Non vi è nulla di razzista nelle razze animali

Non vi è nulla di razzista nelle razze animali

Messaggioda Berto » mar ago 31, 2021 7:48 am

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Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Berto
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Re: Non vi è nulla di razzista nelle razze animali

Messaggioda Berto » mer nov 03, 2021 7:37 am

6)
Discussione indicativa ed esplicativa sul termine "razza" e sul suo uso



Qualcuno in Alto Adige non ha ancora capito che gli umani appartengono tutti alla stessa razza. Ma forse su per quei monti qualcuno, razzista (sì, ce ne sono in Alto Adige) non ha ancora ben compreso questo concetto…
Emanuel Segre Amar
30 ottobre 2021

https://www.facebook.com/photo.php?fbid ... &ref=notif


Alberto Pento
Il concetto di razza di per sé non ha nulla di male, come quello di etnia e di tipo, serve a indicare delle specificità, delle diversità e delle omogeneità di vario genere.
Quello che è male caso mai è l'inserimento in questi concetti da parte di taluni del parametro arbitrario di superiore e inferiore e/o l'attribuzione a taluni di questi gruppi di giudizi negativi inesistenti e falsi che li demonizzano e che incitano al disprezzo e all'odio verso di loro, generando così il razzismo.
Come nel caso degli ebrei che i cristiani non ebrei hanno demonizzato falsamente come deicidi e assassini di Gesù Cristo. O come i maomettani che demonizzano i cristiani e gli ebrei definendoli infedeli, miscredenti, corrotti, maiali, scimmie. O come taluni di pelle gialla, nera, bianca hanno fatto e fanno tutt'ora con i diversamente colorati per esempio i neri americani nei confronti dei bianchi con la Teoria critica della razza.
Un'altra forma di discriminazione "simil razzista" è quella propria del "razzismo sociale" che demonizza i ricchi e gli imprenditori datori di lavoro come persone malvage, ladre, sfruttatrici e disumane, tipica del social comunismo.
È demenziale pensare che cancellando la parola razza si possa eliminare il razzismo, vi sarebbe di fatto soltanto una sostituzione di nome e nulla più.
La parola "razza" è voce neutra, come la parola "ebreo" che taluni usano malamente per insultare adoperandola nei suoi significati peggiori dovuti al pregiudizio razzista verso gli ebrei come perfidi assassini deicidi, usurai, sfruttatori, presuntuosi e arroganti razzisti, complottisti che vogliono dominare il mondo e ridurre il resto dell'umanità in schiavitù.
Un'altro esempio potrebbe essere la voce "virus" non è che eliminandola si eliminano i micro organismi mortali per l'uomo che la voce richiama e indica.


Emanuel Segre Amar
Alberto Pento in linea di massima condivido molti ragionamenti, ma si deve comprendere che apparteniamo tutti alla stessa razza; questo è fondamentale per iniziare a combattere il razzismo

Alberto Pento
Scusami ma dissento, perché è il genere umano che accomuna gli uomini non le razze, le razze esprimono la varietà, la diversità, le specificità etniche culturali geografiche.




Nicoletta Levis
Eh..... ma non si sentono italiani ......

Christine Malleier
Nicoletta Levis non è vero.io sono sudtirolese,di Merano.siamo un mix.ed è bello così.

Emanuel Segre Amar
Christine Malleier certamente, ma non credo che tutti la pensino così; come sempre non si deve generalizzare, se no ci si comporta da razzisti

Alberto Pento
Anch'io mi sento veneto e come tale sono anche italiano, ma senza la mia veneticità per me non ci sarebbe alcuna italianità, poi io personalmente amerei essere indipendente e federato, al minimo autonomo.




Deborah Fait
Ma è sempre stato così. Ho vissuto a Bolzano per 20 anni, volevo mettere mio figlio in un asilo di lingua tedesca perchp, abitando là, volevo imparasse anche quella lingua. La direttrice dell'asilo mi ha risposto "Impossibile perchè è di madrelingua it… Altro...

Daniela Rella
Deborah Fait io ho una coppia di conoscenti italiani, di Rovereto, che vivono a Bolzano, che hanno iscritto entrambe le figlie in scuole di di lingua tedesca. Forse, negli anni, qualcosa è cambiato. Di certo, per accordi bilaterali tra le due comunità, le scuole italiane danno la precedenza agli italiani e altrettanto fanno le scuole tedesche.

Deborah Fait
Daniela Rella nk è diverso. A scuola si poteva iscriverli perchè statali e non possono rifiutare ma le scuole materne dipendevano dalla provincia e là entravi solo se di ...madrelingua

Verena Rossi
Deborah Fait se hai vissuto a Bolzano 20 anni, dovresti sapere che i gruppi definiti etnici, sono tre. Dovresti sapere che viene applicata la “proporzionale”, che regolamenta accesso a abitazioni e posti di lavoro pubblici. Non vediamo il razzismo dove non c’è! Se ti rende più serena, sappi che attualmente gli asili e le scuole tedesche sono pieni di bambini islamici, i cui genitori li iscrivono in quelle scuole, per lo stesso motivo tuo.

Emanuel Segre Amar
Verena Rossi beh, chi osa rifiutare gli islamici? Questo potrebbe essere un altro aspetto

Alberto Pento
Questa è una conseguenza delle amministrazioni di sinistra che dominano da sempre in AltoAdige-Sudtyrol.


Daniela Rella
Unica precisazione: nel comprensorio di Bolzano la popolazione italiana è nettamente prevalente: quindi forse forse la responsabilità non è del gruppo di lingua tedesca, o almeno non solo loro. La data riportata sul modello è 2001. Sono passati vent’anni…





Deborah Politi-Kornfeld
Emanuel Segre Amar, io che vivo in Israele, invece mi ha fatto male che dalla carta d'identita' abbiano tolto la nazionalita'. nel senso che qui la nazionalita' e' Ebraica, e ce l'hanno tolto dai documenti, perche' i musulmani e i cristiani Israeliani si sentivano discriminati !!!! Hanno sempre detto che era una forma di razzismo! Ma Israele e' lo Stato Ebraico, cosa ci dobbiamo fare? Quindi la nazionalita' (etnia) c'e' ma e' nascosta, non si deve scrivere!!! Io non ho problemi con chi voglia scrivere l' etnia nei documenti, al mondaccio di oggi con il terrorismo islamico e' forse utile avere una informazione importante come questa, perche' si cambiano il nome con un nome occidentale per non farsi riconmoscere (ricordo i terroristi dell Sep 11th con passaporto e nazionalita' inglese) ! Pero' l' etnia sui documenti non deve servire a scopo di sterminio come e' stato per i nazisti!

