Il Politicamente corretto (PC): un crimine contro l'umanità

Il Politicamente corretto (PC): un crimine contro l'umanità

Messaggioda Berto » lun nov 01, 2021 9:17 am

Dai lager al politicamente corretto: la lunga marcia del totalitarismo
Atlantico Quotidiano
Dino Cofrancesco
25 Giu 2019

http://www.atlanticoquotidiano.it/rubri ... litarismo/


Sono in un aereo di una grande compagnia che effettua voli transoceanici. Il servizio è discreto e non mancano i comfort—dal televisorino personale che offre un’ampia scelta di programmi, dal film alla musica, alle continue offerte di cibo e di bevande—per alleviare il fastidio e la noia insopportabile delle quattordici ore di viaggio. Ci sono, è vero, le turbulences ma nel transantlantico dell’aria si sentono meno. Quello che mi colpisce, invece, è un’hostess talmente grassa che sembra passare a stento nei corridoi tra le file di sedili. Lì per lì mi sento in colpa per lo sconcerto: non sarà mica dettato da antichi pregiudizi maschilisti che vogliono le assistenti di volo giovani, graziose, sorridenti? Subito dopo, però, penso che non avrei avuto reazioni diverse vedendo uno steward uscito da un quadro di Fernando Botero e, a questo punto, mi vengono in mente un sospetto inquietante e il ricordo di un episodio risalente a diversi anni fa. Una corte inglese aveva condannato un barista per aver messo un annuncio su un giornale, in cui si offriva un lavoro di cameriera a una donna giovane e di bell’aspetto. Soprattutto quel ‘bell’aspetto’ aveva scatenato le ire delle femministe, scandalizzate dalla strumentalizzazione del corpo della donna. In effetti, il barista era stato incauto: per non perdere tempo nella selezione delle aspiranti all’impiego, ne aveva ridotto la rosa – in realtà, avrebbe potuto benissimo raggiungere il suo scopo fingendo che la sua scelta fosse dettata solo da motivazioni professionali. Del fatto si parlò anche in Italia ma quasi unicamente per esaltare la civiltà britannica che non tollerava discriminazioni estetiche.

Tutto bene? Non per me. La mia natura di bastian contrario, infatti, mi rendeva molto perplesso: da una parte, vedevo un valore iscritto in quell’universalismo etico che dalle Lumières a Kant è diventato ormai il codice occidentale (una donna—o un uomo—ha diritto di essere presa in considerazione indipendentemente dal suo aspetto fisico), ma, dall’altra, vedevo restringersi lo ‘spazio della discrezionalità’, del non contemplato dalle norme giuridiche, al di là del quale vien meno la libertà e tutto diventa oggetto di regolamentazione. Se il ‘come ci si deve comportare’, il ‘come si deve pensare per essere soggetti morali’ invadono tutta l’esistenza quotidiana, le istituzioni – politiche, sociali, culturali – non sono più gli argini entro i quali scorre il fiume della libertà individuale ma diventano la prigione che la tiene sotto controllo. Forse il problema vero è la cancellazione del peccato originale, che, a mio avviso, sta a fondamento del liberalismo: che senso avrebbe, altrimenti, la teoria dei poteri che si controllano a vicenda, se non si credesse nella malvagità umana e nella necessità di neutralizzarla con istituti idonei? In fondo, la civiltà non è la rimozione del male ma la sua sublimazione: la bella dama che il focoso trovatore si porterebbe volentieri a letto si fa l’ispiratrice dell’amor cortese, Teresa T. diventa oggetto platonico della passione infelice di Jacopo Ortis. Più prosaicamente, nel film di Pietro Germi, Signori e signore (1965) a Treviso ci si reca volentieri al bar in cui lavora la bella cassiera Milena Zulian (Virna Lisi) per il piacere di vederla, anche se si rimane, come si dice a Napoli, ‘uocchie chine e mane vacante’ (occhi pieni e mani vuote). D’altra parte, la civetteria, su cui ha scritto pagine straordinarie il grande Georg Simmel, non richiama considerazioni in parte analoghe?

L’hostess lardellata, però, a ben riflettere, è qualcosa di assai più inquietante della barista londinese. Essa, infatti, segna il trionfo finale dell’idea di eguaglianza assoluta. Non solo stanno sullo stesso piano belli e brutti ma ora, diventano irrilevanti pure le differenze tra sani e malati (il grasso eccessivo è, al di là di ogni ragionevole dubbio, una malattia). Qui, insieme alla libertà individuale (di fare ciò che piace, mangiando, ad es., quanto, come e quando si vuole), l’egualitarismo azzera anche la responsabilità sociale. L’idea che quanti non hanno cura del loro corpo non sono nocivi solo a se stessi ma rappresentano un costo per la collettività (in termini di medicine, di assistenza sanitaria etc.) sembra non sfiorare neppure i fondamentalisti dell’egualitarismo. Tra poco sarà vietato, negli annunci di offerte di lavoro, pretendere che le candidate (i candidati) siano, se non magre, almeno snelle e in buona salute. I sacri diritti degli obesi, prima o poi, esigeranno una loro costituzionalizzazione e non mancherà molto che nelle assunzioni (anche quelle fatte dai privati) si debba tener conto delle ‘quote’ e delle proporzioni tra identità diverse (in ogni organizzazione si deve trovare un certo numero di femmine, di maschi, di omosex, di trans, di bulimici, di anoressici, di islamici, di cattolici etc. etc.).

Che tutto questo non spaventi è ciò che più mi meraviglia, per non dire: sconvolge. Vi vedo la lunga marcia del totalitarismo, che, da arma micidiale, che distrugge i corpi, diventa il virus letale, che distrugge le menti: dal Lager e dal Gulag al ‘politicamente corretto’. Scriveva Hannah Arendt, nelle “Origini del totalitarismo”, “L’ideologia totalitaria non mira alla trasformazione delle condizioni esterne dell’esistenza umana né al riassetto rivoluzionario dell’ordinamento sociale, bensì alla trasformazione della natura umana (…) E’ in gioco la natura umana in quanto tale”. Certo la “natura umana” non è un dato ontologico ma il precipitato di tradizioni, di costumi, di modi di pensare secolari e tuttavia tradizioni, costumi e modi di pensare sono diventati ormai, come si diceva un tempo, una ‘seconda natura’, modificabile non con operazioni chirurgiche ma con la longue durée. Tra il totalitarismo come regime e il totalitarismo come egemonia del pensiero unico c’è una differenza enorme: la stessa che passa tra il potere e l’influenza, tra il comando che si avvale degli strumenti della violenza fisica e la persuasione che ottiene la conformità con le parole. Al totalitarismo materiale non si sfugge, a quello spirituale sì (nessuno impedisce di fondare partiti o periodici alternativi) sicché ogni assimilazione è assurda. Ciò non toglie, però, che ci sia da aver paura di quanti vedono nell’eguaglianza ‘totalitaria’ l’angelo sterminatore del Male che in millenni di storia non si è finora riusciti a debellare. “Lasciateci un po’ di malizia e di cattiveria”, si sarebbe tentati di dire. Lasciateci rallegrare vedendo una hostess che avrebbe potuto fare la mannequin e voltare lo sguardo da un’altra parte se ci passa accanto una che avrebbe potuto fare la controfigura della soprano Ada Gallotti nel film Racconti d’estate (1958) di Gianni Franciolini, quella che il suo partner erotico Aristarco (Alberto Sordi) chiamava, non affettuosamente, Moby Dick. Il male che abbiamo dentro di noi non potrebbe essere il peperoncino che rende più saporito il minestrone della vita?




Il totalitarismo del politicamente corretto che ci rende tutti uguali
Dino Cofrancesco
di Nicola Porro 13 Marzo 2021

https://www.nicolaporro.it/il-totalitar ... ti-uguali/

Sono in un aereo di una grande compagnia che effettua voli transoceanici. Il servizio è discreto e non mancano i comfort – dal televisorino personale che offre un’ampia scelta di programmi, dal film alla musica, alle continue offerte di cibo e di bevande – per alleviare il fastidio e la noia insopportabile delle quattordici ore di viaggio. Ci sono, è vero, le turbulences ma nel transantlantico dell’aria si sentono meno.

Quello che mi colpisce, invece, è un’hostess talmente grassa che sembra passare a stento nei corridoi tra le file di sedili. Lì per lì mi sento in colpa per lo sconcerto: non sarà mica dettato da antichi pregiudizi maschilisti che vogliono le assistenti di volo giovani, graziose, sorridenti? Subito dopo, però, penso che non avrei avuto reazioni diverse vedendo uno steward uscito da un quadro di Fernando Botero e, a questo punto, mi vengono in mente un sospetto inquietante e il ricordo di un episodio risalente a diversi anni fa. Una corte inglese aveva condannato un barista per aver messo un annuncio su un giornale, in cui si offriva un lavoro di cameriera a una donna giovane e di bell’aspetto. Soprattutto quel ‘bell’aspetto’ aveva scatenato le ire delle femministe, scandalizzate dalla strumentalizzazione del corpo della donna. In effetti, il barista era stato incauto: per non perdere tempo nella selezione delle aspiranti all’impiego, ne aveva ridotto la rosa – in realtà, poteva benissimo raggiungere il suo scopo fingendo che la sua scelta fosse dettata solo da motivazioni professionali. Del fatto si parlò anche in Italia ma quasi unicamente per esaltare la civiltà britannica che non tollerava discriminazioni estetiche.

Tutto bene? Non per me. La mia natura di bastian contrario, infatti, mi rendeva molto perplesso: da una parte, vedevo un valore iscritto in quell’universalismo etico che dalle Lumières a Kant è diventato ormai il codice occidentale (una donna – o un uomo – ha diritto di essere presa in considerazione indipendentemente dal suo aspetto fisico), ma, dall’altra, vedevo restringersi lo ‘spazio della discrezionalità, del non contemplato dalle norme giuridiche, al di là del quale vien meno la libertà e tutto diventa oggetto di regolamentazione. Se il ‘come ci si deve comportare’, il ‘come si deve pensare per essere soggetti morali’ invadono tutta l’esistenza quotidiana, le istituzioni – politiche, sociali, culturali – non sono più gli argini entro i quali scorre il fiume della libertà individuale ma diventano la prigione che la tiene sotto controllo.

Forse il problema vero è la cancellazione del peccato originale, che, a mio avviso, sta a fondamento del liberalismo: che senso avrebbe, altrimenti, la teoria dei poteri che si controllano a vicenda, se non si credesse nella malvagità umana e nella necessità di neutralizzarla con istituti idonei? In fondo, la civiltà non è la rimozione del male ma la sua sublimazione: la bella dama che il focoso trovatore si porterebbe volentieri a letto si fa l’ispiratrice dell’amor cortese, Teresa T. diventa oggetto platonico della passione infelice di Jacopo Ortis. Più prosaicamente, nel film di Pietro Germi, Signori e signore (1965) a Treviso ci si reca volentieri al bar in cui lavora la bella cassiera Milena Zulian (Virna Lisi) per il piacere di vederla, anche se si rimane, come si dice a Napoli, ‘uocchie chine e mane vacante’(occhi pieni e mani vuote). D’altra parte, la civetteria, su cui ha scritto pagine straordinarie il grande Georg Simmel, non richiama considerazioni in parte analoghe?

L’hostess lardellata, però, a ben riflettere, è qualcosa di assai più inquietante della barista londinese. Essa, infatti, segna il trionfo finale dell’idea di eguaglianza assoluta. Non solo stanno sullo stesso piano belli e brutti ma ora, diventano irrilevanti pure le differenze tra sani e malati (il grasso eccessivo è, al di là di ogni ragionevole dubbio, una malattia). Qui, insieme alla libertà individuale (di fare ciò che piace, mangiando, ad es., quanto, come e quando si vuole), l’egualitarismo azzera anche la responsabilità sociale. L’idea che quanti non hanno cura del loro corpo non sono nocivi solo a se stessi ma rappresentano un costo per la collettività (in termini di medicine, di assistenza sanitaria etc.) sembra non sfiorare neppure i fondamentalisti dell’egualitarismo. Tra poco sarà vietato, negli annunci di offerte di lavoro, pretendere che le candidate (i candidati) siano, se non magre, almeno snelle e in buona salute. I sacri diritti degli obesi, prima o poi, esigeranno una loro costituzionalizzazione e non mancherà molto che nelle assunzioni (anche quelle fatte dai privati) si debba tener conto delle ‘quote’ e delle proporzioni tra identità diverse (in ogni organizzazione si deve trovare un certo numero di femmine, di maschi, di omosex, di trans, di bulimici, di anoressici, di islamici, di cattolici etc. etc.).




Disuguaglianza non è sinonimo di povertà
Matteo Milanesi
10 aprile 2021

https://www.atlanticoquotidiano.it/quot ... i-poverta/

In molti sostengono che il raggiungimento dell’uguaglianza sia il fine ultimo della politica. Le disuguaglianze sarebbero troppe, solo l’1 per cento della popolazione detiene il 99 per cento della ricchezza mondiale, e sarebbe quindi necessario redistribuire i redditi per aiutare i ceti sociali meno abbienti.

Di primo impatto, si potrebbe supporre che una maggioranza degli italiani condivida queste affermazioni, ma la risposta non è così scontata come sembra.

Nel dibattito sulla povertà e sulle diseguaglianze, di solito non ci si pone una domanda fondamentale: parliamo di uguaglianza delle opportunità o di uguaglianza degli esiti?

Il filosofo Harry Frankfurt, nell’opera “Sulla disuguaglianza”, scrive: “Pochi sarebbero pronti a sostenere che la disuguaglianza è un male peggiore della povertà. I poveri soffrono perché non hanno abbastanza, non perché altri ne hanno di più, né perché qualcuno ha decisamente troppo”. E continua: “La sfida fondamentale non è costituita dal fatto che i redditi degli americani siano ampiamente diseguali, ma dal fatto che troppe persone sono povere”.

Frankfurt ci spiega in modo cristallino una verità inconfutabile: non è colpa dei ricchi o degli ultra-ricchi se ci sono i poveri. Anzi, espropriando i redditi ed i patrimoni dei primi, si arriverebbe sicuramente ad una uguaglianza tra cittadini, ma livellata verso il basso, con meno ricchezza e più povertà per tutti. Di conseguenza, minore produttività e progressivo peggioramento della qualità della vita. Insomma, arriveremmo al sogno (o incubo) marxista (e Dio ce ne scampi!).

E allora, quale può essere la soluzione? Frankfurt spiega: “Mostrare che la povertà è intimamente indesiderabile non contribuisce in nessun modo a mostrare che lo è anche la diseguaglianza economica”.

