Ma quale genocidio dei nativi americani?

Re: Ma quale genocidio dei nativi americani?

Messaggioda Berto » dom feb 09, 2020 9:55 pm

Hanno ucciso più le malattie che le guerre coloniali

Per genocidio dei nativi americani, detto anche genocidio indiano, olocausto americano (in inglese Indian Holocaust, American Holocaust) o catastrofe demografica dei nativi americani
https://it.wikipedia.org/wiki/Genocidio ... _americani
Per genocidio dei nativi americani, detto anche genocidio indiano, olocausto americano (in inglese Indian Holocaust, American Holocaust) o catastrofe demografica dei nativi americani alcuni storici e divulgatori intendono il calo demografico e lo sterminio dei nativi americani (detti anche indiani d'America nel nord America o, indios e amerindi, nel centro e nel sud America), avvenuto dall'arrivo degli europei nel XV secolo alla fine del XIX secolo. Si ritiene che tra i 55 e i 100 milioni di nativi morirono a causa dei colonizzatori, come conseguenza di guerre di conquista, perdita del loro ambiente, cambio dello stile di vita e soprattutto malattie contro cui i popoli nativi non avevano difese immunitarie, mentre molti furono oggetto di deliberato sterminio poiché considerati barbari. Secondo Thornton, solo nel nord America morirono 18 milioni di persone. Per altri autori la cifra supera i 100 milioni, fino ad arrivare a 114 milioni di morti in 500 anni.

Diversi sono i motivi che portarono agli scontri, anche se principalmente la causa fu l'obiettivo di impossessarsi delle terre e delle ricchezze dei nativi, spesso giustificando in maniera ideologica le guerre; gli stessi nativi aztechi e inca, che praticavano sacrifici umani, spesso però si erano convertiti al cristianesimo e avevano abbandonato questi riti, ma nonostante ciò erano, come era comune nel periodo, considerati esseri inferiori e spesso da schiavizzare e la stessa sorte toccò agli altri nativi. Nel Nordamerica morirono meno nativi che nel resto del continente, ma l'impatto fu più devastante a causa del numero più esiguo. Nel 1890 rimanevano 250.000 individui, e si stima che l'80 % (1 milione) fosse stato sterminato nel crollo demografico tra il 1600 e il 1890. Per questo si suole parlare di genocidio dei nativi americani o genocidio indiano, nonché di etnocidio. Nativi e soprattutto meticci costituiscono però ancora una gran parte della popolazione sudamericana, mentre sono una piccola minoranza nel nord.

Si stima che tra l'80% ed il 95% della popolazione indigena delle Americhe perì in un periodo di tempo che va dal 1492 al 1550 per effetto delle predette malattie. Circa un decimo dell'intera popolazione mondiale di allora (500 milioni circa) fu decimato. La prima malattia che si diffuse nel Nuovo Mondo fu causata da una germe dell'influenza dei suini ed ebbe inizio nel 1493 a Santo Domingo e decimò la popolazione (da 1.100.000 a 10.000)[senza fonte]; nel 1518 comparve il vaiolo ad Hispaniola che si propagò dapprima in Messico, poi in Guatemala e nel Perù; la malattia destabilizzò l'impero inca favorendo la campagna di conquista di Francisco Pizarro ed il massacro della popolazione. Dopo il devastante passaggio del vaiolo e dei conquistadores, fu la volta del morbillo. In virtù di questo alcuni storici quali Noble David Cook, Guenter Lewy e Stafford Poole contestano il termine stesso di genocidio per parlare di conseguenze dell'arrivo e della conquista da parte degli europei.
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Re: Ma quale genocidio dei nativi americani?

Messaggioda Berto » lun feb 24, 2020 10:35 pm

Più di tre quarti degli americani USA odierni sono arrivati negli Stati Uniti dopo la fine delle "guerre indiane" e non possono avere quindi alcuna responsabilità e alcuna colpa nel presunto sterminio o genocidio dei pellirossa, né diretta né indiretta;

perciò è del tutto demenziale e calunnioso accusare gli americani di genocidio degli indigeni, oltretutto tra gli americani odierni, come cittadini USA vi sono anche i pellirossa o nativi amerindi scampati al presunto genocidio.

In generale, accusare e demonizzare gli americani per il presunto genocidio dei pellirossa non è né segno di grande umanità, di elevata cultura storica e civiltà giuridica, ma solo segno di strabordante e demenziale ignoranza.
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Re: Ma quale genocidio dei nativi americani?

Messaggioda Berto » dom giu 14, 2020 11:01 am

Le tradizioni di schiavitù nei nativi americani
(traduzione con automatismo di Google)
https://it.qwe.wiki/wiki/Slavery_among_ ... ted_States


Molte tribù di nativi americani hanno praticato una qualche forma di schiavitù prima dell'introduzione europea della schiavitù degli africani in America del Nord.

Gruppi di nativi americani hanno avuto schiavi prigionieri di guerra che essi utilizzati principalmente per il lavoro su piccola scala. Altri invece, sono stati utilizzati per il sacrificio rituale che di solito implicano anche la tortura come parte di riti religiosi comprendenti anche il cannibalismo rituale.

Ci sono state molte differenze tra la schiavitù praticata in epoca pre-coloniale tra i nativi americani e la schiavitù come praticata dagli europei dopo la colonizzazione dell'America del Nord. Mentre gli europei consideraravano gli schiavi di origine africana come razzialmente inferiori per la differenza del colore della pelle e per le diversità culturali e di cita, i nativi americani hanno preso schiavi di altri gruppi di nativi americani, e quindi non hanno la stessa ideologia razziale degli europei bianchi verso i neri africani, li schiavi nativi non erano guardati dall'alto in basso come etnicamente inferiori perché erano pelliorossa anche lorom tuttavia erano parimenti schiavi. Un'altra differenza è che i nativi americani non hanno acquistato e venduto prigionieri in epoca pre-coloniale, anche se a volte venivano scambiati individui ridotti in schiavitù con altre tribù in gesti di pace o in cambio per riscattare i propri membri. In alcuni casi, gli schiavi nativi americani sono stati autorizzati a vivere ai margini della società dei nativi americani fino a quando furono lentamente integrati nella tribù. La parola "slave" non può applicare con precisione a queste persone in cattività.

I modi in cui sono stati trattati i prigionieri differivano notevolmente tra i gruppi di nativi americani. I prigionieri potrebbero essere ridotti in schiavitù per tutta la vita, uccisi, o adottati. In alcuni casi, i prigionieri sono stati adottati solo dopo un periodo di schiavitù. Ad esempio, i popoli irochesi (non solo le tribù irochesi) prigionieri spesso adottati, ma per motivi religiosi non v'è stato un processo, le procedure, e molte stagioni quando tali adozioni sono stati ritardati fino ai tempi spirituali adeguati.

In molti casi, nuove tribù adottate prigionieri per sostituire guerrieri uccisi durante un raid. prigionieri Warrior a volte sono stati fatti per subire la mutilazione rituale o torture che potrebbe finire nella morte come parte di un rituale di dolore spirituale per i parenti uccisi in battaglia. Adottati, ironia della sorte, si sono pensati per riempire il economica, militare e ruoli familiari dei cari defunti, per adattarsi nei panni sociali del parente morto e mantenere il potere dello spirito della tribù.

Alcuni nativi americani avrebbero tagliato un piede di prigionieri per impedire loro di fuggire. Altri ammessi schiavi prigionieri di sesso maschile per sposare le vedove di mariti uccisi. Il Creek, che impegnati in questa pratica e aveva un matrilineare sistema, i bambini trattati nati degli schiavi e delle donne Creek come membri a pieno titolo di clan delle loro madri e della tribù, come proprietà e la leadership ereditaria passati attraverso la linea materna. I bambini non hanno lo status di schiavo. Nelle pratiche culturali dei popoli irochesi, radicati anche in un sistema matrilineare con gli uomini e le donne che hanno uguale valore, qualsiasi bambino avrebbe avuto lo status determinato dal clan della donna. Più tipicamente, le tribù si sono donne e bambini prigionieri per l'adozione, in quanto tendono ad adattarsi più facilmente in nuovi modi.

