Il Politicamente corretto (PC): un crimine contro l'umanità

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Messaggioda Berto » mar giu 29, 2021 6:36 am

‘Eso no es cultura’: presidente de Brasil veta el uso del lenguaje inclusivo
Mundo sorprendente
3 minuti

https://mundosorprendente.com/eso-no-es ... inclusivo/

En una medida contra la comunidad LGBT, Jair Bolsonaro ha vetado el uso de palabras como “todes”, “elles”, “tod@s” o “todxs”.

En pleno debate sobre el uso del lenguaje inclusivo a nivel mundial, el presidente de Brasil, Jair Bolsonaro, ha lanzado duras críticas a palabras como “elles” y “todes”. Para su gobierno, no hay posibilidad de admitir el lenguaje para identificar a las personas no binarias. Todas estas medidas han sido criticadas por la comunidad internacional, ya que son vistas como ataques constantes en contra de la comunidad LGBT en aquel país.
No hay inclusión en Brasil

El presidente de Brasil, Jair Bolsonaro, se manifestó en contra del lenguaje inclusivo y aseguró que él no dará luz verde al uso de estas palabras para identificar a las personas no binarias. Desde su perspectiva, la sustitución de artículos masculinos o femeninos por la letra “e” son un atentado contra la cultura. Incluso, la legislación brasileña ha tomado medidas drásticas para aquellos creadores que busquen promover el lenguaje inclusivo. “Gente, creo que eso del lenguaje neutro e inclusivo, no es cultura”, dijo Bolsonaro en una transmisión vía redes sociales.

El mandatario defendió de esta forma una polémica decisión de la Secretaría de Cultura del Gobierno de Brasil, que hace unos días vetó el uso del lenguaje inclusivo en proyectos culturales que aspiren a financiación pública. La medida obliga a los artistas que quieran recursos del Estado para desarrollar sus creaciones a evitar expresiones como “todes”, “tod@s” o “todxs” en los proyectos que presenten al gobierno brasileño o en las propias obras que produzcan.

Por qué Brasil está en contra del lenguaje inclusivo?

El lenguaje de género neutro busca incluir a las personas no binarias, es decir, aquellas que no se identifican ni con el género masculino ni con el femenino. Pese a ello, el gobierno brasileño defendió que el “uso de signos ininteligibles, cuyo objetivo es pura bandera ideológica, impide el disfrute de la cultura y sus productos debido a que interrumpe el proceso de comunicación”. Además, en Brasil hay otro proyecto de ley en discusión en la Cámara de Diputados que busca impedir el uso del lenguaje inclusivo en las escuelas públicas.


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"Questa non è cultura": il presidente del Brasile mette il veto all'uso del linguaggio inclusivo

Un mondo sorprendente

https://mundosorprendente.com/eso-no-es ... inclusivo/

In una mossa contro la comunità LGBT, Jair Bolsonaro ha posto il veto all'uso di parole come "todes", "elles", "tod@s" o "todxs".
Nel mezzo del dibattito sull'uso del linguaggio inclusivo in tutto il mondo, il presidente brasiliano Jair Bolsonaro ha lanciato dure critiche a parole come "elles" e "todes". Per il suo governo, non c'è la possibilità di ammettere un linguaggio per identificare le persone non binarie. Tutte queste misure sono state criticate dalla comunità internazionale, poiché sono viste come attacchi costanti contro la comunità LGBT in quel paese.

Nessuna inclusione in Brasile

Il presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, si è espresso contro il linguaggio inclusivo e ha assicurato che non darà il via libera all'uso di queste parole per identificare le persone non binarie. Dal suo punto di vista, la sostituzione degli articoli maschili o femminili con la lettera "e" è un attacco alla cultura. La legislazione brasiliana ha persino messo un freno ai creatori che cercano di promuovere un linguaggio inclusivo. "Gente, penso che il linguaggio neutro e inclusivo non sia cultura", ha detto Bolsonaro in una trasmissione via social network.

Il presidente ha così difeso una decisione controversa della Segreteria della Cultura del governo brasiliano, che pochi giorni fa ha posto il veto all'uso del linguaggio inclusivo nei progetti culturali che aspirano a finanziamenti pubblici. La misura obbliga gli artisti che vogliono risorse statali per sviluppare le loro creazioni ad evitare espressioni come "todes", "tod@s" o "todxs" nei progetti che presentano al governo brasiliano o nelle opere che producono.

Perché il Brasile è contrario al linguaggio inclusivo?

Il linguaggio neutro di genere cerca di includere le persone non binarie, cioè quelle che non si identificano né con il genere maschile né con quello femminile. Nonostante questo, il governo brasiliano ha difeso che "l'uso di segni incomprensibili, il cui scopo è puramente ideologico, impedisce il godimento della cultura e dei suoi prodotti perché interrompe il processo di comunicazione". Inoltre, in Brasile c'è un altro progetto di legge in discussione alla Camera dei Deputati che cerca di impedire l'uso del linguaggio inclusivo nelle scuole pubbliche.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Messaggioda Berto » mar giu 29, 2021 6:36 am

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Messaggioda Berto » mar giu 29, 2021 6:36 am

23)
Il PC del rubare ai ricchi (e per estensione a tutti coloro che hanno qualcosa) per dare ai poveri e agli ultimi, specialmente a quelli presunti tali.
Rubare, rapinare, estorcere, espropriare i ricchi per conto dei poveri come se la causa/colpa/responsabilità della povertà dei poveri sia dei ricchi non è giustizia sociale, non è etica umana, non è cosa buona ma malvagia.




FILANTROPISMO DEMENZIALE
Niram Ferretti
6 maggio 2021

https://www.facebook.com/permalink.php? ... 4575318063

La decisione dell'amministrazione Biden di sospendere il brevetto dei vaccini anti Covid 19, è una penosa mossa ideologica che può essere salutata con entusiasmo giusto da politici del calibro di Bernie Sanders e Nicola Zingaretti.
Ma come, le industrie farmaceutiche investono un enorme quantitativo di risorse per produrre i vaccini in tempo record, con la prospettiva, evidentemente, che abbiano successo e che quindi, ci sia un profitto, e di colpo si vedono levare la sospensione del brevetto perché chiunque possa produrre il vaccino a costo zero?
Ma non era più sensato, se si voleva mostrarsi ecumenici e filantropici decidersi di comprare dalle case farmaceutiche la patente del brevetto e poi gestirla come si voleva?
Questa decisione è un attacco alla proprietà intellettuale e alla legittimità del profitto.
Colpire i legittimi ricavi significa, inevitabilmente disincentivare le industrie farmaceutiche più avanzate. È un grave e pericoloso precedente che attacca alla radice il principio della brevettibilità della ricerca, in nome di un filantropismo del tutto demagogico, di un progressismo da operetta che per aiutare chi è in difficoltà decide di strangolare la gallina dalle uova d'oro.



COMPAÑEROS
Niram Ferretti
8 maggio 2021

https://www.facebook.com/permalink.php? ... 4575318063

Come poteva mancare dopo la decisione di Joe Biden di sospendere i brevetti dei vaccini anti Covid 19, criticata anche in ambito progressista, e totalmente supina alla demonizzazione del profitto tipica dell'estrema sinistra Dem rappresentata da Bernie Sanders, l'endorsement papale? Da chi ritiene che la proprietà privata non sia un diritto primario e non ha fatto altro, da quando è stato eletto che criticare il capitalismo, c'è forse da meravigliarsi?
Il culto pauperistico coniugato con il populismo, l'avversione il mercato e per il guadagno sono i ferrivecchi della sinistra più ferocemente avversa alla modernità, quella più demagogica, che non potendo più contare sulla palingenesi rivoluzionaria che avrebbe fatto passare l'uomo dal regno della necessità a quello fantomatico della libertà, ha come obbiettivo rimasto quello di una demonizzazione costante delle corporazioni, delle multinazionali.
La Chiesa di Francesco è all'avanguardia di tutto ciò, e ora trova, l'inevitabile sponda americana in Bernie Sanders, vero ispiratore della decisione dissennata presa da Joe Biden.


Laurent Lorenzo Lawrence Vecchioli
In ogni caso Biden non può andare da nessuna parte perché la costituzione US è chiara , non puoi fare un esproprio senza appropriato compenso , perciò se Biden vuole veramente rendere pubblica tutta la tecnologia , prima la deve far comprare dal governo federale , ma chi decide le spese è il congresso , perciò ha bisogno di un voto del congresso , dove nei fatti la sua maggioranza al Senato non c’e l’ha più e con le varie elezioni parziali alla camera si sta riducendo sotto cinque voti .Perciò parla e basta , ma nei fatti di tutto quel che rimarrà di Biden sono alcuni ordini esecutivi per la loro parte costituzionale ( ben poco ) . Poi quando scoppierà per bene il scandalo sulle elezione truccate e su Hunter Biden il problema di Biden sarà di evitare dopo la casa Bianca il carcere federale , da aggiungere che poi ha una certa età. Perciò fa una fuga disperata in avanti che non lo può portare da nessuna parte .



La ricchezza non è un male ma un bene
viewtopic.php?f=202&t=2915

La ricchezza non è un male ma un bene e i ricchi non sono assolutamente i cattivi e i carnefici, come i poveri e gli ultimi non sono necessariamente e naturalmente i buoni e le vittime.
La ricchezza come la salute o lo star bene, la bellezza, la bontà e la forza non sono un male.
Anche il denaro è un bene e non un male


La proprietà non è un furto e un male ma un bene prezioso e rubare non è un bene ma un male
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 141&t=2495


Il denaro è santo, altro che la manna dal cielo, caro Bergoglio della mia polenta!

Il denaro vero è santo e buono, è il sudore della fronte e la fatica, è l'impegno e il sacrificio, è il lavoro delle creature del Creato, è la responsabilità, è lo studio e la ricerca, è la scienza, è il merito;
il denaro cattivo è soltanto quello falso dei falsari da cantina o di stato, quel denaro che pare manna dal cielo e che non è prodotto dal sudore della fronte ma dal ladrocinio e dallo svilimento del denaro buono e santo.

https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 9037783168

La proprietà è ciò che distingue l'uomo libero e sovrano dallo schiavo
viewtopic.php?f=205&t=2936
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 2247064892

Il demenziale disprezzo e la demonizzazione dell'uomo di buona volontà che si guadagna il pane con il sudore della fronte e che con il suo quotidiano e incessante lavoro rende la vita sulla terra un paradiso, meno dolorosa, meno faticosa, più lunga, ... per sé e per gli altri.
viewtopic.php?f=205&t=2956

Il mito tabù degli ultimi e dei poveri
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 141&t=2706
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... nref=story
I peggiori sono quelli che rubano in nome degli ultimi
I peggiori sono quelli che si servono degli ultimi o dei presunti ultimi per derubare e opprimere tutti gli altri, tra cui la loro stessa gente.