Tradotto: il problema non è il disequilibrio fra l’ultraricco ed il più povero; piuttosto capire se ad entrambi sono state concesse le medesime opportunità, le stesse libertà e gli stessi diritti.

Se sussistono queste condizioni – ed è tutto da verificare – poi ognuno si svilupperà secondo le sue capacità naturali, ma pur sempre partendo ad armi pari.

Esiste una radicale differenza – come ci spiegava anche Friedrich von Hayek, tra i padri del liberismo – tra il trattare le persone allo stesso modo ed il cercare di renderle uguali.

L’uguaglianza deve essere tradotta come uguaglianza delle opportunità, quindi uguaglianza davanti alla legge e parità di trattamento da parte dello Stato, senza nessun ostacolo dogmatico, burocratico ed arbitrario che impedisca a ciascuno di sfruttare le proprie capacità per raggiungere gli obiettivi prefissati.




Prima di aumentare ulteriormente le tasse

Prima di aumentare ulteriormente le tasse, vanno ridotte drasticamente le spese per i tanti ingiustificati privilegi, i troppi oltraggiosi parassiti e gli inutili e demenziali sprechi e sperperi; tra questi ultimi le spese per accogliere e ospitare i clandestini e gli asilanti/rifugianti veri e presunti che siano, tra cui i minori non accompagnati, quelle per sostenere i terroristi nazi maomettani detti impropriamente palestinesi e quelle per aiutare i paesi dell'Africa e del cosidetto terzo mondo anche asiatico e americano e indirettamente tutte quelle categorie di cittadini italiani che vivono e lavorano in funzione di queste spese.
Certo in caso di bisogno come in questo di crisi economica da pandemia si sarebbe dovuto procedere doppiamente in questo senso e solo dopo si sarebbe potuto chiedere e pretendere un contributo ulteriore ai più ricchi.




Cacciari si iscrive al partito delle tasse: "La proposta di Letta? Il minimo sindacale..."
Claudio Rinaldi
21 Maggio 2021

https://www.ilgiornale.it/news/politica ... 1621603604

Il filosofo Cacciari non ha dubbi: "Siamo strani. In altri Paesi la tassa di successione è molto più alta che da noi e non ci sono mica i comunisti"
“È il minimo che si possa fare”. Il filosofo Massimo Cacciari non ha dubbi: l’idea di aumentare la tassa di successione su eredità e donazioni, lanciata dal segretario Pd Letta e subito osteggiata da tutto il centrodestra, è “una proposta ragionevole che condivido in toto”.
Ma le sembra il momento? Anche Draghi ha detto: non adesso…
“Sì, se non è questo il momento, quando allora? Viviamo in un paese strano. In altri Stati come il Giappone, ci sono tasse di successione pesantissime e non sono certo dei comunisti”.
Però dopo una crisi sanitaria ed economica di queste dimensioni…
“Ma guardi che stiamo parlando di un aumento delle tasse per l’1% della popolazione, quello più ricco, che ha patrimoni sopra i 5 milioni di euro”.
A chi gioverebbe questa riforma?
“È una manovra di un’equità sociale evidente. Servirebbe a finanziare i più giovani, molti dei quali saranno precari per molto tempo e avranno difficoltà a trovare lavoro. E poi sa una cosa…”.

Cosa?
“A un certo punto dovremo pure affrontare il debito incredibile che abbiamoa accumulato in questi mesi. Speriamo che Draghi riesca a gestire la situazione nel modo più indolore possibile, ma qualche manovra in casa dovremo pure riuscire a farla e questa, assieme alle riaperture, mi sembra un buon punto di partenza”.
È contento che il Paese finalmente stia riaprendo?
“Beh, non potevamo mica restare chiusi in casa a vita. Mi pare evidente…”.
Si è aspettato troppo?
“L’importante adesso è tornare alla normalità. Ma d'altronde con le vaccinazioni che corrono non si poteva di certo aspettare altro tempo”.
Qualcuno un mese fa aveva parlato addirittura di rischio calcolato male…
“E invece è un rischio calcolato benissimo. Ma le riaperture da sole non basteranno. Servono riforme strutturali che diano voce agli ultimi e questa proposta sull’aumento della tassa di successione è davvero il minimo sindacale”.


Ugo Sais
Non in tutti i paesi esiste questa tassa; Svezia, Portogallo, Norvegia, Malta, Canada, Nuova Zelanda, Australia... per esempio, non hanno alcuna tassa di successione. Comunque piuttosto che concentrarsi su una singola imposta bisognerebbe valutare l'imposizione fiscale totale che è già molto alta soprattutto in relazione si servizi che lo stato eroga.

Giorgio Fanelli
Ugo Sais ma che centra malta il canada l Australia, noi dobbiamo confrontarci con gli altri paesi Europei

Ugo Sais
Giorgio Fanelli; Portogallo, Malta, Slovacchia, Estonia fanno parte della EU. Svezia e Norvegia sono Stati europei. Non facciamo il "cherry picking". E poi, ripeto, non è questo il punto ma bisogna considerare l'imposizione fiscale totale e da quel punto di vista siamo nei primissimi posti (sia in eU che nel resto del mondo).



Lo Stato moderno nasce all’insegna dell’uguaglianza in base alla comune cittadinanza.
Umberto Galimberti, I miti del nostro tempo.
Monica Lampugnani

https://www.facebook.com/groups/8991042 ... 7023366958

Questo riconoscimento ha influito sulla mentalità corrente degli uomini sempre meno disposti a riconoscere il merito degli altri e ad approvare il successo come conseguenza del merito. In questo modo il sentimento di uguaglianza, un sentimento nobile e ormai condiviso in tutte le società civili, paradossalmente ha moltiplicato le ragioni dell’invidia, fino a intaccare e a modificare il concetto di giustizia. Il marxismo, che da questo punto di vista è l’estrema radicalizzazione del cristianesimo, ritiene infatti che la semplice uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge è in grado di garantire una giustizia solamente formale, perché quella sostanziale può essere assicurata solo dall’uguaglianza economica, in modo che tutti possano disporre delle stesse opportunità. L’invidia è uno tra i più importanti motori sociali sia nelle società comuniste, sia in quelle capitaliste. Nelle prime, infatti, si utilizza l’invidia proletaria in funzione rivoluzionaria per instaurare un’uguaglianza in cui si svuotino le ragioni stesse dell’invidia; nelle seconde si “produce” e si “vende” invidia per stimolare l’emulazione e quindi lo sviluppo del mercato.



Passione e resistenza: Intervista a Ugo Volli
10 gennaio 2022

http://www.linformale.eu/passione-e-res ... ugo-volli/

Da lunghi anni Ugo Volli presta la sua voce appassionata e lucida alla lotta contro l’antisemitismo e alla difesa di Israele, due facce inseparabili della medesima medaglia. In occasione della prossima uscita, il 13 gennaio, di Mai più! Usi e abusi del giorno della memoria, Edizioni Sonda, il suo ultimo libro, un testo breve e necessario come tutti quelli che nascono dall’urgenza di dire cose vere e scomode, L’Informale lo ha intervistato.

Mai Più! Usi e abusi del Giorno della Memoria, a breve in libreria, si offre come uno strumento per aiutare a comprendere cosa significa a settantasette anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, ricordare la Shoah. Mi vorrei soffermare sul termine problematico del titolo, “abuso”, per chiederti quale è, secondo te, il rischio maggiore oggi dell’abuso nel celebrare questa ricorrenza.

Un osservatore sensibile non può non cogliere un’insoddisfazione abbastanza generale per il modo in cui in generale è celebrato oggi il Giorno della memoria; spesso si tratta di omaggi retorici e solo formali per le vittime di una violenza contro gli ebrei che non è mai del tutto cessata ed è ancora fra noi, in molti ambienti accettata come normale. Ma l’omaggio formale non è un abuso bensì piuttosto un’insufficienza di comprensione e partecipazione. Gli abusi veri e propri sono di coloro che mistificano il senso del ricordo, che per esempio cercano di staccare la Shoà dall’odio millenario verso gli ebrei coltivato dalla Chiesa, ma poi anche dagli intellettuali laici e illuministi. È un abuso anche cercare di mettere assieme tutte le stragi e i genocidi e perfino i disastri naturali, perché in questa maniera si confondono le cause specifiche e si nascondono le responsabilità storiche L’abuso peggiore è però di quelli che cercano di usare la Shoà contro gli ebrei e la loro autodeterminazione nazionale, per esempio parlando, senza alcuna base fattuale, di Israele “che si comporta come i nazisti” o di Gaza “come Auschwitz”.

In cosa consiste, al di là della formula ormai sclerotizzata del “non dimenticare”, l’importanza essenziale di ricordare questo evento, oltre alla necessità di fare memoria e dunque di inserirlo all’interno di una continuità storico culturale che è, principalmente legata alla storia del popolo ebraico, ma è anche parte inevitabile della storia dell’umanità?

La Shoà è stata un’immane catastrofe, un evento unico per il carattere programmatico e per così dire industriale dello sterminio di un popolo, avvenuto nel continente che si riteneva più evoluto, ai danni di cittadini spesso indistinguibili da tutti gli altri, caratterizzati solo dalla fede religiosa dalla particolarità culturale o dalla discendenza. Esso per questa ragione è davvero unico. Ma da un altro punto di vista è la continuazione di un odio che con vari pretesti dura da oltre due millenni e che ha investito tutta l’Europa e il mondo islamico. Il punto centrale è che esso non è affatto terminato con la Shoà, ma continua nei confronti del popolo ebraico, dei singoli ebrei e oggi si concentra soprattutto contro il loro stato, Israele. L’importanza del ricordo della Shoà non è solo far capire quali siano state le conseguenze di quest’odio in passato, ma prevenirlo o combatterlo oggi e per il futuro.

Il tuo impegno nella difesa di Israele è ben noto. Quanto è urgente per te nel momento in cui si fa ricordo del passato, unire militanza a favore di Israele e necessità di ricordare le vittime della Shoah?

Non ha senso, non è onesto ricordare gli ebrei uccisi perché ebrei ed essere solidali o indifferenti rispetto a chi cerca oggi di nuovo di uccidere altri ebrei perché ebrei. Un nuovo genocidio degli ebrei è il progetto più o meno esplicito dei palestinisti, dell’Iran, di quello che si usa chiamare “fronte del rifiuto”. Rispetto ad essi l’Unione Europea e in genere l’opinione politica e intellettuale che si vuole “progressista”, mostra comprensione e spesso vera e propria complicità. Ricordare correttamente la lezione della Shoà oggi richiede la difesa di Israele.

Come evidenzi nel testo, tra le varie giornate istituite nel mondo per fare ricordo della Shoah, quella israeliana si chiama Yom Hazikaron laShoahve–la Geuvurah, cioè «giorno del ricordo del genocidio ebraico e dell’eroismo”. Si abbina la resistenza ebraica del ghetto di Varsavia alle vittime della furia nazista. È un modo per respingere il paradigma invalso dell’ebreo soccombente e agnello da macello e sottolineare che gli ebrei sono anche combattenti e resistenti. Il loro Stato, dal 1948 ad oggi è lì a testimoniarlo. Non sarebbe ora, anche in Europa di fare questo parallelo? E perché non viene fatto?

Non c’è stato solo il ghetto di Varsavia, le rivolte contro le forze immensamente predominanti dei tedeschi vi sono state anche in molti altri ghetti e campi di quel tempo. Gli ebrei si sono uniti, dovunque hanno potuto, ai partigiani. Per fare un solo nome, anche Primo Levi è stato catturato in montagna con un gruppo di partigiani. C’è stata in tutt’Europa una partecipazione ebraica alla Resistenza molto superiore alla proporzione numerica. Nella mia famiglia mio nonno, di cui porto il nome, è stato attivo nella Resistenza a Roma. Tutto ciò è stato occultato soprattutto per due ragioni: perché il movimento comunista ha sottolineato la propria egemonia sulla Resistenza, cancellando nei limiti del possibile le altre forze politiche e le altre ragioni per combattere il nazifascismo, fra cui la dimensione nazionale e religiosa non solo degli ebrei. E perché la Chiesa, quando si è decisa a farlo, ha trovato il modo di comprendere la Shoà sotto la categoria cristologica della vittima innocente, dell’”agnus Dei”, dell’Olocausto come sacrificio, imitata in questo dall’opinione pubblica progressista. Questa impostazione presenta anche per loro il vantaggio di tagliare il legame che invece è essenziale fra Shoà, antisemitismo e antigiudaismo.

Nell’introduzione del libro scrivi, “La resistenza ebraica è l’obiettivo del progetto eliminazionista, il motivo percepito della militanza che anima il progetto genocida, sia esso fisico che solo culturale”. Questo a me pare il plesso della questione, ovvero il nucleo incandescente su cui si innesta l’antisemitismo, ovvero la perseveranza ebraica nel volere restare ebrei nonostante tutti i tentativi posti nel corso della storia nel volere dissolvere questa identità. Vuoi elaborare il punto?

In seguito a sconfitte militari o a disastri economici gli ebrei hanno vissuto in prevalenza dispersi fra altri popoli negli ultimi due millenni, ma anche prima durante gli esili in Egitto e in Babilonia. Ma non si sono assimilati, hanno conservato la loro identità religiosa e culturale, rifiutando di fondersi e confondersi con civiltà che si ritenevano più avanzate e moderne. Si tratta di un fenomeno unico nella storia per vastità e durata. Questa ostinazione a restare se stessi è ciò che io chiamo resistenza ebraica. Non tutti hanno resistito, naturalmente, ma sempre sono rimasti dei “resti” abbastanza numerosi da perpetuare l’ebraismo. Questo rifiuto di diventare “come si deve”, di accettare la propria sconfitta culturale assumendo le vesti del vincitore, di convertirsi dunque all’ellenismo, al cristianesimo, all’islam, al marxismo, alla globalizzazione postmoderna, provoca in chi ritiene di aver diritto ad assimilare tutti insicurezza e quindi rabbia e odio. Basta leggere le pagine sugli ebrei di grandi intellettuali liberi, alfieri della tolleranza come Voltaire e Kant, senza neppure arrivare ai nazionalisti intolleranti come Wagner o Fichte o ai fanatici religiosi come Lutero, per vedere all’opera questo meccanismo micidiale.