Diverse tribù tenuti prigionieri come ostaggi per il pagamento. Varie tribù anche praticavano la schiavitù del debito o schiavitù imposta sui membri tribali che avevano commesso reati; pieno status tribale sarebbe stato restaurato come schiavo lavorava i loro obblighi nei confronti della società tribale. Altre tribù di schiavi che possiedono del Nord America inclusi Comanche del Texas, il Creek della Georgia; le società di pesca, come ad esempio il Yurok , che ha vissuto in California del Nord; il Pawnee , e la Klamath .

Quando gli europei preso contatto con i nativi americani, hanno cominciato a partecipare al commercio degli schiavi. Nativi americani, nei loro incontri iniziali con gli europei, ha tentato di utilizzare i loro prigionieri da tribù nemiche come un "metodo di giocare una tribù contro l'altro" in un gioco senza successo del divide et impera.

L' Haida e Tlingit che vivevano lungo la costa sud-est dell'Alaska sono stati tradizionalmente conosciuti come feroci guerrieri e mercanti di schiavi, raid fino a California. Nella loro società, la schiavitù era ereditaria dopo gli schiavi sono stati presi come prigionieri di guerra -I bambini di schiavi erano destinati ad essere schiavi stessi. Tra alcune tribù Pacifico nord-occidentale , come molti come un quarto della popolazione erano schiavi. Essi sono stati in genere catturati da incursioni sulla tribù nemiche, o acquistati nei mercati di schiavi intertribali. Gli schiavi erano spesso uccisi in potlatches , a significare il disprezzo dei proprietari per la proprietà.
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Re: Ma quale genocidio dei nativi americani?

Messaggioda Berto » sab gen 23, 2021 11:46 pm

???
Matrika
Economia nelle società primitive. Le società contro il lavoro

https://www.matrika.co/economia-nelle-s ... il-lavoro/

L’uomo è un essere sociale non economico. (Aristotele)
La storia della modernità è la storia dell’imposizione del lavoro che ha lasciato sull’intero pianeta una lunga scia di desolazione e di orrori. Infatti la richiesta di sprecare la maggior parte dell’energia vitale per un fine tautologico, deciso da altri, non è mai stata interiorizzata tanto quanto lo è ai giorni nostri. Ci sono voluti diversi secoli di violenza aperta su larga scala per far entrare, letteralmente a forza di torture, gli uomini al servizio incondizionato dell’idolo “lavoro”. Guerre, conquiste e schiavitù hanno avuto un ruolo centrale nel trasformare le economie umane in economie di mercato[1].

La maggior parte degli uomini non si è dedicata spontaneamente alla produzione per mercati anonimi, e dunque alla generale economia monetaria, ma semplicemente perché l’avidità degli Stati assolutistici monetarizzò le tasse e contemporaneamente le aumentò in maniera esorbitante. Non per se stessa la maggior parte degli uomini dovette “guadagnare soldi”, ma per lo Stato proto-moderno militarizzato e le sue armi da fuoco, la sua logistica e la sua burocrazia. Così, e non diversamente, è venuto al mondo l’assurdo fine in sé della valorizzazione del capitale, e quindi del lavoro.
Con la formazione degli stati moderni gli amministratori del capitalismo finanziario cominciarono a far diventare gli esseri umani la materia prima di una macchina sociale che era necessaria per trasformare lavoro in denaro. Il modus vivendi delle popolazioni delle società senza Stato fu distrutto; non perché queste popolazioni si fossero spontaneamente e autonomamente “sviluppate” come ci vogliono far credere, ma perché dovevano servire da materiale umano per far funzionare la macchina della valorizzazione ormai messa in moto. Gli uomini furono scacciati con la forza delle armi dai loro campi, per far posto alle greggi per i lanifici. Antichi diritti, come quello di cacciare, pescare e raccogliere legna nei boschi, o quello dei terreni comuni furono aboliti [2].

