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Il PC attacca Dante Alighieri per conto del nazi maomettaniIn Belgio è vietato criticare l'IslamGiulio Meotti
25 marzo 2021
https://meotti.substack.com/p/in-belgio ... are-lislamPauvre Belgique, povero Belgio, lamentava Charles Baudelaire…
Come è possibile che in un paese che in questi giorni ricorda i cinque anni degli attentati terroristici nella sua capitale si arrivi a riscrivere letteralmente un capolavoro della letteratura universale come la Divina Commedia per non “offendere l’Islam?” Una nuova traduzione fiamminga dell’Inferno di Dante, a opera di Lies Lavrijsen, ha appena rimosso Maometto (che Dante aveva inserito nel girone dei creatori di discordia) per non essere “inutilmenti offensivi”, ha detto l’editore Blossom Books.
Un rapido sguardo allo stato culturale del paese dimostra che la sottomissione è ormai di default.
Una settimana dopo che Samuel Paty è stato decapitato in Francia, un insegnante è stato sospeso a Bruxelles per aver mostrato ai suoi studenti una vignetta pubblicata da Charlie Hebdo e che mostrava Maometto. Un semplice post pubblicato su Facebook intitolato “Je suis Samuel Paty”, il giorno dopo l'assassinio, e un’altra professoressa di Bruxelles di nome Nadia Geerts è finita in congedo per malattia lontano e dice di non voler tornare a insegnare. A L'Écho racconta le minacce di morte ricevute. Alcuni studenti si preoccupano e la avvertono: “stai attenta”. La sua foto è nei social.
Associazioni studentesche belghe hanno protestato per l’arrivo nella capitale del direttore di Charlie Hebdo, “Riss”, uscito in fin di vita dalla strage nella sua redazione.
La libreria Filigranes di Bruxelles, la più grande del paese, ha annullato un incontro con il giornalista Eric Zemmour per “ragioni di sicurezza”. Erano previste manifestazioni contro l'autore e un “Collettivo contro l'islamofobia” aveva sporto denuncia. La stessa libreria aveva censurato la vendita di un libro di Richard Millet, l’editor della casa editrice Gallimard critico del multiculturalismo.
Il Museo Hergé ha rinunciato al suo tributo a Charlie Hebdo, autocensurandosi. Una mostra cancellata “per motivi di sicurezza”.
E’ a Bruxelles che Michel Houellebecq celebra la conversione all’Islam di uno dei protagonisti del suo romanzo Sottomissione, Robert Rediger, che dal bar Metropolis, capolavoro dell’art nouveau a Bruxelles, dichiara: “E’ stato in quel preciso momento che ho capito, l’Europa aveva già commesso il proprio suicidio”.
Come si è arrivato a questo tsunami di sottomissione? Come spiegai nel 2016 in un articolo su Il Foglio, il Belgio negli anni Settanta strinse un patto scellerato con l’Arabia Saudita: “petrolio in cambio di Islam”. Hanno consentito che il proprio paese venisse sommerso di moschee, Corani, predicatori, imam…C’era la crisi energetica e chiusero più di un occhio. Nel 1974, il governo belga riconobbe ufficialmente la religione islamica. Il primo risultato di questo riconoscimento fu l’approvazione, nel 1975, dell’inserimento della religione islamica nel curriculum scolastico. Nella capitale belga l’Islam è già oggi la prima religione, nel paese è nato un “Partito Islamico” (non ha avuto molta fortuna perché i musulmani tendono a votare massicciamente per il Partito Socialista), sono sorte organizzazioni che si chiamano “Sharia per il Belgio” e nelle scuole di Bruxelles l’insegnamento della religione musulmana ha superato per numero di studenti quello della religione cattolica. Lo dice il Centro di ricerca e informazione sociopolitica. E se Maometto è il nome più usato a Bruxelles e Nour quello per le donne, il sindaco della capitale, Yvan Mayeur, ha detto: “Tutti sanno che tutte le moschee di Bruxelles sono nelle mani dei salafiti”, ovvero dell’islam più radicale.
C’è stato un momento in cui la quantità è diventata qualità e il Belgio è diventato Belgistan, Bruxellistan, Mollenbeekistan…E’ così che si è arrivati a riscrivere la Divina Commedia per “non offendere”.
Eliminato Maometto dall’Inferno di DanteGiulio Meotti
24 marzo 2021
https://meotti.substack.com/p/eliminato ... inferno-di Una nuova traduzione dell’Inferno della Divinia Commedia di Dante, tradotta in fiammingo da Lies Lavrijsen, ha rimosso Maometto per non essere “inutilmenti offensivi”, ha detto l’editore Blossom Books. Il traduttore di Anversa Lies Lavrijsen ha rimosso le parole su Maometto. “In Dante, Maometto subisce un destino crudo e umiliante, solo perché è il precursore dell'Islam", dice l’editore Myrthe Spiteri. “I ladri o gli assassini nell'inferno di Dante hanno commesso errori reali, mentre creare una religione non può essere riprovevole”.
Dante raffigurò Maometto nel girone degli scismatici come un fantoccio spaccato a metà. “Rotto dal mento infin dove si trulla”, vale a dire dal mento al deretano. E quella celebre terzina: “Tra le gambe pendevan le minugia, la corata pareva, e il tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia”.
Davvero eccessivamente “islamofobo” e poco “inclusivo” questo Dante. Se sono arrivati a riscrivere la più grande opera mai scritta in lingua italiana ci obbligheranno presto a prostrarci verso la Mecca.
Polemiche. Fa discutere in Olanda l'omissione di Maometto dall'Inferno di DanteAlessandro Zaccuri
mercoledì 24 marzo 2021
https://www.avvenire.it/agora/pagine/fa ... o-di-dante Una versione della prima cantica destinata ai ragazzi evita di riprodurre il nome del Profeta dell'islam
Nella nuova versione olandese dell’Inferno dantesco, pubblicata di recente da Blossom Books e destinata ai lettori più giovani, è stato omesso il nome di Maometto, che Dante, com’è noto, elenca tra i dannati di Malebolge. La traduttrice Lies Lavrijsen ha preferito ricorrere a questa soluzione per evitare che l’episodio risultasse «inutilmente offensivo per un pubblico di lettori che è una parte così ampia della società olandese e fiamminga», secondo quanto dichiarato da Myrthe Spiteri, amministratrice delegata della casa editrice. Nei Paesi Bassi la presenza musulmana equivale al 5% della popolazione, a fronte del 30% di cristiani di denominazioni differenti (i cattolici rappresentano il 24%; la Chiesa protestante, nella quale confluiscono luterani e calvinisti, si assesta attorno al 6%).