L'ONU di Michelle Bachelet un organismo criminale razzista


L'Onu si inventa la "tassa" sul razzismo per l'Occidente
Anna Bono
30 giugno 2021

https://lanuovabq.it/it/lonu-si-inventa ... loccidente

L'Alto Commissario per i Diritti Umani, Michelle Bachelet, presenta un Rapporto in cui si denuncia il razzismo sistemico di Europa e America, figlio di secoli di colonialismo e tratta degli schiavi. E chiede che sia pagato un congruo risarcimento agli africani. È la riproposizione dell'agenda bocciata alla Conferenza di Durban del 2001.

Il 28 giugno l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani Michelle Bachelet ha lanciato un appello urgente agli stati affinché si impegnino a sradicare il razzismo sistemico e istituzionale. Lo ha fatto in occasione della pubblicazione di un rapporto, presentato durante la 47esima sessione del Consiglio per i diritti umani, che contiene una rassegna dettagliata delle violazioni dei diritti economici, sociali, culturali, civili e politici inflitte agli africani e alle persone di origine africana in diversi paesi e giurisdizioni. “La situazione attuale è insostenibile – ha dichiarato l’Alto Commissario – il razzismo sistemico richiede una risposta sistemica. C’è bisogno di un approccio integrale, non frammentario per demolire dei sistemi radicatisi in secoli di discriminazione e violenza. Faccio appello a tutti gli stati affinché smettano di negare e incomincino a eliminare il razzismo, mettano fine all’impunità e creino fiducia, ascoltino le voci delle persone di origine africana, si confrontino con le eredità del passato e risarciscano i danni”.

Nel rapporto si dice che intenzione dell’iniziativa è dare seguito e attuazione alla “Conferenza mondiale contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e altre forme correlate d’intolleranza”, svoltasi a Durban nel 2001 e di cui ricorre il ventennale.

È un bene che lo abbiano precisato, così si spiega l’altrimenti incomprensibile taglio dato al rapporto. La Conferenza di Durban, per chi non lo ricordasse, era stata annunciata come un evento mondiale contro il razzismo, una svolta storica, ma in realtà è stata l’occasione di un attacco a tutto campo contro l’Occidente. Nel testo proposto al voto dell’Assemblea generale, elaborato dalla Commissione ONU per i diritti umani in collaborazione con le Organizzazioni Non Governative che avevano accettato di partecipare ai lavori preliminari e di organizzare un forum parallelo, gli Stati occidentali, e in particolare i membri del G7, venivano accusati di essere “plasmati da secoli di razzismo”, causa e al tempo stesso effetto dello schiavismo e dell’imperialismo coloniale.

Si voleva quindi che i paesi denunciati riconoscessero formalmente di essersi macchiati di crimini contro l’umanità, esprimessero il loro rincrescimento, porgessero scuse ufficiali per i danni materiali e morali arrecati e ammettessero di dover risarcire sia i discendenti degli africani vittime della tratta atlantica degli schiavi sia i paesi africani danneggiati dallo schiavismo e dalla colonizzazione europei. Inoltre si equiparava il sionismo a una “forma di razzismo” e Israele era accusato di politiche razziali discriminatorie nei confronti dei palestinesi.

Vista la situazione, la delegazione Usa e quella israeliana abbandonarono il summit, al quale peraltro avevano inviato una delegazione di basso profilo avendo capito dalla lettura dei documenti preliminari le vere intenzioni degli organizzatori. Che i diritti umani non fossero l’oggetto della Conferenza lo aveva chiarito ad esempio il fatto che la Commissione nazionale indiana per i diritti umani e le organizzazioni non governative indiane di ispirazione cristiana avessero chiesto invano, per mesi, che il sistema delle caste fosse incluso nelle forme di discriminazione da condannare nell’ambito della Conferenza.

Sotto la minaccia anche dei paesi dell’Unione Europea di lasciare Durban, alla fine il testo è stato emendato nelle parti che contenevano le ammissioni di colpevolezza, le richieste di scuse e l’impegno di risarcire, richiesti ai paesi occidentali, che adesso il rapporto dell’Alto commissario per i diritti umani ripropone.

Bachelet infatti si rivolge a “tutti gli stati”, ma nel suo rapporto si parla praticamente solo di paesi occidentali, denunciati e incriminati a ogni pagina, mentre nelle 95 pagine del testo sono nominati solo una volta la Cina, dicendo che nell’ambito dei provvedimenti contro la pandemia in alcune parti del paese si sono verificati comportamenti xenofobi contro degli Africani; l’India, citata per comportamenti ostili nei confronti di Africani e persone di origine africana; l’Egitto, per dire che nel 2015 vi sono state registrate discriminazioni e stigma contro membri della comunità nera e degli stranieri sub-sahariani; la Mauritania, dove nel 2016 gli Haratini e gli afro-mauritani costituivano la maggioranza delle persone che non erano riuscite ad avere una carta d’identità (senza dire che la Mauritania è un paese islamico, che gli Haratini e gli afro-mauritani erano schiavi e che la schiavitù è stata abolita nel 1981, ma è tuttora praticata).

Ripetutamente, in modo addirittura ossessivo, il testo ritorna sulla “troppo a lungo trascurata necessità”, per estirpare il razzismo negli Stati Uniti e nei paesi europei, “di fare i conti con le eredità dello schiavismo, della tratta transatlantica degli schiavi e del colonialismo”.

Tutto il mondo ha praticato lo schiavismo, che in certi paesi non è neanche un “lascito”, ma la realtà attuale. L’Africa ha vissuto tre colonizzazioni: quella delle popolazioni di lingua bantu, poi quella arabo-islamica e, ultima, quella europea, ma nel rapporto solo quest’ultima è presa in considerazione come lascito di cui liberarsi per fare giustizia. Della tratta arabo-islamica, che ha portato via dall’Africa altrettanti schiavi, e più ancora, di quella transatlantica, non si dice una parola. I termini “musulmano”, “islam”, non compaiono mai in tutto il rapporto.



ONU - UNESCO e altri FAO - UNICEF (no grazie!) - e Facebook ?
Mito e organizzazioni parassitarie e criminali che non promuovono affatto i diritti umani, le libertà, il rispetto e la fraternità tra gli uomini, le genti, i popoli, le etnie, le nazioni, gli stati.

https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 5542336059
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 205&t=2404



PERCHÉ IL MITO DI ROBIN HOOD "SOCIALISTA" È UN GRANDE FALSO IDEOLOGICO.
Marco Tuccillo
13 maggio 2022

https://www.facebook.com/marco.tuccillo ... 8901507262

Non sorprende che ci sia voluto l'aggiornamento di Ridley Scott del 2010 perché il commento culturale capisse che Robin Hood non è un eroe socialista. Libri e film tendono a languire nel regno dei media e degli intellettuali di sinistra. Eppure, è semplice rivendicare questo particolare eroe. In un momento in cui la "guerra di classe" è sulla punta della lingua di tutti, la leggenda di Robin Hood richiede una rivisitazione.
Dobbiamo gran parte della nostra concezione moderna di Robin Hood a Ivanhoe di Sir Walter Scott, pubblicato nel 1820. Il grande spirito americano Mark Twain detestava Scott e l'effetto che i suoi racconti di cavalleria avevano sul sud e spesso faceva riferimento a lui nei suoi scritti. In Le avventure di Tom Sawyer , Tom e i suoi amici fingono di essere Robin Hood, sentendo malinconicamente che "preferirebbero essere fuorilegge per un anno nella foresta di Sherwood piuttosto che presidente degli Stati Uniti per sempre". È un eroe romantico che cattura la nostra fantasia, ma perché?
Robin Hood a Ivanhoe crea una banda di uomini autogovernati contro l'establishment politico tirannico. Quando si spartisce il bottino del loro tesoro, lo distribuisce tra i fuorilegge “secondo il loro rango e merito”. Non è un uomo di elemosine cieche. È prima di tutto un uomo di libertà, onore e avventura. Come tutte le versioni di Robin Hood, parla, si mette in mostra e cerca di prendere in giro gli uomini che dominano gli altri.
Robin Hood è un eroe che non rispetta l'autorità illegittima. Più tardi, nel 19 ° secolo, Howard Pyle scrisse e illustrò Le allegre avventure di Robin Hood, dove spiega che la banda di uomini è venuta a Sherwood "per sfuggire al torto e all'oppressione ... hanno giurato che anche se erano stati depredati avrebbero spogliato i loro oppressori, siano essi barone, abate, cavaliere o scudiero". La ribellione è il loro primo obiettivo; la ridistribuzione della ricchezza che confiscano è secondaria. Robin Hood di Errol Flynn chiarisce questo punto nell'epopea Technicolor del 1938: "Non mi fermerò mai finché ogni sassone in questa contea non potrà alzarsi in piedi, liberare uomini e sferrare un colpo per Richard e l'Inghilterra". Il fuoco della sua lotta nasce dal desiderio di liberare e potenziare. I suoi nemici non sono i benestanti, ma i ben sistemati, i compari di un governo prepotente che invade ingiustamente la vita delle persone indipendenti.
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Messaggioda Berto » mar giu 29, 2021 6:37 am

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Messaggioda Berto » mar giu 29, 2021 6:44 am

24)
Il PC dell'irresponsabile e demenziale Papa Bergoglio che ci discrimina, che ci fa molto del male e che ci uccide



Papa Francesco: "il futuro delle nostre società è un futuro a colori", "abbattere muri, costruire ponti e superare paure" Verso un noi sempre più grande
6 maggio 2021

https://www.agensir.it/quotidiano/2021/ ... are-paure/

“A tutti gli uomini e le donne del mondo va il mio appello a camminare insieme verso un noi sempre più grande, a ricomporre la famiglia umana, per costruire assieme il nostro futuro di giustizia e di pace, assicurando che nessuno rimanga escluso”. Così il Papa, nella parte finale del Messaggio per la 107ª Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, che sarà celebrata domenica 26 settembre 2021, sul tema: “Verso un noi sempre più grande”. “Il futuro delle nostre società è un futuro a colori, arricchito dalla diversità e dalle relazioni interculturali”, la tesi di Francesco: “Per questo dobbiamo imparare oggi a vivere insieme, in armonia e pace”. L’immagine scelta è quella del giorno del “battesimo” della Chiesa a Pentecoste, “della gente di Gerusalemme che ascolta l’annuncio della salvezza subito dopo la discesa dello Spirito Santo”: “È l’ideale della nuova Gerusalemme – commenta il Papa – dove tutti i popoli si ritrovano uniti, in pace e concordia, celebrando la bontà di Dio e le meraviglie del creato”. “Ma per raggiungere questo ideale – puntualizza Francesco – dobbiamo impegnarci tutti per abbattere i muri che ci separano e costruire ponti che favoriscano la cultura dell’incontro, consapevoli dell’intima interconnessione che esiste tra noi”. In questa prospettiva, “le migrazioni contemporanee ci offrono l’opportunità di superare le nostre paure per lasciarci arricchire dalla diversità del dono di ciascuno. Allora, se lo vogliamo, possiamo trasformare le frontiere in luoghi privilegiati di incontro, dove può fiorire il miracolo di un noi sempre più grande”.