Porre in essere la questione dell’identità, di una ben precisa continuità storico-culturale, di una fedeltà ininterrotta a tradizioni, valori e storie, oggi è considerato un peccato grave, perché ritenuto divisivo, discriminatorio. È uno dei motivi per cui Israele è percepito anche da molti ebrei come uno Stato troppo legato alla sua specificità identitaria. Non siamo qui, ancora dentro quella potente corrente del “progetto eliminazionista”, in senso culturale, e cosa si può fare a tuo avviso se si può qualcosa per modificare questo stato di cose?

Il progetto di uniformare l’umanità è ricorrente e caratterizza tutte le visioni imperiali: in Cina come a Roma, nel cristianesimo come nell’islam, nell’illuminismo europeo come nel marxismo vi è l’idea che costumi, cultura, sistemi politici ed economici, soprattutto quel complesso che noi oggi chiamiamo ideologia, debba essere unificato. Ci sono due ragioni per questo, entrambe nobili ma sbagliate. La prima è la confusione fra uniformazione ed uguaglianza nel senso di giustizia: tutti debbono essere uguali perché nessuno può essere lasciato sotto o sopra gli altri. L’immagine recente più iconica di questa ragione è quella della rivoluzione culturale cinese, in cui tutti dovevano portare la stessa uniforme, da Mao all’ultimo contadino. La seconda idea è che chi non si comporta anche nei dettagli secondo la giusta ideologia, chi non usa le parole giuste, non prega non si accoppia e non mangia come “si deve” ignora il progresso e, peggio, lo nega; dunque divide e disarma il popolo nella sua battaglia per un futuro migliore. È dunque un traditore degli ideali, un nemico dell’umanità, va combattuto e cancellato. Anche oggi siamo in un periodo in cui questa illusione post-politica regna in Occidente, in forma più o meno acute, dal consenso progressista degli intellettuali e dei media alla militanza woke e alla cancel culture. Si tratta di fenomeni in buona parte illusori e regressivi, che fanno parte di un suicidio culturale e non di un imperialismo trionfante. Sono però anche più pericolosi per questo aspetto nichilista e vanno combattuti, riaffermando il valore delle differenze, la legittimità di essere parti e particolari, all’interno di un quadro di diritti valido per tutti ma non uniformista, che è il sistema democratico. L’ebraismo in questo può avere un ruolo importante, proprio per la sua tradizionale capacità di resistere alle uniformazioni.



"Mi accusano di essere reazionario e pessimista. Hanno ragione"
Giulio Meotti
29 gennaio 2022

https://meotti.substack.com/p/mi-accusa ... MHCij2CPok

Dal giornale tedesco Kleine Zeitung di oggi l’intervista al filosofo francese Alain Finkielkraut, che in Italia ha pubblicato L’identità infelice e In prima persona. Finkielkraut è una delle ultime personalità intellettuali che ancora “pensano” in Europa.


Ha lasciato la sinistra o la sinistra ha lasciato lei?

Se non sono più di sinistra, è perché sono di sinistra. La sinistra in Francia era un'idea intransigente di laicità. Oggi, tutta una parte della sinistra accusa la scuola laica di islamofobia. La sinistra era la scuola repubblicana basata sui risultati e sulle pari opportunità. La sinistra oggi abolisce il merito. La sinistra ha difeso una certa idea di nazione. Oggi è post-nazionale. La sinistra conosceva l'insicurezza dei più poveri. Oggi - presumibilmente per proteggere i giovani nei quartieri "sensibili" - liquida l'insicurezza come una fantasia. È stato questo multiplo tradimento che mi ha fatto lasciare la sinistra. La disputa è iniziata nel 1987, quando ho osato criticare il relativismo culturale e difendere la cultura alta nel libro "La sconfitta del pensiero". La sinistra mi ha accusato di pensiero elitario. Diceva che la cultura di massa doveva essere difesa in nome dell'uguaglianza. Per Chesterton, il mondo era pieno di virtù cristiane impazzite. Penso che sia anche pieno di virtù democratiche impazzite. L'uguaglianza è un'idea nobile. Ma mezzo secolo fa la sinistra ha cominciato a sacrificarlo a un egualitarismo che rasenta il nichilismo.

Per i suoi avversari, lei è un reazionario, antimodernista, nostalgico e pessimista. La offende?

Rivendico queste attribuzioni. Ma mi stupisce vivere in un'epoca che criminalizza la nostalgia. Forse ha a che fare con il fatto che oggi ci troviamo in un'Europa della diversità che accusa di razzismo chiunque guardi con nostalgia ad altre epoche. Più questa diversità è conflittuale, più siamo costretti ad amarla. Et voilà, ecco il paradosso!

Nessuna delle accuse la tocca?

Mi diverte che mi si accusi di antimodernismo. Amo l'arte moderna e ho adottato la definizione di modernità di Milan Kundera. Essere moderni, ha detto, significa avanzare lungo un percorso ereditato verso nuove scoperte. In questo senso, sono moderno. Ma non credo più nel progresso.

Perché no?

Quello che una volta si chiamava progresso si è trasformato in un processo inquietante. Walter Benjamin diceva che secondo Marx le rivoluzioni erano la locomotiva della storia mondiale. Mi sento un discepolo di Benjamin e Kundera. Ma il fatto che mi si accusi di razzismo mi dà fastidio. Perché l'antisemitismo di oggi si presenta come antirazzismo. Gli ebrei sono accusati di ripetere i crimini dei nazisti contro gli ebrei. Nessuno mi dice più "sporco ebreo". Ora sono uno “sporco razzista!".

Lei è stato vittima di un attacco antisemita a Parigi due anni fa.

Stavo tornando a casa. C'erano circa 20 aggressori. Gridavano: "Sparisci! Torna a casa in Israele!". Ero sbalordito, i poliziotti sono venuti in mio soccorso. A casa dissi a mia moglie che mi era successo qualcosa di strano. Proprio allora il telefono squillò. L'attacco era stato filmato con il mio cellulare e pubblicato su internet. La gente era inorridita. Questo mi ha confortato.

Lei è figlio di immigrati polacco-ebraici. Suo padre è sopravvissuto ad Auschwitz. Nel suo nuovo libro "Ich schweige nicht" (Non tacerò) si rammarica di non aver parlato di più con loro di quello che hanno vissuto. Cosa vorreste chiedere?

Chiederei solo dei dettagli. Chiedevo a mio padre: come sono stati i tuoi giorni ad Auschwitz? E io lo spingevo ad andarci con me. Ma con i genitori è sempre particolare. Non credo in un aldilà, ma se ce ne fosse uno, la prima cosa che chiederei a Dio è di rivedere i miei genitori, in modo da poter continuare a parlare da dove siamo stati interrotti.

Vede il mondo occidentale in declino. Cosa la preoccupa?

Dobbiamo rifondare la scuola, bandire il nichilismo egualitario e reintrodurre l'aspirazione e l'eccellenza. Se questo non avverrà, la cultura non potrà sopravvivere. Ma dal punto di vista socio-politico, il clima in Francia è esplosivo. Il dialogo non è più possibile lì.

Perché no?

In termini socio-politici, la democrazia non è più percepita come una tribuna per il dibattito, ma come un movimento storico emancipatore. Se ti rifiuti di andare avanti, sei un ostacolo sulla via della liberazione. Non meriti di vivere. Per esempio, è molto difficile avere una discussione ragionevole sulla questione dei transgender. Se dici che è un problema, vieni immediatamente catalogato come transfobico. E se sei transfobico, il tuo pensiero è criminale.

I suoi avversari diranno che questo è il piagnisteo di un vecchio bianco. Hanno ragione?

Ho 72 anni, ma la mia malinconia è condivisa dai giovani che sfuggono miracolosamente all'indottrinamento e allo zeitgeist. Nel mio pensiero, quindi, non mi sento affatto vecchio.

Da dove viene il grande potere di seduzione delle nuove ideologie politico-identitarie?

Una volta sono rimasto colpito dal necrologio di Octavio Paz su Sartre. In esso, parla del masochismo moraleggiante che paralizza molti intellettuali in Europa. La critica era indispensabile, ma l'avevamo messa al servizio del nostro odio per noi stessi. Per il sociologo Ulrich Beck, l'Europa di oggi è nata per porre fine a 1500 anni di violenza sanguinosa. Vuoto sostanziale, apertura radicale, questa è la sua formula suggestiva. L'identità dell'Europa consisterebbe nell'aprirsi a tutte le altre identità. È un'Europa espiatoria che dovrebbe essere nulla perché tutti gli altri possano essere ciò che sono. Questo nichilismo prende vita nell'antirazzismo. George Floyd è stato assassinato in circostanze orribili a Minneapolis e gli studenti tedeschi, danesi e francesi portano gli stessi striscioni che in America: "Non riesco a respirare!", "Black Lives Matter!".

Qual è il problema?

L'Europa di oggi non è razzista. Facciamo un enorme regalo a Hitler quando gli sacrifichiamo la cultura europea che lui voleva distruggere. Dovremmo appoggiarci alla civiltà europea. Non dobbiamo vederci solo come innovatori. Siamo eredi. Non bruceremo Goethe a causa di Hitler! Tuttavia, per impulso antirazzista, stiamo per organizzare la più gigantesca auto-da-fé che si possa concepire.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Il Politicamente corretto (PC): un crimine contro l'umanità

Messaggioda Berto » lun nov 01, 2021 9:17 am

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Il Politicamente corretto (PC): un crimine contro l'umanità

Messaggioda Berto » lun nov 01, 2021 9:18 am

27)
Il PC contro i belli, i forti, i sani, i ricchi, i buoni, i giusti



La nuova crociata del politicamente corretto: contro le "persone belle"
Gerry Freda
28 Giugno 2021

https://www.ilgiornale.it/news/mondo/nu ... 58178.html

L'ennesima crociata liberal è stata promossa dalle colonne del New York Times, con un editoriale firmato giovedì scorso da David Brooks

In America è stata appena lanciata l'ennesima crociata liberal, promossa dal New York Times, quotidiano dichiaratamente progressista; stavolta, il politicamente corretto apre il fuoco contro le "persone di bell'aspetto", colpevoli di togliere opportunità ai soggetti privi di spiccati pregi estetici. La testata citata si è scagliata contro i presunti vantaggi di cui godrebbero in vari ambiti le persone belle pubblicando on-line giovedì scorso un editoriale, intitolato Perché è ok essere meschini con i brutti? e firmato dal proprio commentatore David Brooks.

Nella sua crociata contro il "lookism", ossia la tendenza sociale a privilegiare appunto i belli a discapito di chi ha un aspetto ordinario, l'autore denuncia il primo come una nuova piaga sociale e come un'ulteriore sembianza che la mentalità discriminatoria può assumere. Egli si è quindi domandato come mai tale grave fenomeno passi quasi inosservato al giorno d'oggi e come mai i social media restino in silenzio sulla questione nonostante diversi studi, sostiene Brooks, abbiano dimostrato le seguenti umiliazioni sofferte dai brutti: i non belli hanno meno chance di trovare un lavoro, di superare un colloquio di assunzione e di essere promossi a scuola; il loro divario salariale con i belli è pari o maggiore di quello fra i bianchi e gli afroamericani; i brutti guadagnano in media 63 centesimi per ogni dollaro guadagnato dai belli, perdendo complessivamente nel corso della loro vita quasi 250.000 dollari. "Gli effetti discriminatori del lookismo", accusa Brooks, "sono pervasivi. Una persona poco attraente perde quasi un quarto di milione di dollari di guadagni nel corso della vita rispetto a una attraente". A detta di altre ricerche citate sempre dall'autore, gli individui più attraenti hanno anche maggiori probabilità di ottenere prestiti bancari e di godere, su questi, di tassi di interesse agevolati. Le persone più attraenti, in aggiunta, sarebbero automaticamente considerate più competenti e intelligenti.

I danni del "lookism" sarebbero anche di natura penale, dato che uno studio del 2004 avrebbe rivelato, dichiara l'autore, che le denunce per discriminazioni sull'aspetto sono maggiori di quelle per la razza e che i criminali non belli che commettono reati minori tendono a essere puniti più severamente dei belli implicati nei medesimi guai giudiziari.

I mali del "lookism" verrebbero taciuti dai grandi mezzi di comunicazione e dal web poiché, ipotizza il commentatore, non esiste un'associazione nazionale dei brutti che faccia campagne di sensibilizzazione o forse perché questa variante di discriminazione è "talmente innata nella natura umana" che nessuno ne percepisce la gravità. Un'ulteriore spiegazione fornita da Brooks riguardo alla natura pervasiva e radicata dell'"aspettismo" poggia sul fatto che la società contemporanea "celebra in modo ossessivo la bellezza" e ignora di conseguenza gli effetti delle discriminazioni basate sugli apprezzamenti estetici.

L'unico possibile rimedio alle molteplici discriminazioni di cui soffrirebbero da anni i brutti e per portare a termine con successo questa crociata liberal è, a detta di Brooks, "cambiare norme e pratiche", prendendo esempio da aziende famose come Victoria's Secret, che ha mandato in pensione le sue modelle mozzafiato sostitutendole con sette donne con caratteristiche estetiche le più diverse: "Se è Victoria’s Secret a rappresentare la punta avanzata della lotta contro il lookism, significa che tutti noi abbiamo parecchio lavoro ancora da fare".




La ricchezza non è un male ma un bene e i ricchi non sono assolutamente i cattivi e i carnefici, come i poveri e gli ultimi non sono necessariamente e naturalmente i buoni e le vittime.
La ricchezza come la salute o lo star bene, la bellezza, la bontà e la forza non sono un male.
Anche il denaro è un bene e non un male
viewtopic.php?f=202&t=2915

Non è colpa dei ricchi se esistono anche i poveri, come non è colpa dei sani se esistono pure i malati, e non è responsabilità dei forti se ci sono i deboli, tanto meno è responsabilità dei belli se esistono i brutti, come la sapienza non è causa dell'ignoranza, allo stesso modo che la giustizia non è causa dell'ingiustizia, come non è colpa della vita se esiste la morte, e del bene se esiste il male.
L'ossessione per i poveri e gli ultimi che arriva alla demenza di demonizzare i ricchi e i primi per poi aggredirli, derubarli, schiavizzarli e ucciderli è il massimo della idiozia più disumana e assurda.
E ciò è un danno e un male per l'umanità intera e per ogni società civile e per ogni sistema economico benefico capace di realizzare benessere diffuso, progresso e sviluppo per tanti e alla lunga per tutti.


