La dittatura del politicamente corretto
Oggi non si può più dire nulla, il moralismo sta mortificando la libertà d’espressione, il bigottismo censura l’arte, il dialogo tra uomini e donne è diventato impossibile!
La dittatura del politicamente corretto ci sta soffocando tutti? Stiamo diventando vittime di un perbenismo linguistico che censura e omologa le nostre opinioni?
Ne parliamo nel nuovo episodio di Quasidì in cui partiamo, come sempre, dalle basi: cos’è davvero il politicamente corretto e quali effetti ha sulla nostra libertà di parola?
Ascolta ora l’episodio
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Trascrizione della puntata
È un calco dalla locuzione angloamericana politically correct. Nasce infatti in ambito statunitense, intorno agli anni 30 del Novecento ma assunse dimensioni significative soprattutto dagli anni 80 quando si riuscirono a sradicare delle consuetudini linguistiche ritenute offensive nei confronti delle minoranze (fu allora che, ad esempio, afroamericano sostituì la n word). Infatti la battaglia principale del politicamente corretto è proprio quella sulla lingua e su un uso più rispettoso del linguaggio.
Il politicamente corretto nasce quindi in un contesto progressista, di sinistra, e trova terreno fertile specialmente nei college americani in cui si propugnava l’idea dell’università come grande luogo di promozione della giustizia sociale. Proprio qui cominciarono a diffondersi dei precisi regolamenti verbali (gli speech codes) che sottoponevano a sanzioni amministrative tutti coloro che si fossero abbandonati a un linguaggio razzista, sessista, omofobo ecc…
Leggiamo qualche esempio su Treccani. Sul piano economico e sociale i paesi del terzo mondo sono denominati in via di sviluppo, la ottimizzazione delle dimensioni aziendali o la ridistribuzione delle risorse umane sostituiscono il licenziamento di massa, le categorie svantaggiate come i poveri sono designate non abbienti, imprenditori si preferisce a padroni. In generale sono da evitare le forme non marcate dal punto di vista del genere (diritti della persona al posto di diritti dell’uomo); oppure espressioni tradizionalmente connotate in modo discriminatorio, ad esempio per quanto riguarda i nomi delle professioni (come bidello o becchino, a cui si dovrebbero preferire espressioni neutre come operatore scolastico e operatore cimiteriale).
È vero: certe forzature appaiono paradossali e anche ridicole nel loro tentativo di purificare in maniera coatta la lingua dei parlanti. Il linguista Arcangeli riporta dei casi eclatanti. “A Santa Cruz un amministratore dell’Università di California si è scagliato contro espressioni quali a nip in the air ‘un freddo pungente’ e a chink in one’s armor ‘un punto debole’ «perché contengono vocaboli che in altre accezioni esprimono disprezzo razziale». Nell’inglese d’America, infatti, nip è termine denigratorio per ‘giapponese’, chink termine denigratorio per ‘cinese’. Sarebbe come se da noi, variatis variandis, qualcuno proponesse di bandire dall’uso una parola come finocchio soltanto perché in uno dei suoi significati è voce spregiativa per indicare un omosessuale”.
Il detrattore più famoso delle derive più ottuse del politicamente corretto è sicuramente il critico d’arte Robert Hughes che pubblica nel 1993 “La cultura del piagnisteo”. Secondo questa dottrina – mai apertamente enunciata ma ferocemente applicata –, tutto deve essere politicamente corretto: dai comportamenti sessuali ai gusti letterari, al modo di parlare, di vestirsi, di scrivere. Esisterebbe dunque un modo giusto di fare le cose, consistente anzitutto nell’adeguarsi ai desiderata di gruppi facinorosi e lamentosi d’ogni sorta, pronti a compattarsi in una maggioranza inquisitoria.
Un approccio più sistematico arriva invece dallo studioso Jonathan Friedman nel saggio “Politicamente corretto”. L’antropologo spiega: il politicamente corretto non è una questione di censura o ipocrisia linguistica, ma un più profondo fenomeno sociale, antropologico e politico. è «una forma di comunicazione e di categorizzazione», un regime linguistico e sociale relativamente indipendente dall’orientamento politico, infatti è usato sia a destra sia a sinistra, quindi è una forma o una struttura, non un contenuto ideologico. Secondo Friedman il politicamente corretto si basa sulla «cultura della vergogna» ovvero è un atteggiamento autocensorio di omologazione (non dico la parola x altrimenti gli altri mi marginalizzano e mi giudicano). Ma è anche connesso a un uso del linguaggio «associativo e classificatorio». Citiamo qui un articolo di Daniele Lo Vetere che analizza molto da vicino l’opera di Friedman e che ci fa capire cosa s’intende per uso associativo e classificatorio del linguaggio. “Incerti sulla nostra identità e sulla posizione che gli altri hanno rispetto a noi, prima ancora che considerare quello che ci stanno dicendo e la loro intenzione, abbiamo bisogno di capire da che posizione parlino e quali scopi extra-linguistici perseguano: dobbiamo scoprire i segni della loro personalità o della loro appartenenza a un gruppo o a un’ideologia, e, con essi, il valore sociale e d’uso delle loro parole (…) Le parole non vengono più prese stricto sensu, ma sono associate ai concetti contigui, in orizzontale o in verticale, per creare categorie ed etichette generali entro cui sussumere una varietà di fenomeni. In questo modo, dire “forse gli immigrati sono troppi” sarà interpretato come “certamente gli immigrati sono troppi”, quindi “gli immigrati non mi piacciono”, quindi “sei razzista”. Ecco cosa vuol dire uso associativo. Cioè si associano espressioni, termini e appellativi a tratti ideologici, culturali e politici del parlante. Se uso certi termini vengo incasellato in un determinato ruolo. Se uso la parola zingaro, se uso la parola ebreo ecc..