Tutte le demenzialità e le incoerenze di un uomo che non merita il mio rispetto e che ci fa tanto del male
viewtopic.php?f=199&t=2933
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 6636654604
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Messaggioda Berto » mar giu 29, 2021 6:44 am

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Messaggioda Berto » mar giu 29, 2021 6:44 am

25)
La vera correzione "politica" del male e delle imperfezioni della vita e del vivere è quella naturale che l'uomo e l'umanità perseguono da sempre ed è il contrario del PC Politicamente Corretto.
La correzione naturale migliore le cose e non fa del male a nessuno, produce bene e non male ed è sempre giusta, al contrario del PC che apparentemente pare produrre del bene per qualcuno ma in realtà fa del male agli altri ed è sempre ingiustizia.




Anche il comunismo o social comunismo o socialismo o socializzazione dei mezzi di produzione e della proprietà privata appartiene a questa categoria di falso bene che fa del male.


Nasce il trans-comunismo
Marcello Veneziani
26 maggio 2021

https://www.marcelloveneziani.com/artic ... comunismo/

Sta prendendo forma, seppur mutante, un nuovo, vecchio mostro: il trans-comunismo. Un fenomeno globale, non solo italiano. Mettete in fila i seguenti elementi sparsi: 1. l’egemonia mondiale di un comunismo geneticamente modificato, quello cinese, ibridato col mercato globale, rafforzato dalla pandemia e dall’espansione commerciale che sta colonizzando l’Africa e mezzo mondo; 2. lo sbarco in massa di migranti in Occidente, un proletariato mondiale che “non ha patria” – come dicevano Marx ed Engles – e “non ha da perdere che le proprie catene”; 3. il dominio planetario, a partire dagli Stati Uniti, di una ideologia correttiva che vuole abolire la realtà come voleva il comunismo (“abolire lo stato di cose presenti” prescriveva il Manifesto comunista) e sostituirla con una nuova umanità; 4. la ricaduta della biopolitica sui diritti civili, l’ideologia transgender modifica la natura umana e ribalta le identità e le definizioni, a partire dai connotati sessuali. Infine, se volete, i messaggi di Bergoglio sull’abolizione “morale” della proprietà privata e sulla destinazione comune di tutti i beni: il papa si candida a diventare il cappellano militante del nuovo comunismo terzomondialista. Percorsi diversi ma verso una stessa meta: il transcomunismo. Aggiungo: finita la lotta di classe, perché sono diventati loro classe abbiente di potere, il transcomunismo propone ora la lotta di tasse.

Qualcuno dirà che il comunismo è finito da trent’anni, anche se sopravvive in alcune aree, e dunque è grottesco parlare ancora di comunismo. Forse avete ragione. Però faccio notare che parlano ancora di nazifascismo ed è morto nel sangue più di 75 anni fa. Se il fascismo è una categoria eterna, l’ Ur-fascismo come lo definì Umberto Eco, perché non dovreste credere all’Ur-comunismo, alla sua mutazione transgenica, alle sue varianti per adattarsi ai nuovi organismi? Se credete alle befane, credete pure alle streghe…

Visto che la storia e la cultura qui non c’entrano, ma solo la psicosi, la paranoia e la loro speculazione, divertiamoci ad applicare il teorema di Eco al comunismo. Echeggiando il suo testo non fa una grinza in versione ur-comunismo. Ossia il comunismo è eterno, non è finito col Muro di Berlino, con la caduta dell’Urss o con la mutazione del Pci in Pd, ma è vivo e lotta insieme a noi. Il proletario si chiama oggi migrante, la rivoluzione si fa con gli sbarchi e i diritti civili, le classi da riscattare sono i neri, le donne secondo il vangelo femminista, gli omosessuali, i trans e i rom. La nuova umanità futura verrà dall’utero in affitto; il sistema totalitario in tema di sorveglianza e commercio globale sarà made in China.

E chi non la pensa come gli ur-comunisti va bandito dalla società civile, va criminalizzato ed eliminato da tutti i consessi pubblici, sono quel che pure al tempo del comunismo si chiamavano le forze oscure della reazione in agguato. Il comunismo è resuscitato in laboratorio, lotta sotto falso nome e sotto falso colore: non veste più in rosso ma in arcobaleno o in fucsia, su fondo nero.

Il trans-comunismo ha inventato la sua neolingua, nota come politically correct, in cui le verità vengono distorte, sottoposte a censura, fino a essere capovolte: tutto ciò che è reale e naturale appare meritevole di cancellazione e di rovesciamento, fedeli all’essenza del comunismo che è, dicevamo, l’abolizione della realtà.

Per difendersi, è necessario tenere viva la memoria storica, ci ricordava Eco a proposito del fascismo; lo stesso vale per il comunismo, il regime che ha mietuto più vittime tra più popoli, in più continenti e in un periodo storico più lungo e a noi più vicino. Il comunismo al potere ha un record unico: ha ucciso più comunisti di ogni altro regime. A differenza di tutte le altre dittature del Novecento, fascismo e nazismo inclusi, il comunismo al potere ha sterminato i suoi stessi popoli e lo ha fatto in tempo di pace, senza bisogno di inventarsi guerre e razze.

Fummo in tanti nel secolo scorso a ritenere che non aveva più senso l’anticomunismo in assenza di comunismo, come non ha senso l’antifascismo in assenza di fascismo. Ora, però, il quadro muta, da una parte intervengono i fattori sparsi che abbiamo prima indicato e dall’altro persiste in modo aggressivo, sotto la formula di odiare chi odia, il dogma che tra razzismo & fobie sta risorgendo il nazi-fascismo. Dunque, bisogna attrezzarsi con argomenti adeguati.

Il comunismo avrebbe una sua nobiltà se fosse realizzato in modo volontario e scontato sulla propria pelle, dividendo i propri redditi e proprietà con chi è povero, come fecero i monaci e i francescani; ma la pretesa aberrante del comunismo è di costringere l’intera società, con la forza, a caricarsi della furiosa utopia ugualitaria e livellatrice. I meriti e le capacità non contano, la proprietà è un furto, la ricchezza un abuso e un privilegio, la nascita in un luogo un puro accidente. Non mancano cavalli di Troia per l’operazione, dalla benedizione religioso-umanitaria al sostegno dei colossi finanziari e web. Ogni tentativo di opporsi a questo nuovo comunismo ogm è demonizzato con la scomunica polivalente di cui sopra: l’accusa di razzismo e derivati. Così non puoi più obiettare nulla, devi sottostare all’imperativo del transmocomunismo.

Per finire, dedico loro la poesia di un ex-comunista, Octavio Paz: “Il bene, volevamo il bene/raddrizzare il mondo./Non ci mancò la fermezza:/ci mancò l’umiltà. /Quello che volevamo non lo volevamo con innocenza./Precetti e concetti, /superbia da teologi:/battere la croce,/fondare con il sangue,/edificare la casa con i mattoni del crimine,/decretare la comunione obbligatoria./Alcuni divennero segretari dei segretari/del Segretario Generale dell’Inferno./ La rabbia s’è fatta filosofia, /la sua bava ha coperto il pianeta./La ragione discesa sulla terra/ha preso la forma del patibolo/e in milioni l’adorano”. Benvenuti nell’inferno umanitario del transcomunismo.
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Il Politicamente corretto (PC): un crimine contro l'umanità

Messaggioda Berto » mar giu 29, 2021 7:22 am

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Il Politicamente corretto (PC): un crimine contro l'umanità

Messaggioda Berto » lun nov 01, 2021 9:17 am

26)
Il PC dell'egualitarismo e il falso mito dell'uguaglianza



Sul mito politicamente corretto dell'uguaglianza
Giovanni Bernardini
https://www.facebook.com/giovanni.berna ... &ref=notif

L'egualitarismo (dal francese égalitarisme, da égalitaire, 'ugualitario') è una scuola di pensiero che si basa sul concetto di uguaglianza sociale, dando priorità a tutte le persone.
https://it.wikipedia.org/wiki/Egualitarismo
Le dottrine egualitarie sono generalmente caratterizzate dall'idea che tutti gli esseri umani sono uguali in termini di valore fondamentale o status morale. L'egualitarismo è la dottrina (propria dei partiti di sinistra) secondo cui a tutti i cittadini di uno Stato dovrebbero essere accordati esattamente uguali diritti.