La sorte ultraterrena di Maometto, descritta nel canto XXVIII, rappresenta un elemento testuale particolarmente delicato, sia per la destinazione infernale del Profeta – che, in quanto scismatico, risulta in qualche modo assimilato al cristianesimo – sia per le mutilazioni infertegli per punizione, in quello che per l’islam è un intollerabile oltraggio all’integrità del corpo. La posizione di Dante nei confronti della cultura arabo-musulmana è molto complessa e comporta una fitta serie di scambi, come ha documentato fin dal 1919 lo studioso e sacerdote spagnolo Miguel Asín y Palacios nel classico L’escatologia musulmana nella “Divina Commedia”.
Dante, la critica del Frankfurter Rundschau: 'Arrivista e plagiatore'25 marzo 2021
https://tg24.sky.it/mondo/2021/03/25/da ... _link_null Il quotidiano tedesco stronca il Sommo Poeta ("un arrogante dotato di immenso ego") e la sua opera principale ("una fabbrica di versi"). Per il giornalista Arno Widmann, Dante "non ha inventato l'italiano" e "Shakespeare era meglio"
Un bluff, sopravvalutato e plagiatore. Nel giorno in cui l'Italia celebra col Dantedì i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri, scegliendo come data quella dell'inizio del suo viaggio tra Inferno, Purgatorio e Paradiso, la Germania attacca duramente il grande poeta fiorentino. A farlo è la Frankfurter Rundschau, autorevole quotidiano tedesco, che non ha problemi a definire Dante un arrogante "dotato di un immenso ego". L'articolo è titolato "I buoni nel vasino, i cattivi nel pozzo", ed è firmato da Arno Widmann, già fondatore della Tageszeitung (Taz).
"Una fabbrica di versi"
Secondo il giornalista tedesco, la Divina Commedia è "una fabbrica di versi", nella quale "ogni volta è chiaro se fai parte dei buoni o dei cattivi", laddove l'Alighieri è mosso soprattutto "dalla voglia al giudicare e al condannare". Quanta presunzione, dice Widmann: "Gli oltre 14mila versi sono intesi a gettare un ponte lungo oltre 1300 anni sull'Eneide di Virgilio: una tale opera abbisogna di un ego immenso". Per la verità, l'articolo è percorso da uno spirito ai limiti del satirico, di cui appare evidente l'intento provocatorio: nondimeno Widmann - che nel 1987 alimentà il mito dell'Aids creata in un laboratorio militare americano con un'intervista da lui commissionata - irride all'Italia che loda Dante "come uno di coloro che hanno portato l'idioma del Paese alle altezze della grande letteratura".
"Non ha inventato la lingua italiana"
In realtà, secondo l'autore, l'Alighieri "in un certo senso avrebbe creato la lingua per la sua opera, e questa lingua divenne quella dei suoi lettori e poi quella dell'Italia...", ma è semplicemente quello "che fino a 60 anni fa si raccontava ad ogni scolaro italiano, nessuno lo direbbe anche oggi". Come se son bastasse, le prime liriche in volgare furono scritte "in provenzale", certo non nell'italico idioma dantesco: in pratica, la maggiore invenzione di Dante, ossia di aver portato il volgare nell'alveo dell'arte letteraria, non è una vera invenzione. Pure l'aldilà dantesco "è un mondo ben strano", insiste Widmann, dove "non cresce nessun albero", praticamente "un paesaggio da uffici", se non fosse "per qualche creatura mitologica e gli angeli caduti e risaliti".
Anche Beatrice nell'occhio del ciclone
Il tedesco trova da ridire anche sul rapporto con Beatrice: "Per la scoperta della vita nuziale come una delle vie alla beatitudine bisognerà attendere Martin Lutero e la Riforma". Poi Widmann si lancia in un paragone con Shakespeare, definendo l'autore inglese "più moderno anni luce rispetto agli sforzi di Dante di aver un'opinione su tutto, di trascinare tutto davanti alla poltrona da giudice della sua Morale. Tutta questa immensa opera serve solo per permettere al Poeta di anticipare il Giorno del Giudizio, mettere lui in pratica l'Opera di Dio e di spingere i buoni nel vasetto e i cattivi nel pozzo".
Eliminato Maometto dall’Inferno di DanteGiulio Meotti
24 marzo 2021
https://meotti.substack.com/p/eliminato ... inferno-di Una nuova traduzione dell’Inferno della Divinia Commedia di Dante, tradotta in fiammingo da Lies Lavrijsen, ha rimosso Maometto per non essere “inutilmenti offensivi”, ha detto l’editore Blossom Books. Il traduttore di Anversa Lies Lavrijsen ha rimosso le parole su Maometto. “In Dante, Maometto subisce un destino crudo e umiliante, solo perché è il precursore dell'Islam", dice l’editore Myrthe Spiteri. “I ladri o gli assassini nell'inferno di Dante hanno commesso errori reali, mentre creare una religione non può essere riprovevole”.
Dante raffigurò Maometto nel girone degli scismatici come un fantoccio spaccato a metà. “Rotto dal mento infin dove si trulla”, vale a dire dal mento al deretano. E quella celebre terzina: “Tra le gambe pendevan le minugia, la corata pareva, e il tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia”.
Davvero eccessivamente “islamofobo” e poco “inclusivo” questo Dante. Se sono arrivati a riscrivere la più grande opera mai scritta in lingua italiana ci obbligheranno presto a prostrarci verso la Mecca.
Il direttore degli Uffizi Eike Schmidt: “L’attacco a Dante è frutto di ignoranza” L'Arno.it
Raffaello Binelli
26 marzo 2021
https://larno.ilgiornale.it/2021/03/26/ ... 1616754168L’attacco del giornalista tedesco Arno Widmann a Dante Alighieri non è certo passato inosservato. Arrivato, guarda caso che coincidenza, proprio il giorno in cui in Italia si celebrava il Dantedì, per ricordare il Sommo Poeta a 700 anni dalla sua morte. Molto meglio Shakespeare, ha detto Widmann. E sin qui nulla di male: de gustibus non est disputandum. Il problema è che l’articolo uscito sulla Frankfurter Rundschau contiene altre tesi quanto meno bizzarre: il Sommo Poeta non ha inventato nulla, né il “volgare”, cioè l’italiano, né il viaggio descritto nella Divina Commedia. Poi Widman (giornalista e traduttore) sostiene che “l’Italia lo loda come uno di coloro che hanno portato la lingua nazionale ai vertici della grande letteratura”, mentre i primi a parlare in “volgare” furono i trovatori, tanto che “la prima poesia d’arte in lingua madre in Italia è stata scritta in provenzale”. E il viaggio nell’aldilà? Nulla di originale: già presente “nella tradizione musulmana con un racconto del viaggio di Maometto in Paradiso”.