Il senso di colpa
viewtopic.php?f=196&t=2914

Il senso di colpa lo provo solo quando sento di aver fatto del male, quando sento di aver violato le buone leggi universali della vita causando del male che mi si ritorce contro o che potrebbe ritorcermisi contro.
Se non ho coscienza di aver fatto del male non provo alcun senso di colpa.
E non vi è alcuna colpa nell'essere bianchi, occidentali, cristiani, atei, aidoli, laici, sani, forti, belli e ricchi, non vi è alcun male nello stare bene e lo stare bene non si fonda sul male degli altri, come la ricchezza non si fonda sulla povertà altrui e la forza non si fonda sulla debolezza altrui.
Il proprio star bene, la propria forza e la propria ricchezza benefica anche gli altri d'intorno.
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Il Politicamente corretto (PC): un crimine contro l'umanità

Messaggioda Berto » lun nov 01, 2021 9:18 am

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Il Politicamente corretto (PC): un crimine contro l'umanità

Messaggioda Berto » lun nov 01, 2021 9:19 am

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Il Politicamente corretto (PC): un crimine contro l'umanità

Messaggioda Berto » ven nov 26, 2021 1:33 pm

28)
Bianchi demenziali che odiano i bianchi e il mondo occidentale



Sinéad O'Connor è malata di mente: fine carriera
9 giugno 2021
https://www.islamnograzie.com/sinead-oc ... -carriera/
La cantante irlandese Sinéad O’Connor ha annunciato che sta finendo la sua carriera.
Nel 2018, molti sono rimasti sorpresi quando la vulnerabile sinéad O’Connor si è convertita all’Islam, ha indossato sciarpe della sharia e ha preso il nome di Shuhada’ Sadaqat. Sinéad O’Connor in precedenza aveva prestato servizio come sacerdote cattolico femminile. Ha anche strappato una foto di Papa Giovanni Paolo II durante un’apparizione televisiva.
Sinéad O’Connor ha parlato candidamente della sua estesa malattia mentale, uso di droghe, pensieri suicidi, dipendenza da marijuana da 30 anni e un’infanzia violenta.
Ora termina una lunga carriera musicale che ha portato il successo ‘Nothing Compares 2 U’, e Sinéad O’Connor / Shuhada’ Sadaqat possono concentrarsi su Allah e il Corano.
Nell’autunno del 2018, Sinéad O’Connor ha scritto quanto segue sui social media:
“Non passerò mai più del tempo con i bianchi … Sono disgustosi.””
Sinéad O’Connor non è l’unica celebrità che si è convertita all’Islam. In Danimarca, youtuber e modella Fie Laursen ha anche optato per una vita di sharia e testi coranici. Fie Laursen, come Sinead O’Connor, è affetta da malattia mentale, abuso di droghe e tentativi di suicidio.
Fie Laursen non è stata musulmana per tutta la vita. Nel 2016, Fie Laursen ha proclamato di essere diventata ebrea. Le vie di Allah sono misteriose.



Vedere il capitolo 1)
Razza e colore della pelle. Il PC contro i bianchi, l'occidente euro americano, i cristiani, gli ebrei e Israele





Miseria del terzomondismo
Lucio Leante
6 agosto 2021

https://opinione.it/editoriali/2021/08/ ... omondismo/

Molti non sono pienamente coscienti del fatto che la diffusa tesi secondo cui l’Occidente, con il suo colonialismo imperialista ed il suo “neo-colonialismo” delle multinazionali, sarebbe ancor oggi “la causa” di tutti i persistenti mali dei Paesi poveri africani ed asiatici (e quindi anche dei flussi migratori attuali) è una balla colossale che trova origine nell’ideologia para-comunista, fintamente umanitaria e in realtà anti-occidentale del terzomondismo. Il terzomondismo sembrava essere morto come il marxismo da cui è nato e di cui costituiva un’eresia ed un surrogato. E, invece, una delle ideologie più perniciose per gli stessi Paesi del cosiddetto “terzo mondo”, pur sconfessata e smentita dalle dure repliche dei fatti e della storia, continua a vivere sotto altre sembianze e altre denominazioni. Oggi continua a serpeggiare quasi soltanto in Occidente mentre nel “terzo mondo” le nuove generazioni di intellettuali, economisti, sociologi e antropologi lo considerano obsoleto e, anzi una delle principali cause ideologiche della persistente arretratezza dei loro Paesi e persino una forma di vero neocolonialismo mascherato dietro gli “aiuti esteri”.

Rifugio dei post-comunisti (e cattolici di sinistra)

In Occidente è divenuto il rifugio – spesso inconfessato e travestito di aspirazioni alla giustizia universalista ed egualitaria – di molti ex-post-comunisti e di “cattolici di sinistra”. Per i post-ex-comunisti il terzomondismo ha sempre rappresentato un’eresia del marxismo ed un ripiego ideologico e teorico finalizzato a salvare la prospettiva rivoluzionaria ad opera non più – come prevedeva Karl Marx – del proletariato industriale dei Paesi avanzati (già da Lenin considerato nel suo testo “L’Imperialismo fase suprema del capitalismo” – almeno nelle sue “aristocrazie” – “integrato” nel sistema capitalistico-borghese perché “corrotto dai corrotti riformisti”), ma delle masse povere e diseredate dei contadini dei Paesi arretrati, per di più considerate portatrici di una purezza e innocenza primigenia, che prefiguravano comunque un diverso tipo di “uomo nuovo” dal cuore antico, frugale, austero e anti-consumista. Ai contadini che Marx considerava alla stregua di “sacchi di patate” e che Lenin e Stalin non nascondevano di volere sterminare “come classe” (nobile progetto poi in gran parte realizzato) i terzomondisti attribuivano invece nientemeno che la funzione di motore di massa per la rivoluzione mondiale. Marx aveva previsto un socialismo ricco ed i terzomondisti ne proponevano uno povero e anzi misero. Una bella giravolta, che però consentiva loro di mantenere viva la prospettiva “rivoluzionaria” e cioè quella della distruzione dell’Occidente e della sua civiltà cristiana e liberale.

Per i cattolici di sinistra il terzomondismo riproduce soprattutto temi pauperisti, sempre risorgenti come un fiume carsico non solo in vari movimenti ascetici e in qualche misura gnostici (e pelagiani) non tutti e non sempre dichiarati eretici, come i catari, i valdesi, i poveri di Lione, gli umiliati, gli apostolici, le beghine e soprattutto gli ordini mendicanti tra cui i francescani. Nella storia stessa del cristianesimo ortodosso la povertà programmatica è un tema ricorrente. Una vena pauperista e terzomondista anti-occidentale è certamente presente anche nell’attuale papa Bergoglio, che non a caso ha scelto il nome di Francesco. Non è forse scritto che “è più facile che un cammello passi per la cruna dell’ago che un ricco entri nel regno di Dio”? (Matteo 19–23–30).

Il pauperismo è insomma il cemento ideologico-religioso che tiene insieme i terzomondisti: gli ex-post comunisti e i cattolici umanitari. Particolare curioso è che entrambi da un lato si stracciano le vesti per la povertà del “terzo mondo” (accusandone l’Occidente), ma dall’altro entrambi esaltano le virtù salvifiche della povertà. I comunisti come strada per il paradiso terrestre comunista popolato da quel particolare “uomo nuovo” molto simile al mitico “buon selvaggio” russoviano. I cattolici la esaltano come strada per la salvezza ultraterrena nel regno di Dio.
Istanze nettamente terzomondiste (e pauperiste) si ritrovano poi ai nostri tempi mascherate nell’ideologia multiculturalista, nella “cancel culture”, nel movimento “Black lives matter”, nelle aspirazioni alla cosiddetta “decrescita felice”, nell’atteggiamento pregiudizialmente filopalestinese e anti-israeliano di molti e in generale in tutte le ideologie anti-occidentali contemporanee. Del terzomondismo di un tempo esse sono le ultima variante e incarnazione. In ogni caso il terzomondismo può considerarsi oggi una teoria ideologica smentita dai fatti.

Le dure repliche dei fatti

Gli europei che arrivarono in Africa nel XIX secolo non trovarono un Eden che poi avrebbero distrutto, ma carestie, epidemie, tratte di schiavi (anche tra indigeni) malattie endemiche e guerre tribali. Il colonialismo fu un fenomeno complesso che qui sarebbe impossibile analizzare perché di colonialismi ve ne furono diversi e vari. Comunque secondo la maggior parte degli storici non può essere ridotto alla categoria ottocentesca dello sfruttamento e della rapina come fanno semplicisticamente i terzomondisti. Certo, di crimini i colonialisti europei ne hanno commessi: dalla repressione inglese del grande ammutinamento indiano del 1857, ai massacri nel Congo belga, al genocidio dei popoli Herero in Namibia, allo sterminio dei ribelli cirenaici nella Libia occupata dagli italiani. Ma tali fatti, seppur tragici e ripugnanti, non confermano affatto la semplicistica versione terzomondista sull’intricato rapporto tra colonialismo e sviluppo mancato. Su questo punto la vera “colpa” dei colonialisti è stata di non avere creato una vera classe dirigente locale responsabile, una vera borghesia grande e piccola ed un’economia di mercato.

In ogni caso l’era coloniale è terminata oltre 60 anni fa, tra la fine della Seconda guerra mondiale e la fallita spedizione anglo-francese a Suez nel 1956. “Il bilancio deve cominciare da allora, non da cent’anni prima. E l’esame di coscienza devono farlo anzitutto i ‘decolonizzati’, non i colonizzatori” – ha scritto tra gli altri Sergio Romano. E la sua opinione è ampiamente condivisa oggi da molti giovani intellettuali africani ed asiatici stanchi della vulgata terzomondista finalizzata a esportare tutte le “colpe” al “perverso Occidente”.

Subito dopo la fine del colonialismo, molti leader dell’indipendenza contro il colonialismo divennero capi di Stato, adottando politiche socialiste (e tribaliste), sotto influenza sovietica, per contrapporsi all’ “imperialismo” occidentale.
Il Ghana del leader storico Nkrumah, filo-socialista e nazionalista, la Guinea del filosovietico Sékou Touré, al potere per oltre un ventennio, fino allo Zimbabwe di Robert Mugabe, tutti dominati da leader terzomondisti, panafricani ed anti-occidentali, non sono stati soggetti per lunghi periodi alle politiche neocoloniali. Tutti quei Presidenti hanno nazionalizzato le compagnie straniere, cacciato via le deprecate multinazionali. Anzi Mugabe cacciò via nel 2000 tutti gli europei bianchi dallo Zimbabwe e spartì delle loro terre tra gli autoctoni (anche se poi nel 2020 il nuovo governo dello Zimbabwe ha dovuto restituire le terre agli ex coloni risarcendoli persino). Eppure i loro Paesi sono in condizioni non meno tragiche di altri.

Il fallimento del socialismo terzomondista

Quelle loro politiche socialiste erano estranee alla cultura locale e furono fallimentari per le economie locali come lo furono in tutti i Paesi socialisti del mondo che hanno subito lunghi periodi di scarsezza e di illibertà. Il risultato è che da tempo l’Africa è costretta ad importare prodotti alimentari per decine di miliardi di dollari (secondo recenti stime siamo oggi attorno ai 100 miliardi annui) dall’estero, mentre nel deprecato periodo coloniale era un esportatrice netta di cibo. Lo Zimbabwe quando era Rhodesia e la Repubblica Democratica del Congo quando era Congo belga esportavano cibo, ma oggi le loro popolazioni non riescono a sfamarsi. La stessa Tanzania e la Sierra Leone erano un tempo auto-sufficienti.

Questa ed altre circostanze, come le continue guerre politico-tribali, la stagnazione sociale, i faraonici arricchimenti dei dittatori e dei loro clan e tribù dominanti a spese delle popolazioni, la corruzione dilagante, le epidemie ricorrenti, la mancanza infrastrutture scolastiche ed ospedaliere, hanno indotto molti giovani intellettuali africani ad abbandonare l’ideologia terzomondista ed anzi ad accusare i terzomondisti occidentali di essere la vera causa ideologica dei disastri dei loro Paesi . Mentre un tempo, l’intellighenzia, influenzata e blandita dai terzomondisti occidentali, seguiva i leader africani filo-sovietici che accusavano la colonizzazione europea per tutti i mali dell’Africa, oggi una buona parte della nuova generazione di intellettuali incolpa soprattutto i dittatori locali di avere assorbito dall’Urss e dai terzomondisti occidentali il dogma del collettivismo comunista e la convinzione che il libero mercato e o stato di diritto fossero “roba da bianchi” anche se non soprattutto perché quell’ideologia garantiva loro ed alle loro tribù e clan un potere totalitario immenso e incontrollato. “Un grande ostacolo alla crescita economica dell’Africa è stata la tendenza di incolpare le forze esterne per i nostri fallimenti… il progresso sarebbe potuto arrivare se avessimo provato a rimuovere la polvere dagli occhi” – ha scritto l’intellettuale ghanese Said Akobeng Eric, in una lettera all’editore di Free Press.

La nuova intellighenzia africana

La parte più sveglia della nuova intellighenzia africana e asiatica nutre ormai ben pochi dubbi sull’efficacia del libero mercato e dello stato liberale di diritto nell’arricchire e migliorare l’economia dei Paesi che li adottano: è inequivocabile la forte relazione tra libertà economica, civile e politica e i maggiori indicatori di ricchezza e benessere. Lo dimostrano i casi della Cina e del Vietnam (e di altri Paesi ) che sistematicamente hanno cominciato a crescere non certo da quando sono divenuti indipendenti dal dominio coloniale, ma da quando hanno scelto il libero mercato e hanno abbandonato la ricetta collettivista e statalista. Anche in Africa il Rwanda, il Botswana e l’Etiopia stanno cominciando a vedere i primi risultati positivi delle incipienti liberalizzazioni. Per converso tutti i Paesi che si sono attardati e hanno conservato la vecchia ricetta statalista e collettivista come Cuba, il Laos e vari Paesi africani languono nella miseria e stagnano nel sottosviluppo.
Anzi l’economista ghaniano George Ayittey, pur non negando le responsabilità e le malefatte dei colonialisti, sostiene che la vera tragedia per lo sviluppo dell’Africa sia nata non con il colonialismo, ma con l’indipendenza (v. George B. N. Ayittey, Defeating Dictators: Fighting Tyranny in Africa and Around the World, Ed. St. Martin’s Griffin, 2012, Pp. 396–406).

