico scopo è quello di ridurla a un livello che risulti tollerabile, non soltanto al bilancio federale degli Usa, ma anche ai cittadini dato che sono oltre 130 milioni i contribuenti statunitensi che le tasse le versano con regolarità a ogni volgere di calendario.

In viaggio o in vacanza con il fisco?
E così, nel corso dell'ultimo quadriennio, gli ispettori del fisco, in particolare l'unità speciale composta da oltre 3mila operatori dotati di poteri piuttosto estesi che vanno ben al di là dell'area meramente fiscale, hanno visto potenziato l'organico, aumentati i fondi disponibili e autorizzate le sinergie e il lavoro in comune con altri corpi dello Stato impegnati su terreni scomodi e scivolosi come la finanza, il riciclaggio e il narcotraffico. Il risultato è piuttosto visibile: oltre 7mila i contribuenti, 7.645 per l'esattezza, incriminati e condannati a pene detentive per reati fiscali che contemplano la semplice presentazione di dichiarazioni con l'indicazione di redditi eccessivamente modesti, ma anche l'omissione di transazioni finanziarie dalla taglia significativa o, in alcuni casi, ben 481 nel 2006, operazioni fiscal-finanziarie riconducibili al riciclaggio o al traffico di stupefacenti. Per tutti, nel quadriennio passato, si sono aperti gli ingressi delle carceri speciali, riservate a chi deve scontare pene connesse alla frode fiscale, e i cui termini temporali possono variare, anche se nel 2006 la media dei mesi trascorsi dietro le sbarre o reclusi a meditare con il fisco è stata di ben 39 mesi, oltre 3 anni di limitazione considerevole delle libertà personali, inclusi gli arresti domiciliari. E non si tratta d'un termine eccezionalmente lungo, anzi, in genere anche per gli anni i cui dati temporali delle pene detentive possono risultare divergenti si eccede con regolarità alla soglia dei 30 mesi da scontare.


La mela del peccato, così Apple non paga 10 miliardi di tasse
il manifesto
Matteo Bartocci
Mercato. L'azienda di Cupertino ha creato tra Usa e Irlanda un sistema di scatole cinesi che le consente di dichiararsi "stateless". Non più multinazionale ma compiutamente "sovranazionale"
22 maggio 2013

https://ilmanifesto.it/la-mela-del-pecc ... i-di-tasse

Non c’è nessun reato ma l’immagine di Apple non sarà più la stessa. Il brand più pregiato del mondo è anche il re dell’elusione fiscale legalizzata. La mela di Cupertino, infatti, è finita nel mirino del fisco americano per un’indescrivibile sistema di scatole cinesi tra Usa ed Europa che le consente, in alcuni casi, di non pagare tasse in nessun paese (leggi il documento ufficiale del Senato Usa). Per dirla con la stessa azienda di Cupertino, alcune sussidiarie della mela sono «stateless». Cioè «senza stato», più che multinazionali dunque enti sovranazionali, che non devono nulla a nessuno. Il sistema, utilizzato...
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Re: Solidarietà assoluta al buon repubblicano Trump

Messaggioda Berto » ven gen 13, 2023 11:13 pm

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Re: Solidarietà assoluta al buon repubblicano Trump

Messaggioda Berto » ven gen 13, 2023 11:14 pm

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