La ricchezza non è un male ma un bene
viewtopic.php?f=202&t=2915
La ricchezza non è un male ma un bene e i ricchi non sono assolutamente i cattivi e i carnefici, come i poveri e gli ultimi non sono necessariamente e naturalmente i buoni e le vittime.
La ricchezza come la salute o lo star bene, la bellezza, la bontà e la forza non sono un male.
Anche il denaro è un bene e non un male
Non è colpa dei ricchi se esistono anche i poveri, come non è colpa dei sani se esistono pure i malati, e non è responsabilità dei forti se ci sono i deboli, tanto meno è responsabilità dei belli se esistono i brutti, come la sapienza non è causa dell'ignoranza, allo stesso modo che la giustizia non è causa dell'ingiustizia, come non è colpa della vita se esiste la morte, e del bene se esiste il male.
L'ossessione per i poveri e gli ultimi che arriva alla demenza di demonizzare i ricchi e i primi per poi aggredirli, derubarli, schiavizzarli e ucciderli è il massimo della idiozia più disumana e assurda.
E ciò è un danno e un male per l'umanità intera e per ogni società civile e per ogni sistema economico benefico capace di realizzare benessere diffuso, progresso e sviluppo per tanti e alla lunga per tutti.





Contro il mito della società uguale
Un libro scorretto di un filosofo polacco centra un punto cruciale dei nostri giorni: egualitarismo e dispotismo sono facce della stessa medaglia. Cos’è quel demone che ha tradito il liberalismo ferendo la libertà di espressione
Claudio Cerasa
13 agosto 2016

https://www.ilfoglio.it/politica/2016/0 ... le-102771/

E se fosse una questione di dispotismo culturale prima ancora che una questione di correttezza politica? Ci vorrebbe un buon editore per portare in Italia un libro geniale scritto da un eccentrico filosofo polacco uscito qualche mese fa negli Stati Uniti con un publisher di successo: la Encounter Books, tosta casa editrice di tradizione conservatrice, legata alle lezioni di Irving Kristol e Stephen Spender, così insofferente al politicamente corretto da essersi rifiutata, a partire dal 2009, di inviare i propri libri alla redazione Book Review del New York Times. Il libro si chiama “The Demon in Democracy: Totalitarian Temptations in Free Societies” e l’autore del saggio è Ryszard Legutko, provocatorio professore di Filosofia antica e Teoria politica all’Università Jagiellonian a Cracovia, ex ministro dell’Istruzione della Polonia e oggi parlamentare europeo nel gruppo dei Conservatori e Riformisti. La tesi del libro di Legutko – spesso criticato in Inghilterra per essere un po’ sopra le righe sulla questione dei diritti civili – su questo punto è semplice e lineare e offre una risposta convincente, seppur sintetica, a una questione cruciale dei nostri giorni: la trasformazione della libertà di espressione, del free speech, in un fenomeno molto pericoloso da combattere con forza per evitare di alimentare le grandi fobie della nostra èra (dall’islamofobia all’omofobia). La domanda da cui parte Legutko è interessante ed è simile a quella che su questo giornale si è posta qualche mese fa la grande scrittrice americana e di sinistra Camille Paglia: come è stato possibile che la società occidentale abbia permesso che il politicamente corretto uccidesse la libertà di espressione? Camille Paglia indirizza da tempo la sua critica verso una sinistra involontariamente stalinista che “invece di difendere il vibrante individualismo degli anni Sessanta ha messo in campo un docile golpe culturale nel nome dell’uguaglianza articolato con il linguaggio accondiscendente dei diritti”.

Ryszard Legutko indirizza invece la sua critica al tradimento delle élite europee e delle democrazie liberali, colpevoli di non aver contrasto a sufficienza la nascita di un mostro culturale chiamato “egualitarismo”. Secondo Legutko, ed è questa la tesi affascinante del suo libro, le democrazie liberali stanno soccombendo a un nuovo ideale utopico in cui l’individualità e l’eccentricità sono destinate a essere progressivamente vietate e in cui il politicamente corretto è destinato a spingere le società liberali verso una monocultura in cui il dissenso non viene tollerato e in cui si va via via innescando “un potente meccanismo unificante in cui le élite impongono uniformità di vedute, di comportamenti e di linguaggi in nome di un interesse superiore”. Negli anni Ottanta, in Polonia, Legutko ha visto con i propri occhi il dispotismo comunista e sempre in quegli anni ha lottato contro il totalitarismo comunista scrivendo su un famoso trimestrale di dissidenti polacchi (Arka). Alla luce di quell’esperienza, il filosofo polacco fa un passo ulteriore per descrivere il senso delle “Totalitarian temptations in free societies”. Secondo Legutko, egualitarismo e dispotismo non si escludono affatto e hanno anzi alcuni pericolosi punti di contatto: l’idea di rendere tutti i pezzi della società uguali l’uno all’altro, l’idea di eliminare ogni potenziale minaccia per la parità in tutti i settori della società e in ogni aspetto della vita umana, l’idea che in nome di un principio più alto sia giusto annullare le proprie differenze, la propria fede, la propria tradizione, per omologarsi al pensiero dominante. In estrema sintesi la domanda è questa: è accettabile oppure no considerare l’uguaglianza il punto di arrivo e non il punto di partenza di una società moderna? Ed è possibile stravolgere il concetto di uguaglianza arrivando a sostenere che il concetto di “parità di opportunità” sia da sostituire al concetto di “parità di risultati”?

Pensate, dice Legutko, al principio dell’affirmative action: “Un tempo l’affirmative action prevedeva un concetto: sei favorito a entrare in università, per esempio, se sei nero. Oggi lo stesso principio è diventato uno strumento di giustizia sociale che richiede interventi coercitivi del potere statale: così il liberalismo è stato capovolto”. Ovviamente Legutko sa bene che la democrazia liberale è un sistema che consente una libertà che nessun regime totalitario può permettere (l’Iran non è come l’America, la Turchia non è come il Regno Unito, il Pakistan non è come la Germania) ma giocando sul filo del paradosso centra un punto importante: la reazione al politicamente corretto, e in particolare all’egualitarismo, oggi è l’unica soluzione naturale per proteggere la libertà dell’individuo. Non cedere al dèmone dell’uguaglianza è l’unico modo per sfuggire alle nuove tentazioni totalitarie. Perché la dittatura del proletariato, ricorda il filosofo polacco, può abolire le classi, ma la dittatura dell’uguaglianza può fare qualcosa persino di più grave: abolire le nostre anime.


Dalle bandiere rosse ai dogmi del politicamente corretto
Carlo Lottieri
23 ottobre 2016

https://www.ilgiornale.it/news/dalle-ba ... 22277.html

Quando crollò il muro di Berlino, in molti furono portati a pensare che l'età del socialismo fosse alle spalle e che il materialismo storico fosse destinato a finire nella spazzatura della storia.

In parte, le cose sono andate così, se si considera che l'Unione sovietica si è dissolta velocemente, che la Cina è cambiata in profondità, che ormai gli ultimi fortini di quell'ideologia sono nelle mani di fratelli o nipoti di quelli che un tempo furono leader carismatici: da Fidel Castro a Kim Il Sung.

Eppure il comunismo resta onnipresente, dato che larga parte della cultura contemporanea è pervasa da quella visione del mondo che ancora oggi esercita un potente influsso sulle categorie che utilizziamo per interpretare la realtà: sia nell'establishment di sinistra, sia nel populismo di destra.

È sufficiente pensare al trionfo dello stupidario ecologista. È sicuramente vero che si farebbe fatica a trovare, nel pensiero di Karl Marx (proiettato verso il futuro e volto a esaltare il progresso industriale) una qualche legittimazione dell'ambientalismo dominante e delle nuove parole d'ordine: animalismo, coltivazione biologica oppure «chilometro zero». Eppure il legame tra il vecchio socialismo ottocentesco e questa nuova sensibilità è chiaro, poiché in entrambi i casi tutto si regge sulla condanna della società di mercato.

Anche autori che oggi - a ragione - vengono considerati «di sinistra» (da John Maynard Keynes a John Rawls), definirono le proprie tesi alla ricerca di un'alternativa moderata e in qualche modo ai loro occhi «ragionevole» tra la pianificazione e il laissez-faire, tra l'egualitarismo assoluto e l'ineguale distribuzione conseguente alla lotteria naturale e allo svilupparsi degli scambi. Oggi il marxismo non ha più il peso che aveva quando Bertolt Brecht, Herbert Marcuse o Louis Althusser dominavano la scena culturale, ma le tradizioni ora egemoni si sono definite nel confronto con quelle idee e muovendo dall'esigenza di dare loro una risposta alternativa.

Non c'è quindi da stupirsi se il dibattito pubblico e spesso la stessa legislazione tendono a considerare «ineguale» (e di conseguenza ingiusto) ogni rapporto contrattuale che abbia luogo tra soggetti che hanno posizioni economiche differenti. Il nostro sistema normativo - che prevede distinti diritti per i proprietari e per gli inquilini, per i datori di lavoro e per i dipendenti, per i produttori e i consumatori, ecc. - deriva il suo carattere fortemente discriminatorio dalla tesi secondo cui un dominio dell'uomo sull'uomo non si avrebbe solo quando qualcuno aggredisce o minaccia qualcun altro, ma anche quando due persone liberamente negoziano.

Siamo tutti in una certa misura comunisti perché siamo tutti imbevuti dell'idea che una società dovrebbe eliminare le diversità, soddisfare ogni bisogno, innalzare i nostri gusti e allontanarci dall'egoismo, impedire che taluno guadagni miliardi e altri siano indigenti e senza lavoro. Non avremmo mai avuto alcuna legittimazione della coercizione statale, quando è strumentale a modificare l'ordine sociale emergente dalla storia e dalle interazioni sociali, senza il successo del pensiero socialista e senza un intero secolo di riflessione «scolastica» (con eresie, glosse e innesti di ogni tipo) attorno alle opere di Marx.

Se il nazismo è ovunque condannato senza «se» e senza «ma», ben pochi esprimono la medesima riprovazione nei riguardi del socialismo: che pure ha causato un numero di morti innocenti perfino superiore. E questo si deve al fatto che le posizioni culturali mainstream sono in larga misura una revisione e una rilettura di temi di ascendenza socialista. S'intende certamente seguire altre strade, ma non è detto che gli obiettivi siano poi tanto diversi.

Un dato da tenere ben presente è che se il marxismo è stato certamente una teoria a tutto tondo, sul piano storico-sociale esso è stato anche il catalizzatore di spinte tra loro diverse, ma accomunate dal voler esprimere un rifiuto radicale della realtà, identificata - a torto o a ragione - con la società capitalistica. Con argomenti variamente comunitaristi, egualitaristi, ecologisti, pseudocristiani e altro ancora, per molti anni gli spiriti rivoluzionari si sono ritrovati sotto le bandiere rosse essenzialmente per esprimere il più radicale rigetto delle libertà di mercato e di ogni ipotesi di un ordine economico-sociale senza una direzione prefissata. E se oggi, come sottolinea spesso Olivier Roy, circa un quarto dei terroristi islamisti francesi non ha genitori musulmani né ha radici nei Paesi arabi, questo probabilmente si deve al fatto che oggi il fondamentalismo incanala, in vari casi, un'analoga volontà nichilistica di distruggere ogni cosa.