Chiaramente questo è un problema perché la realtà è infinitamente più sfaccettata e soprattutto il linguaggio è molto più complicato. Prendiamo sempre ad esempio Arcangeli.
“Tempo fa, nella veste di responsabile del progetto di un dizionario minimo di sinonimi commissionatomi proprio dall’Istituto Treccani, mi sorpresi a riflettere sulla scelta non molto felice di un mio redattore, che aveva ritenuto opportuno inserire tra i sinonimi di avaro il termine ebreo. Optai decisamente per il depennamento e oggi rifarei, senza la minima esitazione, la medesima scelta. Ma il problema resta. Sul piano sincronico, anzitutto: perché i dizionari dell’uso continuano a segnalare il termine ebreo nel significato di ‘avaro’ e in quello, semanticamente affine, di ‘usuraio’, nel migliore dei casi limitandosi ad accompagnare alla registrazione un giudizio morale. E sul piano diacronico, poi: perché lo stesso termine, negli stessi significati, è stato recepito dai nostri classici, da Foscolo a Carducci, ed è autorizzato dalla storia. Sarebbero allora da censurare scrittori scomodissimi e controversi come Louis-Ferdinand Céline, un Fëdor Michajloviã Dostoevskij, un Guy de Maupassant e, naturalmente, un Thomas Stearns Eliot o un Ezra Loomis Pound”.
Non è semplice avere delle risposte definitive a problemi di questo tipo. Abbiamo capito che il punto focale del politicamente corretto è la sensibilità linguistica che si fa specchio di una sensibilità culturale, una sensibilità culturale in continuo mutamento. Cosa succede allora oggi e perché si parla così insistentemente di censura e bigottismo? O addirittura di neolingua, con riferimenti inquietanti a 1984 e al Grande Fratello.
Cominciamo col dire che i talebani dell’anti-discriminazione rimangono comunque in minoranza rispetto a chi discrimina quindi il problema più grande al momento rimane sempre la discriminazione stessa. Ancora oggi la quantità di contenuti a forte connotazione razzista che viene prodotta consapevolmente o meno è ancora sconvolgente. Soltanto negli ultimi mesi abbiamo discusso di blackface grazie all’abbronzatura del nostro Ministro degli Esteri, Luigi Di Maio ma anche in occasione di un’esibizione in diretta sulla Rai al Tale e quale show in cui hanno ben pensato di dipingere la faccia di una cantante bianca di nero. Per chi non lo sapesse la blackface – nata nel 19esimo secolo – consiste nel truccarsi in modo marcatamente non realistico per assumere le sembianze stilizzate e stereotipate di una persona nera, con un evidente intento denigratorio.
Se ci fosse veramente una dittatura, tutto questo sarebbe impossibile invece purtroppo ci ritroviamo ogni giorno quando va bene a denunciare pubblicità sessiste e a segnalare tweet di dubbio gusto intellettuale, quando va male a cercare di capire perché ancora nel 2020 c’è bisogno di dire che black lives matter.
Chiarito questo punto per cui no, non potete parlare di attacco feroce alla libertà d’espressione se qualcuno vi dice di non usare appellativi ingiuriosi, possiamo però cercare di capire gli aspetti più problematici e critici della discriminazione. Perché sì, è vero che spesso si accusano le persone con troppa superficialità quando è utile capire come e perché si usano certi termini e spiegare perché non si dovrebbe invece di dire che no, non si usano e basta.
Partiamo dal presupposto che l’avvento di Internet e dei social ha portato a un cambio di paradigma epocale perché ha essenzialmente dato voce a chiunque e in particolare ha facilitato l’esposizione di categorie e gruppi fino a quel momento marginalizzati o per meglio dire invisibili, non rappresentati dalla narrazione dominante. Questo ci ha giustamente esposto a sensibilità diverse e ci ha fatto ascoltare pareri che prima erano silenziati. Un importante premessa infatti è che il politicamente corretto fallisce quando vuole proteggere un gruppo di individui discriminanti, senza nemmeno chiedere un parere al gruppo in questione. Ad esempio quando si parla di disabilità, si tende ad usare l’espressione diversamente abile – come da prescrizione per il politicamente corretto – ma siamo sicuri che le persone disabili siano contente di questa definizione? Non basta che suoni bene o male o che sia un termine neutro. è decisivo imparare ad ascoltare. Ecco perché spesso ci si indigna quando si invitano solo uomini a parlare di sessismo, è recentemente successo in occasione del Premio Strega. Vedi alla voce: Valeria Parrella e Corrado Augias.