Alberto Pento
Deborah Politi-Kornfeld In questo caso per nazionalità si intende l'etnia o il popolo ebraico. Anche il termine Israele rimanda alla nazionalità e alla cultura ebraica.
Infatti i cristiani e i mussulmani vorrebbero cambiargli il nome e specialmente i maomettani vorrebbero anche cacciare o sterminare tutti gli ebrei e anche i cristiani o ridurli a minoranze disprezzate di dhimmi senza voce, senza diritti e senza alcuna sovranità politica.

Simona Piazza O Sed
Deborah Politi-Kornfeld la nazionalità non è una discriminante, scrivere razza si… roba del 38

Alberto Pento
Anche la nazionalità per certe ideologie sinistre è una discriminante negativa (le discriminanti neutre sono cosa buona e giusta, discriminare in senso positivo significa riconoscere la specificità e la diversità).
Razza è un termine che ha migliaia di anni e io non trovo personalmente alcun motivo per eliminare e cancellare questa parola.
A me il politicamente corretto e il cancell culture con le sue demenzialità e assurdità non piace minimamente.


Emanuel Segre Amar
Deborah Politi-Kornfeld condivido il pensiero, ma io mi riferivo al termine razza perché la razza è la stessa per tutti quanti


Emanuel Segre Amar
Alberto Pento ma la razza è la stessa per tutti

Alberto Pento
No è il genere umano che è uguale non la razza. Razza non è sinonimo di genere umano.




Corsi Sharon Carla Rebecca
Sarebbe il caso di copiare Einstein: umano

Alberto Pento
Corsi Sharon Carla Rebecca Anche l'umano come gli uomini si diversifica in individui, personalità, comunità, culture, tradizioni, etnie, specificità antropologiche, geofisiche, somatiche, sociali, lingue, costumi, usi, ... La diversità come la libertà non debbono spaventare, esse costituiscono il senso e il sale della vita.

Simona Piazza O Sed
Alberto Pento ad un bambino chiedi la razza? Neanche i cani l’ hanno

Alberto Pento
Il questionario è rivolto alle famiglie e non ai bambini.







Simona Piazza O Sed
Sono tedeschi

Alberto Pento
Simona Piazza O Sed
Più che tedeschi sono germani e allora vuoi demonizzarli?
Io sono veneto e ho anche radici germaniche vuoi demonizzarmi?
Anche i franchi e i normanni, gli inglesi, i danesi e gli olandesi e i norvegesi e gli svedesi hanno radici germaniche vuoi demonizzarli?
Anche tanti ebrei hanno radici germaniche vuoi demonizzarli?


Simona Piazza O Sed
Alberto Pento veramente la difesa della razza parte da loro e sono anche ignoranti. Gli ari , erano un popolo indoeuropeo non celtico

Alberto Pento
No, la difesa della razza in senso razzista ha molte radici ideologiche ed etniche.
Poi il popolo indoeuropeo non esiste è solo una invenzione convenzionale dei linguisti, degli storici della lingua umana.
Si pensi ad esempio, a quanta influenza hanno avuto l'ideologia religiosa cristiana (eresia dell'ebraismo) e l'antigiudaismo cristiano, nella complessità teorico ideologica della difesa della razza ariana dei nazi hitleriani e dei fascisti.


Mattia Corvin
Simona Piazza O Sed i celti erano indoeuropei, come i germani, i latini etc.

Mattia Corvin
Simona Piazza O Sed indoeuropeo e ariano sono sinonimi.


Mattia Corvin
Alberto Pento per popolo indoeuropeo si intende un popolo che appunto si dirama dall'india all'europa


Alberto Pento
Mattia Corvin Popolo che non esiste, ciò che esiste sono soltanto dei popoli con delle lingue che hanno tra loro alcune affinità.

Mattia Corvin
Alberto Pento le lingue europee sono tutte affini e hanno un'unica matrice


Mattia Corvin
Alberto Pento
La madre delle lingue indoeuropee | Zanichelli Aula di scienze
https://aulascienze.scuola.zanichelli.i ... doeuropee/



Alberto Pento
Certo ma questa teoria io non la condivido; trovo più sensata e convincente la Teoria della Continuità geo etno linguistica dal Paleolitico del glottologo Mario Alinei:
Indoeuropei ?
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 113&t=1399


Simona Piazza O Sed
Mattia Corvin i dati somatici, no



Mattia Corvin
Simona Piazza O Sed a seconda delle migrazioni, il popolo indoeuropeo si è mescolato con autoctoni, assumendo caratteristiche somatiche differenziate


Mattia Corvin
Simona Piazza O Sed le migrazioni sono avvenute nel corso di millenni A.C.


Alberto Pento
Anche in area mesopotamica e mediorientale i popoli si sono variamente mescolati tra loro con innesti dall'Europa e dall'Asia continentale oltre che dall'Africa.
In Europa nella preistoria vi sono state varie migrazioni dall'Asia continentale e mediorientale sia nel paleolitico che nel mesolitico, nell'eneolitico e nel neolitico come nell'età dei metalli e protostorica e come in epoca storica.

Mattia Corvin
Alberto Pento in merito prediligo l'enciclopedia TRECCANI, formato cartaceo


Mattia Corvin
Alberto Pento Le ho inviato quel link, solo per velocizzare la risposta


Mattia Corvin
Alberto Pento
https://www.scambieuropei.info/lingue-i ... curiosita/

Alberto Pento
Certo la Treccani espone ciò che deve esporre ogni enciclopedia, ossia quello di sviluppare il senso e il significato della voce.
Come anche Wikipedia che per certe cose è assai più articolata della Treccani.

Christine Malleier
Simona Piazza O Sed ma cosa state dicendo?!!!non siamo tedeschi!!semmai eravamo austriaci,fino alla prima guerra mondiale.non diciamo fesserie,per favore.