Secondo vari studiosi, sia occidentali, sia africani il vero neocolonialismo oggi non è quello delle multinazionali, ma quello dagli aiuti esteri degli stati occidentali, delle organizzazioni internazionali, dei progetti delle varie agenzie di cooperazione e delle Ong, unificati da una stessa perniciosa ideologia: quella del terzomondismo sia pure in versione non più rivoluzionaria, ma gradualista. Sono gli “aiuti” internazionali che, infatti, hanno perpetuato le dittature collettiviste, causa principale dei mali dell’Africa. (per una più completa documentazione si veda Anna Mahiar Barducci, Aiutiamoli a casa loro? Lo stiamo già facendo, ma male, Fondazione Einaudi, 26 aprile 2020). Lo stesso economista ghaniano Ayittey ha scritto: “Abbiamo rimosso i colonialisti bianchi e li abbiamo rimpiazzati con neo-colonialisti neri” mantenuti al potere ed arricchiti, insieme con i loro clan, tribù e greppie di potere proprio dagli aiuti internazionali e dalla loro ideologia terzomondista (v. therisingcontinent.com 25 Ottobre 2011).

Il vero neo-colonialismo: gli aiuti esteri

Il giornalista ugandese Andrew Mwenda, definisce da vari anni gli aiuti come antitetici alla crescita, perché creano gli incentivi sbagliati e distorcono la relazione tra Stato e cittadino. A causa degli aiuti internazionali, il governo non ha più alcun interesse a dialogare con la popolazione e a cercare consensi, perché sostenuto economicamente dall’esterno (v. Andrew M Mwenda: aid creates the wrong incentives for progress, theguardian.com 24 luglio, 2008.).

Sembra pertanto sempre più chiaro che anche la formula “aiutiamoli a casa loro”, che può sembrare una valida alternativa all’immigrazione incontrollata e illimitata sia solo una formula semplicistica e propagandistica destinata a non funzionare, almeno per come è impostata adesso la cooperazione internazionale. Si sta facendo sempre più forte l’idea che un Piano Marshall per l’Africa possa risollevare i Paesi africani e frenare così l’emergenza migranti. Ne hanno parlato con enfasi sia l’allora presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, sia la cancelliera tedesca Angela Merkel. Tuttavia, sia gli aiuti internazionali, sia un eventuale Piano Marshall, promuoverebbero soltanto trasferimenti “da governo a governo”, ovvero incentiverebbero solo lo statalismo, con le sue solite dispersioni e distorsioni e non la “libera impresa”, la libertà economica ed il libero mercato. Nemmeno il supposto Piano Marshall per l’Africa sembra una soluzione. Già nel 2002 l’ex Presidente del Senegal Abdoulaye Wade, dichiarò: “Non ho mai visto Paesi svilupparsi grazie agli aiuti… I Paesi che si sono sviluppati come gli Stati Europei, l’America, il Giappone…hanno tutti creduto nel libero mercato. Non c’è alcun mistero. L’Africa ha preso una strada sbagliata dopo l’indipendenza”.

La economista dello Zambia, Dambisa Moyo, ha scritto nel suo famoso libro “Dead Aid” (“Aiuto morto”): “Il foreign aid sostiene i governi corrotti (africani) – fornendo loro denaro utilizzabile liberamente. Questi governi corrotti interferiscono con lo Stato di diritto, con la creazione di istituzioni civili trasparenti e con la protezione delle libertà civili”. Ed ha poi aggiunto: “In risposta all’aumento della povertà, i Paesi donatori danno più aiuti economici, continuando così la spirale della povertà. Questo è il circolo vizioso degli aiuti. Il circolo che strozza il bisogno di investimenti, che infonde la cultura della dipendenza, e facilita la corruzione sistematica, con deleterie conseguenze per la crescita. Questo è il circolo che perpetua il sottosviluppo e garantisce il fallimento economico dei Paesi poveri, dipendenti dal foreign aid.”.

La soluzione per la Moyo è pertanto chiara: innanzitutto cancellare gli aiuti, una proposta che ha suscitato le vivaci e terrorizzate critiche di molte Ong dirette da noti terzomondisti, che da (e su) quegli aiuti ci campano discretamente (v. D. Moyo, “Dead Aid”, Penguin, London 2009). Il discorso sull’Africa (e sul terzomondismo) dovrebbe continuare, e lo continueremo. Il fine di questo articolo era solo quello di sottolineare il fallimento e la cialtroneria dei terzomondisti, la cui vera “passion predominante” non è affatto la cura umanitaria per i popoli degli “ultimi” o “dannati della terra”, come vorrebbero fare credere. A costoro essi non hanno apportato che danni enormi e irreparabili. La loro vera passione è un’avversione pregiudiziale per l’Occidente, vissuto come colpa collettiva di tutti i mali del mondo. Un’avversione che essi hanno ereditato dal marxismo e che è anche un paradossale e patologico odio di sé.


Menzogne e calunnie demenziali per demonizzare, criminalizzare e disumanizzare, per istigare alla paura, al disprezzo e all'odio etnico-ideologico-politico-religioso, al fine di depredare, schiavizzare e impedire il libero esercizio dei diritti umani, civili, economici e politici del prossimo.
viewtopic.php?f=196&t=2942
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 8357587395


Colonizzazione e decolonizzazione dell'Africa
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 194&t=1822
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Il Politicamente corretto (PC): un crimine contro l'umanità

Messaggioda Berto » ven nov 26, 2021 1:33 pm

Il multiculturalismo ha fallito, ma continua a erodere la cultura occidentale
Lucio Leante
29 ottobre 2021

https://www.opinione.it/editoriali/2021 ... errorismo/

“Questi barbari violenti dovrebbero tornare a casa loro” dicono molti quando un terrorista islamico, di solito nato, cresciuto in Europa, si fa esplodere uccidendo persone a caso, o decapita un prete o un professore, o, alla guida di un camion travolge i passanti, al grido di “Allah è grande”.

“Questa gente non è integrabile perché la loro cultura tribale è barbara ed incompatibile con la nostra” dissero molti quando in aprile scorso si apprese che la giovane Saman Abbas di Novellara, in provincia di Reggio Emilia, era stata uccisa e fatta a pezzi dai familiari solo perché non voleva sposare un cugino scelto dalla e preferiva vivere all’occidentale sposando chi voleva lei. Molti hanno allora colpevolizzano la cultura pakistana ed araba e la religione islamica, anche perché un destino analogo avevano subito in Italia, per le stesse ragioni, altre ragazze di origini pakistane musulmane come Hina Saleem di Sarezzo nel 2006 e Sanaa Dafani nel 2009 a Pordenone e lo stesso destino hanno avuto decine di altre giovani figlie di famiglie musulmane immigrate in altri paesi europei.

Si è trattato di reazioni comprensibili e giustificate, ma che omettono le responsabilità ideologiche dei “multiculturalisti” in quegli episodi. Analoghe reazioni hanno avuto molti quando hanno letto sui giornali che nelle centinaia di “no-go zone” sparse in Europa, dominano con la violenza i musulmani salafiti. Da quelle zone vengono fuori la maggior parte dei terroristi che risultano per lo più giovani benestanti nati e cresciuti in Europa. In quelle zone vigono costumi tribali e la versione più fondamentalista della shari’a islamica, si diffonde la poligamia, le donne sono segregate in casa e sono vittime di violenza (domestica e no) o circolano solo se coperte da capo a piedi. In quelle zone, le ragazzine e persino le bambine vengono sottoposte spesso segretamente a mutilazioni genitali e sono oggetto di costrizioni varie, di matrimoni forzati combinati dalle famiglie. Alcune di loro, magari perché ribelli o disobbedienti, sono talvolta spedite dai genitori nei loro Paesi di origine, di dove non tornano più e non se ne sa più nulla.

Tutto questo provoca giustamente orrore, ma pochi comprendono che sono le prove del fallimento della teoria e del progetto multiculturalista. Ai più non viene nemmeno in mente che quei ghetti, territori europei perduti, quelle zone della sharia (che non esistono più neppure nella gran parte dei Paesi musulmani) sono stati programmaticamente ceduti dalle autorità europee alle culture più tribali, primitive e violente del mondo. Pochi riflettono sul fatto che quei “barbari” sono stati incoraggiati proprio dai multiculturalisti europei, i nostri “barbari interni”, a rifiutare l’integrazione (da essi stigmatizzata come “eurocentrica”) e a conservare invece, in nome dell’“inclusione”, gli antichi usi tribali dei loro antenati, come si trattasse di reliquie preziose intoccabili. Il multiculturalismo è stato, infatti, innanzitutto un tradimento dell’integrazione e della normale evoluzione storica delle culture tradizionali nella modernità, che gli stessi multiculturalisti chiamano “progresso”.

Barbari interni

In sostanza, molti se la prendono solo con il “barbaro” esterno, mentre, a rigore, dovrebbero prendersela anche e soprattutto con il “barbaro interno”: e cioè il multiculturalista. È lui il vero e più pericoloso nemico della convivenza tra persone di diverse etnie e culture e per la stessa democrazia liberale e la società aperta in Europa. È lui che ha teorizzato che gli immigrati dovevano poter vivere in Europa “come a casa loro” e che tutte le etiche e le culture avrebbero un “eguale valore” e avrebbero perciò non solo diritto di cittadinanza in Europa, ma anche un diritto ad un “eguale rispetto” morale e giuridico. La democrazia liberale non sarebbe sufficiente e solo riconoscendo e includendo la sua cultura – anche sul piano giuridico – un immigrato potrebbe – secondo il multiculturalista – sentirsi davvero a casa sua ed essere davvero, cioè, “in maniera sostanziale”, libero e uguale. Le responsabilità dei multiculturalisti sfuggono a molti, anche perché il multiculturalismo è un’ideologia sofisticata, sconosciuta ai più, ma molto diffusa tra le classi dirigenti euro-occidentali, soprattutto intellettuali e politici di sinistra, che si ammantano di iper-gentilezza verso “l’altro”, di iper-liberalismo e di iper-democrazia.

Società multietnica o multiculturale?

Il progetto muliculturalista è anti-liberale perché trasformerebbe la società liberale multietnica, ma monoculturale, in una società multiculturale, un concetto da non confondere come spesso si usa fare, con quello di società multietnica (che è liberale). La prima ha un sistema giuridico-politico fondato sull’universalità illuminista (e cristiana) dei diritti umani naturali individuali e sul principio liberale dell’eguaglianza di tutti gli individui a prescindere da razza, sesso, religione. La società multiculturale, invece, riconosce diritti comunitari alle diverse culture altrui, comprese le loro norme, leggi e costumi e conferisce loro un “eguale rispetto” e cioè una pari vigenza, anche se in conflitto con le norme, leggi e costumi locali.

La società liberale presuppone uno Stato che tratti i cittadini allo stesso modo, prescindendo dalle differenze di razza o di religione mentre la società multiculturale crea uno Stato in cui le persone dovrebbero essere trattate in maniera diversa, a seconda delle proprie caratteristiche e differenze culturali. Corollario di ciò sarebbe, pertanto, l’abbandono dell’idea di eguaglianza dei diritti universali è l’assunzione al loro posto dell’idea dei diritti differenziati. Ed è proprio quello che è avvenuto in diversi paesi europei. La conseguenza, però, è che i criteri di giusto e ingiusto, criminale e barbarico, scompaiono di fronte al criterio assoluto del “rispetto per la differenza”.

Le classi dirigenti occidentali

Le posizioni multiculturaliste sono state per decenni non solo una filosofia e una teoria, ma un vero e proprio progetto culturale e politico praticamente rivoluzionario, adottato dalle classi dirigenti di sinistra nel continente americano (soprattutto in Canada), in Australia e in Europa, in specie nei Paesi nordici, ma anche nei maggiori Stati europei. Per molti intellettuali europei è stato un surrogato del marxismo (anche per le sue connessioni con il terzomondismo) perché consentiva di continuare erodere e decostruire la cultura liberale e individualistica occidentale e prospettava un’alleanza in chiave occidentale tra gli intellettuali e i politici, ormai orfani della rivoluzione comunista, e i popoli oppressi del terzo mondo, che furono visti come il nuovo proletariato dei dannati della terra. Per decenni le classi dirigenti di sinistra euro-americane hanno pensato: “Dobbiamo essere iper-gentili con gli extra-occidentali includendo le loro culture e permettendo loro di vivere come a casa loro. Loro, in cambio, saranno gentili con noi e per di più e daranno alla sinistra i loro voti o per lo meno non ci ammazzeranno”.

Il presupposto – e per taluni il pretesto- era anche un tentativo di evitare ad ogni costo uno scontro di civiltà, di culture e anche di religioni in Europa, anche al prezzo di rinunciare alla difesa dei principi della propria civiltà, cultura (e religione) che comunque “meritava di perire” perché civiltà colpevole. Questo calcolo di appeasement non era privo di pusillanimità e celava un disprezzo ed un’ostilità verso la propria civiltà occidentale. È comunque si è rivelato tragicamente sbagliato, come dimostrano i fatti citati e la cronaca di tutti i giorni.

Immigrazione

I multiculturalisti affermavano che con le loro teorie e le loro pratiche si sarebbe risolto innanzitutto il problema dell’“affondamento demografico” europeo per cui bisognava aprire i rubinetti dell’immigrazione. Inoltre, intendevano risolvere in maniera “non eurocentrica” i nuovi problemi di convivenza posti dalle migrazioni verso occidente di sempre maggiori numeri di individui da Paesi extra-euro-occidentali. Questi erano portatori di culture diverse e, nel caso dell’Islam, erano portatori di una cultura teocratica e anti-individualista difficilmente compatibile e anzi in potenziale conflitto permanente con la cultura euro-occidentale laica, liberale e cristiana. Occorreva venire a patti con essa.

Per l’esattezza il multiculturalismo è nato negli Usa nella seconda metà del secolo scorso come un’ alternativa alla tradizionale teoria e pratica del “melting pot” statunitense, il “crogiuolo” multi-etnico, ma monoculturale, dove gli individui venivano accolti come individui e potevano mescolarsi e fondersi, conservando le manifestazioni della loro religione, i loro costumi e la loro cultura anche nello spazio pubblico, ma alla condizione che non entrassero in conflitto con la legge e la Costituzione americana che doveva vigere per tutti. In Europa il multiculturalismo si diffuse dopo la decolonizzazione come alternativa all’assimilazionismo alla francese che richiedeva di confinare la religione nella sfera privata, mentre nella sfera pubblica pretendeva un’adesione alla religione civile repubblicana e laicista, nella quale consisterebbe l’identità e la cittadinanza francese.