Non possiamo decidere da soli cosa è giusto e cos’è sbagliato, cosa è offensivo e cosa non lo è. Bisogna chiedere alle categorie in questione. A volte è meglio sospendere il giudizio o informarsi bene. Il dubbio quindi è certamente un buon metodo d’azione. Purtroppo assai poco diffuso, si preferisce essere subito tranchant e un po’ giustizialisti, specialmente in Rete.
E’ un po’ l’atteggiamento di condanna e indignazione della cancel culture ovvero la pratica di considerare morto o comunque di cancellare un personaggio pubblico a seguito di affermazioni controverse o dichiaratamente discriminatorie. Uno degli esempi più recenti e importanti è legato alla famosa scrittrice J.K. Rowling, autrice della saga di Harry Potter. Rowling ha infatti espresso attraverso Twitter che le donne transessuali non sono vere donne, sostenendo quindi una posizione fortemente transfobica anche grazie ad altri tweet simili. Le critiche non si sono giustamente fatte attendere e le azioni intraprese sono quelle tipiche della cancel culture, ovvero togliere qualsiasi forma di supporto alla persona in questione. Dopo le affermazioni dell’autrice è stata pubblicata una lettera, durante l’estate del 2020 appunto, in cui molte figure di spicco legate al mondo della cultura, tra cui Rowling stessa, criticavano la cancel culture come un’azione che impedisce la libera circolazione delle idee, di come possa essere praticamente accostata a idee di censura vicine alla destra di Trump che rappresenta, cito “una vera minaccia per la democrazia”. Insomma, qui mi arriva il ribaltone, il rigiramento di frittata ideologica per eccellenza. La lettera non è lunghissima, ma quello che sottolinea è che oh però insomma, se certe persone vengono boicottate o criticate per quello che hanno detto insomma, siete dei fascisti che ci tappano la bocca e noi, dall’alto della nostra posizione di favore, dovremmo pur poter dire quello che pensiamo senza conseguenze.
Certo, una mancanza di dibattito è ciò che può dividere una dittatura da una democrazia e dobbiamo imparare a esprimerci ed evolverci restando all’interno di un contesto di rispetto reciproco. Nella lettera vengono citati esempi di conseguenze reali pagati da professori, autori e critici che perdono il lavoro, non vengono più coinvolti o vedono i loro libri ritirati. Addirittura viene scritto che alcuni responsabili perdono le loro cariche lavorative per quelli che a volte sono “just clumsy mistakes”, solo goffi errori. La lettera prosegue nella più totale spocchia e nell’affermazione di un elitismo senza pari quando si sottolinea che autori, artisti e giornalisti possono perdere i propri mezzi di sostentamento se osano esprimere opinioni lontane da quelle più comuni e che a causa di governi repressivi e società intolleranti a pagarne le conseguenze saranno soggetti non in potere e la stessa possibilità generale di partecipare democraticamente. Inoltre la propria opinione controversa in realtà spesso non è altro che il riflesso di un privilegio o la difesa di una posizione di potere. Il che rende tutto ancora più paradossale, considerando che si vuole difendere la libertà di essere controcorrente quando da una posizione dominante e maggioritaria si critica una minoranza sottorappresentata, come nel caso della Rowling. Questa lagna si conclude nel peggiore dei modi affermando che, cito “in quanto autori abbiamo bisogno di spazio per poter sperimentare, prendere dei rischi, e sbagliare. Abbiamo bisogno di preservare la possibilità di un dissenso in buona fede senza catastrofiche conseguenze professionali”. Beh certo, allora io inizierò a guidare contromano in autostrada dicendo che sto sperimentando un nuovo modo di affermare la mia libertà personale e se verrò multate e arrestata sarà solo perché non capite le mie necessità. Una cosa che mi hanno insegnato alle elementari e che mi ripeto come un mantra è: “La tua libertà finisce dove inizia la libertà altrui”. No, cari miei autori, non potete pensare di essere le vittime sacrificali di una censura che vi lega le mani, non si tratta di una mancanza di dibattito, ma semplicemente della capacità di riconoscere che in alcuni casi non si tratta di un’opinione, ma di un insulto. Negare a una persona transessuale la sua identità non va bene. Escludere, imporre un pensiero, limitare l’espressione e l’affermazione altrui non sono un “clumsy mistake” e non possono astenersi da una reazione avversa. Se le idee espresse offendono qualcuno, questi sono insulti e un dibattito diventa tale quando chi ha affermato qualcosa di offensivo si mette in gioco per capire l’altro punto di vista. L’enorme problema di questa lettera sta proprio qui, affermare che si dovrebbe permettere un’espressione di idee monodirezionale, dall’autore al pubblico, che non dovrebbe prevedere alcun tipo di critica, anche quando queste idee sono errate. A furia di manipolare concetti liberali e democratici hanno distorto totalmente il significato di libertà d’espressione, diventando a loro volta coloro che non vogliono mettersi in discussione.