Alberto Pento
Christine Malleier
io non sono antitedesco e antigermanico, come veneto ho anche radici germaniche, però non possiamo negare il male fatto dai nazifascisti tedeschi germanici e dagli italiani nazifascisti e non possiamo non ricordare che Hitler era austriaco ed è divenuto Cancelliere della Grande Germania. Come non possiamo negare il male fatto dai comunisti.
Sulla questione dei tirolesi dell'Alto Adige, ritengo che quella sia la loro terra il Sudtyrol come il Veneto è la terra dei veneti e Israele è la terra degli ebrei.



Alberto Pento

Sul fantomatico Popolo indoeuropeo

...


Alberto Pento
Mattia Corvin
Le enciclopedie riportano soltanto dati elaborati da altri e lo specialista delle enciclopedie è uno specialista nel riportare il più esattamente possibile i dati di altri di tutti gli altri, di tutti gli studiosi e ricercatori.
L'enciclopedia non è un laboratorio di ricerca e una esposizione di verità ma è solo un'archivio di dati esposti in maniera corretta.

Mattia Corvin
Alberto Pento e quindi?
Con ciò pertanto confermi che riportano dati specifici, frutto di studi di settore, condotti da specialisti dei quali tuttavia non fai parte anche se ti ostini a pontificare

Alberto Pento
Mattia Corvin tu sei un ignorante arrogante e qui chiudo con te. Qui non siamo in un consesso di accademici ma nei luoghi amicali di internet dove ognuno può dire liberamente la sua, possibilmente con gentilezza e rispetto, argomentando ragionevolmente.

Emanuel Segre Amar
Alberto Pento per favore non accetto questa parole sul mio profilo. La discussione e il confronto devono restare nei limiti del rispetto reciproco. Questo vale ovviamente per tutti. Grazie

Mattia Corvin
Alberto Pento è quanto penso di te e cioè che sei semplicemente un saccente e supponente. Mi sono soltanto ricondotto ad argomenti scientificamente provati e non su supposizioni senza fondamento. Si tratta di Argomenti di facile riscontro anche nello stesso web

Mattia Corvin
Alberto Pento che i veneti abbiano radici germaniche, è una novità assoluta, da premio Nobel


Alberto Pento

I veneti di oggi sono un mix con molte radici e innesti che risalgono a stanziamenti e migrazioni che si sono avute e aggiunte a partire dal paleolitico nomadico.
Tra questi innesti ve ne sono alcuni che hanno marcato significativamente i veneti odierni: gli euganei, i celti, i reti, i venetici, i germani preistorici, gli etruschi, i latini, i germani storici (goti, longobardi, sassoni, normanni, franchi, cimbri bavaresi alemanni svizzeri e tirolesi, ...), greci, slavi, ebrei, armeni, ....
Tralascio la preistoria euganea e quella dei castellieri e dei villaggi arginati. L'influenza celtica (cultura di La Tene, Halstatt e di Este) è durata vari secoli, quella latino romana è durata 650 anni, quella germanica 930 anni (più il periodo austriaco), quella greco-armeno-bizantina nell'area lagunare veneziana è durata 850 anni circa (fino alla caduta di Bisanzio).
L'Università di Padova ha radici germaniche (nei migranti germanici) e si è sviluppata grazie ai Carraresi (nobili longobardi) come anche quella di Bologna (https://it.wikipedia.org/wiki/Irnerio).
L'onomastica e la toponomastica veneta è strapiena di nomi germanici (toponimi e cognomi).
Asiago, Thiene, Schio, Marostica, Rovigo, Dueville, Malo, Caldogno, Sovizzo, Sandrigo, Lusia, Lendinara, Soave e mille altri toponimi in ogni provincia veneta e friulana sono di origine germanica.
Io stesso ho un cognome sassone.


Silvia Morelli
Siamo al 1938?

Patrizia Wadi Ram
Il lupo perde il pelo ma non il vizio

Patrizia Wadi Ram
Ricordo che le razze non esistono il progetto human genome lo ha Ben mostrato

Alberto Pento
Patrizia Wadi Ram Questo progetto non ha dimostrato alcunché, poiché i presupposti del progetto erano sbagliati. Il concetto storico di razza non è un concetto genetico allo stesso modo del concetto di etnia e di nazionalità. Poi questo progetto era viziato dal pregiudizio ideologico concettuale.
Infatti nessuno ha nulla da ridire sull'uso della voce "razza" applicata ai cani o ai cavalli e questo la dice tutta.
"Razza" è voce antica e neutra che indica solo delle diversità e delle specificità comuni, naturali ed evidenti senza bisogno di alcuna analisi bio-genetica e che non implicano alcun giudizio di valore etico o morale, religioso e politico. Solo di recente a questo iniziale concetto di razza si sono aggiunti giudizi/pregiudizi di altro valore: etico, religioso e politico che hanno dato origine al razzismo.

Daniela Rella
Alberto Pento se si elimina la parola razza, allora si deve eliminare anche razzismo, che da essa deriva. E antirazzismo. Parole tranquillamente usate senza reticenza alcuna.

Verena Rossi
Emanuel Segre Amar, mi piacerebbe capire, quali prove tu possa portare a fondamento della gravità della tua affermazione. Il modulo dell’Asl sarebbe una prova che, quassù, tra i monti (Bolzano tra l’altro è a 262 m s.l.m.), ci siano i razzisti?

Emanuel Segre Amar
Verena Rossi non amo mai generalizzare altrimenti sarei il primo ad essere razzista; il mio post voleva censurare le persone che hanno pubblicato quel documento, di qualunque data sia



Sandra Perugia
Si sentono tedeschi,non hanno alcuna simpatia per gli italiani e non fanno nulla per nasconderlo!

Lilù Lucerin
Comunque lo fanno anche in Inghilterra al momento di firmare un contratto o se ci si iscrive con un’agenzia....



Ari Ariel
Emanuel Segre Amar Apparteniamo tutti alla stessa specie, più che razza!.