Sterminio di bufali nelle Americhe del Nord
Cerchiamo ora, sempre grazie alle ricerche etnografiche, di indagare come viene gestita l’economia nelle società senza Stato. È doveroso rilevare che le società senza Stato sopravvissute all’avanzata della “civilizzazione” non possono essere considerate società immobili, bensì sono culture in transito che attraverso l’incontro e lo scontro con la società occidentale hanno adattato, modificato e ibridato i loro modi diversi di organizzarsi in comunità.
Queste società, lungi dall’esprimere esclusivamente fissità e ripetizione, si trovano inserite nel flusso della storia e nei vortici dei mutamenti. Sono gli incontri fra differenti culture, le migrazioni e le trasformazioni storiche a modellare performance culturali che, al pari delle società, non sono mai prodotti immutabili, ma vengono piuttosto a trovarsi in cantieri sempre aperti e in transiti mai completamente compiuti [3].
Mi sembra qui opportuno sfatare il mito che nelle “società primitive” vige un’economia di sussistenza che a fatica riesce ad assicurare il minimo necessario per garantire la sopravvivenza della società. Troppo spesso si parla in testi accademici di una fantomatica economia di sopravvivenza che impedisce un accumulo di scorte tali da garantire, anche solo a breve termine, la sopravvivenza del gruppo, un’immagine di un fantomatico “selvaggio” come un uomo sopraffatto e dominato dalla natura, minacciato dalla carestia e perennemente dominato dall’angoscia di procurare a sé e ai propri figli i mezzi per sopravvivere. A partire dai lavori sul campo che studiano gli australiani aborigeni della terra di Arnhem e i Boscimani del Kalahari, Marshall Sahlins nel suo L’economia dell’età della pietra [4], procede a una rigorosa quantificazione dei tempi di lavoro nelle società primitive. Ne emerge che lontano dal trascorrere le loro giornate in una febbrile attività di raccolta e caccia, questi “selvaggi” dedicano mediamente alla produzione di cibo non più di cinque ore al giorno, il più delle volte non più di tre o quattro. Una produzione interrotta da frequenti riposi, in cui il tempo lavorativo quotidiano non coinvolge quasi mai la totalità del gruppo e dove l’apporto di bambini e giovani all’attività economica è quasi nullo.
Gli studi etnologici e le ricerche sul campo condotte da decine di antropologi nel XX secolo su cacciatori e raccoglitori, specialmente quelli che vivono in ambienti marginali, indicano una media di tre-cinque ore giornaliere di produzione alimentare per lavoratore adulto. I cacciatori si attengono a un orario di lavoro notevolmente inferiore a quello dei moderni lavoratori dell’industria (sindacalizzati), che sarebbero ben felici di una settimana lavorativa di ventuno-trentacinque ore. Tra gli Hanunoo delle Filippine, ad esempio, le donne e gli uomini dedicano in media 1.200 ore annue alla coltura itinerante, cioè una media di tre ore e venti minuti al giorno [5].
È un vero e proprio mito quello del “selvaggio” condannato a un’esistenza quasi animale. Dall’analisi di Marshall Shalins emerge infatti che l’economia dei primitivi non risulta come un’economia della miseria, ma al contrario le società primitive sono le prime vere società dell’abbondanza. È la società occidentale contemporanea quella delle carestie e della povertà diffusa su larga scala; da un terzo a metà dell’umanità, si dice, si corica ogni sera affamata. Nella vecchia Età della pietra, la percentuale deve essere stata molto inferiore. La nostra è l’epoca della fame senza precedenti. Oggigiorno, nell’era delle massime conquiste tecniche, la carestia è un’istituzione [6].
Secondo Pierre Clastres la società “primitiva” è una struttura che funziona sempre al di sotto delle proprie possibilità, e che potrebbe, se lo volesse, produrre rapidamente un surplus. Se questo non accade, è perché le società primitive non lo vogliono. Australiani e Boscimani, un popolo quest’ultimo che vive nel Kalahari (tra Sudafrica, Namibia e Botswana), raggiunto l’obiettivo alimentare che si erano proposti, cessano di cacciare e raccogliere, poiché sanno che le scorte di riserve alimentari sono inglobate in permanenza dalla natura. Sempre Marshall Sahlins demistifica nel suo testo quel pensiero che assume il produttivismo contemporaneo a misura di tutte le cose. Nelle società primitive, al contrario, il processo lavorativo è sensibile a interferenze di vario tipo, soggetto a interrompersi a beneficio di altre attività importanti come un rituale propiziatorio o frivole come il riposo. La tradizionale giornata lavorativa è spesso breve e se si protrae più del previsto, subisce frequenti interruzioni.
Abbiamo la dimostrazione che, se l’uomo primitivo, è alieno allo spirito imprenditoriale e alle logiche del lavoro salariato, è perché la categoria profitto non lo interessa: se non reinveste, non è perché ignora il fatto, ma perché non rientra tra gli obiettivi che persegue.
Nelle comunità nomadi, ma anche in quelle sedentarie, dagli amerindiani alle tribù della Melanesia si cerca di produrre il minimo necessario a soddisfare tutti i bisogni, una tipologia di lavoro ostile alla formazione di un surplus, una struttura che impedisce che una parte della produzione ricada all’esterno dell’ambito territoriale controllato direttamente dal gruppo produttore. A differenza delle società statali occidentali in queste società non si vive per produrre, ma si produce per vivere, il modo di produzione domestico delle società primitive è produzione per il consumo, nel cui svolgersi si pone un costante freno all’accumulo di surplus e si tende a mantenere il complesso degli immobilizzi a un livello relativamente basso [7]. Se la produzione è esattamente commisurata ai bisogni immediati della famiglia, la legge che governa il sistema contiene un principio anti-surplus, adeguato alla produzione per la sussistenza non legata a una retribuzione. Superata la produzione necessaria si tende dunque all’arresto del lavoro-produzione.
Il fatto etnograficamente documentato è che le economie primitive sono sotto-produttive, che solo una parte della collettività lavora, su tempi brevi e a bassa intensità, imponendo così di fatto che le società primitive siano società dell’abbondanza.
Pierre Clastres nel suo Archeologia della violenza afferma che le società “primitive” sono società “contro l’economia” intendendo con questo che la società primitiva assegna alla produzione un compito ben preciso e determinato, impedendole di andare oltre:
Là dove così non è, l’economia si sottrae al controllo della società, la disgrega introducendo la separazione tra ricchi e poveri: l’alienazione degli uni dagli altri. Stiamo parlando di società senza economia o meglio: società contro l’economia [8].
Nelle “società contro l’economia” non solo le forze produttive non tendono a svilupparsi autonomamente, ma nel modo di produrre è deliberatamente affermata una volontà esplicita di sottoproduzione.
Nelle società “primitive” è ormai chiaro che non poteva esistere un concetto di lavoro con il significato che oggi si dà a questo termine: l’attività di produzione coincideva del tutto con quella di riproduzione dell’individuo e della specie ed il tempo di lavoro era quindi immediatamente tempo di vita. Il numero degli uomini su di un territorio era regolato da un equilibrio naturale, perciò essi disponevano dell’occorrente secondo i bisogni di quel tipo di società.
“Noi” occidentali, capitalisti, non riusciamo a concepire la preistoria umana come un’era di abbondanza e, confrontando il nostro modello di vita con quello di esseri ritenuti poco più che bestie, ci è utile vederli come abbrutiti dalla privazione, dediti alla ricerca continua di che sfamarsi.
Ovviamente l’uomo primitivo non aveva la nostra percezione del tempo. Alcune decine di millenni più vicino a noi, anche gli uomini delle società pre-classiche, già arrivate ad un alto grado di urbanizzazione e di suddivisione in gerarchie sociali, non avevano una concezione del tempo che dividesse nettamente vita e lavoro, per loro infatti non aveva nessun senso né la parola “lavoro” nell’accezione moderna, né tanto meno la frase “tempo libero”. In seguito, in una società ormai divisa in classi e basata sullo sfruttamento di masse di schiavi, il lavoro coincise con l’attività normale di chi si dedicava ad attività manuali in genere, tant’è vero che in greco (ponos) e in latino (labor) il termine che oggi traduciamo con “lavoro” significava semplicemente sforzo, fatica, pena, sofferenza.
Esistono molti esempi etnograficamente interessanti per capire il tempo del lavoro nelle culture “altre”, per esempio i Tikopia abitanti delle isole melanesiane hanno una concezione del lavoro molto diversa dalla nostra:
[…] seguiamo un gruppo di lavoratori Tikopia che escono da casa in una bella mattinata diretti ai campi. Vanno a scavare radici di curcuma, perché è agosto, la stagione in cui si prepara questa pregiata tintura sacra. Il gruppo parte dal villaggio di Matautu, costeggia la spiaggia in direzione di Rofaea e poi penetrando all’interno, comincia a risalire il sentiero […] Il gruppo è formato da Pa Nukunefu e sua moglie, la loro figlioletta, e tre ragazze più grandi. […] Il lavoro è semplicissimo Pa Nukunefu e le donne si dividono equamente il lavoro; lui si occupa della maggior parte del lavoro di rimozione della vegetazione e di scavo, loro di parte dello scavo e della piantagione e di quasi tutta la pulitura e la cernita… il lavoro è lento. Di tanto in tanto i membri del gruppo si ritirano in disparte a riposare e a masticare betel […]. L’intera atmosfera è di lavoro inframmezzato a svago a volontà [9].
Altro interessante esempio di gestione del lavoro lo danno gli abitanti Kapauku della Nuova Guinea:
Avendo i Kapauku una concezione equilibrata della vita, pensano di dover lavorare soltanto a giorni alterni. Una giornata di lavoro è seguita da una di riposo allo scopo di riacquistare la forza e la salute perdute. Questo monotono alternarsi di lavoro e svago è reso più piacevole dall’inserimento nel loro calendario di periodi di vacanze più lunghi, trascorsi danzando, facendo visite, pescando o cacciando. Di conseguenza, generalmente si notano soltanto alcune persone avviarsi verso gli orti, le altre si prendono il loro giorno di riposo [10].
Elizabeth Marshall Thomas scrive che il Boscimane non possedeva nulla e regalava tutto ciò che gli passava per le mani [11]. Nella vita del primitivo è prassi regalare, “dare via”, e questo vale per ogni bene. Nella vita sociale degli Hazda o Hadzabe’e, (un gruppo etnico della Tanzania che vive attorno al lago Eyasi) la carne viene divisa fra tutte le persone di un accampamento indipendentemente dalle relazioni di parentela. Non si tratta di un sistema basato sullo scambio e la reciprocità del tipo: ti do della carne oggi, per poterla poi richiedere domani. Sono pochi i cacciatori di successo in una comunità, eppure anche coloro che non abbattono mai grosse prede, e perciò non procurano mai carne, hanno diritto alla spartizione di qualsiasi tipo di cacciagione che arrivi all’accampamento. Il desiderio di dare qualcosa a qualcuno non richiede necessariamente reciprocità, nella vita degli individui delle società primitive l’enfasi è posta sulla spartizione piuttosto che sullo scambio [12].
L’Andamane [13] che sia pigro o indifeso riceve comunque del cibo, nonostante l’eventualità o la certezza di una mancata contropartita, lo confermano nei loro scritti sia Radcliffe Brown che Edward H. Man. Fra gli Arunta (gruppo di tribù australiane stanziato nella regione a Nord Ovest dei monti Macdonnel), nella stagione magra, ognuno spartiva le provviste disponibili, a prescindere dalle normali considerazioni di generazione, sesso e status parentale.
2.1 Inuit e Irochesi.
Gli Inuit [14] sono uno dei due gruppi principali nei quali sono divisi gli Eschimesi, insieme agli Yupik: il termine “eschimesi” fu usato dai nativi americani Algonchini del Canada orientale per indicare questo popolo loro vicino, che si vestiva di pelli ed era costituito da esperti cacciatori. Il nome che gli Inuit usano per definirsi significa, invece, semplicemente “umanità”.
Gli Inuit sono gli originari abitanti delle regioni costiere artiche e subartiche dell’America settentrionale e della punta nord orientale della Siberia, luoghi che il clima naturale rende difficilmente abitabili dall’essere umano. Il loro territorio è principalmente composto dalla tundra, pianure basse e prive di alberi dove vi è perennemente uno strato di permafrost, salvo pochi centimetri in superficie durante la breve stagione estiva.
Anche se alcuni gruppi vivono su fiumi pescosi ed altri cacciano caribù nelle zone interne, gli Inuit vivono tradizionalmente della caccia di mammiferi marini (foche, trichechi e balene), e la struttura e l’etica della loro cultura si sono sempre rivolte al mare. La capacità degli Inuit di adattamento a un ambiente freddo e difficile è legata alla loro particolare abilità nel costruire attrezzi e altri utili accorgimenti da ogni tipo di materiale.
Gli Inuit sono vestiti di pelli, utilizzano arpioni d’avorio o di corno, con lame di pietra, i pattini dello loro slitte sono fatti all’occorrenza con strisce di carne gelata, tutti questi sono piccoli esempi dell’adattamento indigeno ai materiali naturali.
Nei periodi di caccia si spostano per molti chilometri, per questo costruiscono gli iglù come riparo di emergenza. Per spostarsi sulla neve usano slitte trainate dai cani, anche se oggi l’incontro con l’occidente e soprattutto con il motore a scoppio ha sostituito le vecchie slitte in legno con le motoslitte che sempre più stanno rimpiazzando il tradizionale modo di viaggiare. Ancora oggi però usano materiali naturali per la caccia: arpioni d’avorio o di corno e lame di pietra.
Centrale per la mia analisi del potere e del lavoro è la loro organizzazione della società che si basa sostanzialmente sulla solidarietà fra villaggi; la proprietà è, per la maggior parte, collettiva, e la famiglia in genere è poco numerosa. Questa solidarietà, questo mutuo appoggio all’interno della comunità è veramente molto forte tanto che nella vita degli eschimesi, in periodi di penuria di cibo, era il cacciatore fortunato e la sua famiglia a patire i morsi della fame, perché generoso com’era regalava tutto ciò che gli passava per le mani [15]. La generosità era la regola più seguita tra i cacciatori nelle società senza Stato e anche queste popolazioni dei ghiacci ne facevano una norma fondamentale, lavorare per sostenere la comunità non per produrre un surplus o per ricevere un salario. Un’economia che non produce disuguaglianze ma che promuove una società di eguali.
Gli Inuit hanno una loro religione che si basa sulla credenza che molti animali e fenomeni naturali abbiano un’anima o uno spirito. La principale personalità religiosa è lo sciamano, spesso di sesso femminile, che durante le cerimonie può cadere in trance grazie all’ausilio del suono del tamburo. In questo stato, lo sciamano, sarebbe in grado di contattare l’aldilà popolato dalla dea-tricheco Sedna per porgerle le istanze della sua gente e prevedere il futuro. Le storie che venivano narrate dallo sciamano erano sempre storie di condivisione e mutuo appoggio comunitario, quantomeno fino all’avanzata dell’occidente.
Quali sono i popoli indigeni dell’Artico? Principalmente gli Inuit che ancora oggi popolano le costiere artiche e subartiche dell’America settentrionale, della Groenlandia e della punta nord orientale della Siberia, quel popolo che spesso riconosciamo con il nome di Eschimesi. Gli Yupik che vivono sulle coste dell’Alaska occidentale, nel delta del Yukon-Kuskokwim e lungo il fiume Kuskokwim, nell’Alaska meridionale, nell’estremo oriente russo e nell’isola di San Lorenzo, anche loro spesso vengono confusi con gli Eschimesi. Ci sono gli Aleuti delle Isole Aleutine tra Alaska e Russia, i Jakuti che vivevano principalmente tra quella che oggi si chiama Repubblica Sacha o Jakutija nell’immensa e desolata Siberia, e poi ci sono i Komi e i Nency sempre inclusi in territorio Russo dalla Baia dell’Esej a est fino alla penisola di Kanin a ovest, e ancora i Tungusi tra Siberia, Mongolia e Cina settentrionale e i Sami conosciuti anche come Lapponi che vivono in un territorio che si estende dalla penisola di Kola fino alla Norvegia centrale.
Donne e uomini che abitano l’estremo nord della terra che, anche se poco ricordato, hanno conosciuto come per i popoli del Sud del mondo una lunga fase storica di colonialismo e post colonialismo, capitalismo e proletariato, sfruttamento delle risorse e disastro ecologico. Queste popolazioni indigene sono convinto che possano giocare un ruolo cruciale nella riflessione sul dibattito post-coloniale.
L’avanzare della “nostra” società Occidentale è stata una tragedia che si è manifestata anche con la scolarizzazione forzata per gli indigeni e della conseguente perdita della lingua nativa, con l’obbligo alla sedentarietà o con la confisca delle renne. Ma non solo: l’uomo bianco e civilizzatore ha arrestato e ucciso gli sciamani, perché considerati pericolosi dai colonizzatori per la loro forza e il loro carisma, ha obbligato alla conversione del pastore-cacciatore in operaio-minatore o contadino. Culture millenarie di caccia e raccolta, strettamente dipendenti da raffinati saperi ecologici, naturalistici, venatori, che usavano l’animismo come un collante cognitivo, sono state distrutte per meglio colonizzarle.
Come ci ricorda Matteo Meschiari nel suo Artico nero [16] un altro aspetto dirompente della colonizzazione è stato quello all’interno dello spazio abitativo, i popoli del nord dovevano ripensare le case sulla scia delle città dei colonizzatori, un aspetto da non sottovalutare perché la casa per l’uomo non è solamente un luogo dove risiedere ma è un essere tra lo spazio e il tempo. La creazione della città e della casa moderna ha contributo alla distruzione della cultura Inuit, un mondo dinamico che è stato fatto scivolare in uno stato nazione con le sue angoscianti simmetrie, gerarchie, teologie claustrofobiche e distruttive per la popolazione indigena che in molti, troppi casi ha preferito togliersi la vita piuttosto che vedersi addomesticata dai colonizzatori.
La stessa problematica è stata vissuta anche dai Sami i quali, costretti in una casa “moderna”, si sono sentiti incarcerati. Il loro sistema nomadico incorporava il paesaggio nello spazio domestico e lo spazio domestico, a sua volta, si dilatava fino a incorporare il paesaggio. Il corpo Sami si muove nello spazio e anche la sua casa si muove perché anche la casa è un corpo, l’Iglù non era trasportato ma ricostruito ogni volta e questo concerne il saper far delle culture indigene, quello che il capitalismo ha cercato di espropriare per renderli più docili, grazie alla falsa utopia del comfort.
Il processo di sedentarizzazione ha portato a una trasformazione radicale nella concezione dello spazio domestico. La casa prefabbricata non ha più rappresentato un corpo, non è più il meta-animale, la meta-persona che cura, nutre e si occupa dei suoi abitanti, di fatto si è converta in un dispositivo di chiusura e di esclusione. Con le nuove case, per i Sami, è venuto a mancare l’intenso regime di visite che rinsaldava la comunità; l’economia della condivisone, del dono, dell’assenza di proprietà privata ha cominciato a crollare in nome del progresso e del comfort occidentale; la casa, un tempo rifugio aperto e includente, si è convertita nel processo di colonizzazione in un apparecchio di cancellazione e riprogrammazione culturale. Una colonizzazione violenta che ha separato famiglie, saccheggiato, inquinato, militarizzato e distrutto territori vergini, da sempre in equilibrio con gli abitanti indigeni.
Altra comunità ed economia su cui vorrei soffermarmi è quella degli Irochesi conosciuti anche come Hau-dè-no-sau-nee, che si concentrava originariamente sulla produzione collettiva e su elementi misti di orticultura, di caccia e raccolta.
Anche per queste comunità nord americane l’obbligo di condividere il cibo e qualsiasi altra cosa era considerato una necessità fondamentale, la base della moralità quotidiana in una società i cui membri si reputavano uguali. In queste società la condivisione non solo era una regola ma era uno dei grandi piaceri della vita. Di conseguenza il bisogno di condividere era particolarmente acuto nel bene e nel male; durante le carestie, ma anche durante i momenti di estrema prosperità [17]. Le relazioni sui nativi nordamericani dei primi missionari includono quasi sempre sgomente riflessioni sulla generosità indigena in tempi di carestia, generosità riservata anche a perfetti sconosciuti.
Anche in queste comunità il lavoro era totalmente slegato dal surplus o da una paga.
Le tribù della Confederazione irochese vivevano nella regione che ora include lo Stato di New York e la regione dei Grandi Laghi, insieme ad altri popoli, non conoscevano il concetto di proprietà privata e il lavoro consisteva in una sfera variegata di mansioni per tutta la comunità che non occupava mai troppe ore al giorno.
Gli Irochesi fino alla totale conquista delle loro terre da parte dell’avanzata occidentale erano un popolo prevalentemente dedito all’agricoltura, si occupavano della raccolta delle “tre sorelle” comunemente coltivate dai gruppi di nativi americani: mais, fagioli e zucca.
Queste comunità del nord America svilupparono un sistema economico molto diverso da quello ora dominante nel mondo occidentale, caratterizzato da elementi quali la proprietà comune dei terreni, la divisione del lavoro in base al sesso ed un commercio basato principalmente sull’economia del dono.
Marcel Mauss, antropologo e sociologo, ha scritto tra le sue varie opere il Saggio sul dono in cui mette in luce come l’invenzione dell’uomo in quanto homo oeconomicus sia in realtà una cosa molto recente. Scrive di alcune culture organizzate socialmente sull’esercizio del dono e sintetizza il funzionamento di un’economia basata su tre obblighi: dare, ricevere, restituire.
Queste tre leggi ci dicono che così si crea un circolo, perché il dono è come un filo che tesse una relazione tra persone diverse, anche tra persone che non si conoscono. In tutte le società, afferma Mauss, la natura peculiare del dono è di obbligare nel tempo. Il dono è come se creasse una situazione di indebitamento reciproco. Si crea un legame, un senso di solidarietà e alla fine ognuno sa che riceve più di quello che ha dato [18].
Nella società irochese la divisione del lavoro riflette la divisione dualistica tipica della sua cultura: gli dèi gemelli Sapling (est) e Flint (ovest) rappresentano due metà complementari. Il dualismo era applicato al lavoro nella forma per cui ognuno dei due sessi acquisiva un ruolo chiaramente definito e che completasse i compiti dell’altro. Le donne svolgevano tutto il lavoro relativo ai campi mentre agli uomini competeva tutto ciò che si collegava alla foresta, compresa la fabbricazione di qualsiasi oggetto in legno. Gli uomini irochesi erano responsabili della caccia, del commercio e del combattimento, mentre le donne si occupavano dell’agricoltura, della raccolta del cibo e dei lavori domestici. Questa assegnazione dei compiti in base al sesso era la maniera predominante con cui si divideva il lavoro nella società irochese. La produzione combinata di cibo rendeva la fame e le carestie eventi estremamente rari, tanto che i primi europei che vennero in contatto con queste popolazioni spesso invidiarono il successo degli Irochesi nella produzione del cibo.
Il sistema lavorativo irochese corrispondeva alla gestione della proprietà terriera, ovvero legato alla dimensione collettiva e comunitaria. Così come condividevano la proprietà della terra, gli Irochesi condividevano anche il lavoro. Le donne svolgevano i compiti più difficili in grandi gruppi, andando di campo in campo aiutandosi a vicenda a lavorare la terra dell’una e dell’altra.
Anche l’organizzazione del lavoro maschile tra gli Irochesi era improntata alla cooperazione: la caccia e la pesca contenevano elementi cooperativi simili a quelli delle donne.
Il contatto con gli europei agli inizi del XVII secolo ebbe un profondo impatto sull’economia irochese e l’espansione degli insediamenti europei sconvolse l’equilibrio della loro economia. Nel 1800 queste comunità indigene erano ormai confinate in riserve e dovettero perciò adattare il loro sistema economico tradizionale. La conseguenza fu che si trovarono costretti ad accettare il concetto e l’organizzazione del lavoro capitalista delle società occidentali.
La divisione del lavoro in base all’età e al genere è un tratto universale delle società umane, la divisione specializzata del lavoro si sovrappone alla prima, aggiungendo complessità ed eterogeneità alla società. Questa separazione crea differenze di interessi e prospettive e quindi un potenziale conflitto, ma come ha osservato Emile Durkheim, produce anche interdipendenza e mutualismo. Nel caso in cui consideriamo solo una divisione del lavoro per età e genere, come negli esempi sopra citati degli Inuit e degli Indiani del nord America o più in generale nelle società di cacciatori e raccoglitori, ognuno si può occupare di tutto, non vanno ignorate l’interdipendenza degli anziani che non possono svolgere tutto il lavoro dei giovani e delle donne che dipendono dagli uomini così come gli uomini dipendono dalle donne.
Una divisione specializzata del lavoro come nella “nostra” società occidentale invece crea più facilmente una gerarchia di mestieri e professioni, alcuni dei quali implicano notevole prestigio e potere come avvocati, politici, professori e medici, mentre altri sono inferiori e taluni persino spregevoli, come operai, operatori ecologici, donne e addetti alle pulizie. Questa specializzazione del lavoro contribuisce in modo significativo alla creazione del dominio e al cammino che porta alla creazione dello Stato [19].
Le società “primitive” non vivevano la contraddizione di lavorare per produrre un surplus inutile o per una moneta, non obbedivano a un padrone, ma lavoravano per la comunità nella quale si riconoscevano. L’aspetto caratteristico dell’economia primitiva è l’assenza di qualunque desiderio di trarre profitti. Dalle loro esperienze non riproducibili in modo uguale nella nostra società del consumo possiamo però prendere spunto per criticare l’assurda logica del lavoro salariato che ci annienta quotidianamente. Non tutto era perfetto, non tutto è da prendere come esempio, basti pensare alla rigida separazione nel lavoro in base al genere.
Possiamo capire osservando e studiando queste società senza stato quanto sia fondamentale tornare a produrre per la comunità e non solo per il salario, come sia importante la gestione collettiva del lavoro, come sia fondamentale non far diventare tutti i prodotti merci, possiamo porre l’accento sul mutuo appoggio e il dono invece che sul denaro e il profitto, ma soprattutto possiamo facilmente comprendere che lavorare troppe ore al giorno ci toglie la gioia della vita. Il lavoro nella società occidentale e in tutte le società statali rappresenta una delle relazioni di potere coercitivo più forte che è servita a costruire lo scheletro della società statale capitalista.