Rimane il fatto che nei paesi anglosassoni il concetto di politically correct è molto più sentito che in Italia ed è vero che c’è molta più pressione sulle figure di pubblico interesse a rispettare certi standard di correttezza, anche e soprattutto sul web. C’è quindi un generale senso di ipersorveglianza quando ci si espone pubblicamente? Certamente. Si nota anche una tendenza a “calling out” ovvero a smascherare certi atteggiamenti, cercando nel passato digitale di una persona espressioni problematiche e/o scivoloni che possano appunto portare a serie conseguenze pubbliche. Questa aggressività è seriamente dannosa e fa il paio con una fortissima tendenza alla radicalizzazione politica. Radicalizzazione da entrambe le parti sia da parte dei paladini del politicamente corretto sia da parte dei suoi detrattori.
Anzi, esasperazione verso il politicamente corretto e violenza verbale potrebbero essere due cose strettamente legate. Una delle frasi simbolo della scorsa campagna elettorale di Trump è stata: “Penso che il grande problema di questo Paese sia il dover essere politicamente corretti”. E non è il solo ad avere questa opinione. La stessa idea la ritroviamo nella propaganda di Johnson, Putin, Bolsonaro, Meloni e moltissimi altri…sapete cos’hanno in comune tutti questi personaggi? Hanno un linguaggio discriminatorio. Come si legge in un articolo di The Vision: l’odio per il politicamente corretto spesso si accompagna a una violenza verbale senza precedenti. Non vedere in questo una sorta di rigurgito reazionario è difficile. Citiamo dall’articolo: “Dagli attacchi alla Boldrini al Vaffaday. Questa esigenza di esprimersi senza filtri fa da contraltare, o più probabilmente nutre, la violenza sul web, sulla cui pervasività non si dovrebbero avere più dubbi e che fa sempre più spesso uso del lessico fascista. Questo ricorso solleva due riflessioni: una, sul modo in cui si comunica sulla rete e il monitoraggio che i social applicano ai contenuti, ma soprattutto un’altra, sulla sempre più sdoganata memoria positiva del fascismo, che mette in discussione la storia come finora è stata raccontata, al punto che Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, può chiedere di cancellare la festa della Liberazione, asserendo che “il 25 aprile è divisivo”, e presupporre quasi senza tema di smentita di generare un dibattito serio, se non persino una proposta da considerarsi formalmente”.
Il nocciolo della questione alla fine però rimane questo: è più importante la libertà di esprimersi nei modi e nei termini che più ci piacciono o è più importante non offendere le persone?
Lo vediamo ogni giorno, le frasi discriminatorie stanno davvero generando delle conseguenze. Battute che vent’anni fa venivano considerate normali, oggi hanno smesso di far ridere e anzi generano un’ondata di sdegno. è anche legittimo chiedersi se queste battute abbiano mai fatto ridere. Chi dovrebbe ridere? Sicuramente non le persone discriminate. La verità è che questo tipo di umorismo è sempre stato discriminatorio solo che prima c’era silenzio, oggi invece c’è la libertà di dire che no, non vanno bene.
Anche perché una scrittura veramente satirica e ironica è capace di mettere al centro delle riflessioni importanti, facendo ridere. Secondo voi è il caso di alcune battute da spogliatoio che i detrattori del politicamente corretto difendono a spada tratta? Diciamocelo chiaramente: le battute di cattivo gusto esistono e spesso esprimono solo violenza e preconcetti che vanno condannati.
Più sottile è il discorso quando si parla d’arte. Spesso si dice che il politicamente corretto decontestualizza l’arte dal periodo storico che l’ha prodotta, in particolare quando critica e mette al bando le rappresentazioni artistiche discriminatorie come è successo recentemente con il caso di Via col Vento. A ben vedere 1) nessuno ha messo al bando via col vento, è stato momentaneamente rimosso dal catalogo HBO per avere il tempo di inserire un disclaimer sull’opera, a seguito anche del momento storico che stiamo vivendo e del movimento black lives matter 2) la decontestualizzazione sta propria nell’accettazione acritica delle opere d’arte. Se si accetta il sessismo e il razzismo dei classici del passato, ritenendolo un dato neutro, è lì che avviene lo scollamento e la normalizzazione di dinamiche ingiuste.
Un po’ come è successo con la statua di Montanelli a Milano che è stata più volte oggetto di deturpamenti. Per chi non lo sapesse, Montanelli è stato un giornalista italiano che durante la guerra d’Abissinia, ha comprato per 350 lire una ragazza di circa dodici anni dal padre e l’ha forzata, come ha ammesso lui stesso, ad avere rapporti sessuali. Per questo sulla base della statua – che è stata imbrattata con vernice rosa – è stata riportata la scritta: fascista stupratore. Anche lì si è urlato al vandalismo e alla decontestualizzazione storica dicendo che erano altri tempi e bisogna comprendere. Peccato che paradossalmente è proprio l’imbrattamento dello statua che ha portato alla luce il contesto e il fatto storico. Altrimenti la statua non contestualizza proprio niente, anzi, ha un intento puramente celebrativo e cancella la storia stessa. Ed è anche il motivo per cui nei secoli, ciclicamente, i popoli abbattono e danno fuoco alle statue. Per riportare la questione al centro.