Le stesse librerie ci dicono, anche semplicemente osservando le copertine dei volumi in commercio, quanto il comunismo sia vivo e vegeto. In effetti, il successo di autori come Thomas Piketty, Naomi Klein, Thomas Pogge o Slavoj iek (solo per citare qualche nome à la page) può essere compreso unicamente a partire da un dato elementare: e cioè dal riconoscimento che l'Occidente è diviso al proprio interno da posizioni diverse, ma quasi ogni famiglia culturale si concepisce quale profondamente avversa alla proprietà, al libero scambio, all'anarchia dell'ordine spontaneo.

Quando si consideri pure il «politicamente corretto», con il suo corredo di censure e proibizioni, è chiaro come si tratti in larga misura di una logica strettamente connessa a quel risentimento che ha alimentato, sin dall'inizio, l'egualitarismo socialista e la sua rivolta contro la natura.

È chiaro che oggi nessuno si propone di spedire i dissidenti in Siberia e di disegnare piani quinquennali che governino dall'alto l'intera economia, ma il reticolato delle regole approvate dalle assemblee parlamentari delinea un quadro complessivo quanto mai illiberale: in cui si discrimina ogni libera scelta estranea al luogocomunismo e si pongono le basi per una società sempre più servile, assoggettata, priva di ogni capacità d'iniziativa.




La guida di Esquire al politicamente corretto
Stefano Piri
26/11/2020

https://www.esquire.com/it/news/attuali ... -corretto/

“Penso che il grande problema di questo paese sia il politicamente corretto” (Donald Trump)

“Vogliono riscrivere la storia di questo paese, editare il nostro curriculum per renderlo più politicamente corretto” (Boris Johnson)

“Noi conservatori difendiamo l’Europa dall’aggressione del politicamente corretto” (Giorgia Meloni)

“Viviamo in una dittatura del politicamente corretto” (Daniela Santanché)

“Di politicamente corretto si può anche morire” (Gianluigi Paragone)

“Il politicamente corretto uccide le persone” (Ted Cruz)

“Non ne posso più del politicamente corretto. È una barbarie assoluta, uno strazio, un incubo” (Lorella Cuccarini)

“Sanremo guardatevelo voi, hanno già deciso chi vincerà, quelli politicamente corretti” (Matteo Salvini)

Non possiamo certo dire di vivere in un periodo storico noioso o libero da preoccupazioni epocali, ma il variopinto fronte sovranista globale pare aver individuato la radice della corruzione dilagante in due paroline dalla potenza evocativa ormai universale: politicamente corretto. Lo sentiamo dire continuamente, spesso a sproposito ma non per questo con meno entusiasmo, forse perché come tutte le espressioni che da un gergo specialistico degradano nel lessico comune – pensiamo alla tassonomia pandemica con cui tutti abbiamo imparato a cimentarci in pochi mesi, da “paucisintomatico” a “lockdown” – produce una sensazione di immediato entitlement in chi ne fa uso, come se le parole giuste ci consentissero di dominare qualcosa che prima ci spaventava, afferrare finalmente qualcosa che aleggiava in forma gassosa (il linguaggio in fondo è stato inventato più o meno per questo).

Del resto, sulla scorta dell’antica inclinazione per le controriforme in assenza di riforma, in Italia abbiamo importato direttamente l’insofferenza per il politicamente corretto – e l’estetica di conservatorismo scapigliato dei professionisti del politicamente scorretto, che opponendosi al “pensiero unico” fanno da decenni splendide carriere radiofoniche e politiche – anche se del politicamente corretto qui da noi non si è mai sentito nemmeno l’odore. Dalle nostre parti il perbenismo linguistico è talmente opprimente che il primo partito in Parlamento nasce dal Vaffanculo day, e il suo capo politico trova spassoso pubblicare sui propri social un montaggio di versioni di sé col viso dipinto di nero, evidentemente ignaro di, o indifferente a, quanto la blackface sia considerata razzista e offensiva.

Il primo partito nei sondaggi invece ha per coordinatore delle segreterie nazionali Roberto Calderoli, condannato a 18 mesi per diffamazione con l’aggravante dell’odio razziale per aver paragonato l’ex ministra Cécile Kyenge a un “orango” e uso a definire pubblicamente “culattoni” o “ricchioni” gli omosessuali e “bingo bongo” gli africani. Mai sospeso né censurato in alcuna forma dalla Lega – nemmeno a seguito della condanna penale –, Calderoli è oggi uno dei decani del Senato della Repubblica, e il principale quotidiano italiano lo ha intervistato pochi mesi fa presentandolo così: «Calderoli, lei è una specie di Pierino».

«Lesbiche, gay, pedofili, ammazzateli tutti», «l’omosessualità è contronatura», e «se uno picchia una persona non importa se l’ha fatto perché era gay o perché era dell’Inter» sono solo tre tra le numerose enormità pronunciate negli ultimi mesi da esponenti della Lega e di FdI nel dibattito sul Ddl Zan contro l’omotransfobia, mentre nel Paese si registravano diverse aggressioni a persone LGBTQI+, talvolta con esiti tragici come nel caso della morte di Maria Paola Gaglione, speronata dal fratello mentre viaggiava in motorino con il compagno transessuale Ciro Migliore. Il Ddl intanto – ai primi di novembre 2020 – è ancora arenato in un interminabile dedalo parlamentare, durante il quale perfino l’emergenza del Covid-19 è stata spregiudicatamente utilizzata dalle opposizioni come strumento di ostruzionismo.

Insomma, in un paese dove il politico più popolare della sua generazione quando non è occupato a mangiare panini su Instagram usa espressioni come “zingaraccia” e paragona i rom ai topi, dovremmo forse concentrarci sul recupero delle più elementari norme di educazione e civiltà, e lasciare il dibattito sul politicamente corretto a quegli altri Paesi che hanno qualche motivo reale per occuparsene.

Politically correct è infatti un’espressione che fino a relativamente poco tempo fa circolava principalmente in inglese e principalmente nel dibattito accademico e nella prassi delle università americane.

Andiamo però con ordine, facendo ancora un passo indietro. Chi oggi parla di “dittatura del politicamente corretto” fa inconsapevolmente dell’ironia nera, perché i primi usi del termine di cui siamo a conoscenza si trovano nella pubblicistica delle dittature novecentesche vere e proprie: “politicamente corretto” venne usato sporadicamente (e probabilmente coniato) dalla stampa stalinista e da quella nazista per indicare le opinioni allineate ai rispettivi regimi.

Nel suo significato contemporaneo, però, ovvero di (citiamo la Treccani per prevenire contestazioni) “orientamento ideologico e culturale di estremo rispetto verso tutti, nel quale cioè si evita ogni potenziale offesa verso determinate categorie di persone”, il politicamente corretto ha origine nella sinistra americana degli anni Trenta, viene articolato dai movimenti per i diritti civili degli anni Sessanta e diventa una questione nazionale alla fine degli anni Ottanta.

Nel 1990 il reporter Richard Bernstein pubblica sul New York Times un articolo intitolato La nascente egemonia del politicamente corretto, che inizia così: «Invece di scrivere dei classici della letteratura come in passato, il prossimo autunno le matricole dell’Università del Texas baseranno le loro composizioni su una serie di saggi su discriminazione, affirmative action e diritti civili. Il nuovo programma, chiamato Writing on Difference, è stato approvato dalla facoltà il mese scorso ed elogiato da molti professori per aver conferito al curriculum maggiore aderenza ai problemi della vita reale. Alcuni però lo vedono come un soffocante esempio di ortodossia accademica». Sono passati trent’anni ma la vicenda assomiglia molto a quelle che ancora oggi fanno friggere di rabbia i social reazionari e gridare alla fine della libertà di pensiero.

Tra il 1989 e il 1992 le occorrenze del termine politically correct sulla stampa americana passano da poche decine a diverse migliaia: come ricostruito dal Guardian, gli articoli di stampa del periodo tendono a riciclare le stesse storie sui campus universitari, raccontate con toni allarmistici e spesso con grandi imprecisioni. Al fenomeno viene immediatamente associata una terminologia da incubo orwelliano: “dittatura”, “repressione”, “polizia del pensiero”. Precisamente le stesse caratterizzazioni che trovate oggi su Google, o nei titoli dei saggi in vendita se provate a cercare “politicamente corretto” su Amazon.

Il tema viene quasi subito colorato politicamente: è addirittura il presidente degli Stati Uniti, George H.W. Bush, ad azzannare la gustosa novità durante il commencement speech rivolto alle matricole della Michigan University nel 1991: «Nel duecentesimo anniversario della Dichiarazione dei diritti la libertà di parola è sotto attacco, anche in alcuni campus universitari. La nozione di politicamente corretto (...) rimpiazza i vecchi pregiudizi con pregiudizi nuovi. Quella che era incominciata come una crociata di civiltà si è ormai ridotta a ragione di conflitto, e di censura».

Bush padre si adopera già a far dimenticare che il politicamente corretto non era in realtà nato come campagna ideologica, ma come rimedio pragmatico a situazioni insostenibili: a partire dagli anni Settanta, in conseguenza delle vittorie dei movimenti per i diritti civili, i college americani avevano aperto le iscrizioni in maniera improvvisa a un numero relativamente grande di studenti afroamericani o di altre minoranze. Questo aveva portato a un’impennata degli episodi di razzismo e intolleranza nei campus, ai quali le università avevano fatto fronte con i cosiddetti speech codes, codici di linguaggio per favorire una serena convivenza che però la stampa aveva demonizzato, raccontandoli come manuali di un’oppressiva neolingua.