Il crogiuolo e la macedonia

Al “crogiuolo”, all’americana o alla francese, il multiculturalismo, sulla base del relativismo radicale che suppone le varie etiche e culture come universi in-comunicanti e di “eguale valore”, opponeva, al fine illusorio di evitare gli scontri di civiltà, il modello della “macedonia”. Le varie culture non si sarebbero dovute fondere sotto l’egemonia di una sola cultura, come avviene in tutti i Paesi del mondo, ma dovevano essere conservate e convivere una accanto all’altra conservando tutte le loro caratteristiche specifiche. In sostanza, secondo i multiculturalisti le norme etiche e giuridiche e i costumi di tutte le culture “altre” avrebbero dovuto vigere in Occidente anche quando fossero in patente ed insanabile contrasto con le norme ed i costumi vigenti in Occidente.

La conseguenza è che si prefigurava una convivenza nella stessa società di ordinamenti giuridici paralleli e talvolta in conflitto tra loro e quindi sulla diseguaglianza nei diritti individuali, in considerazione della loro etnia o della religione di appartenenza. Tipico esempio è la poligamia, che sarebbe stato per alcuni cittadini un reato e per altri una possibilità del tutto lecita.

Un progetto eversivo dell’ordine liberale

Si tratta evidentemente di un progetto eversivo dell’ordine democratico liberale (basato su diritti fondamentali uguali per tutti) che persegue non l’integrazione ma la disintegrazione sociale perché parcellizza la società in una serie di comunità parallele e in-comunicanti, ciascuna chiusa nei suoi ambiti interni, animate da culture e norme diverse ed opposte e perciò in conflitto permanente tra loro. I risultati di decenni di politiche ispirate al multiculturalismo sono stati catastrofici, come era ampiamente prevedibile e come era stato previsto da molti suoi critici.

In Europa ha portato, infatti, alla nascita di diverse centinaia di énclave, cioè di ghetti vere e proprie, spesso ai margini delle grandi capitali che sono in sostanza territori perduti alla civiltà europea. La più famosa è Molenbeek, a Bruxelles di dove sono usciti i terroristi che nel gennaio del 2015 attaccarono Parigi. In Francia sono chiamate “zones urbaines sensibles” e secondo il ministero dell’Interno transalpino ce ne sono oltre 750 e ci vivono cinque milioni di musulmani. In Germania ce ne sono diverse decine e le chiamano “aree problematiche” (Problemviertel). Si tratta di aree con grandi concentrazioni di migranti, elevati livelli di disoccupazione e dipendenza cronica dal welfare, abbinati al decadimento urbano, incubatori di anarchia e islamismo. La stessa cosa avviene in Olanda e Belgio. Ci sono aree simili nelle grandi città inglesi come Birmingham, Bradford, Derby, Dewsbury, Leeds, Leicester, Liverpool, Luton, Manchester, Sheffield, Waltham Forest a nord di Londra e Tower Hamlets nella parte orientale della capitale. Da questi ghetti sono usciti quei lupi solitari che hanno insanguinato Londra ed altre città inglesi.

“Il multiculturalismo ha provocato delitti d’onore, mutilazioni genitali femminili e legge della sharia”, ha affermato l’ex arcivescovo di Canterbury, Lord Carey. In quelle zone gli immigrati, comunque non vivono come a casa loro. Il paradossale effetto del multiculturalismo è che la shari’a da tempo non viga più nella gran parte dei Paesi musulmani e prosperi invece proprio in quei territori perduti dell’Europa. Paesi come il Regno Unito, i Paesi Bassi e la Francia riconoscono i matrimoni poligamici se sono stati contratti all’estero. Downing Street stima che ogni anno avvengano circa tremila matrimoni forzati. In Svezia si parla di oltre 70mila ragazze musulmane non libere di sposare chi vogliono.

In Europa risultano “scomparse” migliaia di ragazze musulmane già cittadine europee. Di solito partono per un viaggio all’estero e non tornano più a scuola o sul posto di lavoro. A queste vanno aggiunte le “vergini suicide”, le ragazze che si uccidono per sfuggire a un matrimonio forzato. Secondo l’Unicef, in Europa ci sono almeno mezzo milione di ragazzine che hanno subito la pratica della mutilazione genitale. L’aspetto più paradossale del multiculturalismo è che diventa un razzismo surrettizio degli anti-razzisti. Congela e cristallizza le culture tradizionali e più primitive per cui africani, arabi, pakistani e musulmani sono imprigionati nella loro storia e nelle loro tradizioni e, in pratica, non riconosce loro gli stessi diritti fondamentali che sono retaggio comune degli occidentali e – per il liberalismo –di tutti gli uomini.

Il fallimento di un’illusione

Insomma, il multiculturalismo è fallito sia come teoria che come progetto pratico come hanno riconosciuto tra gli altri David Cameron, Angela Merkel ed altri leader europei. Tuttavia, esso sopravvive come ideologia in molti intellettuali e giornalisti come un dogma duro a morire, che è divenuto parte integrante di quell’ideologia antioccidentale che è il pensiero unico politicamente corretto. Per questo esso sta provocando la rinascita di reati d’opinione, legati alla cosiddetta islamofobia: un’accusa che tende a criminalizzare chiunque critichi l’Islam e consente, soprattutto in Francia, a gruppi militanti di trascinare in tribunale decine di giornalisti e scrittori, e di organizzare contro di loro delle vere campagne mediatiche di demonizzazione. In definitiva, il multiculturalismo acuisce i conflitti culturali che voleva evitare, non protegge le persone che vorrebbe tutelare ed erode la civiltà liberale occidentale alle sue radici. È perciò da considerare un’arma ideologica nelle mani dei nemici dell’Occidente.



Il meticciato per forza di Bergoglio
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Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Il Politicamente corretto (PC): un crimine contro l'umanità

Messaggioda Berto » ven nov 26, 2021 1:33 pm

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Messaggioda Berto » ven nov 26, 2021 1:34 pm

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Messaggioda Berto » ven nov 26, 2021 1:34 pm

29)
La demenziale guerra alla parole



Quando le parole sono malate
Maurizio Molinari
30 luglio 2021

https://www.repubblica.it/editoriali/20 ... 312290877/

Alle 14.15 di ieri, giovedì 29 luglio, la parola "razza" è comparsa all'improvviso sugli schermi dei nostri computer quando, per un errore burocratico, è stata recapitata per email ad ogni giornalista un'informativa sulla privacy nella quale si elencavano i dati personali sensibili che sarebbero potuti essere oggetto di trattamento. L'intervento dei redattori e dell'azienda ha consentito di identificare e correggere in tempi rapidi una procedura che, ancorché pensata per tutelare i diritti dei lavoratori e redatta in osservanza delle norme sulla privacy, appariva il suo esatto contrario. Un errore, appunto.

Ma poiché siamo un giornale che si distingue proprio nella tutela delle libertà fondamentali siamo andati oltre. Abbiamo voluto comprendere da dove arrivava in un documento sulla privacy l'agghiacciante definizione "origine razziale o etnica" riferita ad una delle categorie dei dati personali sensibili passibili di trattamento. Come fosse possibile che a 83 anni dall'infamia delle Leggi Razziali ed a 76 anni dalla sconfitta del nazifascismo la parola "razza" continuasse a inquinare il nostro linguaggio.

L'esito è stato inequivocabile: una delle parole più malate della Storia d'Europa compare nel testo del Regolamento Ue 2016/679, che al comma 1 dell'articolo 9 parla di "origine razziale o etnica", con il risultato di veicolarla nel nostro ordinamento con il decreto 101 del 2018. Ovvero, nei testi del Codice Privacy della Repubblica italiana si parla di "razza". Poiché è una parola che racchiude il seme dell'odio, la Francia nel 2018 e la Germania nel 2020 l'hanno abolita dalle loro Costituzioni.

E dunque ci batteremo per espellerla dai testi ufficiali Ue come dalle nostre leggi, incluso l'articolo 3 della Costituzione. Perché la persistenza di definizioni aberranti nel linguaggio burocratico nasce dalla carenza di coraggio nel fare i conti con la Storia.




Il caso della parola razza

Non vi è nulla di razzista nelle razze animali
viewtopic.php?f=196&t=2966

Non vi è nulla di razzista nelle razze animali, si tratta solo della naturale varietà e diversità di tutti gli esseri viventi (e delle loro comunità) e di tutte le cose, tra cui anche l'uomo che è una specie animale.
Le razze sono un bene e non un male.

https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 2923470733

https://www.filarveneto.eu/wp-content/u ... 68x302.jpg
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"Vogliono eliminare la parola donna": bufera su Margaret Atwood
Roberto Vivaldelli
Il politicamente corretto lincia la Atwood
22 Ottobre 2021 - 15:49

https://www.ilgiornale.it/news/mondo/vo ... 83897.html

La nota scrittrice canadese, 81 anni, ha pubblicato un articolo d'opinione che lancia l'allarme sul rischio che la parola "donna" possa essere "eliminata" dal politically correct

"Vogliono eliminare la parola donna": bufera su Margaret Atwood

È diventato veramente complesso al giorno d'oggi per una persona un po' in vista, nell'era del pensiero unico politicamente corretto e della woke supremacy, poter esprimere liberamente il proprio pensiero senza rischiare di dover fare i conti con l'inquisizione laica della cancel culture. A finire nel mirino degli indignados della correttezza politica questa volta è Margaret Atwood, 81 anni, una delle voci più note della narrativa e della poesia canadese famosa in tutto il mondo. Più volte candidata al Premio Nobel per la letteratura, Atwood ha vinto premi prestigiosi quali il Booker Prize nel 2000 per L'assassino cieco e nel 2008 il premio Principe delle Asturie. Nel 2017 ha inoltre ricevuto il prestigioso Raymond Chandler Award, istituito da Irene Bignardi nel 1996 in collaborazione con il Raymond Chandler Estate. Laureata a Harvard, ha pubblicato oltre venticinque libri tra romanzi, racconti, raccolte di poesia, libri per bambini e saggi. Basta scorrere il suo profilo twitter, per comprendere come Atwood sia una donna di orientamento progressista e non certo una fervente conservatrice. .


Anche Atwood vittima del pensiero unico

Eppure, come spesso accade ultimamente, basta una frase, una parolina fuori posto, un pensiero fuori dal coro e non conforme, per scatenare la bufera. Anzi, basta addittura meno: è sufficiente condividere un link "sbagliato", come ha potuto constatare lei stessa quando ha condiviso ieri su Twitter e con i suoi 2 milioni di follower, un articolo di opinione del Toronto Star intitolato "Perché non possiamo più dire "donna?". Come riporta il Corriere della Sera, secondo l'autrice, Rosie DiManno, il termine "donna" sarebbe "a rischio di diventare una parolaccia" e potrebbe alla fine essere "sradicato dal vocabolario medico e cancellato dalla conversazione". Critica quella che le sembra una "infelice evoluzione del linguaggio" e "l'attivismo trans impazzito", ma garantisce che l'articolo non rappresenta "una tesi contro l'autoidentificazione di genere" e che sostiene la causa dell'uguaglianza Lgbtq. Nulla di nuovo per chi conosce la (dura) diatriba culturale in corso fra transgender e femministe radicali. Contro la povera scrittrice, subito accusata di "transfobia" sono piovute le critiche, osservazioni e - anche - gli insulti più disparati.


"Delusa da lei". Bufera sulla scrittrice

"Nessuno vieta la parola donna" le fa notare Katie Mack. "Molte organizzazioni stanno, giustamente, optando per un linguaggio preciso quando parlano di cose che hanno a che fare con tratti biologici piuttosto che con l'identità di genere. Non è un attacco alla femminilità non equiparare il genere alla biologia specifica". "Sono delusa dal tu lo abbia condiviso perché di fatto non è vero" afferma Mx. Amanda Jetté Knox. "Possiamo ancora dire "donna" e possiamo anche dire "persone" quando ha senso usare un linguaggio più inclusivo. Non sono binario. Ho anche le mestruazioni e ho dato alla luce 3 bambini. Dire persone con il ciclopersone include le donne. E me". Ma c'è anche chi ci va giù pù duro: "Per favore, non cadere in questa merda. La parola donna non è bandita. Ad esempio, dire 'persone' non esclude le donne. Le persone stanno semplicemente riconoscendo che possiamo usare un linguaggio inclusivo nelle discussioni che possono includere le donne, ma non esclusivamente".

Insomma, gli stessi critici ammettono che la parola "donna" sta scomparendo per far posto a un più inclusivo "persone". Ma ciò che è sempre più evidente che certe "libertà" a sinistra non si possono proprio contemplare. Soprattutto se si tratta di minoranze e diritti Lgbtq.






Dialogo tra il Signor A e il Signor B, da due mondi paralleli

Atlantico Quotidiano
Roberto Ezio Pozzo
24 Lug 2021

https://www.atlanticoquotidiano.it/quot ... paralleli/

Supponiamo che due individui vivano in mondi paralleli. I nostri due si chiamano, rispettivamente, A e B. Vediamo come vivono i due.

A può tranquillamente avere le proprie idee politiche e manifestarle liberamente senza finire in liste di proscrizione, senza dover vivere sotto scorta, senza doversene giustificare. Il solo limite è quello fissato dalle leggi penali.

B è costretto a schierarsi ed obbligato a dichiarare da che parte stia, viene accusato d’inciviltà e d’ignoranza animalesca qualora non la pensi come chi sta al governo, rischia di essere penalmente perseguito a causa del suo pensiero.

A può contare su una maggioranza di persone solidali, civili, pronte a dargli una mano disinteressatamente, di occuparsi prevalentemente degli affari suoi, del suo lavoro, della sua famiglia, nessuno lo obbliga a salvare il mondo.

B vive circondato da persone sospettose, pronte a denunciarlo e a emarginarlo, deve prima pensare a salvare il Pianeta da sempre nuove minacce, la difesa delle sue cose e dei suoi famigliari non è riconosciuta affatto, bene se lavora, ma se non lavora meglio ancora. Ci pensa lo Stato immettendolo in una categoria sorvegliata e dotata di tessera di riconoscimento da esibire nei negozi.

A si veste come vuole, possiede l’auto che vuole, ascolta la musica che vuole, può scegliere tra un’infinità di spettacoli di ogni tipo, non ha la benché minima idea delle opinioni politiche dei suoi attori e cantanti preferiti, i quali hanno avuto successo per capacità artistitica.

B deve vestirsi come va di moda, sennò viene puntualmente trattato da sfigato, ascolta la musica di regime, sempre la stessa che gli viene propinata. Stessa cosa per cinema, teatro e televisione: tutti propongono la stessa zuppa e tutti gli artisti devono dichiarare come votano. Attenzione ad andare al concerto del cantante sbagliato: addirittura si rischia.