Nel panorama mediatico, sono tanti gli artisti e le figure pubbliche che commettono “infrazioni” di questo tipo. Un esempio tra tanti è il caso Apu dei Simpson, un personaggio indiano caratterizzato principalmente in base agli stereotipi di questa popolazione e doppiato, per di più, da una persona bianca. Nel 2017 uscì un documentario dal titolo “The problem with Apu”, il problema con Apu, scritto dal comico Hari Kondabolu il quale afferma anche come da bambino fosse felice di vedersi rappresentato grazie a uno degli unici personaggi indiani in televisione all’epoca, ma che in seguito iniziò a capire come problematico. A gennaio del 2020 l’attore Hank Azaria, storico doppiatore di Apu, ha dichiarato che non avrebbe più prestato la sua voce per la serie animata e che la decisione era condivisa da tutti e che sembrava la cosa più corretta da fare. Il problema qui è stato di avere una versione della blackface che è, ricordiamo, la rappresentazione di una cultura non bianca da parte di una persona bianca. Si è fatto in buona fede? Benissimo, ma riuscire a riconoscere il problema a un certo punto ci permette di evolvere il nostro pensiero, la nostra cultura e l’accettazione di una diversità. Pare che il personaggio, a detta del creatore Groening, non verrà eliminato dalla serie, ma bisognerà capire quale sarà l’evoluzione. Come abbiamo detto il contesto in cui vengono fatte certe cose non deve essere dimenticato, ma non può nemmeno essere una scusa per giustificare le azioni e le decisioni attuali o, peggio, la mancata consapevolezza che quanto fatto non fosse adeguato. Perché dubito che qualche indiano non si sia sentito offeso anche vent’anni fa, quando pensavamo tutti fosse ok raccontare delle persone in un determinato modo.
Le iniziative di censura e boicottaggio condotte nel nome della lotta a discriminazioni e ingiustizie sono ormai all’ordine del giorno, tenere il conto dei casi è praticamente impossibile, negli stati uniti queste iniziative vengono indicate con il termine deplatforming (nel contesto britannico l’espressione più diffusa è invece no-platforming). Il rischio di queste forme di attivismo è quello di abbracciare anche nei suoi aspetti più dogmatici la cancel culture, che abbiamo citato prima: un modo di agire inflessibile e categorico che mette alla pubblica gogna chiunque commetta un’infrazione. E diciamolo: quando hai criteri così rigidi e aspiri all’assoluta correttezza e alla purezza, nessuno può considerarsi degno e all’altezza di questi ideali. Il che significa che tutto potrebbe essere potenzialmente cancellato.
Separare artista e opera d’arte a volte è impossibile ma eliminare dal canone alcuni autori è una semplificazione concettuale altrettanto problematica. All’inizio di quest’anno, a febbraio, sono sorte molte critiche in seguito all’assegnazione del premio César (gli equivalenti francesi degli Oscar americani) al regista Roman Polanski, notoriamente accusato di violenze sessuali su un’aspirante attrice allora tredicenne negli anni 70. Durante l’annunciazione l’attrice Adèle Haenel ha abbandonato la sala in segno di protesta dopo che nei mesi precedenti aveva raccontato di esser stata anche lei molestata sessualmente a 12 anni da un altro regista, Christophe Ruggia. Ad abbandonare la sala è stata anche la regista Céline Sciamma. Dopo le accuse Polanski è fuggito in Francia senza possibilità di essere estradato per via della cittadinanza francese.
Voi continuereste ad andare dal vostro panettiere di fiducia sapendo che ha commesso crimini di natura sessuale su delle minorenni? Ecco, questo dovrebbe essere più o meno il ragionamento da applicare anche in casi di maggior rilievo culturale, per quanto anche il pane sia fondamentale nella nostra società. E non possiamo sempre introiettare egoisticamente un fatto spiacevole per mostrarci più sensibili, pensare sempre a “e se fosse successo a me” rischia di rendere sterile e molto egoista una sensibilità verso il prossimo che dovremmo allenarci a sviluppare a prescindere dal nostro coinvolgimento diretto.
Paolo Armelli commenta su Wired: “Se da una parte quel premio a Polanski è sacrosanto perché premia l’artista e non l’uomo, il regista e non il molestatore, per lei – e molte donne come lei – non è che la giustificazione di un sistema corrotto, di una società che troppo spesso nasconde la testa sotto la sabbia e finge di non vedere certi atteggiamenti, o che peggio li accetta, li incorpora, li dà per scontati. Il premio a Polanski da Haenel non può che essere interpretato come l’assoluzione all’abuso di potere, di uno scenario diffuso in cui un adulto e rispettato regista può disporre a piacimento della giovane attrice inesperta che pende dalle sue labbra. Sempre Haenel, nell’intervista in cui ha raccontato la sua storia ha detto: “Il mostro non esiste. È della nostra società che si sta parlando. Dei nostri padri, amici, fratelli. E finché faremo finta di non vederlo non potremo andare avanti”. E allora se il cinema nei suoi salotti finge di non vedere, usa l’arte come giustificazione, si dichiara al di sopra di certe questioni, e continua a non voler prendere alcuna posizione politica, ben vengano tutte le contestazioni”.
Vorrei concludere citando uno studio statunitense che indaga la diversità etnica e culturale degli artisti ospitati dai più importanti musei degli USA. Lo studio è stato condotto da tre esperti di matematica e statistica e tre esperti di storia dell’arte. I ricercatori hanno esaminato oltre 40.000 opere d’arte nelle collezioni di 18 musei negli Stati Uniti e hanno stimato che l’85% degli artisti rappresentati in queste collezioni sono bianchi e l’87% sono uomini.