Per un risveglio della coscienza. Messaggio degli Irochesi al mondo occidentale.
Gli Hau-dè-no-sau-nee, o confederazione Irochese delle sei nazioni, sono su questa terra dall’inizio della memoria umana. La nostra cultura è tra le più antiche che ancora esistano nel mondo. Noi ricordiamo ancora i primi atti del comportamento umano. Noi ricordiamo le istruzioni originarie dei creatori della vita a questo luogo che noi chiamiamo Etenoha, Madre Terra. Noi siamo i guardiani spirituali di questo luogo. […] Al principio ci è stato detto che gli esseri umani che camminano sulla terra sono stati dotati di tutto ciò che è loro necessario per vivere. Abbiamo imparato ad amarci gli uni con gli altri, ad avere un grande rispetto per tutti gli esseri della terra. Ci è stato mostrato che la nostra vita esiste grazie alla vita degli alberi, che il nostro benessere dipende dalla vita vegetale, che noi siamo i parenti più prossimi degli esseri a quattro zampe. […] Noi salutiamo ed esprimiamo la nostra riconoscenza alle numerose cose che mantengono la nostra vita: il granoturco, i fagioli, le farine, il vento e il sole. Allorquando le genti smettono di rispettare e di esprimere la loro gratitudine per tutte queste cose, allora tutta la vita comincia ad essere distrutta, e la vita umana su questo pianeta arriva alla sua fine. Le nostre radici sono profonde nella terra dove viviamo. Noi nutriamo un grande amore per il nostro paese, perché il luogo della nostra nascita è là. Il suolo è pieno delle ossa di migliaia di nostri antenati, ciascuno di noi fu creato su queste terre, ed è nostro dovere averne grande cura, poiché da queste terre scaturiranno le future generazioni. Noi proseguiamo il nostro cammino con grande rispetto perché la terra è un luogo estremamente sacro. […] A tutt’oggi, i territori che ci restano sono coperti di alberi, pieni di animali e di tutti gli altri doni della Creazione. In questo luogo riceviamo ancora il nutrimento della nostra Madre Terra. Noi abbiamo sottolineato che tutti i popoli della terra non mostrano lo stesso rispetto per questo mondo e gli esseri che esso reca. Il popolo indoeuropeo, che ha colonizzato le nostre terre, ha mostrato assai poco rispetto per le cose che c’erano e mantengono la vita. Noi pensiamo che questi popoli hanno cessato di rispettare il mondo già da molto tempo. Migliaia di anni fa tutti i popoli del mondo credevano nella stessa maniera di vivere, quella dell’armonia con l’universo. Tutti vivevano in accordo con la natura. […] Gli europei attaccarono ogni aspetto dell’America del Nord con uno zelo incomparabile. I popoli nativi furono implacabilmente distrutti poiché essi erano un elemento non assimilabile dalla civilizzazione occidentale. […] Ma il nostro messaggio essenziale al mondo è fondamentalmente un appello alla presa di coscienza. La distruzione delle culture dei popoli nativi appartiene allo stesso processo che ha distrutto e distrugge ancora la vita su questo pianeta. Le tecnologie e i sistemi di organizzazione sociale che hanno distrutto la vita animale e vegetale stanno distruggendo anche la vita dei popoli naturali. Questo processo è la civiltà occidentale. […] Se deve esserci un avvenire per gli esseri viventi su questo pianeta, noi dobbiamo cominciare a cercare le vie di cambiamento. Il processo di colonizzazione ed imperialismo che ha colpito gli Hau-dè-no-sau-nee non è che un microcosmo del processo che ha colpito il mondo. […] Ciò di cui abbiamo bisogno è la liberazione di tutte le cose che sostengono la vita: l’aria, le acque, gli alberi, tutte cose che sostengono la trama sacra della vita. […] Noi siamo impegnati in una lotta di decolonizzazione delle nostre terre e le nostre vite, ma non possiamo compiere questa lotta da soli e senza aiuto. Da secoli sappiamo che ogni azione individuale crea condizioni e situazioni che mutano il mondo. Da secoli ci preoccupiamo di evitare tutte le azioni che non offrono una prospettiva a lungo termine finalizzata all’armonia ed alla pace nel mondo. In questo contesto, con i nostri fratelli e le nostre sorelle dell’emisfero ovest, siamo venuti fin qui per parlare di questi importanti problemi con altri membri della famiglia dell’uomo [20].
Andrea Staid
Tratto dal libro “Contro la gerarchia e il dominio”
Antropologia ed etnografia nella società contemporanea