Un altro tedesco, Eike Schmidt, che di certo nel mondo della cultura non è uno sconosciuto, prende le distanze dall’articolo di Frankfurter Rundschau, dicendo che “denota una completa ignoranza dell’argomento”. Giudizio implacabile quello del direttore degli Uffizi. “Arno Widmann? È un personaggio di forte vis polemica, che ha sempre fatto parlare di sé per teorie volutamente provocatorie oppure, talvolta, di complotto”, dice lo storico dell’arte tedesco. “Volendo parlare male di Dante, gli muove contro argomenti totalmente insostenibili. La sua opinione non coincide affatto con l’opinione generale su Dante in Germania, non rappresenta nemmeno una corrente di pensiero”. Insomma, parole che lasciano il tempo che trovano.
Ai microfoni di Lady Radio Schmidt stronca le tesi di Widmann: “Sostiene che l’importanza di Dante sulla lingua italiana non sia stata così grande, perché i bambini a scuola avrebbero difficoltà a comprendere i suoi testi. Ma non è affatto così. A parte qualche parola e qualche concetto teologico, la lingua di Dante è perfettamente intellegibile ancora oggi, diversamente da quanto accaduto con l’inglese o il tedesco del Trecento, che sono praticamente incomprensibili per gli inglesi e tedeschi odierni”. Sull’altra dura accusa, quella che Dante abbia imitato i poeti provenzali francesi, Schmidt afferma: “Non è certo una grande scoperta: che egli abbia guardato ai provenzali come a un modello lo si sa da sempre, ma che si sia limitato a copiarli è altrettanto evidente che sia falso”.
E sulla contro versione cristiana del viaggio ultraterreno di Maometto, Schmidt spiega che ” del tutto infondato perché il viaggio ultraterreno è un genere frequentissimo non solo nella tradizione cristiana, ma già nella letteratura classica romana e greca (si pensi solo all’Odissea, dove si narra della discesa di Ulisse nell’Ade per incontrare Achille). Si capisce che all’opinionista manca una conoscenza di base dell’argomento”.
Ma per quale ragione Widmann può aver scritto quelle cose? Francamente tutti abbiamo pensato a un’operazione di pubblicità, far parlare di sé. Ma per Schmidt c’è altro: “Probabilmente sapere che 700 anni prima di lui c’è stato uno scrittore con un ego più grande del suo a Widmann proprio gli rode, non gli va giù”.
Il Frankfurter Rundschau è un quotidiano tedesco, con sede a Francoforte sul Meno.https://it.wikipedia.org/wiki/Frankfurter_Rundschau Viene pubblicato quotidianamente, eccetto la domenica, come edizione città, regionale con uno speciale a livello nazionale e offre una edizione in rete. I principali concorrenti locali sono il liberal-conservatore Frankfurter Allgemeine Zeitung, l'edizione locale del tabloid conservatore Bild-Zeitung, il giornale più venduto in Europa, e il più piccolo conservatore locale Frankfurter Neue Presse. L'impaginazione del Rundschau è moderna e la sua linea editoriale è social liberale. Sostiene che «l'indipendenza, la giustizia sociale e l'equità» sono alla base del suo giornalismo.
Frankfurter Rundschau Druck e Verlagshaus GmbH ha presentato istanza di fallimento il 12 novembre 2012. Poi il giornale è stato acquisito da Frankfurter Allgemeine Zeitung e dalla Frankfurter Societaet (editore di Frankfurter Neue Presse) nel 2013.
Frankfurter Allgemeine Zeitunghttps://it.wikipedia.org/wiki/Frankfurt ... ne_Zeitung Politicamente posto su posizioni di centro-destra, conservatrici e liberali, il quotidiano rappresenta un punto di riferimento per uomini d'affari e intellettuali che apprezzano in particolare il supplemento letterario, il Feuilleton.
Il Faz gode di un'ampia diffusione all'estero e dispone di una delle più grosse reti di corrispondenti, il che lo rende largamente indipendente dalle agenzie di stampa. L'edizione domenicale si chiama Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung. Una particolarità storica: fino al 2007 soltanto in 33 occasioni la prima pagina è stata accompagnata da una fotografia.[1]
Dante Alighieri ha un cognome di origine germanica e al suo tempo fu un Dante fu guelfo bianco e perciò fu condannato all'esilio nel 1302. Non rivide più Firenze e dovè andare ramingo per l'Italia. Morì a Ravenna alla corte di Guido da Polenta, suo protettore, nel 1321.Aldegheri, Aldighieri, Alighieri
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... =41&t=1190 Il cuore guelfo di Dante era per l'impero germanicoNicola Biagi
https://www.parteguelfa.it/news/il-cuor ... -di-dante/ Parte Guelfa Dante AlighieriAlla fine del Duecento le due grandi istituzioni medievali, chiesa e impero, che dal tempo di Carlo Magno, per cinque secoli avevano dominato la storia europea, sono in piena decadenza. L’autorità del pontefice e dell’imperatore, indebolita da tre secoli di lotte per la supremazia in Europa, è ridotta a pura formalità. In Francia, Spagna, Inghilterra sono sorte tre monarchie unitarie; l’Italia e la Germania sono divise invece in un infinità di staterelli, ai quali inutilmente imperatore si sforza di imporre la sua autorità. Per l’Italia questo periodo è il periodo della graduale trasformazione dei comuni in signorie: un periodo politicamente molto confuso, caratterizzato da lotte continue fra una città e l’altra e fra un partito e l’altro di una stessa città per la conquista del potere. Eppure, nonostante queste incessanti lotte fratricide, l’Italia dimostra una virilità straordinaria.