Chiaramente molti si lamentano del fatto che per far posto a nuovi artisti in nome della diversità, potrebbero finire nel dimenticatoio altri artisti fino a quel momento esposti. è curioso che ci si rammarica sempre per quanti artisti uomini il mondo possa perdere a causa del femminismo e non a quante artiste donne abbiamo perso nel corso dei secoli a causa del patriarcato. Quanti artiste e artisti sommersi dal sessismo e dal razzismo abbiamo perduto? Questa non sembra una questione molto interessante per i difensori dello status quo.
Il problema non è che non si può più dire niente, il problema è che dovremmo imparare a far dire ad altri qualcosa, che possa esprimere il loro disagio, le loro difficoltà e le loro esigenze.
Fonti e approfondimenti
Una società civilissima e balcanizzata, Daniele Lo Vetere, Le parole e le cose http://www.leparoleelecose.it/?p=33518
La lingua imbrigliata: a margine del politicamente corretto, Massimo Arcangeli, Italianistica online http://www.italianisticaonline.it/2004/ ... rretto-01/
Come l’odio per il politicamente corretto ha sdoganato il fascismo verbale, Chiara Palumbo, The Vision https://thevision.com/attualita/fascismo-verbale/
http://acoma.it/sites/default/files/pdf ... 0def_0.pdf
https://arxiv.org/abs/1812.03899
https://harpers.org/a-letter-on-justice ... en-debate/
https://www.ilpost.it/flashes/premio-ce ... ele-haenel
Non sono daccordo con la parte che riguarda l'Islam come nazismo maomettano in quanto esso non è diverso dal nazismo hitleriano
Il vero pericolo del politicamente corretto
19 Febbraio 2018
https://www.glistatigenerali.com/costum ... -corretto/
Il dibattito sul politicamente corretto, nato negli Stati Uniti negli anni 90 e rinvigorito dall’elezione di Donald Trump, ha preso piede anche in Italia. L’espressione “politicamente corretto” indica il comportamento di chi propone un uso del linguaggio ritenuto più rispettoso e inclusivo verso le minoranze, suggerendo l’uso di “gay” al posto di “frocio”, “nero” al posto di “negro”, “non vedente” al posto di “cieco”, “diversamente abile” al posto di “handicappato” e così via. Molti accusano il politicamente corretto di essere divenuto un modo per censurare opinioni sgradite e per evitare di intervenire sulla sostanza dei problemi, limitandosi a correggerne la forma. Sebbene questo sia vero, è anche vero che la rivolta contro il politicamente corretto ha assunto gli stessi difetti. Accusare qualcuno di essere politicamente corretto è divenuto un modo per delegittimarlo, per evitare di argomentare contro le sue convinzioni e, spesso, per giustificare convinzioni e comportamenti che sono effettivamente scorretti.
Steven Pinker è Johnstone Family Professor presso il Dipartimento di psicologia della Harvard University
Ritengo quindi opportuno prendere le distanze da entrambi i fronti di questa contesa, la cui unica vittima sembra essere la possibilità di avere un dibattito pubblico aperto dove prevalga il confronto argomentativo. In questo articolo mi concentrerò su un aspetto del politicamente corretto che è stato messo bene a fuoco da Steven Pinker, linguista e psicologo cognitivo della Harvard University e redattore del New York Times. In un dibattito che si è tenuto lo scorso novembre ad Harvard, Pinker suggerisce che il politicamente corretto riguarda non solo il modo in cui parliamo, ma anche ciò di cui parliamo. Pinker sostiene infatti che il politicamente corretto impedisce la menzione di certi fatti e che, così facendo, alimenta lo stesso estremismo che vorrebbe combattere. Il motivo è che spesso chi incontra autonomamente questi fatti non solo matura un senso di sfiducia verso l’accademia e i media mainstream che di quei fatti non fanno menzione, ma trae da questi fatti conclusioni estremiste.
Pinker fa l’esempio di quattro fatti ritenuti non menzionabili: il fatto che le società capitaliste sono preferibili a quelle comuniste, il fatto che uomini e donne sono diversi nei loro interessi, nelle loro priorità, nei loro gusti e nella loro sessualità, il fatto che alcuni gruppi etnici commettono crimini violenti in percentuali maggiori rispetto ad altri gruppi e il fatto che la maggioranza degli attacchi terroristici suicidi nel mondo sono commessi da fondamentalisti islamici. Pinker afferma che chi incontra autonomamente questi fatti senza avere gli strumenti per analizzarli può trarre da essi conclusioni morali e politiche estreme: che ogni regolamentazione del mercato è negativa, che l’uomo è superiore alla donna, che gli afroamericani sono per natura violenti e che i mussulmani sono tutti attentatori. Queste conclusioni sono, oltre che riprovevoli, assolutamente ingiustificate. In altre parole, quei quattro fatti che il politicamente corretto impedisce persino di menzionare non giustificano in alcun modo l’anarcocapitalismo, il sessismo, il razzismo e l’islamofobia.