A vota come vuole, non è tenuto a dire come ha votato, se intende appoggiare un partito ne acquista la tessera e lo stesso per il sindacato. Può scegliere di sostenere il partito che vuole tra un’offerta assai vasta e variegata nelle minime sfumature e, almeno per qualche anno, può stare ragionevolmente certo che tali idee rimarranno coerenti con i principi fondamentali di quel partito. Esiste una destra, un centro, una sinistra. Ogni tanto, un politico di ritira, si mette ad occuparsi d’altro ed esce dalla scena.

B vota come può, deve dichiararlo ad ogni piè sospinto, non ha un sindacato che rappresenti i suoi interessi perché da decenni i sindacati non servono più a nulla. Non sa cosa e chi votare e, soprattutto, aveva magari votato un partito di opposizione e lo trova al governo assieme a quelli che stanno ai suoi antipodi. Ogni mese ri-spunta un politico ritiratosi (a parole) anni prima, destra, centro e sinistra non esistono più, con buona pace di tutti e nessuno sdegno degli elettori per chi passa da un emiciclo all’altro del Parlamento: non è vergogna ma bensì un merito.

A se ha un problema legale, va dall’avvocato, se il problema è di salute, dal medico, se è morale va dal prete. In linea di massima ciascuno parla delle cose che conosce, che ha studiato, che costituiscono l’oggetto del suo lavoro. Difficilmente capita che il medico si metta a fare l’economista oppure che l’avvocato dia pareri medici. Si fa carriera, almeno formalmente ed ufficialmente, per merito; esistono donne in gambissima che rivestono ruoli d’alto rango ma anche donne palesemente incapaci, e lo stesso vale per gli uomini. Le uniche assunzioni obbligatorie si riferiscono agli invalidi.

B è costretto a subire la lezioncina di diritto dal farmacista, quella di economia dal geometra di Cuneo, le fini dissertazioni sul diritto costituzionale dal chi ha la laurea breve e la lingua lunga. Le donne sono per definizione tutte bravissime e perciò vengono imposte nelle assunzioni con criterio tabellare, perché essere capaci ed intelligenti, evidentemente, non basta. Degli invalidi non importa più un accidente a nessuno perché sono tutti troppo occupati a proteggere sempre nuove categorie di “soggetti deboli” e poi, da quando è obbligatorio chiamare i disabili “diversamente abili”, di quale aiuto possono aver mai bisogno se abili lo sono? Appartenere, invece, ad una delle nuove categorie protette rappresenta un privilegio assoluto, e se è uno schiaffo all’art. 3 della Costituzione pazienza.

Per avere successo nella vita bisogna mettere in piazza le proprie preferenze sessuali, con un occhio di riguardo per chi lo faccia con un mai richiesto outing. Meglio ancora se si dichiarano non meglio identificate brutte vicende domestiche delle quali si sia stati vittime in verde età. Vige la parità di genere ma se si appartiene ad un genere troppo banale e scontato non va nemmeno tanto bene. Ci vuole fantasia.

A ha la scuola dell’obbligo garantita, se vuole andare avanti lo fa di sua scelta, la laurea è il massimo grado d’istruzione e sono in minoranza coloro che ce la fanno fino alla fine del percorso di studi. In linea di massima, i bambini delle elementari hanno la schiena intatta e a nessun insegnante verrebbe in mente di caricare fino a 20 kg di libri sulle loro povere schiene. Gli insegnanti, dalle maestre ai professori universitari, sono perlopiù all’altezza del loro compito, a loro non si dà del “tu” e a scuola ci si va vestiti decentemente, per imparare vere materie di studio più che a fare politica, teatro e musica moderna (meglio se etnica, quella coi tamburoni). Non è la scuola ad adeguarsi agli studenti, ma vale il principio opposto. A scuola si studia.

B avrebbe la scuola dell’obbligo garantita ma i costi di moltissimi libri, oltre ai c.d. materiali didattici (non sempre indispensabili) tracciano un bel solco tra abbienti e meno abbienti. A scuola e all’Ateneo ci si va vestiti come in spiaggia o in discoteca, ma rigorosamente con le scarpe di plastica, che fanno benissimo. Vengono inaugurate ogni anno decine di nuove facoltà, alcune delle quali tanto inutili e bislacche che nemmeno si capisce dal nome di cosa si tratti. La promozione è la condizione di default e per essere bocciati bisogna, come minimo, aver preso a randellate un professore che abbia riportato lesioni con prognosi superiore ai 20 giorni s.c. Comunque, può contare su banchi a rotelle, borraccette in alluminio ed altri gadget di gran moda. Tutta la scuola, dall’asilo all’università si adegua agli studenti e cerca di non scontentarli mai, anche perché il pletorico corpo insegnante cosa farebbe? Una laurea non la si nega proprio a nessuno. In sostanza, una laurea non serve più ad un accidente perche tutti ce l’hanno ma, avendo abolito anche il prefisso “dott.”, chi se ne accorge? Viva l’uguaglianza!

Ebbene, il Signor A ha vissuto in Italia fino, all’incirca, all’anno 1990, mentre il Signor B vive nell’Italia di oggi.



UN PUNTO DI VISTA FANTASMA, MA SOLTANTO IN PUBBLICO

di Ernesto Galli della Loggia, Corriere delle Sera
Niram Ferretti
6 novembre 2021

https://www.facebook.com/permalink.php? ... 4575318063

Essere culturalmente e ideologicamente, non politicamente, conservatori in Italia è facile. Anche perché fondamentalmente conservatore, come si sa, è il nostro Paese. Ma è facile esserlo in privato. Non è facile per nulla, invece, avere una voce di tipo conservatore nel dibattito pubblico. Esprimere un punto di vista diverso, magari critico o addirittura contrapposto rispetto alla cultura progressista, ma con la speranza che tale punto di vista non venga bollato all’istante come inconcepibile, retrogrado, privo di qualunque ragionevolezza, magari espressione di una cieca disumanità. Ma al contrario entri, come dicevo sopra, nell’arena pubblica, nel circuito dei media che contano. L’ennesima riprova si è avuta dalle reazioni al voto contrario del Senato sul disegno di legge Zan. «Vergognatevi» ha titolato l’indomani un quotidiano a tutta pagina, rivolgendosi evidentemente agli oppositori della legge ed esprimendo in una sola parola il sentimento largamente prevalente in tutto il sistema dei media più accreditati. Ma vergognarsi di cosa? No di certo del fatto che la bocciatura fosse avvenuta con il voto segreto, immagino, dal momento che , guarda caso, proprio con un eguale voto segreto — deciso allora dal presidente Fico e nell’assenza di qualunque protesta — la legge passò un anno fa alla Camera, un particolare tuttavia pudicamente sottaciuto dal fronte degli odierni scandalizzati. I quali invece si servono oggi dell’uso da parte dei loro avversari del voto segreto per dipingerli come una subdola congrega di congiurati usi a colpire nell’ombra. Inoltre, visto che come i fatti hanno mostrato la maggioranza del Senato era contraria alla legge, mi chiedo: i sostenitori della legge Zan pensano forse che invece sarebbe stato meglio, più conforme alle regole della libera rappresentanza, che il voto palese avesse obbligato gli avversari della legge a votare contro il proprio convincimento? È questo che bisogna intendere per democrazia parlamentare?
Di che cosa, allora, avrebbero dovuto vergognarsi gli oppositori della legge? Suppongo di non voler proteggere chi è vittima di disprezzo o di aggressione a causa del proprio orientamento sessuale, e perciò di essere più o meno larvatamente a favore della discriminazione e della violenza contro omosessuali, trans ecc. E sicuramente è questa oggi la convinzione della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica progressista. La quale però, mi pare che non abbia avuto modo di riflettere a sufficienza su due punti importanti della legge Zan. Sull’articolo 4 — che nelle materie di sesso stabiliva essere assicurata a chiunque la «libera espressione di convincimenti ed opinioni purché non idonee a determinare il concreto pericolo di atti discriminatori e violenti» — e sull’articolo 7 che stabiliva una giornata nazionale, da celebrare nelle scuole, contro l’omofobia, la transfobia, ecc. al fine tra l’altro di «contrastare i pregiudizi motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere».
Bene. Ma chi decide quale convincimento o opinione è o non è «idoneo» a determinare un «pericolo concreto» di violenza legato all’orientamento sessuale? E chi decide nella medesima materia la differenza tra un giudizio (consentito) e un «pregiudizio» (viceversa sanzionato)? È ammissibile allora, mi chiedo, trattandosi di un bene tra quelli supremi garantiti dalla Costituzione come la libertà di pensiero, una tale vaghezza? Un tale indeterminato ricorso all’opinione di questo o quel tribunale? Personalmente sono sicuro che in grande maggioranza anche l’opinione progressista del Paese una simile domanda non avrebbe mancata di porsela. Ovviamente a una condizione: se essa fosse stata adeguatamente informata circa la legge di cui stiamo parlando.
Qui si tocca il punto nevralgico di cui dicevo all’inizio. Il fatto cioè che nel nostro Paese in specie dopo la scomparsa politica dei cattolici e l’avvento di una società massicciamente secolarizzata è diventata estremamente difficile l’espressione pubblica di un punto di vista che non accetti a occhi chiusi il punto di vista della cultura progressista. Riemerge con forza l’antica mancanza di educazione democratica del Paese sicché qualsivoglia opinione dissenziente tende a essere immediatamente classificata come puramente reazionaria e a essere quindi messa al bando. È in questo clima che una voce di orientamento conservatore opposta al dominio del politicamente corretto diviene pressoché impossibile. O per essere più precisi, un tale punto di vista può benissimo essere manifestato ma è quanto mai improbabile che esso venga preso realmente in considerazione dalla discussione pubblica ufficiale e trattato come un normale elemento del dibattito culturale alla pari con quelli di segno contrario.
Nell’arena pubblica specie radiotelevisiva capita quasi sempre, infatti, che il punto di vista culturalmente conservatore sia implicitamente spogliato di qualunque contenuto e dignità ideali, e quindi preliminarmente stigmatizzato come indegno di vera considerazione. Al massimo trattato soltanto come frutto di una posizione puramente politica, ridotto in sostanza a un’espressione di partito. Esso viene sottoposto cioè a un meccanismo di depotenziamento e soprattutto di declassamento. Viceversa il punto di vista ispirato ai canoni del politicamente corretto progressista viene sempre presentato come un punto di vista che ha sì conseguenze di tipo politico, ma che soprattutto è suffragato dalla più accreditata modernità culturale. Cioè dal bene per antonomasia. Negli studi televisivi che fanno opinione la modernità diviene un feticcio solo da adorare; quanto poi pensa o decide l’Europa assurge a compimento del progresso e delle sue prescrizioni politiche o morali. Tanto è vero che nel dibattito televisivo di prammatica a illustrare queste ultime sarà di regola chiamato il noto scrittore X o il brillante filosofo Y, a obiettare ad esse, invece, un qualche maldestro parlamentare della Lega o di Fdi , al massimo il giornalista di qualche foglio di destra.
I temi etici o attinenti i costumi sessuali costituiscono l’ambito elettivo di questa finta discussione alla pari di cui si compiace 24 ore su 24 praticamente l’intero sistema dei media del Paese o perlomeno quelle sue parti che contano. Realizzando così la virtuale esclusione dal dibattito pubblico di un gran numero di cittadini. Ma nelle società attuali essere esclusi dal dibattito pubblico significa di fatto essere esclusi dalla democrazia, dal suo cuore pulsante di ogni giorno, significa non essere riconosciuti, vedersi negata una rappresentanza essenziale, forse più essenziale di quella elettorale. Significa essere dichiarati cittadini di serie B e quindi spinti a rinunciare a partecipare alla vita pubblica o ad abbracciare posizioni di rottura. Significa la trasformazione del regime democratico in un’insopportabile oligarchia di depositari della virtù civica e della presunta verità dei tempi.


La vera storia della beat generation e lo schiaffo di Jack Kerouac ai radical chic
Autore Luca Gallesi
28 Ottobre 2021

https://it.insideover.com/societa/la-ve ... ation.html

Quando si parla di beat generation, molti immaginano un branco di yankee smidollati, tendenzialmente progressisti, poco inclini all’igiene personale e molto dediti al consumo di droghe o altre sostanze inebrianti utili a mantenere perenne lo stato di alterazione. La realtà, però, è diversa, e ci rimanda a una generazione, quella americana degli anni Cinquanta, che sotto alcuni aspetti si ricollega idealmente più ai giovani avventurosi che seguirono D’Annunzio a Fiume nel 1919 piuttosto che agli hippie barbuti che affollarono Woodstock nel 1969.

Tanto per cominciare, il precursore riconosciuto del movimento beat, Jack Kerouac, autore del celeberrimo On the Road e inventore del termine beat, inteso da lui come abbreviazione di beatitude, è cattolico in religione, conservatore in politica e buon patriota nella vita. Classe 1922, appassionato di libri, football e belle ragazze, Kerouac sembra avviato a una promettente carriera come giocatore di quando si rompe una gamba e deve ripiegare sulla letteratura, senza rinunciare ovviamente alla frequentazione del gentil sesso. Spirito libero, Kerouac non si accontenta dell’apparente benessere offerto dalla società americana uscita vincente dall’immane conflitto mondiale, e reagisce all’insensatezza del sogno consumistico ispirandosi ai numi tutelari della letteratura Usa: Walt Whitman, Ralph Waldo Emerson e Henry David Thoreau, in qualche modo accomunati dall’amore per l’America profonda della natura selvaggia e dal rifiuto di ogni costrizione, anche e soprattutto letteraria.

La sfida con gli intellettuali chic

Il forte individualismo e lo sdegno per la vita comoda lo pongono subito in contrasto con i giovani intellettuali alla moda che pontificano dalle colone della Partisan Review o dalla aule della Columbia University, più interessati a costruirsi una brillante carriera che a crearsi una vita degna di essere vissuta. Kerouac sceglie di vivere, e si inabissa nei vortici di una esistenza superficialmente disordinata, ma disciplinata interiormente dalla ferma volontà di diventare uno scrittore vero, libero e aperto al mondo. Ecco alcune delle sue regole letterarie:

Riempi di annotazioni i tuoi taccuini segreti e scatenati selvaggiamente sulla macchina per scrivere, per la tua gioia
Aperto sempre, ascolta tutto
Non ti ubriacare mai fuori dalla tua casa
Ama la vita

Il risultato è evidente nella sua prosa, fatta di interminabili e veloci paragrafi che stordiscono il lettore: “Le persone che mi interessano sono solo quelle pazze, pazze di vita, pazze di salvezza, pazze di discorsi, quelle che desiderano tutto subito, quelle che non sbadigliano mai né mai parlano per luoghi comuni ma bruciano, bruciano, bruciano come delle meravigliose candele gialle romane che esplodono come ragni tra le stelle….”