In tutti i campi, dall’economia alla cultura e all’arte, l’Italia è decisamente avviata a diventare il paese più civile d’Europa. Tra i Comuni dell’Italia centrale, il più potente è Firenze, che ha esteso il suo dominio su gran parte della Toscana. Il potere è in mano alla borghesia, cioè ai ricchi mercanti e industriali, che sono riusciti a estromettere dal governo i nobili. La città però è divisa in due fazioni, i Bianchi e i Neri, che fanno capo, rispettivamente, alle due potenti famiglie dei Cerchi e dei Donati. Va detto che alla morte dell’imperatore Enrico V, nel 1125, si aprì in Germania un periodo di scontri per la successione all’impero. In tale contesto vennero a crearsi due schieramenti opposti, che presero il nome di Guelfi e di Ghibellini. Furono detti Ghibellini i sostenitori della casa di Svevia, Guelfi, invece, i sostenitori della casa di Baviera. Successivamente, negli anni dello scontro tra Federico Barbarossa e il papato, furono chiamati Ghibellini i sostenitori dell’imperatore e Guelfi i sostenitori del papa. Così dopo un decennio di predominio dei Bianchi i quali volevano l’autonomia di Firenze senza il controllo del Papa, nel 1301 i Neri, che ammettevano l’ingerenza del Papa, con l’aiuto del pontefice Bonifacio VIII, riescono ad avere il sopravvento e cacciano in esilio i capi della parte bianca. Tra questi vi è anche Dante Alighieri, il più grande poeta italiano.
Dante si può dire che nacque guelfo nel 1265 da una famiglia della piccola nobiltà fiorentina da sempre aderente alla Parte Guelfa. Poté quindi ricevere una raffinata educazione in gioventù; nonostante le non felici condizioni economiche della propria famiglia. Ben presto rimase orfano. Brillante negli studi, frequenta la scuola dei Francescani di Santa Croce e dei Domenicani di Santa Maria Novella, viene istruito nella grammatica, dialettica, retorica, conto, geometria, astronomia e musica. Si fa strada in lui la passione per le lettere. Il primo incontro col suo grande amore, Beatrice Portinari, ha luogo all’etá di nove anni. Quando la incontra nuovamente, dopo altri nove anni, ne resta talmente affascinato da dedicarle una poesia. Seguiranno altre liriche giovanili. Tuttavia sposa non lei, ma Gemma Donati, che gli dará quattro figli. Nel frattempo studia, con molte probabilitá, all’Universitá di Bologna. Nel 1290 Beatrice muore improvvisamente, ma il ricordo di lei è sempre vivo in Dante. Poco dopo la sua morte egli si dedica ad una raccolta di liriche d’amore rivolte a Beatrice, le quali si concluderanno nella “Vita Nuova”. Per trovare conforto dopo la morte di Beatrice si dedica anche alla filosofia, allo stesso tempo approfondisce la sua cultura poetica leggendo i poeti latini, soprattutto Virgilio, che considera il suo “maestro” e il suo “autore”, riscopre i grandi poeti provenzali e per finire si accosta alla poesia burlesca e realistica.
La cittá intanto è sempre più divisa soprattutto a causa degli intrighi di Papa Bonifacio VIII. Tutto questo porta Dante in missione a Roma per sottolineare l’opposizione al ruolo politico del Papa. In questo periodo si manifesta il conflitto fra bianchi e neri, conflitto interno alla categoria dei guelfi, e prendono forma le oscure manovre del papa per dominare la Toscana. Dante si adoperò per sventare i maneggi del papa e ristabilire l’ordine fra i cittadini, ma per le sue idee venne considerato più vicino ai bianchi, che reclamavano l’autonomia di Firenze, alla vittoria della parte nera fu quindi esiliato. Ben presto viene condannato a morte dai suoi avversari a Firenze. E’ costretto perció a fuggire, girovagando per l’Italia. In particolare si rifugia a Verona presso la famiglia degli Scala. Forse raggiunge anche la Provenza e Parigi. Dante è un diplomatico di tutto rispetto ed esprime il suo pensiero politico nel famoso trattato “De Monarchia”. Intorno al 1306 inizia a lavorare alla “Divina Commedia”, della quale, otto anni dopo, viene pubblicata la prima parte: “L’Inferno”. Nel 1320 circa completa la sua commedia con “Il Purgatorio” e “Il Paradiso”. Rientrando da una missione diplomatica contrae la malaria e muore il 14 settembre del 1321. A Ravenna, dove ha vissuto gli ultimi anni del suo esilio, gli viene data dignitosa sepoltura.
In Europa negli anni della vita di Dante, tra il 1265 ed il 1321, giunge ad un punto di svolta la contrapposizione fra Papato ed Impero. Nascono gli stati nazionali e, all’interno dei comuni italiani, tende ad affermarsi un assetto politico di tipo oligarchico, che vede al governo le ricche famiglie borghesi.
Alcuni fenomeni, caratteristici di questo periodo, sono ben individuabili:
· Prima del Mille inizia un incremento demografico che, proseguendo per tutto il corso del XIII secolo, provoca un aumento della domanda di prodotti alimentari e di manufatti. Nascono quindi nuove forme di contratto agrario e nuove tecniche di coltivazione e si determina lo sviluppo della industria manifatturiera, i cui prodotti vengono smistati da un commercio che estende le sue vie a territori sempre più vasti.
· Le città si ripopolano e le mura vengono via via allargate: quelle di Firenze, ad esempio, di origine romana, sono ampliate nel 1173 e poi nel 1284. All’interno dello spazio cittadino si intensificano sia la produzione artigianale che le attività bancarie. L’atmosfera piena di vita dei grandi centri non solo attrae gruppi di uomini dal contado, ma richiama anche la “piccola nobiltà”, che impiega le sue rendite in attività mercantili, piuttosto che nel mantenimento delle proprietà terriere. Viene sancita, così, l’influenza della città sul contado.
· Fa da sfondo allo sviluppo della civiltà comunale la lotta fra Impero e Papato, istituzioni di carattere universale, ma ambedue in profonda crisi. Bonifacio VIII, con la bolla “Unam Sanctam”, del 1302, tenta un’ultima affermazione della supremazia dell’autorità papale su quella imperiale. Nello stesso tempo la discesa in Italia di Enrico (Arrigo) VII (1310-1313) rappresenta l’estremo quanto inutile tentativo di riaffermare l’universalismo imperiale sulla crescente autonomia dei comuni.
· Si assiste successivamente all’affermarsi, nelle realtà comunali, del potere di singoli gruppi familiari emergenti e questo comporta la progressiva trasformazione in Signorie, governate da personalità che spesso godevano di un largo consenso e potevano quindi muoversi con notevole autonomia.