Il fatto che uomini e donne sono diversi non giustifica la tesi secondo cui gli uomini sarebbero superiori alle donne. Primo, perché per tutti i tratti riguardo ai quali uomini e donne differiscono ci sono enormi sovrapposizioni, per cui non si può trarre alcuna conclusione affidabile riguardo a un individuo dalla media del gruppo al quale appartiene. Secondo, perché il sessismo non è una tesi fattuale secondo cui uomini e donne sono diversi, ma una tesi morale e politica secondo cui le donne dovrebbero essere discriminate. Terzo, le differenze tra uomini e donne sono in parte culturalmente determinate e variano nel tempo. Questi sono i motivi per cui è possibile credere che uomini e donne siano diversi ed essere convinti femministi. Per motivi analoghi, è possibile credere che le società capitaliste siano preferibili a quelle comuniste ed essere favorevoli a una regolamentazione del mercato, o credere che alcuni gruppi etnici commettano crimini violenti in percentuali maggiori rispetto ad altri gruppi ed essere antirazzisti, o credere che la maggioranza degli attacchi terroristici suicidi nel mondo siano commessi da fondamentalisti islamici e condannare l’islamofobia.
Queste considerazioni dimostrano che il vero pericolo del politicamente corretto non è tanto il suo inibire la menzione di certe parole, quanto il suo inibire la menzione di certi fatti per timore che qualcuno possa trarne conclusioni estremiste. Così facendo, impedisce che questi fatti siano discussi in un dibattito pubblico aperto dove le conclusioni estremiste hanno più probabilità di essere esposte ad argomentazioni razionali e conseguentemente di essere escluse. Ad esempio, in virtù del politicamente corretto, l’accademia e i media mainstream considerano non menzionabile il fatto che gli afroamericani commettono più crimini dei bianchi americani. Chi viene autonomamente a conoscenza di questo fatto è molto probabile che maturi un senso di sfiducia verso l’accademia e i media mainstream e che tragga da esso conclusioni razziste non avendo l’opportunità di inquadrarlo nel giusto contesto. Il politicamente corretto, oltre a costituire una minaccia per la liberta di parola e di pensiero, favorisce quindi quella stessa deriva che vorrebbe arginare.
In un dibattito che si tenuto il 25 febbraio al World Economic Forum di Davos, Pinker ha ripreso queste considerazioni e ha posto l’accento sull’importanza della libertà di parola. “Se solo certe ipotesi possono essere discusse, non abbiamo alcuna possibilità di comprendere il mondo perché nessuno conosce la verità a priori. E’ solo mettendo le ipotesi là fuori e valutandole che possiamo sperare di accrescere la nostra conoscenza del mondo”, afferma Pinker. “La libertà di parola è altamente controintuitiva. Chiunque comprende perché debba esserci libertà di parola per se stesso. L’idea che debba esserci libertà di parola per persone con cui si è in disaccordo è la più grande conquista dell’Illuminismo e una delle cose di cui l’America dovrebbe essere orgogliosa”, prosegue Pinker. E’ questo il motivo per cui occorre difendere la libertà di parola, non stancandosi di ricordare perché essa è così importante. “Gli esseri umani sono estremamente fallibili. Molte delle cose che riteniamo giuste, si riveleranno sbagliate. Gran parte del progresso umano è stato ottenuto grazie a persone che hanno dato voce al dissenso contro l’ortodossia”.
Il pensiero politicamente corretto è uno strumento moderno per obbligare al consenso senza l'uso della forza fisica, è quello dell'epoca descritta da Nietzsche e da lui definita dell'"ultimo uomo" dove esiste un solo gregge e nessun pastore e dove chi ha un diverso sentire "va da sé al manicomio".
https://www.ibs.it/contro-politicamente ... 8898620500
Il politicamente corretto è nato proponendosi come un modo per rispettare le diversità e le sensibilità altrui ma è diventato presto un modo per imbrigliare nell'accusa di intolleranza e odio qualsiasi parere contrario a quello che i pensatori di riferimento impongono come modello culturale. Parafrasando Orwell, se nell'epoca dell'inganno dire la verità è un atto rivoluzionario, nell'epoca del politicamente corretto esprimere pensieri politicamente scorretti è il primo e più potente atto sovversivo.
Non tutti si piegano alla dittatura del politicamente corretto
Roberto Vivaldelli
9 Luglio 2020
https://it.insideover.com/politica/non- ... retto.html
Hanno sfidato il pensiero unico politicamente corretto, anche a costo di essere bersagliati dai media progressisti e radical chic. Sono gli antieroi per eccellenza, quelli che hanno detto “no” e hanno deciso di non piegarsi, o meglio di non inginocchiarsi come impone l’ipocrita rituale imposto dai liberal e dal loro antirazzismo posticcio in omaggio a Black lives matter. Il più noto forse è Charles Leclerc, pilota monegasco della Ferrari, che insieme ad altri cinque colleghi di Formala Uno – Max Verstappen, Kimi Raikkonen, Daniil Kvyat, Antonio Giovinazzi e Carlos Sainz Jr – ha deciso di non inginocchiarsi: “Quello che conta sono i fatti. Non m’inginocchierò, ma questo non significa affatto che sia meno impegnato di altri nella lotta alle discriminazioni” aveva annunciato prima del Gp d’Austria. E così ha fatto.