Quel sostegno alla destra repubblicana

La sua ricerca lo conduce “sulla strada”, dove incontra altri ribelli come lui, accomunati dalla vitalità, dall’ansia e da un impegno che non assume caratteristiche politiche: per lui e i suoi sodali, la politica è “soulless”, senz’anima, dato che il dovere della politica è addomesticare gli individui liberi e ribelli. Questo, però, non gli impedisce di manifestare delle opinioni, che sono decisamente conservatrici: esprime, infatti, pubblico sostegno alla nomina presidenziale del candidato repubblicano più a destra, il Senatore Robert Taft, e manifesta simpatia addirittura per il Senatore Joseph McCarthy, poiché provava ripulsione per le idee comuniste, considerandole qualcosa assolutamente non-americano.

Racconta un amico di Kerouac, lo scrittore Jack McClintock, che una volta, durante una festa a casa di Ken Kesey (l’autore di Qualcuno volò sul nido del Cuculo), a New York, Allen Ginsberg si avvicinò di soppiatto a Kerouac e, per prenderlo in giro lo avvolse in una grande bandiera a stelle e strisce. Senza dire una parola, Kerouac si girò, ti tolse con delicatezza la bandiera e la piegò molte volte con accuratezza, come si fa quando si vuole onorare un caduto, e la appoggiò sul divano, sgridando Ginsberg: “La bandiera non è uno straccio”.

Morì qualche anno dopo, nemmeno cinquantenne, distrutto dall’alcol e prosciugato dal successo. Sulla sua tomba un epitaffio, semplice ma esauriente: “He Honored Life”. Non possiamo dire altrettanto di molti suoi colleghi.


- "LA TIRANNIA DEL POLITICAMENTE CORRETTO: UNA PAROLA "SBAGLIATA" E SEI MORTO"
Terry Gilliam è stato cacciato dal teatro londinese "Old Vic", dove avrebbe dovuto dirigere la commedia musicale "Into the Woods", per le sue opinioni e le sue battute sulla folle deriva prigressista in merito alla cancel-cultur, all'ideologia gender, al movimento MeToo eccetera.
Gilliam avrebbe detto: “Non si può più ridere di nessuno. Sono stanco, come maschio bianco, di essere incolpato di qualsiasi cosa. Perciò voglio che mi chiamate Loretta, lesbica nera in transizione".
Da Dagospia
E per questa battuta, così come tantissimi altri trasgressori occidentali del politically correct, è stato silurato. Ci rendiamo conto che non solo siamo al ridicolo ma che ci stanno privando anche della libertà di opinione e di pensiero?
E meno male che non è passata la zan con la quale, per una simile e innocua battuta, si sarebbero potuti rischiare 6 anni di carcere... e Zac!
Terry Gilliam è regista ed ex membro dei “Monty Python”.

https://www.dagospia.com/rubrica-29/cro ... 288482.htm



L'università coraggio che sfida il politically correct
Usa, nasce ad Austin l'Università che si oppone alla dittatura "Woke"
Roberto Vivaldelli
9 Novembre

https://www.ilgiornale.it/news/mondo/us ... 1636478454

Pano Kanelos, ex rettore del St. John College di Annapolis, ha annunciato la nascita della University of Austin. Università libera e indipendente, contro il dilagare del politically correct e della woke supremacy. Fra i docenti anche Kathleen Stock

Usa, nasce ad Austin l'Università che si oppone alla dittatura "Woke"

"Ho lasciato il mio incarico di presidente del St. John's College di Annapolis per costruire un'università ad Austin dedicata alla ricerca, senza paura della verità". Così Pano Kanelos, ex rettore del St. John College di Annapolis ha annunciato sul blog dell'ex giornalista del New York Times, Bari Weiss, la nascita della University of Austin, istituto che si oppone al pensiero unico politicamente corretto e la "woke supremacy" che dilagano nei campus statunitensi. Kanelos racconta di una situazione drammatica per il libero pensiero: "Quasi un quarto degli accademici americani nelle scienze sociali o umanistiche - spiega Kanelos - approva l'espulsione di un collega che ha un'opinione 'sbagliata' su questioni scottanti come l'immigrazione o le differenze di genere. Oltre un terzo degli accademici conservatori e degli studenti di dottorato afferma di essere stato minacciato di azioni disciplinari per le loro opinioni. Quattro su cinque dottorandi americani sono disposti a discriminare gli studiosi di destra, secondo un rapporto del Center for the Study of Partisanship and Ideology". Lo "psicoreato" di orwelliana memoria è già realtà.

Il clima opprimente del politically correct nei campus Usa

E se fra gli accademici la situazione è drammatica in tema di pensiero critico, fra gli studenti universitari va addirritura peggio. Ad esempio, nel Campus Expression Survey 2020 della Heterodox Academy, il 62% degli studenti universitari intervistati ha convenuto sul fatto che il clima nel loro campus "ha impedito agli studenti di dire cose in cui credono". I docenti che si oppongono ai dogmi del politicamente corretto e della neolingua vengono emarginati e boicottati. Dorian Abbot, uno scienziato dell'Università di Chicago che si è opposto all'azione positiva come strumento che mira a promuovere la partecipazione di persone appartenenti alle minoranze, non ha potuto tenere un'importante conferenza pubblica al Mit sul clima; Peter Boghossian, professore di filosofia alla Portland State University, si è dimesso lo scorso settembre dopo anni di pressioni da parte dei colleghi per le sue prese di posizione ("la sinistra regressiva ha preso il sopravvento sul mondo accademico", dichiarò); a questi si aggiunge il caso di Kathleen Stock, professoressa lesbica e femminista delll'Università del Sussex, la quale si è recentemente dimessa dopo che le associazioni trasngender l'hanno apertamente minacciata per le sue dichiarazioni su sesso e genere. "Pensavamo che una simile censura fosse possibile solo sotto regimi oppressivi in terre lontane. Ma si scopre che la paura può diventare endemica in una società libera" sottolinea Kanelos. È il volto feroce e totalitario del progressismo liberal e della politica identitaria che certa sinistra ha sposato negli ultimi anni.

Le Università non sono più libere ma luoghi di conformismo e oppressione

Come sottolinea l'ex rettore del St. John College di Annapolis, la maggioranza delle Università americane non è più libera. Non sono più luoghi dove si educa al pensiero critico che, al contrario, viene schernito e oppresso in nome del rispetto delle minoranze e dell'inclusività. "La realtà - spiega Kanelos - è che molte università non sono più incentivate a creare un ambiente in cui il dissenso intellettuale sia protetto". Le università, prosegue, sono i luoghi dove si plasmano le abitudini e i costumi dei nostri cittadini. Se queste istituzioni non sono aperte e pluralistiche, "se inibiscono la parola e ostracizzano coloro che hanno punti di vista impopolari, se portano gli studiosi a evitare interi argomenti per paura, se danno la priorità al conforto emotivo rispetto alla ricerca spesso scomoda della verità, a chi sarà lasciato modellare il discorso necessario per sostenere la libertà in una società che si autogoverna?".

Da qui l'idea di lanciare il progetto di un'Università libera dagli schemi, l'Università di Austin, progetto ambizioso che vede la partecipazione, fra gli altri, dei già citati docenti Kathleen Stock, Dorian Abbot e Peter Boghossian oltre a Niall Ferguson, Bari Weiss, Heather Heying, Joe Lonsdale, Arthur Brooks e numerosi artisti e filantropi, fra cui, Lex Fridman, Andrew Sullivan, Rob Henderson, Caitlin Flanagan, David Mamet, Ayaan Hirsi Ali, Sohrab Ahmari, Stacy Hock, Jonathan Rauch e Nadine Strossen. Come spiega Kanelos, il progetto incontrerà molte resistenze e boicottaggi, visto il clima opprimente in questo mondo. Ma è sicuramente uno spiraglio di luce in un'oscura atmosfera di conformismo e pensiero unico.


Nasce ad Austin l'università dei dissidenti della cancel culture
Piero Vietti
9 Novembre 2021

https://www.tempi.it/universita-austin- ... oghossian/

«Nei nostri campus, i docenti vengono trattati come criminali del pensiero. A Dorian Abbot, uno scienziato dell’Università di Chicago che si è opposto alle conseguenze della “affirmative action”, è stato recentemente impedito di tenere un’importante conferenza pubblica sul clima al MIT. Peter Boghossian, professore di filosofia alla Portland State University, si è dimesso dopo anni di molestie da parte di docenti e amministratori. Kathleen Stock, una professoressa dell’Università del Sussex, si è appena dimessa dopo che la folla l’ha minacciata per le sue ricerche su sesso e genere. Pensavamo che una simile censura fosse possibile solo sotto regimi oppressivi in terre lontane. Ma si scopre che la paura può diventare endemica in una società libera. E può diventare più acuta in un luogo – l’università – che dovrebbe difendere “il diritto di pensare l’impensabile, discutere l’innominabile e sfidare l’incontestabile”».

L’intrepida ricerca della verità

Con queste parole pubblicate ieri sul Substack di Bari Weiss, Pano Kanelos, ex rettore del St. John College di Annapolis ha annunciato la nascita della University of Austin, Università «ferocemente indipendente» e alternativa, scopo fondamentale «l’intrepida ricerca della verità». «Non possiamo aspettare che le Università si sistemino da sole. Ecco perché ne iniziamo una nuova». Il progetto è grande e ambizioso, una provocazione che non potrà lasciare indifferenti professori, giornalisti e intellettuali liberal che si trovano a loro agio nel clima di caccia alle streghe e censura che ha invaso giornali, università e cultura americani.

Da Niall Ferguson ad Ayaan Hirsi Ali

L’idea è nata inizialmente da un gruppo di persone «preoccupate per lo stato dell’educazione superiore». I nomi sono noti anche al di fuori degli Stati Uniti: Niall Ferguson, Bari Weiss, Heather Heying, Joe Lonsdale, Arthur Brooks, Kathleen Stock (di cui abbiamo parlato qui), Dorian Abbot, Peter Boghossian (intervistato sul numero di ottobre di Tempi). Ci sono rettori importanti come Robert Zimmer, Larry Summers, John Nunes e Gordon Gee, accademici noti come Steven Pinker, Deirdre McCloskey, Leon Kass, Jonathan Haidt, Glenn Loury, Joshua Katz, Vickie Sullivan, Geoffrey Stone, Bill McClay e Tyler Cowen. Con loro ci sono giornalisti, artisti, filantropi, ricercatori e intellettuali tra cui Lex Fridman, Andrew Sullivan (di cui avevamo scritto qui), Rob Henderson, Caitlin Flanagan, David Mamet, Ayaan Hirsi Ali, Sohrab Ahmari, Stacy Hock, Jonathan Rauch, e Nadine Strossen.

Una bomba che non può non fare simpatia a chi guarda con preoccupazione alle conseguenze culturali dell’ideologlia woke che silenzia i non allineati, rovina le carriere a chi si oppone, licenzia chi “offende” qualche minoranze con le proprie opinioni e adesso vuole anche riscrivere i programmi di matematica. Un annuncio fatto ieri a “reti unificate” da tutti i protagonisti, ciascuno sul proprio blog o giornale (qui gli articoli di Niall Ferguson e Joe Lonsdale, qui l’account Twitter della nuova Università).

Non sono solo conservatori

È una svolta importante nella resistenza all’ondata woke che domina le culture war in America, e non è soltanto reazionaria e conservatrice. Innanzitutto perché molti dei fondatori della University of Austin non sono conservatori, ma arrivano dal mondo progressista, semplicemente si sono accorti che qualcosa non andava. Molti di loro hanno subito conseguenze sul posto di lavoro perché non allineati fino in fondo al dogma politicamente corretto su razza, gender e femminismo.

«Siamo un equipaggio dedito che cresce di giorno in giorno. I nostri background sono diversi, le nostre opinioni politiche differiscono. Ciò che ci unisce è un comune sgomento per lo stato dell’accademia moderna e il riconoscimento che non possiamo più aspettare la cavalleria. Dobbiamo essere la cavalleria». La nascita dell’Università di Austin, «una scuola vera e propria in un edificio reale con il minor numero di schermi possibile», dice più di tanti editoriali e lamentele sui social che esistono controtendenze creative, non tutto va dalla stessa parte, anche se il sistema gira in un solo verso.

Il clima nelle Università? Pessimo

«Quasi un quarto degli accademici americani nelle scienze sociali o umanistiche pensa sia giusto licenziare un collega che ha un’opinione considerata sbagliata su questioni scottanti come l’immigrazione o le differenze di genere. Oltre un terzo degli accademici conservatori e dei dottorandi afferma di essere stato minacciato di azioni disciplinari per le proprie opinioni. Quattro dottorandi su cinque si dichiarano disposti a discriminare gli studiosi di destra».

Non solo: «Il 62 per cento degli studenti universitari intervistati per un sondaggio pensa che il clima nel proprio campus abbia impedito loro di parlare delle cose in cui credono. Quasi il 70 per cento degli studenti è d’accordo a segnalare ufficialmente i professori che dicono qualcosa che gli studenti trovano offensivo. Dal 2000 a oggi circa 250 campagne di boicottaggio nelle Università hanno avuto successo».

Il rischio “riserva dei reietti”

In questo clima assurdo questo manipolo di persone poco inclini al mainstream ha fatto qualcosa di concreto. Il successo di questo tentativo dipenderà da moltissime variabili, come ovvio: dai finanziatori che dovranno essere molti e generosi, ma anche da come il sistema accademico reagirà alla sfida. Se fare parte di questa Università renderà impossible accedere al sistema delle pubblicazioni accademiche il rischio che diventi una riserva dei reietti è concreto.

È presto per dirlo, per ora non si può che applaudire al coraggio di chi, isolato, si è messo insieme per dire qualcosa di diverso dalla narrazione solita che racconta un mondo – quello americano e quello occidentale – diverso da come è in realtà. A dodici ore dall’annuncio ufficiale, erano già oltre 900 gli accademici candidati per un posto. «Le università sono i luoghi in cui la società pensa, dove si plasmano le abitudini e i costumi dei nostri cittadini», scrive ancora Kanelos. «Se queste istituzioni non sono aperte e pluraliste, se raffreddano il discorso e ostracizzano coloro che hanno punti di vista impopolari, se portano gli studiosi a evitare interi argomenti per paura, se danno la priorità al comfort emotivo rispetto alla ricerca spesso scomoda della verità, chi sarà modellerà il discorso necessario per sostenere la libertà in una società che si autogoverna?».
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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