A Firenze gli eventi internazionali si mescolarono, nella vita politica e sociale fiorentina, ai nuovi contrasti fra la vecchia nobiltà cittadina e la nuova aristocrazia dei ricchi, organizzata nelle Corporazioni. Nel 1248 l’aristocrazia ghibellina aveva vinto i guelfi con l’appoggio di Federico II. Il potere ghibellino, tuttavia, dopo appena due anni venne abbattuto e solo nel 1260, con la battaglia di Montaperti potè tornare al governo di Firenze. In seguito, approfittando del momento di sbandamento dei Francesi a causa dei Vespri Siciliani, i magnati fiorentini imposero il governo delle cosiddette “arti maggiori”, espressione degli interessi delle classi nobiliari. Ad essi si oppose Giano della Bella, che, nel 1293 con gli Ordinamenti di Giustizia, escluse i nobili dalla vita politica. Nel febbraio del 1295 cadde Giano della Bella in disgrazia e gli Ordinamenti di Giustizia furono revocati. Tutti tornarono così ad avere libero accesso al governo, anche se i membri della nobiltà potevano venire eletti solo a condizione che si iscrivessero ad una delle Corporazioni delle Arti e dei Mestieri.
Clemente IV, per contrastare le pretese di Manfredi, figlio naturale di Federico II, sul regno di Sicilia, chiamò in Italia Carlo I d’Angiò e già dal 1263 lo incoronò solennemente re di Napoli. Durante la battaglia di Benevento del 26 Febbraio 1266, nello scontro con le truppe congiunte dello stato della Chiesa e di Carlo I d’Angiò col determinante apporto circa quattrocento cavalieri fiorentini di Parte Guelfa, perse la vita Manfredi, figlio naturale ma degno erede dello spirito e della politica del padre Federico II. Due anni dopo a Tagliacozzo le truppe francesi ebbero ragione dell’esercito tedesco di Corradino di Svevia. A seguito della sconfitta, Corradino fu catturato e, consegnato a Carlo I d’Angiò, venne decapitato sulla piazza del mercato a Napoli a soli 16 anni. In seguito a questi eventi si arenò il progetto di riportare il Sacro Romano Impero alla sua originaria dimensione europea, restituendogli la dignità di superiore potere temporale da affiancare al potere spirituale della Chiesa. Questo era stato il progetto del Barbarossa prima e del nipote Federico II poi. Da questo momento non si potè più parlare di Guelfi e Ghibellini: ormai l’Impero, che continuava ad esistere solo nominalmente, di fatto aveva ridotto il suo potere alla sola area germanica. L’antitesi tra sostenitori della Chiesa e sostenitori dell’Impero si ripropose, tuttavia, all’interno del sopravvissuto partito guelfo con le fazioni bianca e nera.
Nella vita di Dante e di Firenze la figura più nefasta appare dunque quella di papa Bonifacio VIII, il quale infatti sosteneva i tentativi dei Neri di prendere il controllo della città ed appoggiava apertamente Corso Donati, che gli era parso, in varie occasioni, disposto a seguire la sua politica. Il papa potè così far entrare in Firenze il principe francese Carlo di Valois, il tristemente noto “paciaro”, che il Villani, storico delle vicende fiorentine, ritrae con lapidaria freddezza, densa di sarcasmo e di disprezzo: “venne in Toscana per paciaro, e lasciò il paese in guerra; e andò in Cicilia per fare guerra, e reconne vergognosa pace”. Dante, guelfo convinto, fu tradito da chi aveva difeso e quel malvagio gesto ancora grida vendetta.
???
Senza Islam non avremmo avuto né san Tommaso né DantePino Lorizio
28 marzo 2021
https://www.famigliacristiana.it/artico ... dante.aspxLe celebrazioni dei settecento anni dalla morte di Dante Alighieri hanno occupato le pagine culturali, e non, di giornali e riviste e gli spazi televisivi e radiofonici, distanziandoci almeno per una giornata dalle paure, dalle preoccupazioni e dalle angosce della pandemia. Non è mancata qualche polemica soprattutto dall’estero. La prima riguardava la notizia che dalla traduzione in fiammingo della Commedia si sarebbe espulso il nome di Maometto, nei versi dell’Inferno che lo situano fra gli eretici. La seconda, che un ministro ha liquidato con i versi dello stesso poeta: «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa» (Inferno, III, 51, riferito agli ignavi). Aveva di mira l’editoriale di un giornale tedesco, che riteneva il sommo poeta italiano non così geniale, come è e sembra, ma un assemblatore di idee altrui, indicando nel Libro della Scala (una serie di testi mistici islamici del XIII secolo attribuiti a diversi autori) la principale fonte del suo capolavoro. Invece, al contrario del ministro, noi ragioniamo e ci lasciamo pungolare anche dalle critiche.
Quanto alla prima polemica, va rilevato che, poiché il punto di vista del poeta è quello cristiano, non aveva altra scelta che quella di situare Maometto agli inferi, bisogna tuttavia, per onestà intellettuale riconoscere che riserva tale destino anche ad alcuni Papi. Ma ciò che fa riflettere e ragionare in questo contesto, rappresentato anche in San Petronio, a Bologna, da Giovanni da Modena (per il quale affresco si sono dovute attivare imponenti misure di vigilanza, a causa dei possibili attacchi dei fondamentalisti), è appunto la collocazione di Mohammed fra gli eretici (IX bolgia del VII cerchio). Ciò sta a significare che la cultura medievale in cui il poeta si innesta considerava l’Islam come un prodotto (certamente spurio) del cristianesimo. Del resto, come sappiamo dalla storia, la figura di Maometto si staglia in un contesto “cristiano” (le tribù dell’Arabia del suo secolo), in cui prevale la concezione di Nestorio, secondo cui in Cristo alle due nature, corrispondono due persone. Il profeta dell’Islam era ossessionato dall’idea dell’unicità di Dio, da preservare e custodire contro ogni idolatria. In nome di tale unicità negava a Gesù la natura divina, pur considerandolo un grande profeta e riservando a sua madre, la vergine Maria un ruolo molto importante nel Corano (Sura XIX di Maria). In tal senso Maometto sarebbe più vicino ad Ario che al Concilio di Calcedonia.