Alberto Pento

Ari Ariel vero, specie è più specifica e genere è più generica, razza è una specifica ulteriore e generica della specie.
"Razza" è voce antica come lo sono termini quali "specie e genere", tutte parole assunte convenzionalmente dagli uomini per indicare categorie variegate di esseri viventi vegetali e animali.
Razza è voce comune e popolare usata anche dal linguaggio scientifico del passato, oggi la tassonomia scientifica per gli esseri umani preferisce termini come "specie e genere", razza rimane come voce scientifica per gli animali non umani.
Ma si tratta solo di convenzioni.

specie
/spè·cie/
sostantivo femminile

1.
Categoria di classificazione degli organismi che comprende individui in grado di accoppiarsi tra loro e di generare prole feconda; nel caso di organismi a riproduzione asessuata è definita da criteri morfologici o fisiologici; più specie affini tra loro costituiscono un genere : le s. animali, vegetali; conservazione delle s.; la s. umana, gli uomini in quanto distinti dagli altri animali.


genere
/gè·ne·re/
sostantivo maschile

1.
Nozione comprensiva di più specie; com., il complesso dei caratteri essenziali e distintivi di una categoria; tipo: è un g. di vita che non apprezzo; frequenta persone di ogni g.; con sign. più generico.
"è un g. di musica che mi piace"


Alessandro Drudi
Ricordiamoci che negli u.s.a. nella scheda sanitaria ospedaliera è riportata la razza.
Non perché i medici appartengano al KKK, bensì perché per molte patologie se non lo si facesse si sbaglierebbero le terapie.
Non bisogna rinnegare la scienza per paura delle ideologie.





È giusto continuare a parlare di razze umane in medicina?

https://www.iltascabile.com/scienze/razze-medicina/


Io un farmaco razzista non lo prendo, chiaro?” protesta un paziente afro-americano con il Dr.House, nel terzo episodio della seconda stagione della serie. “E sarebbe razzista perché aiuta più i neri che i bianchi?” ribatte il medico. “Stia a sentire”, obietta il paziente, “il mio cuore è rosso come il suo, e non ha alcun senso darmi una medicina differente”.

Si può essere “razzisti” a fin di bene? Gli sceneggiatori di Dr.House hanno riassunto così le polemiche che si scatenarono contro la Food and Drug Administration, l’agenzia regolatoria statunitense, quando nel 2005 approvò per la prima volta un medicinale in base a un criterio di “razza”. Il BiDil era costituito dall’associazione in dose fissa di due farmaci generici – per i quali cioè era già singolarmente scaduto il brevetto- e registrato solo per pazienti con scompenso cardiaco che si autoidentificassero come “neri”.

Dopo il rifiuto della stessa agenzia di approvare il prodotto per la popolazione generale, la decisione di accettarlo solo per le persone di colore era stata presa sulla base di un controverso studio clinico condotto soltanto su afro-americani e senza nessun riferimento a caratteristiche genetiche specifiche, ma solamente in base all’aspetto esteriore e al senso di appartenenza etnica. Naturale quindi lo scetticismo dei pazienti a cui veniva consigliato, e ovvio che scatenasse una disputa nel mondo scientifico: al di là del caso specifico, un’indicazione basata sulla “razza”, all’interno della specie umana, può avere fondamento scientifico?

Semplicemente, le razze umane non esistono
Per i biologi, gli antropologi, i genetisti e gli evoluzionisti, la questione è risolta da decenni, come hanno dimostrato a più riprese, tra gli altri, Richard Lewontin e Luca Cavalli-Sforza. Sulla base degli studi antropometrici, ma soprattutto quelli di genetica e di popolazione, semplicemente non si riescono a definire razze precise all’interno della specie umana, specie che mostra invece un gradiente continuo di diversità, proporzionale alla distanza geografica, ma senza limiti netti (il fatto poi che nessun “teorico delle razze” riesca a stabilire un numero preciso di razze umane – che vanno da 3 a oltre 100 a seconda di chi si ascolta – può essere presa come valida controprova).

Homo sapiens si è selezionato troppo recentemente e, a parte forse qualche eccezione in condizioni estreme, estinta o quasi, non ci sono sottogruppi umani rimasti isolati geograficamente dagli altri per un tempo sufficiente a consolidare una diversità abbastanza netta da poter essere definita come una “razza” a sé. Di fatto siamo tutti africani.

L’esperienza quotidiana, però, ci porta istintivamente a contraddire questa affermazione. Siamo convinti che le differenze nell’aspetto esteriore siano così evidenti da poter essere utili, per esempio, nell’identificazione di un individuo nel corso di un’indagine di polizia o nella medicina forense. È stato dimostrato da più di un secolo che siamo tutti vittime di un “effetto razza” per cui riconosciamo le differenze tra le persone più simili a noi e fatichiamo a distinguere tra loro le persone che ci somigliano di meno. Se siamo europei, asiatici o africani ci sembreranno tutti simili, rischiamo di pensare che un cinese sia vietnamita, o di scambiare un sudamericano per un filippino. E gli stereotipi socioeconomici e culturali fanno la parte del leone nel portarci fuori strada.

Il punto fondamentale è che le differenze fisiche all’interno di quelle che noi siamo portati a considerare “razze” più o meno omogenee, o addirittura tra due connazionali, possono essere maggiori di quelle che possiamo ritrovare tra due individui di “razze” diverse, nel senso che la variabilità genetica entro una popolazione è molto superiore a quella esistente se si considerassero le popolazioni come distinte in entità biologiche. Anche dal punto di vista antropometrico, ci potrebbero essere molte più differenze tra un somalo e un senegalese, uno scandinavo e un sardo che tra un masai e un norvegese. Se poi scendiamo a livello genetico, la conferma di questo dato di fatto diventa incontrovertibile: nella grande variabilità che rappresenta la ricchezza della specie umana, ci possono essere più differenze tra individui che empiricamente raggruppiamo all’interno della stessa razza, che tra individui di origine diversa.

Per i biologi, gli antropologi, i genetisti, gli evoluzionisti, la questione è risolta da decenni: semplicemente, non si riescono a definire razze precise all’interno della specie umana.

Alla base dell’equivoco sulle razze ci sono sicuramente ragioni culturali, storiche e politiche, ma anche il peso che diamo a caratteristiche immediatamente visibili, come il colore della pelle e dei capelli, rispetto ad altre meno evidenti, ma che possono essere più rilevanti in medicina e che non necessariamente vanno di pari passo.

Il colore scuro della pelle, per esempio, si è selezionato in tutte le zone tropicali ed equatoriali del globo come difesa dai raggi ultravioletti, a partire da mutazioni genetiche differenti, e non è in alcun modo legato all’essere proveniente dall’Africa. Può essere in parte protettivo dai tumori della pelle, ma rischia di far dimenticare che anche gli individui più scuri possono sviluppare un melanoma, che diventa anzi nel loro caso più difficile da individuare precocemente. In questo, come in molti altri casi, attribuire a un fattore razziale un minor rischio si può tramutare in uno svantaggio nell’attenzione che il medico, in tutta buona fede, presta a determinati gruppi di pazienti.