[1] D. Graeber, Il debito. I primi 5000 anni, Il Saggiatore, Milano 2012, p. 373.
[2] Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro, DeriveApprodi, Roma 2003, p. 16.
[3] S. Allovio, Culture in transito, Franco Angeli, Roma 2008.
[4] M. Sahlins, Economia dell’età della pietra, Bompiani, Milano 1980.
[5] Ivi, p. 47.
[6] Ivi, p. 49.
[7] M. Sahlins, Economia dell’età della pietra, cit.
[8] P. Clastres, Archeologia della violenza, La Salamandra, Milano 1982, p.118.
[9] R. Firth, 1936, pp. 92-93, in M. Sahlins, Economia dell’età della pietra, cit, p. 67.
[10] L. Popsili,1963, Ibid.
[11] E. M. Thomas, The Harmless Peoples, 1959, in M. Sahlins, Economia dell’età della pietra, cit., p. 248.
[12] J. Woodburn, An introduction to Hazda ecology, in M. Arioti, Produzione e riproduzione nelle società di caccia e raccolta, cit., p. 153.
[13] Andamane o Jarawa (anche Järawa, Jarwa) sono un popolo nomade di cacciatori e raccoglitori delle Isole Andamane, in India.
[14] Popolo dell’Artico discendente dei Thule.
[15] R. F. Spencer, The North Alaskan Eskimo: a Study in Ecology and Society, 1959, in M. Sahlins, cit., p. 196.
[16] M. Meschiari, Artico nero. La lunga notte dei popoli dei ghiacci, Exorma, Roma 2016.
[17] Per approfondire: Lewis Henry Morgan, La Lega degli Ho-dè-no-sau-nee o Irochesi, CISU, Roma 1998.
[18] M. Mauss, Saggio sul dono, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2002.
[19] H. B. Barclay, Lo stato. Breve storia del Leviatano, cit.
[20] Il testo completo è stato pubblicato dalle edizioni la Fiaccola di Ragusa, Per un risveglio della coscienza. Messaggio degli Irochesi al mondo occidentale.
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Re: Ma quale genocidio dei nativi americani?