Dal discorso del presidente Bush in poi la polemica sul politicamente corretto diventa endemica nel dibattito americano e in quello globale, proseguendo sottotraccia tra le nicchie molto politicizzate nei momenti di stanca, e deflagrando nel mainstream in due periodi non casuali: all’inizio del millennio, subito dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York, e dal 2015 a oggi, con la campagna vittoriosa di Donald Trump seguita dal caso Weinstein e dall’esplosione del MeToo. La zizzania sul politicamente corretto torna insomma di moda quando i conflitti sociali, razziali, religiosi o di genere si fanno più urgenti, e non è difficile capire perché: è un dispositivo retorico che inverte la posizione degli oppressori e quella delle vittime.

Ne La società aperta e i suoi nemici Karl Popper distingueva tra partiti che parlano come lupi e agiscono come agnelli e partiti che parlano come agnelli e agiscono come lupi; una strategia, questa, che ritroviamo nel piagnisteo organizzato contro il politicamente corretto: le minoranze e i loro alleati diventano gli oppressori, mentre un miliardario bianco o un politico conservatore (o la stessa persona se in entrambe le categorie) passano per frondisti, outsider, perseguitati.

Un vero tesoretto politico al giorno d’oggi, perché come osserva Daniele Giglioli nel saggio del 2014 Critica della vittima, quello della vittima è il ruolo del vero “eroe del nostro tempo”, che «dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio».

Ma allora, chiede il pragmatico benaltrista che è dentro ciascuno di noi, perché le minoranze non si fanno furbe e si concentrano sulle tante e giuste rivendicazioni concrete, abbandonando una battaglia linguistica che presta il fianco alle strumentalizzazioni dei loro avversari? Fosse facile.

L’intuizione che il linguaggio sia il primo strumento del potere è antichissima: il Dio cristiano, che notoriamente nell’antico testamento aveva un senso dell’umorismo un po’ pesante, impedisce agli uomini di raggiungere il cielo con la torre di Babele non già folgorandoli o scatenando un potente terremoto (strumenti che rientravano indubbiamente nelle sue prerogative) ma incasinandogli il linguaggio. Parlando lingue diverse gli uomini iniziano a litigare, si dimenticano della causa comune e si disperdono su tutta la Terra (suona familiare?).

Chi ha il potere sul linguaggio ha il potere su tutto: gli antichi romani notoriamente concedevano alle proprie colonie grande autonomia economica e sociale, ma appena conquistato un nuovo territorio iniziavano un processo di romanizzazione “dolce”, che in un paio di generazioni portava la popolazione locale ad adottare nomi e lingua della Capitale.

In Italia in particolare il nesso tra lingua e classe sociale è arcaico: il monopolio della lingua ufficiale è appartenuto per secoli al clero e alla nobiltà. La pietra angolare della nostra cultura nazionale è un atto di ribellione linguistica, La divina commedia, scritta in volgare da Dante sfidando proprio quel monopolio. Questo spiega forse ancora oggi la diffidenza dei ceti popolari italiani verso tutto ciò che odora di autoritarismo linguistico, e l’apparente paradosso per cui l’insofferenza verso il politicamente corretto è particolarmente accesa in quei segmenti di società che da una maggiore solidarietà linguistica avrebbero probabilmente solo da guadagnare.

Se dovessimo ridurre il politicamente corretto a un dizionario minimo di sei parole controverse, otterremmo una mappa essenziale ma preziosa dei conflitti fondamentali della nostra società: la N-word racconta il conflitto razziale sul piano dell’appropriazione; le diverse declinazioni della sigla LGBTQI+ (spesso derise come formalistiche e cervellotiche dai detrattori) descrivono la difficoltà dell’inclusione nel discorso sui diritti individuali; il progressivo abbandono del termine islamico, associato all’islamismo politico, a favore del più neutrale sostantivo musulmano, delinea il tentativo di accostarsi a una grande religione e ai suoi credenti in maniera rispettosa e senza criminalizzazioni. Mentre in questi mesi nel dibattito ha fatto il suo impronunciabile ingresso la schwa (“ə”), la vocale neutra che secondo alcuni benintenzionati dovrebbe sostituire il maschile sovraesteso, riequilibrando i rapporti di genere anche nell’italiano.

Non dimentichiamo infine, anche se di recente se ne parla meno, che il politicamente corretto nel nostro Paese è intervenuto a ingentilire radicalmente (o secondo i detrattori a mascherare in maniera ipocrita) i rapporti di classe: termini che indicavano professioni ritenute umili come bidello o spazzino sono stati soppiantati, anche nel linguaggio della burocrazia, da perifrasi un po’ goffe ma indubbiamente meno connotate come “operatore scolastico” e “operatore ecologico”. La stessa parola poveri è considerata sconveniente ed è rimpiazzata da “meno abbienti” o “persone a basso reddito”.

Infine, un esempio di come il politicamente corretto non sia un sistema fisso di regole ma una sensibilità soggettiva e destinata a variare nel tempo, ci viene fornito dal termine welfare. Ancora usato con connotazione largamente positiva in Europa, soprattutto dai movimenti progressisti e di sinistra, secondo molti osservatori negli Stati Uniti è passato – dopo anni di battaglia culturale della destra liberista – dalle stelle del preambolo della Costituzione alla stalle della lista delle parole indicibili. Nel 2020 dire che qualcuno è “on welfare” significa ormai dargli del parassita, del mantenuto, per cui perfino gli enti previdenziali preferiscono perifrasi come “on public assistance”.

Questo esempio è anche rivelatorio di come la nostra ossessione per il politicamente corretto sia ridotta a uno spicchio relativamente ridotto del fenomeno, quello degli emendamenti al linguaggio provenienti da parte progressista, e tenda a farci dimenticare che ci troviamo in senso molto più ampio nell’epoca dell’eufemismo. Il linguaggio politico e quello pubblicitario (che spesso coincidono) lavorano da anni ad addolcire gli aspetti sgradevoli, violenti o problematici della realtà: così ci siamo abituati a chiamare le rughe “imperfezioni dell’età”, le persone “risorse umane” e i morti civili in guerra “danni collaterali”, tutte perversioni del linguaggio ben più grottesche o violente di quelle di cui abbiamo parlato ma per le quali non si scomoda in genere il termine “dittatura”, né si manifesta più che un bonario fastidio.

Il pragmatico benaltrista interiore torna qui a bussare col suo occhialuto sorrisetto da corsivista del Corriere: il motivo per cui alla gente questi eufemismi non danno fastidio, dice, è che nessuno ha tentato di imporli cacciando dalle università chi si rifiutava di usarli, o cancellando film e serie televisive non conformi.

Siamo dalle parti dell’ormai famosissima “lettera aperta” ad Harper’s di luglio scorso, firmata da 153 intellettuali prestigiosi e per la maggior parte non sospettabili di simpatie reazionarie come Margaret Atwood, Noam Chomsky, Salman Rushdie e Jeffrey Eugenides (oltre che dall’ormai ultra-controversa J.K. Rowling), che faceva distinzione un po’ gesuitica tra la «sacrosanta richiesta di riforme politiche» egualitarie e «una nuova serie di attitudini moraliste e di impegno politico che tendono a indebolire le nostre norme di confronto aperto e di tolleranza delle differenze in favore, al contrario, di un conformismo ideologico». A cosa si riferivano? «Ci sono direttori che perdono il lavoro per aver pubblicato articoli controversi; libri che vengono ritirati per presunte inautenticità; giornalisti ai quali non è permesso scrivere su alcune tematiche e professori che sono sottoposti a indagine per aver citato brani di letteratura in classe».

«Un ricercatore è stato licenziato per aver fatto circolare uno studio che era stato anche sottoposto a peer-review. I leader di alcune aziende vengono allontanati a causa di quelle che, in certi casi, sono solo manifestazioni di goffaggine». Le vicende qui elencate sono a portata di Google, e se avrete la pazienza di fare qualche ricerca vi accorgerete che non tutte sono andate proprio come le riassume la lettera, che pare più che altro riportare un po’ pigramente i titoli sensazionalisti di alcuni giornali.

Per carità interpretativa evitiamo però di sofisticare sui dettagli, e prendiamo per buono il generico riferimento alla ormai famigerata cancel culture, parola dell’anno 2019 secondo il prestigiosissimo Macquarie Dictionary, massima autorità linguistica per l’inglese australiano. Da Kevin Spacey a Louis CK, diversi artisti negli ultimi anni sono in effetti stati puniti sul piano della carriera (per esempio con la cancellazione o il ritiro dalle sale di film già pronti) ben prima di aver ricevuto un giusto processo, o per comportamenti sconvenienti di nessuna rilevanza legale, o nel caso estremo di Woody Allen per accuse da cui la giustizia li aveva già assolti.

Qualcuno obietterà che non si tratta di censura ma di un conflitto democratico sul terreno dell’autorità culturale, che come viene concessa si può revocare. E qualcun altro noterà che il boicottaggio è l’ultimo strumento di mobilitazione di massa a cui è rimasto un briciolo di efficacia e di capacità di coinvolgimento, a dimostrazione del fatto che anche in veste di attivisti ragioniamo e ci comportiamo da consumatori. Di certo alcuni tratti della cancel culture preoccupano anche un politico molto diverso da quelli che abbiamo citato finora, l’ex presidente americano Barack Obama:

«Questa idea di purezza senza compromessi va superata velocemente (...) Il mondo è un casino, le ambiguità ci sono. E anche le persone che fanno cose buone hanno i loro difetti (...) Ho la sensazione che adesso tra certi giovani, e questo è moltiplicato dai social media, ci sia questa idea tipo ‘il modo migliore che ho per cambiare le cose è giudicare più che posso gli altri’ (...). Tipo che se twitto qualcosa o creo un hashtag sul fatto che tu hai fatto qualcosa di imperfetto o usato il termine sbagliato, poi posso sedermi e sentirmi migliore degli altri».

Uno scenario che ci è familiare e che fa eco a quello che scriveva David Foster Wallace in Autorità e uso della lingua, uno dei suoi strepitosi saggi brevi che si occupa in buona parte proprio di politicamente corretto. «Parte del motivo per cui qualsiasi parlante usa un certo vocabolario», osservava «è sempre il desiderio di comunicare qualcosa su se stesso».

«Il politicamente corretto ha la funzione primaria di segnalare e congratulare certe virtù nel parlante – scrupoloso egualitarismo, preoccupazione per la dignità di tutti, sofisticatezza riguardo alle implicazioni politiche della lingua – e di conseguenza serve gli interessi egoistici del parlante stesso molto più di quanto serva qualsiasi persona o gruppo da esso ribattezzato».