Medicina di razza
Eppure i medici, per quelle che credono essere ragioni pratiche, anche quando sono consapevoli di queste possibili trappole, tendono a essere meno categorici degli scienziati: molti pensano che, in maniera magari approssimativa, nella pratica clinica, riconoscere l’appartenenza a una popolazione con caratteristiche diverse da un’altra consenta di adattare i criteri diagnostici e gli approcci terapeutici. In molti si convicono che si possa parlare di “razza” senza essere razzisti, cioè riconoscendo una differenza che non implica alcun giudizio di valore, ma che è finalizzata a offrire a tutti le cure migliori in relazione alle proprie caratteristiche individuali.

Un primo passo verso la medicina personalizzata di cui oggi si parla tanto, insomma.

Nella letteratura scientifica biomedica è comune usare il criterio della razza definito come tale, o come etnia, accanto all’età e al sesso, nella descrizione demografica e nella stratificazione dei pazienti sottoposti agli studi clinici. Anzi, come già accaduto con la medicina di genere, che ha preteso l’inserimento delle donne nei trial clinici, e l’analisi separata dei dati a loro riferiti, si richiede che siano sempre più coinvolti nelle ricerche individui di tutte le origini geografiche, per garantire che non si generalizzino i risultati ottenuti solo su uomini bianchi adulti.

Spesso in medicina si usa l’espressione “caucasico”, rifacendosi ancora alla classificazione di Homo sapiens in 5 razze compilata da Johann Friederich Blumenbach nel 1865 o “di origine europea”, contrapponendola a quella africana. Ma tutti gli altri? In molti lavori scientifici si distinguono addirittura pazienti “bianchi” e “non-bianchi”, mettendo in un’unica categoria giapponesi, africani, popolazioni indigene delle isole del Pacifico o del continente americano. Una classificazione chiaramente priva di qualunque significato scientifico, frutto di una visione eurocentrica del mondo, e di una ricerca biomedica ancora dominata dai centri europei e statunitensi. D’altra parte gli stessi afro-americani rappresentano una popolazione frutto di moltissimi incroci con persone di origine europea: se solo il carattere scuro della pelle e dei capelli non fosse dominante rispetto al chiaro, il numero di individui che oggi possono autoidentificarsi come “neri” sarebbe molto inferiore. La madre di Barack Obama, bianca, ha contribuito quanto il padre di origine africana al patrimonio genetico del figlio, ma nessuno ha mai messo in dubbio che il 44° presidente degli Stati Uniti sia stato il primo presidente “nero”.

Nella letteratura scientifica biomedica è comune usare il criterio della razza definito come tale, o come etnia, accanto all’età e al sesso, nella descrizione demografica dei pazienti sottoposti agli studi clinici.

La popolazione afro-americana su cui sono stati condotti la maggior parte degli studi clinici che comprendono persone “non bianche” è poi a sua volta un sottogruppo molto selezionato rispetto agli abitanti dell’intero continente africano: si tratta per lo più dei discendenti di persone provenienti da aree specifiche adiacenti alla costa occidentale del continente. Questi antenati sono inoltre stati sottoposti a un durissimo fattore di selezione durante la deportazione nelle navi negriere, in cui, per mancanza di acqua, mal di mare e infezioni gastrointestinali dovute all’affollamento, sarebbero sopravvissuti con maggiore facilità i soggetti geneticamente predisposti a trattenere liquidi e sali minerali. Da qui deriverebbe, secondo alcune teorie, la maggior predisposizione degli afroamericani a sviluppare ipertensione arteriosa. Niente a che vedere con geni comuni ad altre popolazioni di pelle scura, a cui quindi non si adatterebbe lo stesso trattamento.

Sulla base degli studi condotti negli Stati Uniti sulla popolazione afro-americana, per esempio, è consolidata in medicina l’idea che una classe di farmaci contro l’ipertensione, gli ACE-inibitori, siano meno efficaci nei “neri”, per cui ancora nel 2013 le linee guida per il trattamento dell’ipertensione dell’ottavo Joint National Committee statunitense (JNC 8) riportava una, per quanto moderata, raccomandazione, a tenere conto della “razza” nella scelta del trattamento. Se questa indicazione fosse però applicata a un paziente proveniente dal Corno d’Africa, lontanissimo da quelli su cui è stato studiato, solo perché ha la pelle nera, lo si priverebbe, per quanto involontariamente, di un farmaco che invece potrebbe fargli bene.

Differenze
Restano poi pregiudizi duri a morire. Uno studio pubblicato solo pochi anni fa dimostrava che tra studenti in medicina e specializzandi bianchi statunitensi persistono false credenze, come quella che gli afroamericani abbiano la pelle più spessa e una maggiore resistenza al dolore, il che li portava a prescrivere cure meno appropriate di coloro che invece erano in grado di riconoscere queste idee come miti inconsistenti.

Non c’è dubbio che alcune differenze esistano: gli studi epidemiologici ci mostrano per esempio una diversa frequenza di malattie nelle diverse parti del mondo o tra le diverse etnie di uno stesso Paese. A volte ci può essere una maggiore frequenza di portatori di alcune malattie genetiche all’interno di gruppi ristretti che tendono a sposarsi tra loro, come potevano essere certe comunità ebraiche. Ma è sempre più evidente che queste difformità dipendono molto più spesso da fattori socioeconomici e culturali che non genetici.

Lo dimostrano casi storici come lo studio del rischio cardiovascolare, basso in Giappone, ma elevato come per gli occidentali nelle stesse popolazioni di origine asiatica che vivono alle Hawaii o nei figli di coloro che si sono trasferiti negli Stati Uniti, adottandone i costumi e gli stili di vita. Più recentemente, uno studio pubblicato sul Journal of the American Medical Association ha dimostrato che il maggior rischio di ipertensione arteriosa negli afroamericani rispetto ai bianchi è da attribuire agli stili di vita, e in particolare all’alimentazione tipica degli Stati del Sud, ricca di fritti e di sale. Cresce inoltre in tutta la letteratura scientifica la consapevolezza del peso delle disuguaglianze socioeconomiche e culturali sull’incidenza delle malattie e sull’aspettativa di vita: in altre parole, tornando all’esempio precedente, il colore della pelle di Malia e Sasha Obama, con ogni probabilità, non influirà sul loro rischio di malattia rispetto a quello di tutte le loro coetanee di origine europea. Ignorare le differenze, per quanto mediate da fattori socioculturali ed economici, non aiuterebbe a superare il gap che, per chi non è cresciuto alla Casa Bianca, ancora indubbiamente esiste.