Messaggioda Berto » sab gen 23, 2021 11:46 pm

L'Oklahoma torna ai nativi (e lo Stato rischia il caos)
Gaia Cesare - Sab, 11/07/2020

https://www.ilgiornale.it/news/politica ... 76468.html

Metà del territorio ritenuto riserva degli indiani d'America. Possibili ricadute su giustizia e tasse

Ancora una volta un giudice conservatore nominato da Donald Trump fa la differenza in una sentenza della Corte Suprema e sposta l'ago della bilancia, schierandosi con i colleghi liberal.

Stavolta la decisione pende a favore dei Nativi d'America dell'Oklahoma. Con 4 voti contrari e 5 a favore - tra cui quello di Neil Gorsuch, il giudice conservatore ex compagno di Barack Obama alla facoltà di Legge di Harvard - la più alta corte federale degli Stati Uniti ha stabilito che quasi la metà dello Stato dell'Oklahoma è da considerarsi una riserva degli indiani d'America. Si tratta prevalentemente dei territori dell'Est dello Stato, compresa la seconda città più importante ed estesa, Tulsa, dove il presidente Trump ha tenuto l'ultimo controverso comizio divenuto il principale indiziato per l'impennata di contagi da coronavirus nell'area.

Per i Nativi americani si tratta non solo di una vittoria ma soprattutto di una promessa mantenuta. Non è un caso che proprio il giudice Gorsuch, che ha redatto la sentenza, abbia fatto riferimento al Trail of Tears, il sentiero delle lacrime, cioè la deportazione forzata, stabilita da una serie di trattati, di circa 60mila Nativi d'America dagli Stati del Sud-Est americano come Georgia e Alabama alle terre dell'Ovest, nelle riserve del West al di là del Mississippi. A quel tempo l'Amministrazione Usa stabilì che le nuove terre sarebbero appartenute alle tribù per sempre, ricorda il giudice Gorsuch. «Oggi ci viene chiesto se le terre promesse in quei trattati rimangono una riserva indiana ai fini della legge penale federale. Siccome il Congresso non ha stabilito diversamente, manteniamo la parola del governo», spiega la Corte Suprema. Il punto è che la decisione avrà conseguenze pratiche di un certo rilievo e qualcuno teme possa trascinare l'Oklahoma nel caos. Con il pronunciamento della Corte, i membri di alcune tribù giudicati colpevoli dai tribunali dello Stato per reati commessi in Oklahoma potranno infatti contestare le condanne. E solo i procuratori federali, d'ora in poi, avranno il potere di perseguire i Nativi accusati di crimini in quella zona. Ma c'è di più. Secondo alcuni esperti di diritto tributario la sentenza della Corte Suprema potrebbe anche voler dire che i membri delle varie tribù che vivono all'interno dei confini dello Stato possano essere esentati dal pagamento delle tasse.

All'origine della decisione della Corte Suprema c'è un caso di violenza sessuale. Il settantunenne Jimcy McGirt, che sta scontando una condanna a 500 anni di prigione per abusi sessuali su un minore, si era visto rifiutare dalle corti statali dell'Oklahoma la richiesta di poter essere processato soltanto dalle autorità federali. Lui ha sempre ricordato che il Congresso non ha mai negato la sovranità della sua tribù - i Muscogee, noti anche come Creek - su parte del territorio dell'Oklahoma. Eppure il procuratore generale aveva negato che la zona dove è avvenuto il reato fosse una «riserva», cioè un territorio in cui soltanto le autorità federali possono perseguire i Nativi d'America. Ora invece arriva la svolta. Una rivoluzione per l'Oklahoma. Con la conseguente promessa, da parte delle 5 tribù che compongono gli indiani d'America - Muscogee (Creek), Cherokee, Chickasaw, Choctaw e Seminole - di voler collaborare per trovare una soluzione alle problematiche giuridiche che la sentenza rischia di creare.
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Re: Ma quale genocidio dei nativi americani?