Molti hanno stigmatizzato il gesto di Leclerc: non abbastanza “sottomesso” secondo i codici rituali della cultura del piagnisteo che tanto va di moda ultimamente. C’è poi da fare un’altra considerazione importante. Passi per l’odio indistinto verso il solito occidente, ombelico del mondo, ma lezioni di antirazzismo dalla Formula Uno anche no. Come nota Marco Farci su Atlantico Quotidiano, infatti, mentre punta il dito contro l’America e l’Occidente, la Formula Uno ha stabilito un fondamentale accordo di sponsorizzazione con la compagnia petrolifera dell’Arabia Saudita. E si fa ricoprire di soldi da Paesi non certo campioni di diritti umani come il Barhain o la Cina.
Il coraggio di Sam contro i puritani del politically correct
L’altro grande simbolo della lotta al politically correct si chiama Samantha Leshank, calciatrice statunitense di ventitré anni. Come riporta IlGiornale.it, durante l’inno nazionale prima della partita fra North Carolina Courage e Portland Thorns, Sam ha deciso di dare una grande lezione ai buonisti, non inginocchiandosi come hanno fatto tutte le altre. È rimasta in piedi, perché essere “bianchi” non è affatto una colpa. La giovane, infatti, ha indossato la maglietta dei Black Lives Matter, perché si definisce anche lei “antirazzista”, ma ha rifiutato di inginocchiarsi schierandosi contro la dittatura del politicamente corretto. Il suo gesto, come spiega IlGiornale.it, le è costato caro, dato che è stata attaccata sui social pesantemente da colleghe e dai tolleranti progressisti. Per i buonisti definirsi “antirazzista” non è sufficiente: bisogna umiliarsi, inginocchiandosi, ed espiare quel senso di colpa che attanaglia le coscienze (sporche) dei liberal americani.
Come abbiamo già spiegato su questa testata, l’odio di sé – che caratterizza questi nuovi movimenti progressisti che vogliono cancellare la storia – rappresenta un lascito del puritanesimo. Come nota Robert Huges nel suo saggio La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto, i Puritani si ritenevano, a buon diritto, vittime di una persecuzione, designate a creare uno Stato teocratico le cui virtù trascendessero i mali del Vecchio Mondo e riscattassero così la caduta dell’uomo europeo. La democrazia americana, nota Hughes, “consistette nell’infrangere la condizione di vittima coloniale, creando uno Stato laico in cui diritti naturali dell’individuo si ampliassero senza sosta a vantaggio dell’eguaglianza”.
Le star nella bufera per aver espresso una semplice opinione
Altri personaggi famosi hanno invece dovuto scusarsi per aver semplicemente detto la loro opinione sulle tensioni sociali negli Usa e su Black Lives Matter. Alcune star (perlopiù cantanti, attori), infatti, avevano preso posizioni al di fuori della vulgata progressista, pagandone le conseguenze in termine di critiche sulla stampa e sui social media. Il rapper Lil Wayne, per esempio, è stato letteralmente massacrato solamente per aver messo in dubbio l’esistenza del “razzismo sistemico” e aver dichiarato, durante una diretta instagram che risale al 28 maggio scorso che occorre differenziare ed è sbagliato generalizzare, prendendosela con tutte le forze dell’ordine indistintamente o con una razza in particolare (quella “bianca”). Parole se vogliamo “banali” e di semplice buon senso, che però ai manifestanti antirazzisti non sono piaciute. Essere bianchi è una colpa, punto e stop.
Stessa sorte per Evan Peters, attore di American Horror Story, che ha dovuto scusarsi dopo che gli utenti su twitter lo hanno criticato per aver condiviso un video nel quale un ufficiale di polizia ha uno scontro fisico con un manifestante violento. Altre star hanno invece dovuto rimuovere i videoclip che ritraevano i manifestanti distruggere negozi e commettere reati durante le proteste. Questo è ciò che accade a chi sfida la nuova religione laica del politically correct: la “rivoluzione culturale” non può essere messa in discussione.
La Corte di Helsinki ha assolto Päivi Räsänen. Salva la libertà di espressione
30/03/2022
https://www.provitaefamiglia.it/blog/fl ... spressione
La Corte Distrettuale di Helsinki in Finlandia ha assolto l’ex ministra Päivi Räsänen dall’accusa di aver diffuso "discorsi d'odio" esprimendo le sue convinzioni cristiane su matrimonio, famiglia e sessualità.
In una sentenza unanime la corte ha concluso che “non spetta al tribunale distrettuale interpretare concetti biblici”. L'accusa è stata inoltre condannata a pagare più di 60.000 euro in spese legali.
L'ex ministra dell'Interno era stata accusata di "incitamento all'odio" per aver condiviso le sue opinioni cristiane sul matrimonio e sull'etica sessuale, in un tweet del 2019, un dibattito radiofonico del 2019 e un opuscolo del 2004. Il suo caso aveva attirato l'attenzione dei media di tutto il mondo, soprattutto perché si è trattato di un attacco senza precedenti alla libertà di parola e di religione.