La seconda polemica riguarda il destino dell’uomo dopo la morte. È stata sollevata da un editoriale del quotidiano tedesco Frankfurter Rundshau, firmato da Arno Widman il 25 marzo scorso (data delle celebrazioni dantesche). Qui si sostiene che l’escatologia dantesca e quindi la Commedia sarebbe una grande bufala, in quanto la struttura dell’aldilà e la vicenda stessa sarebbero “copiate” dai testi mistici dell’Islam, e quindi non avrebbero alcuna originalità. L’editorialista fa riferimento al fondamentale volume di Miguel Asín Palacios sull’escatologia islamica nella Divina commedia, pubblicato in prima edizione nel 2019 e che l’anno scorso la Luni editrice ha riproposto in lingua italiana, con in appendice le polemiche che lo hanno accompagnato.
Certo le sorprendenti analogie che lo storico spagnolo rileva fra i contenuti dell’opera poetica e quelli degli scritti mistici islamici, è sorprendente, ma neppure tanto, se consideriamo che a livello escatologico, come per esempio anche nella dottrina della creazione, la fede cristiana e quella islamica coincidono. Uno dei luoghi
che ha attratto la mia attenzione è quello concernente la dottrina del Purgatorio. A tal proposito Palacios cita un testo islamico, che fa riflettere: «Ci sono due inferni o gehenna di fuoco: uno è chiamato interno e l’altro esterno. Da quello non può uscire nulla. Questo invece è il luogo in cui Dio castiga i fedeli che hanno peccato, per tutto il tempo che gli piace. Poi Dio accontenta gli angeli, i profeti e i santi che intercedono per loro, e li trae dal fuoco, carbonizzati […] sulle loro fronti viene impresso: liberti di Dio». È il tema della seconda possibilità (second change), che persino dopo la morte viene offerta ai credenti. Ma rilevare analogie, provenienti da contenuti di fede affini, non significa supporre una dipendenza diretta da una fonte, sulla cui conoscenza da parte di Dante bisogna essere cauti, come suggerisce un autorevole dantista quale Vittorio Sermonti.
In ogni caso il genio del poeta può lasciarsi ispirare da qualsiasi fonte, ma consiste nella relazione strutturale e direi ontologica tra forma e contenuto: ineguagliabile nel nostro poeta. Ma l’argomento più intrigante sta nella presenza/influsso/confronto generativo dell’Occidente medievale tra cultura cristiana e pensiero islamico. Apparteneva tale influsso all’aria stessa che Dante respirava, al di là della conoscenza che poteva avere, più o meno direttamente, dei testi.
Così, il poeta situa nel limbo personaggi fondamentali per la cultura del suo tempo, di fede islamica, qualiAverroè ed Avicenna (Inferno, IV, 144). Non sappiamo se per Dante questo limbo sarà superato nel giudizio universale, ma sappiamo bene che, senza l’influsso del pensiero arabo, quello di Aristotele non sarebbe penetrato nell’Occidente medievale.
Tramite il commento alla Metafisica di Averroè e il De anima di Avicenna, non avremmo potuto dissetarci alla lezione di Tommaso d’Aquino, del quale la Fides et ratio dice: «Un posto tutto particolare in questo lungo cammino spetta a san Tommaso, non solo per il contenuto della sua dottrina, ma anche per il rapporto dialogico che egli seppe instaurare con il pensiero arabo ed ebreo del suo tempo» (n. 43). Altro che “conflitto di civiltà”! La cultura occidentale europea deve molto al pensiero islamico, perché anche di esso si è nutrita, ma non l’ha semplicemente assimilato, bensì trasformato in maniera decisamente geniale come in Tommaso e Dante.
Alberto Pento
Quante demenzialità e menzogne proislam.Averroè e Avicenna erano due filosofi, due studiosi e due liberi pensatori e non erano arabi ed erano islamici per conformismo del tempo ed avevano studiato testi diversi da quelli islamici, come appunto quelli del greco Aristotele e di altri autori greci, i testi cristiani e quelli ebraici, testi persiano-zoroastriani e indù. La sapienza/scienza di questi due studiosi non gli veniva certo dall'essere anche mussulmani e dal Corano; oggi sarebbero probabilmente considerati apostati e richierebebro di essere uccisi dai nazi maomettani.
Averroè (filosofo, giurista, medico e astronomo) era nato in Spagna e morto in Marocco di incerta origine forse un ibrido berbero marocchina spagnola e non certo araba.
https://it.wikipedia.org/wiki/Averro%C3%A8 Avicenna (medico, filosofo, matematico, logico e fisico) non era arabo ma afgano-persiano e la sua scienza non gli viene certo dalla fede islamica e dallo studio del Corano.
https://it.wikipedia.org/wiki/Avicenna Di Giovanni rilegge Averroè, filosofo della doppia veritàdi Armando Torno
16 giugno 2017
https://www.ilsole24ore.com/art/di-giov ... a-AExM8reB Che cosa può dire all'uomo d'oggi Averroè, un pensatore arabo vissuto tra il 1126 e il 1198? Un filosofo che si poneva alte questioni su Dio, l'anima, il mondo? Anche se il nostro è tempo di leggerezze e di comunicazioni inutili, Averroè continua a suscitare ammirazione. Non soltanto vale la pena rileggerlo, o ripercorrerne la fascinosa opera, ma le sue problematiche sanno arricchire le sensazioni che circolano nell'era di Internet.
Già, Averroè. In tal modo il medioevo chiamò Abū l-Walīd Muhammad ibn Abmad ibn Muhammad ibn Rushd, un filosofo che fece conoscere all'Occidente Aristotele e che Dante pose nel castello degli spiriti magni, nel Limbo o primo cerchio dell'Inferno. Così il sommo poeta nel IV canto della cantica dedicata ai dannati: «Averoìs che 'l gran comento feo».
Dante parla di Averroè anche in altre sue opere (nella «Monarchia», nella «Questio de aqua et terra»); nel XXV canto del Purgatorio respinge la tesi, cara all'arabo, dell'intelletto separato: «sì che per sua dottrina fé disgiunto / da l'anima il possibile intelletto, / perché da lui non vide organo assunto».
Bene: chiunque non si accontenti delle recite televisive della “Commedia” dantesca o chi non crede alla stupida tesi che le filosofie del passato siano soltanto dei ruderi archeologici, ha ora a disposizione un saggio su Averroè degno della massima considerazione.
Lo ha scritto Matteo Di Giovanni, professore di filosofia antica e araba presso la Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera. Lo ha pubblicato l'editore Carocci di Roma nella collana “Pensatori” (giunta al 42° volume). Il titolo: “Averroè” (pp. 284, euro 19).