Il rischio, insomma, è che il politicamente corretto invece di democratizzare il linguaggio diventi un sistema paternalistico di regole per iniziati che finisce per rafforzare l’autorità linguistica proprio di quel segmento demografico – giovani con un alto livello di istruzione e molto tempo a disposizione da passare sui social, quindi mediamente ad alto reddito e mediamente bianchi – teoricamente disposto a cedere potere alle minoranze. Un bel paradosso, vero?

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Totem e tabù linguistici: dal “politicamente” inglese al linguaggio inclusivo [1]
6 luglio 2021

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Il concetto del linguaggio “politicamente corretto” nasce negli ambienti della sinistra statunitense degli anni Trenta per poi affermarsi negli anni Ottanta e diventare di massa. Questa impostazione è divenuta la linea guida dei più prestigiosi atenei universitari che hanno persino stilato dei regolamenti (gli speech codes) che si sono imposti come modello con le sue rigidità. Curiosamente, ci sono schiere di intellettuali italiani, inclusi i linguisti, pronti a tuonare contro chi si oppone agli anglicismi, perché questo approccio viene accostato agli elenchi dei forestierismi banditi dalla Reale Accademia durante il fascismo, e contrapposto alla libertà di espressione (“la libertà di essere schiavi”, direbbe qualcuno). Eppure, molti di questi intellettuali sono gli stessi che hanno aderito con entusiasmo al politically correct che negli anni Novanta è stato così “trapiantato” anche in Italia, un Paese che, giorno dopo giorno, assomiglia sempre più a una colonia culturale, e linguistica, la cui classe dirigente è formata da collaborazionisti felici di scimmiottare tutto ciò che arriva d’oltreoceano, a cui si sottomettono a costo di rinnegare e riscrivere la nostra storia e le nostre radici.

L’intento di usare un linguaggio non discriminante verso le minoranze può essere anche nobile, ma i risultati che ha prodotto sono molto discutibili, e il politicamente corretto è di fatto un approccio molto controverso. Tra le critiche più fondate c’è quella di confondere i nomi e la forma (cioè la lingua) con la sostanza e i veri problemi. Le parole sono importanti, certo, ma siamo sicuri che per non essere razzisti sia così importante non proferire la parola “negro” o mettere in discussione l’esistenza delle “razze”?

Il politicamente corretto e le nuove definizioni che partono dagli stessi presupposti rischiano di ridursi a un sostanziale “stile eufemistico” un po’ ipocrita. E tra le altre accuse che sono state avanzate ci sono quelle di indurre al conformismo linguistico e di costituire una limitazione della libertà di espressione molto spesso condotta con un furore “religioso” che ricorda quello della “caccia alle streghe”.

Comunque la pensiate, vorrei riflettere su un altro aspetto della questione che mi pare sia stato assai trascurato.

Questo approccio, più che essere universale, è quello degli Stati Uniti, e non è affatto neutrale.


Politicamente corretto o politicamente “americano”?

La sensibilità egualitaria del “politicamente corretto” verso le minoranze non è così neutra e universale come ce l’hanno venduta: risente del punto di vista degli Stati Uniti. Il suo trapianto in Europa fa parte del progetto di esportazione – piuttosto colonizzatore – della propria cultura che si basa sull’assunto che “i valori americani sono universali”, per citare Condoleezza Rice quando era consigliera del governo Bush per gli affari esteri.

Eppure, proprio definire gli statunitensi come americani non è affatto politicamente corretto. L’America è un continente (o due, a seconda dei criteri di classificazione che cambiano da continente a continente), ma pare che a nessuno importi del fastidio che prova un messicano o un peruviano quando si identifica l’America con gli Stati Uniti. “Il condomino che si dichiara il padrone del continente” (per citare Gabriele Valle), come se tutti gli altri Paesi dell’America non esistessero. Come ci sentiremmo se l’Europa venisse fatta coincidere per esempio con la Germania, ed europei diventasse sinonimo di tedeschi, visto che è la nazione in questo momento più importante?
Ciononostante, gli statunitensi si definiscono americani, e noi, nel nostro servilismo, li seguiamo. Il sogno “americano” è quello degli Stati Uniti. Tutto il resto non lo vediamo (e “la faccia triste dell’America” è solo un incubo).

Anche un’espressione come “scoperta dell’America” è frutto di una visione eurocentrica e colonialistica, visto che quelle terre esistevano ben prima della nostra scoperta. Ma ancora una volta pare che nessuno si occupi più di questi dettagli linguistici. La nuova moda è invece quella di contestare il “Columbus Day” e di abbattere le statue di Colombo con un furore iconoclasta piuttosto talebano che ha che fare con il fondamentalismo e il revisionismo storico. Non fu Colombo – che come è noto ignorava di aver “scoperto l’America” e aveva sbagliato strada e continente – a compiere il più grande genocidio della storia.

Accanto al revisionismo storico e alla sensibilità per non discriminare solo ciò che fa comodo, c’è poi il revisionismo linguistico che è stato esportato e ormai trapiantato in Italia in modo profondo. Come è accaduto, per esempio, che una parola come “negro” sia diventata un tabù?

A partire dagli anni Ottanta, negli Stati Uniti, dove il razzismo era ed è tangibile, parole come black, nigger o negro, considerate dispregiative, furono sostituite da afroamericano.

In Italia negro non aveva affatto questa connotazione, di africani e stranieri se ne vedevano ancora pochini a dire il vero, e il problema del razzismo nostrano era ancora legato ai pregiudizi contro i “terroni”. Negro era una parola neutra, usata da secoli nei testi scientifici, presente normalmente nel linguaggio comune e nel doppiaggio cinematografico. Negli anni Sessanta Lola Falana era l’amatissima “Venere negra”, era “negro” il “tremendo” (con tutte le ragazze) Rocky Roberts, e Edoardo Vianello cantava i “Watussi altissimi negri” in modo gioioso.

Dagli anni Novanta in poi i traduttori cominciarono ad applicare i criteri statunitensi anche alla nostra lingua, e nel giro di un decennio l’uso secolare dell’italiano è stato modificato dall’alto: i mezzi di informazione colonizzati, da un giorno all’altro, ci hanno inculcato l’idea che dire in un certo modo significava essere razzisti. Non era affatto vero, ma il nuovo clima culturale nato a tavolino si è imposto, aiutato dall’indice puntato contro chi non si adeguava, tacciato di razzismo. Un intervento moralizzatore sull’uso storico della nostra lingua, non giustificato, perpetuato proprio dagli stessi che si appellano alla sacralità dell’uso che non andrebbe normato in nome di un descrittivismo linguistico che è piuttosto altalenante.

In questo modo si sono affermate alternative ipocrite come “di colore” (ma di quale colore si parla? il nero!), oggi in disuso in favore di neri e afroamericani. Intanto, poco importa che si chiamino negri o neri, l’omicidio di George Floyd a Minneapolis da parte di alcuni poliziotti, e i numerosi altri casi di analoghi soffocamenti che stanno emergendo, hanno portato alle rivolte che occupano le prime pagine di tutti i giornali. E allora che cosa è più importante? Cambiare il nome alle cose o cambiare la sostanza? Meglio parlare di negri, con rispetto, o definirli neri discriminandoli?

Naturalmente, se una comunità si sente discriminata da un uso linguistico spregiativo è più che doveroso tenerne conto e usare un linguaggio non offensivo. Il punto è che il politicamente corretto spesso non è invocato da chi si sente discriminato, ma da altri che predicano la correttezza dall’alto come una religione. L’unione ciechi, e i ciechi con cui mi è capitato di parlare, se ne fregano bellamente di essere chiamati “non vedenti”. Moltissime donne non approvano le ideologie di chi vorrebbe “educare” dall’alto e propone un’idea dell’essere femminista che appartiene solo a una parte del mondo femminile. Provate a parlare con un’avvocato o un’architetto (dove un apostrofato sta per una) per sentire come preferiscono essere definite. La maggior parte di esse rivendica con orgoglio il nome della sua professione al maschile. Provate a dire loro che questo è un retaggio maschilista di cui sono vittime, e non stupitevi se avranno una reazione piccata.

Come nota Massimo Arcangeli:

“da bidello a collaboratore scolastico, da netturbino a operatore ecologico o da infermiere a operatore sanitario; i poveri e i padroni restano tali anche se li si riqualifica come non abbienti e imprenditori; i pazienti che divengono assistiti non hanno alcuna ricaduta, nemmeno da effetto placebo, sulla qualità del servizio sanitario.”

In difesa della razza

A proposito di razzismo, la nuova moda che arriva dagli Stati Uniti è quella di negare l’esistenza delle razze. Come se fosse questo il problema del razzismo. Di nuovo, le modalità con cui certi scienziati e certi movimenti affermano questa nuova visione sono impregnate di toni da fanatici religiosi, che non accettano critiche (eresie) nel loro riscrivere la scienza.

Sino al Novecento, il concetto di “razza” in biologia era abbastanza ben connotato. Si parlava di genotipo (cioè le caratteristiche genetiche microscopiche) e di fenotipo (cioè i caratteri macroscopici esteriori visibili a tutti). Il neodarwinismo si basava sull’individuazione delle specie, a loro volta divisibili in razze (varietà all’interno di una stessa specie). Era soprattutto la possibilità di riprodursi che segnava la distinzione tra specie e razza, poco importa che si parlasse di uomini o animali: la distinzione qualitativa tra uomo e animale appartiene storicamente al clero e alla religione cattolica, al fondamentalismo, non alla biologia e alle scienze della natura che la Chiesa ha storicamente osteggiato e represso in ogni modo. In linea di massima la riproduzione tra specie diverse non può avvenire, al contrario di quanto accade per le razze, e questo era il criterio di demarcazione tra i due concetti.
Questa distinzione non era perfetta, aveva le sue sfumature e i casi di specie affini che possono procreare sono molti, dall’asino e cavallo che generano mulo o bardotto, agli incroci innaturali tra tigre e leone che portano al “ligre”. Persino l’incrocio tra Homo sapiens e Neanderthal, specie differenti, è stato studiato di recente. Ma gli uomini appartengono alla stessa specie, questo è quello che li accomuna biologicamente, e i fenotipi, o le razze, comunque siano geneticamente determinati, non si possono negare.