Non c’è dubbio che alcune differenze esistano: ma è sempre più evidente che queste difformità dipendono molto più spesso da fattori socioeconomici e culturali, che non genetici.

Non bisogna avere tabù, o temere di usare una parola perché in passato ha avuto un uso discriminatorio. Il termine “razza” è richiamato dalla Costituzione e nel Codice deontologico dei medici, per mettere in guardia proprio da queste possibili implicazioni. La questione è un’altra: la ricerca condotta in questi decenni ci ha semplicemente dimostrato che il concetto di razza è scientificamente superato, scientificamente non sostenibile. Può essere sostituito, quando occorre, con il termine “etnia”, che comprende gli aspetti socio-culturali da cui dipendono innegabili differenze. E che va mantenuto, per valorizzare la diversità e mettere in guardia dal rischio sempre esistente di discriminazione. Occorre poi poter studiare le cause delle disuguaglianze che hanno un impatto sulle opportunità, la qualità di vita e la salute dei diversi gruppi di individui. Potremmo farlo senza una parola per definirli?

Per questo qualcuno ha recentemente proposto che il criterio dell’etnia rimanga negli studi scientifici, quando occorre, ma che in questi casi si spieghino sempre le ragioni per cui se ne tiene conto. In attesa di una medicina davvero personalizzata che davanti ai medici ci raggruppi sulla base dei geni che predispongono o proteggono dalle diverse malattie, che favoriscono o ostacolano la risposta a una cura. Indipendentemente dalle infinite sfumature nel colore della pelle o nell’aspetto dei capelli.



Un articolo politicamente corretto

E Covid-19 riapre questioni razziali (quasi) dimenticate
di Cristina Tognaccini
La differente mortalità da coronavirus riscontrata tra diversi gruppi etnici, porta tradizionalmente alcuni ricercatori a ipotizzare, tra le cause, anche differenze genetiche. E sebbene una predisposizione biologica sia possibile, niente ha a che vedere con le classificazioni da noi inventate nell’Ottocento. La “scienza della razza” potrebbe non essere mai sparita, come denuncia la giornalista britannica Angela Saini.
DAL NUMERO 180 DEL MAGAZINE
27 Luglio 2020

https://www.aboutpharma.com/blog/2020/0 ... menticate/

Il 56% delle donne in gravidanza ricoverate negli ospedali del Regno Unito per aver contratto Covid-19 proveniva da gruppi etnici neri, asiatici o minori (black, asian or minority ethnic, “Bame”). Lo ha dimostrato uno studio condotto tra il primo marzo e il 14 aprile e pubblicato sul Bmj (Characteristics and outcomes of pregnant women admitted to hospital with confirmed Sars-CoV-2 infection in UK: national population based cohort study). Secondo tale studio tra le 427 donne in gravidanza 233 provenivano da ambienti Bame e in particolare 103 erano di provenienza asiatica e 90 erano nere.

Un rapporto del Public Health England, pubblicato lo scorso giugno, ha rivelato che i neri hanno una probabilità di ricevere una diagnosi di Covid-19, due-tre volte maggiore rispetto ai bianchi e che i tassi di mortalità per Covid-19 sono più alti tra le persone appartenenti a gruppi etnici neri e asiatici.

Spostandosi negli Stati Uniti, il 7 aprile nella città di Chicago, era stato registrato quasi il 70% delle morti per Covid-19 tra la popo­azione nera, che nella città si attesta intorno al 30% del totale. Mentre sempre negli Stati Uniti, a partire dal 27 maggio, il tasso di mortalità complessivo registrato, da Covid-19 è 2,4 volte maggiore per gli afroamericani rispetto ai bianchi, come ha rivelato un’indagine dell’Apm research lab, un ente no profit statunitense. I dati a riprova di una maggiore suscettibilità di alcuni gruppi etnici a Sars-Cov2 non sono mancati in questi mesi, ma qual è la spiegazione?


Le speculazioni sui geni

I motivi potrebbero essere in larga parte spiegati con le disuguaglianze socioeconomiche e ambientali tra i diversi gruppi demografici. Eppure, come ha denunciato sulle pagine di The Lancet, la giornalista scientifica britannica Angela Saini, autrice del libro “Superior: The Return of Race Science” (HarperCollins Publishers, 2019), “sono state offerte anche altre spiegazioni molto più speculative: alcuni ricercatori hanno sollevato la possibilità che innate differenze genetiche tra i gruppi razziali, siano la causa del fatto che Sars-Cov2 colpisca qualcuno in maggior misura rispetto ad altri”.

In effetti, come conferma anche Clarence Gravlee, antropologo dell’Università della Florida esperto in disuguaglianze sociali, con un articolo pubblicato su Scientific American, sono state anche portate avanti teorie in base alle quali la diversa vulnerabilità dei neri americani al virus sarebbe dovuta a geni non ancora chiaramente identificati. Gravlee scrive che il senatore della Louisiana Bill Cassidy (ex medico) in un’intervista alla Npr, ha affermato che tra gli altri fattori, anche le “ragioni genetiche” alla base del maggior rischio di diabete per gli afroamericani, erano di conseguenza uno dei motivi per cui questo gruppo era più suscettibile a contrarre l’infezione. Il tutto senza fornire prove.

Allo stesso modo, sempre senza prove, un gruppo di scienziati ha scritto su The Lancet (Ethnicity and COVID-19: an urgent public health research priority), che le disparità etniche nella mortalità Covid-19 potrebbero essere in parte attribuibili alla “composizione genetica” delle etnie (nonostante forse, i buoni propositi del lavoro di voler indagare sulla differente mortalità da Covid-19) e speculato su una “risposta genomicamente determinata ai patogeni virali”. Infine come riporta ancora Gravlee, un gruppo di epidemiologi ha scritto su Health Affairs che “potrebbero esserci alcuni fattori genetici o biologici sconosciuti o non misurati che aumentano la gravità di questa malattia per gli afroamericani”.