Messaggioda Berto » sab gen 23, 2021 11:47 pm

Sulla colonizzazione delle Americhe si possono fare le seguenti considerazioni:

1) anche i coloni bianchi avevano il loro buoni diritti umani a stabilirsi nelle Americhe, visto che il territorio delle Americhe era vasto e poteva contenere molte persone oltre agli esistenti nativi. Territori che non erano densamente abitati come lo sono oggi i Continenti europeo e americano.
Persone o esseri umani che avevano il loro naturale e legittimo bisogno di terra, di altro spazio vitale per vivere, rivivere altrove dalla loro patria originaria.
2) i nativi pellirossa o indiani o amerindi non sono da considerarsi prevalentemente vittime, anche perché la fase iniziale della colonizzazione europea non ha comportato alcuna sistematica invasione e conquista armata con depredazione e spogliazione delle terre e dei beni, riduzione in schiavitù e sterminio degli amerindi da parte dei migranti-coloni europei che si erano insediati lungo le coste ed erano entrati come nuovi abitanti concorrenti nel confronto etnico-tribale già esistente, introducendo un nuovo elemento di confronto non solo tribale ma anche di altra civiltà, altra economia (agricoltura, allevamento, commercio e industria) e altra cultura.


Ai nativi americani si possono fare le seguenti critiche?
Acune sì e alcune no:

3) di aver accettato senza combatterli e respingerli i primi coloni europei sbarcati lungo le coste americane.
4) di non aver saputo organizzarsi tra loro, tra tribù indiane o pellirossa o native, per far fronte alla graduale invasione e per difendere il loro territorio dall'espansione dei coloni europei in Nordamerica.
5) di non aver saputo riconoscere il valore, la forza, i valori utili e l'inesorabilità della colonizzazione europea e della sua civiltà, accettandola in parte, correggendola in altra e fondendosi per integrarla con la loro.



Non si confondano le Americhe con gli USA e Cristoforo Colombo (anno 1492) con i Padri Pellegrini della Mayflower (anno 1620) e con l'antecedente Jamestown o James Fort (anno 1607)

Il Giorno di Colombo (Columbus Day in inglese) è una ricorrenza celebrata in molti paesi delle Americhe per commemorare il giorno dell'arrivo di Cristoforo Colombo nel Nuovo Mondo, il 12 ottobre 1492.
https://it.wikipedia.org/wiki/Columbus_Day



La Mayflower (letteralmente "fiore di maggio") fu la nave con la quale i padri pellegrini, salpati il 16 settembre 1620 da Plymouth (Inghilterra), raggiunsero gli attuali Stati Uniti a Cape Cod due mesi dopo, il 19 novembre.
https://it.wikipedia.org/wiki/Mayflower

I Padri Pellegrini o Pellegrini Padri (Pilgrim Fathers in inglese) sono considerati tra i primi coloni (agricoltori) del Nord America; Plymouth, la colonia da loro fondata nel 1620 sulla costa del Massachusetts, divenne la seconda colonia dopo la fondazione di Jamestown, in Virginia, nel 1607, ed è oggi il più vecchio insediamento degli Stati Uniti abitato continuativamente.
https://it.wikipedia.org/wiki/Padri_Pellegrini


Jamestown fu un insediamento nella colonia della Virginia, il primo insediamento inglese stabile in America.
Fondata dalla Virginia Company di Londra come "James Fort" il 14 maggio 1607, fu la capitale della colonia per 83 anni, dal 1616 fino al 1699. Il 30 luglio 1619 si raduna per la prima volta la prima assemblea rappresentativa delle Americhe, la Camera di Burgesses.
https://it.wikipedia.org/wiki/Jamestown_(Virginia)
Nel 1606 la Virginia Company ricevette dal re Giacomo I d'Inghilterra una concessione per la costituzione di insediamenti inglesi nel nord America. Il 13 maggio 1607 una spedizione inglese della Virginia Company raggiunse la costa degli Stati Uniti, con 105 uomini e tre navi (Susan Constant, Godspeed e Discovery) per costruire il primo insediamento stabile nel nuovo mondo in quello che oggi è lo stato della Virginia in onore della regina Elisabetta I d'Inghilterra, nota allora come "Regina Vergine" in quanto non si sposò mai. Dopo aver gettato l'ancora nell'aprile 1607 a Cape Henry, nei pressi dell'odierna Virginia Beach lungo la costa atlantica, vennero dissigillati gli ordini.
Nei 18 giorni che impiegarono nell'esplorazione dell'area, essi videro sicuramente l'enorme porto naturale di Hampton Roads, e molti componenti apprezzarono il luogo. Comunque, dopo aver esplorato il James River, si insediarono sulla Jamestown Island, dove fondarono la prima colonia inglese, ancora esistente in terra americana, il 14 maggio 1607, quando il capitano Edward Maria Wingfield, presidente del consiglio, scelse il sito del nuovo villaggio che venne chiamato Jamestown in onore del re Giacomo I d'Inghilterra. L'insediamento, inizialmente costituito da poche semplici case di legno e da una chiesa, era fortificato da alte palizzate.
Nonostante i vantaggi difensivi di quell'ubicazione contro gli attacchi spagnoli, che per primi avevano scoperto la Baia di Chesapeake, il luogo basso e paludoso a Jamestown riservò risorse molto modeste e insufficienti ai coloni. Più di cinque anni di esistenza difficile e percentuali di mortalità molto elevate, nel periodo 1609-10, portarono alla morte dell'80% dei 500 coloni anche a causa dei rigori climatici, della mancanza d'acqua e degli attacchi delle tribù algonchine che distrussero quasi la colonia.

Sembra inquadrarsi in questo periodo il fatto in base al quale nel dicembre del 1607, mentre cercava cibo lungo il Chickahominy River, John Smith fu catturato e condotto di fronte al capo dei Powhatan, Wahunsunacock, a Werowocomoco, centro della Confederazione Powhatan situato sulla sponda nord dello York River. Benché temesse per la sua vita, Smith fu alla fine rilasciato senza danni; in seguito egli attribuì la sua salvezza all'intervento della figlia del capo, Pocahontas, figlia minore di Wahunsunacock, la quale, stando al resoconto di John Smith, si gettò sul suo corpo. Instauratesi così delle buone relazioni con quei nativi, sembra che da allora la sopravvivenza della prima comunità inglese fu resa possibile dalla fornitura di cibo da parte degli stessi indiani. In seguito però i rapporti con le tribù indigene si deteriorarono nuovamente, tanto che nel durissimo inverno del 1609-1610 la piccola comunità inglese fu lungamente assediata dai nativi. Dopo la prima guerra anglo-Powhatan (1609–1613), le nozze tra Pocahontas ed il colono inglese John Rolfe nel 1614, segnarono l'inizio di un periodo di relazioni pacifiche tra i coloni Inglesi e gli Indiani della Confederazione Powhatan. In seguito i rapporti peggiorarono di nuovo ed il 22 marzo 1622 i guerrieri Algonchini, nell'episodio conosciuto con il nome di massacro di Jamestown, uccisero 347 persone, pari a un terzo degli abitanti della colonia.



Lo scontro di civiltà tra i nativi e i nuovi coloni

Il massacro dei coloni inglesi del 1622 (anche conosciuto come il massacro di Jamestown)
Il massacro indiano del 1622 (anche conosciuto come il massacro di Jamestown) avvenne nella colonia della Virginia, di venerdì santo, il 22 marzo (calendario giuliano) 1622 (1º aprile nel calendario gregoriano).
https://it.wikipedia.org/wiki/Massacro_indiano_del_1622
Circa 347 persone furono massacrate nell'attacco (quasi un terzo della popolazione inglese di Jamestown), uccise da una serie di attacchi a sorpresa coordinati dalla Confederazione Powhatan comandata da capo Opechancanough.

Jamestown costituiva uno dei primi insediamenti inglesi di successo nel Nord America del 1607, e fu la capitale della colonia della Virginia. Benché la stessa città di Jamestown fosse stata risparmiata grazie ad un tempestivo allarme dell'ultimo minuto, molti piccoli insediamenti erano stati fondati lungo il fiume James, sia a valle che a monte e su entrambe le sponde. Gli assalitori uccisero uomini, donne e bambini e bruciarono le case e i raccolti.