Tutte le definizioni scientifiche hanno i propri limiti e quello che bisogna dire chiaramente è che né le specie, né le razze sono “oggetti reali” (“Platone, vedo il cavallo ma non la cavallinità” diceva Antistene), sono solo concetti o categorie (in senso kantiano) che utilizziamo per descrivere il mondo.

Oggi il fenotipo è stato cancellato dai nuovi scienziati riduzionisti, che reinterpretano tutto esclusivamente dal punto di vista genetico. E in questa ridefinizione dei concetti, molti concludono che le razze non esistono e si scagliano con violenza religiosa contro chi non è d’accordo, bollato come razzista o antiscientifico. Ciò è una bella menzogna, e ancora una volta ha a che fare con il fondamentalismo più che con la scienza.

Su questi presupposti – che sono solo un cambio di paradigma concettuale e non una “scoperta” della verità scientifica che dopo Popper non è più sostenibile – qualcuno vorrebbe cambiare addirittura la Costituzione! Come se affermare “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua…” fosse razzista!

Non importa quale sia l’atteggiamento davanti a queste ridefinizioni (personalmente continuo a difendere il concetto di razza), ognuno è libero di ricorrere alle categorie concettuali che preferisce, ma ciò che deve essere chiaro è che la discriminazione non passa dalla messa in discussione della “razza”, ma dall’accettazione delle diversità, comunque si chiamino.
Il punto è che non siamo tutti uguali, ed è proprio nel riconoscere il valore e il diritto della diversità che sta la civiltà e l’essere “corretti”. E ciò vale anche per le culture e per le lingue, dove la varietà è ricchezza, non un ostacolo all’affermazione del pensiero unico basato sulla lingua unica, l’inglese globale, imposto a in tutto il mondo come un valore universale e la lingua internazionale.

Il politicamente corretto parte dal presupposto che modificare il nostro modo di parlare porterebbe a modificare il nostro modo di pensare. Questo presupposto è sicuramente fondato, e già Wilhelm von Humboldt, per esempio, aveva posto l’accento sul fatto che la lingua è l’organo formativo del pensiero e che attraverso di essa impariamo a ragionare. Ma se dietro le nuove parole c’è solo una riverniciata ipocrita con intenti eufemistici e superficiali, questo presupposto viene a cadere. Non cambia affatto le cose.

I minorati degli anni Cinquanta sono divenuti handicappati, poi sostituiti con portatori di handicap, poi con disabili (altro calco dell’inglese), poi divenuti diversamente abili. Ma oggi il fronte degli interventisti sull’uso in nome del linguaggio non discriminate (rinominato il “parlare civile” visto che “politicamente corretto” è oggetto di polemiche sempre più ampie) sconsiglia anche questa nuova espressione e propone persona con disabilità.

Questo modo di procedere e di intervenire sull’uso in modo moralizzatore, dall’alto, non porta a nulla, perché non appena una nuova definizione concepita per suonare neutrale si afferma, ecco che subito dopo diviene nuovamente dispregiativa e occorre cambiarla. Non sono i “nomi” ciò che è importante, ma i concetti sottostanti che designano.

E allora, per cambiare le cose, bisognerebbe andare un po’ più a fondo, e rendersi conto che il linguaggio è una spia dell’inconscio, per dirla con Freud. Attraverso le parole esprimiamo ciò che abbiamo dentro e ciò che siamo. Per non essere razzisti non serve negare (o ridefinire) il concetto di razza. Occorre un approccio culturale più serio. E dietro le buone pratiche del parlare civile, del politicamente corretto e del linguaggio inclusivo non c’è solo la volontà di usare un linguaggio non discriminante. C’è il trapianto di una nuova cultura, basata sulla lingua angloamericana, che si sta sovrapponendo dall’alto alla nostra, ne modifica l’uso e introduce nuovi tabù che storicamente non ci appartengono.

Nel nuovo assetto che si sta delineando il totem (cioè il sacro, nella concezione freudiana) è rappresentato dalla cultura e dalla lingua inglese. E non aderire a questa nuova religione genera i nuovi tabù linguistici: “negro”, “razza”… in una concezione dove ormai il linguaggio non discriminante si esprime attraverso le categorie culturali d’oltreoceano e addirittura attraverso anglicismi crudi (gay, down…) che diventano “il” politicamente corretto. Il dibattito sul “linguaggio inclusivo” che sta prendendo piede è un esempio lampante…



Il comunismo di ritorno
Marcello Veneziani
2018

http://www.marcelloveneziani.com/artico ... i-ritorno/

Non c’è giorno che non venga evocato il fascismo come se fosse dietro l’angolo, sul punto di tornare; o eterno, come sostenne in un pamphlet ideologico Umberto Eco. Ma vuoi vedere che mentre si narra il ritorno del fascismo si sta preparando un altro inquietante ritorno? Parliamo del comunismo, l’evento che ha più sconvolto il secolo in cui siamo nati, perché è durato tre quarti di secolo, ha coinvolto ben tre continenti e miliardi di sudditi, ha mietuto più vittime in assoluto, per giunta in tempo di pace. Un evento gigantesco, scomparso nel Racconto Collettivo, inghiottito nella preistoria, come se appartenesse a un’era geologica a noi estranea. E invece, eccolo risalire le caverne dell’oblio e tornare a galla nei nostri giorni. Risale in forma di Pauperismo, riemerge in forma di Accoglienza, ritorna nelle vesti globali del Politically Correct. Chiamiamolo in sigla PAP-Comunismo. È il comunismo di ritorno, come l’analfabetismo, rinato per ignoranza e dimenticanza del passato.

Di che comunismo si tratta? Innanzitutto, non sentite un’ondata globale di guerra ai ricchi, di “livella” egualitaria, di slogan sulle nuove povertà, decrescita felice e vite di scarto? Ora in versione umanitaria, ora pastorale, ora in versione populista e grillina, il pauperismo è tornato e minaccia di colpire tutti coloro che sono considerati benestanti, che abbiano o no meritato la loro vita agiata, abbiano fatto o meno sacrifici, abbiano lavorato, mostrato capacità e prodotto ricchezza anche per la società. Macché, bisogna livellare a prescindere, colpire tutto ciò che eccede il minimo salariale e viene definito d’oro, dalle retribuzioni alle pensioni. Odio e risentimento prosperano in rete.

I ceti medi sono travolti da quest’ondata di pauperismo rancoroso. È il primo livello, più grezzo e naive di comunismo che torna a galla dopo decenni di mercatismo sfrenato, egoismo e corsa alla ricchezza e ai consumi.

Ma c’è un livello più alto e globale che riguarda l’accoglienza dell’infinito proletariato mondiale attratto dall’occidente benestante. Per i nuovi comunisti da sbarco non si possono porre freni o argini al sacrosanto diritto delle persone a cercare un destino migliore, a spostarsi e andare dove essi desiderano. La patria è un carcere e come diceva il vecchio comunismo i proletari non hanno patria e non hanno da perdere che le loro catene. Un reticolo di associazioni, centri d’accoglienza, Ong, movimenti pro-migranti e strutture parallele, anche catto-umanitarie, sostiene i disperati del pianeta e cerca una nuova alleanza. Nasce un nuovo proletariato globale, con tutte le tensioni relative che si aprono, i conflitti di classe, d’integrazione e di esclusione, di insicurezza e di lotta. La battaglia successiva è difendere i diritti dei migranti dallo sfruttamento indotto dai nuovi “padroni”, dei caporali nelle campagne o delle imprese che li pagano in nero o con salari di fame. Tutto l’impianto ricalca lo schema del comunismo; e come nel comunismo non manca alla base un anelito di verità e di giustizia sociale.

C’è infine un terzo livello ideologico più sofisticato di comunismo che oggi ha trovato un nuovo PC, non più il vecchio Partito Comunista ma il Politically Correct. È la nuova ideologia globale che vuol raddrizzare l’umanità, redimerla dai suoi errori e dal suo passato, riscrivere la storia e il lessico, offrire un radioso avvenire di emancipazione e liberazione. Il femminismo, i movimenti lgbt e omosessuali, antirazzisti, antifascisti e antixenofobi sono le sue avanguardie, i suoi nuovi militanti. Nel segno del politicamente corretto la lotta di classe è di nuovo attiva, tra il Progresso e la Reazione, tra i Liberatori e i sessisti, i maschilisti, gli omofobi, tra i rom, i neri, i migranti, i gay, le donne e i loro nemici. La lotta di classe diventa lotta di genere e codice linguistico; vengono colpiti i bastioni della società, la civiltà e le sue tradizioni, la nazione e i suoi confini, la famiglia e la sua struttura naturale. C’è tutta una narrazione quotidiana, pervasiva, a mezzo stampa, tv, scuola e università, col concorso attivo delle istituzioni o di grandi totem transnazionali, che fomenta in modo ossessivo questa lotta di classe e riduce ogni notiziario, ogni messaggio, ogni appello a variazioni su questi temi. E resta sullo sfondo l’incognita di come evolverà il mao-capitalismo cinese, se darà luogo a forme ibride di comunismo, in Cina, in Africa o nel mondo.

Pauperismo, accoglienza, politicamente corretto. Provate a rivedere insieme, in sequenza coordinata, i tre temi indicati. Ditemi se non si sta formando un nuovo comunismo, su tre livelli. Ditemi se un nuovo spettro non si aggira per l’Europa che somiglia maledettamente al vecchio nonno barbuto.

Ecco il PAP-comunismo. Qualcuno vedrà in quella sigla o acronimo, una perfida allusione al Papa Bergoglio che è diventato il cappellano militante di questi movimenti. Lasciamo che resti quel sospetto ma PAP-Comunismo evoca una definizione di Hegel di due secoli fa, “la pappa del cuore”. Si riferiva alla deriva etico-sentimentale, a quell’umanitarismo retorico e melenso, peloso e fumoso, antenato del buonismo. Quanti crimini si sono commessi per il bene supremo dell’umanità, persino più di quelli che sono stati commessi nel nome della razza o di altri aberranti primati… Tutto il comunismo è una promessa di redenzione sociale, un sogno di felicità e di giustizia che ha prodotto incubi, oppressioni e massacri più terribili per la storia dell’umanità. E ora sotto nuove vesti, in tre stadi, si riaffaccia nel mondo…
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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