Un quadro complesso

“Naturalmente è possibile che ci possa essere una predisposizione biologica al Covid-19, come succede per molte altre malattie – ha commentato a proposito Guido Barbujani, professore di Genetica all’Università di Ferrara e autore del saggio “L’invenzione delle razze” (Bompiani, 2018) –ma niente ha a che fare con le distinzioni razziali che ci immaginavamo nell’Ottocento e qualcuno continua ancora a immaginarsi”.

“Possono esserci popolazioni con una diversa sensibilità al virus o qualunque agente patogeno. I finlandesi per esempio – continua Barbujani – hanno il complesso delle malattie genetiche ‘finlandesi’ che sono diverse da quelle del resto degli europei. Ma ciò che trovo inaccettabile è che non si capisca, dopo oltre 50 anni che la scienza l’ha chiarito, che queste differenze esistono fra tutte le popolazioni e non hanno niente a che vedere con i cataloghi razziali dell’Ottocento. Questi sono stati fatti quando non si avevano conoscenze biologiche preci­se e ci si basava sul colore della pelle o le dimensioni del cranio; oggi che conosciamo i nostri genomi non ha senso utilizzarli, perché sappiamo che non è un modo ragionevole di classificare le persone”.

Barbujani ricorda poi come il caso di Covid-19 sia ancora più complesso, perché oltre a una predisposizio­ne genetica, sono tantissimi i fattori coinvolti che potrebbero avere un ruolo nell’insorgenza della patologia. Per esempio il ceppo virale: si sa praticamente per certo che esistono diversi ceppi di Sars-Cov2 in circolazione per il mondo (si veda articolo a pagina 74), anche se ancora non è noto che implicazioni questo possa avere clinicamente per gli esseri umani. Possono pesare anche le condizioni ambientali, come l’inquinamento e un altro fattore noto sono le condizioni sociali ed economiche: per esempio il luogo in cui si vive, il lavoro che si fa, o i mezzi che si usano per spostarsi. Saini per esempio ricorda su The Lancet, che il 44% degli operatori sanitari del National heath service, in prima linea alla lotta al Covid, non sono bianchi. Mentre a Londra, una delle zone del Regno Unito più colpite dalla pandemia, i britannici bianchi sono in minoranza secondo un censimento del 2011.

Il ritorno della “scienza della razza”

D’altra parte, come ha ricordato Barbujani, la scienza ha dimostrato da tempo, già alle soglie degli anni ’70, che le razze umane non esistono e che gli esseri umani mostrano variazioni genetiche notevolmente ridotte rispetto ad altri primati. Lo studio del 1972 di Richard Lewontin per primo (The Apportionment of Human Diversity), e a seguire quelli condotti negli anni ’80 dal genetista Luca Ca­valli Sforza, per citare i più importanti, hanno dimostrato che le maggiori variazioni genetiche umane non sono tanto quelle di gruppo, quanto quelle individuali: la diversità genetica cioè, è maggiore all’interno di una popolazione, che tra popolazioni differenti.

“Noi esseri umani abbiamo in comune il 99,9% del nostro Dna con ogni sconosciuto” precisa Barbujani. “Il restante uno per mille rappresenta le differenze che ci rendono tutti diversi, ma sono differenze tra individui. C’è una grande variabilità all’interno delle stesse popolazioni, che le rende biologicamente non omogenee”. A tal proposito Barbujani cita un famoso studio condotto su svedesi e giapponesi, per confrontarne il metabolismo dei farmaci a opera del citocromo P450 2D6 (CYP2D6). I ricercatori hanno scoperto una grande variabili­tà tra i partecipanti, con persone che metabolizzavano i farmaci lentamente e altri molto velocemente, ma in entrambe le popolazioni. “Le nostre differenze stanno all’interno di una popolazione non tra una popolazione e l’altra” aggiunge il genetista. “Quell’uno per mille di differenza fa sì che il nostro vicino di casa possa essere, certe volte, più diverso da noi di un coreano”.

Nonostante tutto e nonostante le prove fornite dalla scienza in questi decenni, secondo Saini la “scienza della razza” non è mai del tutto scomparsa. Anche dopo l’apice degli anni ’30 del Novecento – quando i ricercatori in accordo con i nazisti fecero del loro meglio per dimostrare la presunta superiorità della razza ariana – dopo il quale si pensava che teorie di questo tipo fossero state messe da parte una volta per tutte. Secondo la giornalista invece sarebbe ancora viva in alcuni circoli intellettuali l’idea della supremazia della razza bianca ed esisterebbe una rete ben coordinata di persone che cercano di riportare tali ideologie nell’accademia e nella politica tradizionali.

Il caso dell’ipertensione

Tornando alle differenze di mortalità ricontratte in corso di pandemia da Covid-19, una delle spiegazioni più spesso citate dai ricercatori per giustificare le differenze biologiche tra i diversi gruppi riguardava l’ipertensione, una malattia da tempo considerata “nera”. I neri di origine afro-caraibica nel Regno Unito e negli Stati Uniti hanno infatti notoriamente un maggior rischio di ipertensione rispetto ai bianchi. E negli anni sono state diverse le teorie a riguardo e gli studi condotti per cercare di individuare i geni responsabili della patologia.

Nel 1983 Clarence Grim introdusse la “slavery hypertension hypothesis”, secondo cui ci sarebbe stata una selezione naturale dei neri d’Africa, trasportati come schiavi negli Stati uniti, favorendo la sopravvivenza degli individui che sulle navi, riuscivano a conservare più sodio. Nonostante le numerose ricerche questa ipotesi non è stata mai dimostrata. L’ipertensione è un esempio di malattia “razzializzata” scrive Saini. “Per molto tempo i ricercatori hanno sostenuto la teoria che l’ipertensione avesse una base genetica, per spiegare per esempio perché fosse più frequente tra i neri”.

Ma la soluzione più semplice è probabilmente legata alla dieta – un fattore di rischio dominante e in particolare il consumo di sale – così come allo stile di vita e allo stress. La dieta negli Stati Uniti del sud, tradizionalmente associati a afro-americani è ricca di sale e grassi, proprio come in Finlandia, un altro paese dove molte persone soffrono di ipertensione. Mentre un altro studio ha rivelato un collegamento tra l’ipertensione e il basso tasso di scolarità. Un’ulteriore prova che i fattori coinvolti non siano tanto biologici, quanto ambientali e sociali.