«Chi pensa resta immortale, chi non pensa muore». Per un profilo di AverroèMarco Sanfilippo
1 marzo 2015
https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/chi ... i-averroe/Abū l-Walīd Muhammad Ibn Ahmad Rushd, conosciuto in Occidente come Averroè, è stato uno dei filosofi più complessi della storia della filosofia. Medico e giurista, egli s’interessava anche di astronomia, di politica e di sociologia. Con Averroè la filosofia islamica ha forse toccato la sua vetta più elevata, ma ha trovato anche la sua conclusione. Il suo pensiero si è diffuso nell’Occidente medioevale, soprattutto grazie ai suoi commenti alle opere aristoteliche che hanno contribuito alla alla conoscenza del pensatore greco fino a quel momento molto limitata ed è proprio in Occidente che Averroè ha ricevuto l’appellativo di Commentatore. Dopo la fine del Medioevo, il suo pensiero ha continuato ad avere ancora una certa fortuna, anche se solo per poco, tanto che bisognerà attendere l’Ottocento perché fosse nuovamente riproposto dallo studioso francese Ernest Renan. Uno dei paradossi che ha avvolto la figura di Averroè e che in un certo senso ha accresciuto intorno a lui un certo alone mitico è stato proprio questo estremo contrasto fra momenti di altissimo interesse da parte degli studiosi, sia favorevoli sia contrari al suo pensiero, e periodi di eclisse quasi totale come se egli non fosse mai esistito. Lo si potrebbe paragonare al genio (gin) del celebre racconto, La Lampada di Aladino, che appare solo quando è invocato. Profetiche in questo senso sembrano le parole di Jorge Luis Borges (1998:83) alla fine del suo racconto La ricerca di Averroè: «Nell’istante in cui cesso di credere in lui, Averroè sparisce».
Per la formazione culturale di Averroè ha avuto notevole importanza l’ambiente in cui è vissuto. Nacque nel 1126 a Cordoba, città dell’Andalusia (Al-Andalus), che a quel tempo era sotto la dominazione araba e precisamente sotto la dinastia degli Almohadi. Al-Andalus era il cuore della cultura islamica in Occidente: qui poté proseguire il suo sviluppo la falsafa, una corrente filosofica islamica che affondava le sue radici nella filosofia greca, in particolare in Platone e in Aristotele. Fra gli esponenti più importanti di questa corrente di pensiero, si segnalano Al-Kindi, Al-Farabi e Ibn Sina, conosciuto in Occidente come Avicenna. In Al-Andalus sono cresciuti filosofi come Ibn Tufayl, Avempace e per l’appunto Averroè.
La famiglia di Averroè era una delle più influenti di Cordoba: sia suo nonno che suo padre furono qadì, cioè giudici. Averroè studiò l’umanesimo arabo, il diritto e la medicina. Si ipotizza che a introdurlo nei grandi ambienti della cultura araba non sia stata tanto l’importanza della sua famiglia, quanto il filosofo Ibn Tufayl che lo presentò al sultano, molto appassionato di filosofia. Nominato medico di corte, Averroè in seguito fu eletto gran qadì di Siviglia e di Cordoba (Cruz Hernandez 2000: 596-597).
Il filosofo di Cordoba si dedicò soprattutto allo studio di Aristotele, tanto da diventarne il più grande interprete. Egli analizzava le opere aristoteliche utilizzando come metodo il Commentario che consisteva nello spiegare il significato dei testi, parola dopo parola, aggiungendo a conclusione la propria interpretazione. Nonostante Averroè non conoscesse né il greco antico né il siriaco e quindi studiasse sulle traduzioni dell’epoca, è riuscito a sopperire a tale mancanza con un’analisi molto accurata, tanto da intuire talvolta addirittura gli errori che potevano nascondersi in quelle traduzioni (Averrois, in Illuminati 1996:152; 214).
L’accuratezza e la precisione delle analisi sui testi filosofici caratterizzavano il pensiero razionalista di Averroè, teso a cercare la verità tramite l’indagine del creato: secondo lui, solo attraverso l’indagine razionale della natura, i filosofi possono ottenere la conoscenza e raggiungere la perfezione. Per Averroè, come per Aristotele, la felicità perseguita dai filosofi coincide infatti con la perfezione (Leaman 1991: 254). Ciò a cui ambiscono i filosofi è quindi una sorta di beatitudine intellettuale, una visione di Dio che si otterrebbe nella vita terrena innalzando il proprio intelletto, oltre i propri limiti, attraverso l’apprendimento di tutto lo scibile umanamente possibile (Gagliardi 2002: 18).
Nonostante il suo razionalismo, Averroè si è professato credente, fedele all’insegnamento coranico e rispettoso della legge islamica. Poiché nell’Islam la legge si basa sull’interpretazione del Corano, proprio citando le Sacre Scritture, egli ha tentato di dimostrare che studiare la filosofia e il pensiero dei filosofi greci non allontanava dalla via tracciata dalla fede, ma al contrario aiutava a riconoscere i segni dell’opera di Dio. Questa sua teoria è sviluppata in una delle sue opere oggi più celebri, L’accordo della legge religiosa con la filosofia (Kitāb Fasl al-maqāl), il cui intento è mostrare ai teologi e ai giuristi musulmani che lo studio della filosofia è giudicato lecito dalla Rivelazione (Averroè 1994:113). Anzi, la religione esorta all’indagine razionale della natura, e questo è mostrato menzionando alcuni versetti del Corano (ibidem: 114-115). Il Commentatore sostiene che la filosofia non è responsabile del fatto che alcuni studiosi abbiano perduto la via della fede. Perciò paragona chi impedisce alle persone idonee di studiare la filosofia, per il timore che possano perdere la via della fede, a colui che si rifiuta di dare da bere a un assetato, perché qualche altro si è affogato ed è morto (ibidem: 122). Nella stessa opera, egli afferma che filosofia e religione ci mostrano l’unica verità, ma ci sono tre diverse vie per aderire ad essa e ogni via corrisponde al livello di apprendimento di ciascun individuo. Averroè sostiene che la filosofia è una delle tre vie per cercare la verità e non è in contraddizione con quanto è scritto nel Corano, anzi ne dimostra l’autenticità. Egli, infatti, scrive che «la filosofia non può essere contraria alla verità, ma anzi si accorda con essa e testimonia in suo favore» (ibidem: 124).
Le accuse di una parte dei capi religiosi islamici contro i filosofi erano in atto ancora prima che Averroè si affacciasse nel panorama della filosofia. La corrente più intransigente dei religiosi musulmani era quell’ash’arita il cui più importante esponente, il teologo Al-Gazali, aveva scritto L’Incoerenza dei Filosofi (Tahāfut at falasifa), opera nella quale condannava le tesi dei filosofi ritenute contrarie alla religione. Contro quest’opera Averroè scrisse per difendere la ricerca filosofica l’Incoerenza dell’Incoerenza (Tahāfut al-tahāfut) (Averroè 2006).
La parabola discendente della fortuna di Averroè nel mondo islamico non è iniziata solo perché le sue idee erano considerate empie, ma soprattutto per motivi di carattere politico. Molte delle sue opere furono pertanto bruciate ed egli fu esiliato a Lucena dallo sceicco Al-Mansur, che però lo richiamò a Cordoba due anni dopo (Cruz-Hernandez 2000:597-608). Poco dopo Averroè si ammalò gravemente e nel suo libro di medicina, Kitāb al-Kulliyyāt fī al-Tibb, descrisse i sintomi della sua malattia in modo tale che essa fosse riconosciuta da coloro che sarebbero venuti dopo di lui (ibidem: 603). Tale operazione non è nuova nel mondo della letteratura poiché già lo storico ateniese Tucidide, nella sua celebre opera poi intitolata La Guerra del Peloponneso (2004: 341), ha descritto i sintomi della peste affinché potesse essere riconosciuta e curata dai posteri. Non c’è dato sapere se Averroè si sia ispirato a Tucidide, ma certamente viene dimostrato come il suo acume lo abbia condotto a preoccuparsi degli altri lasciando a loro disposizione il proprio sapere. Egli morì a Marrakech nel 1198 e con la sua morte si concluse anche l’esperienza della filosofia nell’Islam.
Poco dopo, il suo pensiero si è diffuso in Occidente e ha provocato un vero e proprio terremoto intellettuale nella cultura medioevale latina ed ebraica. L’enorme mole di lavoro da lui dedicata alle opere aristoteliche e il pensiero che esse contenevano contrastavano con molte delle tesi platoniche nel Medioevo cristiano in quanto si adattavano con maggiore elasticità alle verità del Cristianesimo. Secondo lo studioso francese Mandonnet c’era, infatti, chi, come gli agostiniani capeggiati da San Bonaventura, condannava le idee di Averroè perché contrarie al pensiero cristiano. Altri, come Tommaso d’Aquino e Alberto Magno, pur riconoscendo lo straordinario lavoro fatto dal Commentatore, lo accusavano di avere travisato il pensiero di Aristotele. Altri ancora, come Sigieri di Brabante e Boezio di Tracia, pur non rinnegando la propria fede cristiana, vedevano nel filosofo di Cordoba l’ispiratore del libero pensiero, sciolto da qualsiasi legame imposto da ogni autorità: questi ultimi sono stati definiti come esponenti dell’averroismo latino (Bianchi 1990: 14).
In verità, i cosiddetti averroisti latini non hanno seguito pedissequamente il pensiero del Commentatore pur ispirandosi alle sue idee. Una delle tesi di Averroè più criticata è stata l’ipotetica esistenza di un intelletto unico per tutti gli uomini al quale gli individui attingerebbero per pensare e deliberare. Tale tesi è contraria non solo alla fede cristiana, ma anche all’etica stessa perché presupporrebbe fra le altre cose che l’individuo sia sprovvisto di un proprio intelletto non considerato come anima o parte di un’anima. Questa tesi, come altre di Averroè e degli averroisti latini, provocò la dura reazione della Chiesa che le condannò per due volte, nel 1270 e nel 1277 (ibidem: 14-15).
Nonostante l’opposizione dei suoi avversari, il filosofo di Cordoba ha lasciato una traccia indelebile nella civiltà occidentale tanto da essere ricordato da celebri artisti come Dante (Inferno, v. 144) che lo colloca nel Limbo insieme agli altri filosofi che, pur non conoscendo Cristo, cercarono sempre la verità, e Raffaello che lo inserisce nel suo celebre affresco della Scuola di Atene.
Infine, se è davvero suggestiva la malinconica conclusione del racconto di Borges nel quale Averroè sparisce quando si smette di credere in lui, si può tuttavia provare a proporre un finale alternativo, aperto, quello trasmesso dallo stesso Averroè, che sosteneva con forza il valore e l’importanza del pensare, dal momento che aiuta l’individuo a conoscersi, a migliorarsi e lo spinge, se egli lo desidera, verso la perfezione. Tale insegnamento ha continuato a sopravvivere con il trascorrere del tempo e per tale ragione probabilmente Averroè non è più da considerare come un fantastico genio evocato da una lampada magica quando si ha bisogno delle sue idee, ma come colui che forse a ragione scrisse: «chi pensa resta immortale, chi non pensa, muore».
Dialoghi Mediterranei, n.12, marzo 2015
Riferimenti bibliografici
Averrois, Commentarium Magnum in Aristotelis De Anima libros, Comm. XXXVI, in A. Illuminati, Averroè e l’intelletto pubblico. Antologia di scritti di Ibn Rushd sull’anima, Manifestolibri, Roma 1996.
Averroè, L’accordo della Legge religiosa con la filosofia, trad. it e intr. a cura di F. Lucchetta, Marietti, Genova 1994.
Averroè, L’Incoerenza dell’incoerenza dei filosofi, trad. e intr. a cura di M. Campanini, Utet, Torino 2006.
L. Bianchi, Il vescovo e i filosofi, Lubrina, Bergamo 1990.
J.L. Borges, L’Aleph, Adelphi, Milano 1998.
M. Cruz Hernandez, Storia del pensiero del mondo islamico, II, Paideia, Brescia 2000.
A. Gagliardi, Tommaso d’Aquino e Averroè. La visione di Dio, Rubbettino, Soveria Mannelli [CZ] 2002.
O. Leaman, La filosofia islamica medioevale, Il Mulino, Bologna 1991.
Tucidide, La guerra del Peloponneso, trad. it. a cura di F. Ferrari, intr. di M.I. Finley, Rizzoli, Milano 2004.
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Marco Sanfilippo, laureato in Filosofia presso l’Università degli Studi di Palermo, con una tesi in Storia della filosofia araba (relatore Giuseppe Roccaro), nel 2008 ha conseguito il titolo di sceneggiatore presso la Scuola del fumetto di Palermo. Attualmente si sta dedicando alla scrittura creativa e allo studio della Teoria dell’Intelletto di Averroè.