L’idea che l’ipertensione sia una malattia “nera” è stata così ampiamente accettata, che le linee guida del National Institute for Health and Care Excellence del Regno Unito raccomandano che ai pazienti neri di età inferiore ai 55 anni con ipertensione vengano somministrati calcio-antagonisti anziché inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (Ace), invece indicati per i pazienti non neri di età inferiore a 55 anni. In realtà però nessuno studio dimostra che gli Ace-inibitori, funzionino più sui bianchi che sui neri. Jay Kaufman, epidemiologo della McGill University in Canada e Richard Cooper, cardiologo ed esperto globale di ipertensione presso la Loyola University di Chicago negli Stati Uniti, hanno provato ad analizzare tutta la letteratura disponibile, a conferma di una maggior efficacia di un farmaco a dispetto di un altro, a seconda del gruppo etnico di appartenenza, senza però trovare prove.

L’anemia falciforme

Un altro esempio di malattia considerata “nera” è l’anemia falciforme, perché particolarmente frequente tra le persone nere. Oggi è noto che questa malattia è tipica di alcune zone del mondo in cui vi sono stati e vi sono molti casi di malaria, perché l’anemia falciforme in realtà fornisce una resistenza ad essa. È un vantaggio selettivo rispetto alla malaria, perché un rischio supera l’altro. Il che significa che si tratta di una differenza dettata dalla geografia e dalle condizioni ambientali e non razziale. È prevalente in alcune parti dell’Africa, ma non in tutte, ed esiste in altre parti del mondo al di fuori dell’Africa, dove le persone non hanno la pelle nera.

Sono un esempio anche la Sardegna e la Sicilia, regioni dove la malaria fu molto diffusa. Il motivo per cui sembra una malattia legata alla “razza” è dovuta al fatto che negli Stati Uniti molti bianchi sono di origine europea e molti neri, a causa della storia della schiavitù, sono di origine africana occidentale. Ciò significa che negli Stati Uniti, nella popolazione nera si osservano tassi molto più alti di cellule falciformi rispetto alla popolazione bianca. Ma a livello globale questa associazione non si riscontra.

“Questo discorso vale per molte altre malattie che pensiamo siano razzializzate” sottolinea Saini. “I neri americani hanno più probabilità di morire per qualunque causa rispetto ai bianchi americani. L’aspettativa di vita di un americano nero è inferiore a quella di un americano bianco. È perverso supporre che esista una base genetica per spiegarlo. Gli americani neri sono così geneticamente svantaggiati che persino la mortalità infantile sarebbe più alta? Non ha alcun senso. Nel Regno Unito, dove vivo, vediamo questo divario nell’aspettativa di vita tra ricchi e poveri. È esattamente lo stesso in America, ma in America è trattato come razziale perché le circostanze socioeconomiche corrono lungo linee razziali”.

Colpa del razzismo non della razza

Secondo Camara Phyllis Jones epidemiologa e medico di famiglia negli Usa, che per 14 anni ha lavorato presso i Centers for Disease Control and Prevention, è stato il razzismo a portare le persone di colore a essere più esposte e meno protette dal Covid-19, gravandole di malattie croniche. Jones – che come presidente dell’American Public Health Association nel 2016, ha condotto una campagna per nominare esplicitamente il razzismo come una minaccia diretta alla salute pubblica – ha riferito a Scientific American, che il Sars-Cov2 ha infettato in prevalenza le persone di colore perché sono più esposte per via dei lavori che fanno (spesso in prima linea, come aiuti sanitari a domicilio, impiegati delle poste, magazzinieri ecc.) o per via dei quartieri in cui vivono, in genere più piccoli e angusti e più densamente popolati.

Una volta infettati hanno inoltre più alte probabilità di morire, perché portano un carico maggiore di malattie croniche: i neri hanno infatti il 60% in più di diabete e il 40% in più di ipertensione come già ricordato. Onere dovuto a diversi motivi, tra cui il minor accesso alle cure sanitarie e il contesto in cui vivono per esempio. Nonostante tutto però, spesso si preferisce cercare una spiegazione biologica in risposta ai divari riscontrati in medicina. Come scrive Saini in Superior, “gli svantaggi sociali e un’assistenza medica inadeguata sono strettamente legati a salute e sopravvivenza. Anche se nel caso dei neri americani questi fattori vengono spesso trascurati dai ricercatori, come dimostra anche un lavoro pubblicato su The Lancet nel 2017: gli scienziati tendono più spesso a cercare una prova nella biologia piuttosto che rispondere alla domanda con le disuguaglianze sociali”.

Rivedere la ricerca clinica

Non da ultimo secondo Saini, andrebbe rivalutato il modo in cui le classificazioni demografiche vengono usate nella ricerca medica. Se infatti da una parte il metodo può anche avere dei vantaggi, perché per esempio consente di tracciare eventuali disparità di trattamento o individuare eventuali modelli ambientali o sociali che influenzano la prevalenza della malattia, come nel caso di Covid-19, dall’altra il rischio è di dimenticare che queste distinzioni siano solo sociali e non abbiano basi biologiche. Spesso infatti vengono ancora usate di routine nella ricerca medica e nella pratica clinica, per guidare la ricerca, la diagnosi e il trattamento in modi che, nonostante le buone intenzioni, sono inappropriati.

“La persistente abitudine di essenzializzare grandi gruppi di persone in medicina, deve essere interrogata” precisa Saini. “Se la razza deve essere usata come variabile di ricerca o strumento diagnostico, i motivi devono essere chiaramente articolati e giustificati, per evitare di fare affidamento sugli stereotipi piuttosto che sui fatti”. Il fatto che le classificazioni vengano usate ancora in medicina, a volte in maniera impropria, secondo Barbujani dimostra che “molte aree della medicina non sono aree della scienza e la ricerca clinica subisce dei gravissimi ritardi”.

Le spiegazioni di fondo secondo il genetista sono due: la prima è che il nostro cervello è portato a semplificare, “si è evoluto per trovare soluzioni semplici e ancora lo fa” precisa. “Ma questo schema è pericoloso, è una lente deformante, che non ci permette di capire le nostre realtà biologiche”. La seconda spiegazione che dà, è che il razzismo e queste categorizzazioni permangono perché convengono a molte persone. “Sono uno strumento molto spendibile nella vita politica e nei conflitti sociali – conclude – c’è tanta gente che ha interesse a mantenere le barriere, sebbene dal punto di vista biologico non abbiano senso”.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Non vi è nulla di razzista nelle razze animali

Messaggioda Berto » mer nov 03, 2021 7:38 am

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