La città di Henricus costituiva una tra le più progredite delle piccole comunità che sostennero il peso maggiore degli attacchi, molte di esse furono abbandonate dopo i massacri.

Il contesto

Dopo la prima guerra anglo-powhatan (1609–1613), le nozze tra Pocahontas, figlia minore di Capo Powhatan, ed il colono John Rolfe nel 1614, segnarono l'inizio di un periodo di relazioni pacifiche tra i coloni inglesi e gli indiani della Confederazione Powhatan. Nel 1618, dopo la morte di Wahunsonacock, meglio conosciuto come l'originale Capo Powhatan, il suo fratellastro Opechancanough divenne il leader dei Powhatan. Opechancanough non pensava che le relazioni pacifiche coi coloni potessero essere mantenute. Ripresosi dalla sconfitta alla fine della prima guerra anglo-powathan, cui partecipò a capo dei guerrieri Pamunkey, pianificava la distruzione degli insediamenti inglesi. Nella primavera del 1622, dopo l'assassinio per mano di un inglese del suo consigliere Nemattanew, Opechancanough lanciò una campagna di attacchi a sorpresa su almeno trentuno differenti insediamenti inglesi e piantagioni, perlopiù lungo il fiume James.


Il preavviso a Jamestown

Jamestown, capitale ed insediamento principale della colonia, fu salvata grazie ad un ragazzino indiano di nome Chanco, che aveva il compito di trucidare il suo datore di lavoro, Richard Pace. Non lo fece ed anzi durante la notte lo svegliò e lo avvertì dell'imminente attacco. Pace, che viveva dall'altra parte del fiume James, mise al sicuro la famiglia e dopo guadò il fiume per raggiungere Jamestown nel tentativo di avvertire il resto dell'insediamento. Come risultato, la città poté prepararsi per tempo all'attacco ma non gli insediamenti periferici che non ebbero nessun preavviso.


La distruzione degli altri insediamenti

Durante il primo giorno del massacro, molte delle piccole comunità, che erano essenzialmente avamposti di Jamestown, furono attaccate, inclusa Henricus e la sua recente scuola per bambini indiani oltre alle scuole dei coloni. A Martin's Hundred, oltre la metà della popolazione fu uccisa così come a Wolstenholme Towne, dove solo due case e parte della chiesa rimasero in piedi. In tutto, all'incirca quattrocento coloni furono trucidati e una ventina di donne catturate e rese schiave dagli indiani.


Opechancanough

Le conseguenze

Le differenze culturali furono tali che i Powhatan finirono le ostilità e si misero in attesa per mesi dopo gli attacchi, apparentemente con la convinzione che i coloni avrebbero accettato le perdite come un segnale della superiorità dei Powathan e che da quel momento in poi sarebbero stati rispettati ed i conflitti e la violazione degli accordi sarebbero stati evitati. Tuttavia, questo convincimento dimostrò, da parte loro, una grave mancanza di comprensione della mentalità dei coloni inglesi e dei loro sostenitori d'oltreoceano.

Gli attacchi del 22 marzo distrussero molte delle colture primaverili e causarono il totale abbandono di alcuni degli insediamenti. Non solo nelle colonie, ma anche in Inghilterra i massacri ebbero effetti a lungo termine, rafforzando l'immagine degli indiani come selvaggi e distruggendo soprattutto l'apprezzamento che la loro cultura era stata in grado di guadagnarsi negli anni precedenti grazie a Pocahontas e agli altri. Ad Henricus, uno dei più distanti avamposti da Jamestown, esistevano una scuola per ragazzi indiani ben avviata ed un college per i figli dei coloni, i progressi fin lì raggiunti e la nuova città furono persi. Ci vollero 70 anni prima che un'altra scuola del genere potesse essere presentata alla monarchia inglese, ma fu costituita in un'altra città ben fortificata a poche miglia da Jamestown. Pochi anni dopo, la capitale della colonia fu trasferità lì, ed il nome cambiato in Williamsburg (Virginia).


L'avvelenamento degli indiani

I coloni sopravvissuti agli attacchi del Venerdì Santo compirono delle incursioni sulle tribù e particolarmente sulle loro colture di granturco nell'estate e nell'autunno del 1622. Ebbero un successo tale che capo Opechancanough per disperazione decise di negoziare. Attraverso degli amichevoli intermediari indiani, si intraprese una conferenza di pace tra i due gruppi. Tuttavia, alcuni dei leader di Jamestown, guidati dal capitano William Tucker e dal dr. John Potts, avvelenarono gli indiani tramite il liquore bevuto in occasione del brindisi cerimoniale della conferenza. Il veleno uccise circa duecento indiani e altri cinquanta furono finiti sul posto ma capo Opechancanough riuscì a fuggire.


La sconfitta ed il declino degli indiani

La Virginia divenne una colonia reale d'Inghilterra due anni dopo, nel 1624. La Corona inglese aveva in questo modo un'autorità diretta sulla colonia invece di dover passare per la Virginia Company of London. Ciò significò che anche i favoriti della Corona potevano trarre profitto dalle colonie, così come la Virginia Company aveva sempre fatto. Come nella maggior parte delle Colonie, i coloni furono sfruttati per profitto personale da chi era al comando, e gli interessi dei Powhatan furono persino considerati di meno. L'espansione dentro la terra indiana e le violazioni degli accordi continuarono ad essere la norma, portando ad aumentare il livello di frustrazione tra le tribù.

Il successivo scontro con la Confederazione Powhatan avvenne nel 1644, quando circa cinquecento coloni inglesi perirono. Quella perdita ebbe un impatto minore sulla colonia, rappresentando meno del dieci per cento della popolazione; Opechancanough, ormai vecchio e costretto ad essere trasportato in lettiga, stavolta fu catturato ed imprigionato a Jamestown dove fu assassinato da uno dei coloni che doveva fargli da guardia.

La morte di Opechancanough segnò chiaramente l'inizio di un declino progressivo e precipitoso della Confederazione Powhatan, i cui membri abbandonarono l'area del tutto, mischiando gradualmente le loro comunità residenziali coi coloni, o vivendo in una delle poche riserve fondate in Virginia, benché anche queste soggetto di incursioni e di confische della terra da parte della popolazione bianca in espansione continua.

Ad oggi, solo sette tribù originarie della Confederazione Powhatan sono state riconosciute nella moderna Virginia. Le due più antiche riserve sono quelle di Pamunkey e Mattaponi, entrambe localizzate tra i fiumi omonimi all'interno della Contea di King George (ma tecnicamente indipendenti da essa).


Alberto Pento
A ben guardare furono proprio le diverse specificità culturali, civili, economiche tra i nativi amerindi nomadi e i coloni stanziali europei a generare il conflitto mortale di civiltà che portò alla sconfitta politico militare dei nativi e alla loro regressione demografica e alla vittoria dei coloni e alla loro espansione territoriale politica e demografica.
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Re: Ma quale genocidio dei nativi americani?

Messaggioda Berto » gio feb 04, 2021 7:55 am

A ben guardare furono proprio le diverse specificità culturali, civili, economiche tra i nativi amerindi nomadi e i coloni stanziali europei a generare il conflitto mortale di civiltà che portò alla sconfitta politico militare dei nativi e alla loro regressione demografica e alla vittoria dei coloni e alla loro espansione territoriale politica e demografica.




???

Lo scontro tra coloni e i nativi americani
Giovanni Di Silvestre

https://www.barbadillo.it/77914-focus-w ... americani/

Quando nel secolo XVII giunsero i primi coloni in America, si resero conto che il territorio era immenso e inesplorato, ma non era disabitato. Scienziati e antropologi ritengono che gli “indiani” discendano dai mongoli che giunsero in America dalla Siberia attraverso lo Stretto di Bering circa trentamila anni fa. Dall’Alaska si sparsero per tutto il continente. Le loro caratteristiche fisiche erano comuni ma dal punto di vista culturale erano diversi, vi erano tribù nomadi e sedentarie, alcuni erano pacifici e altri erano guerrieri, alcuni vivevano nelle capanne ricavate dal legno, altri nelle tende di pelle di animali, altri ancora vivevano in abitazioni di mattoni, fango e caverne rupestri, parlavano ben seicento lingue.

Le popolazioni stanziatesi in America centrale e meridionale raggiunsero livelli di civiltà molto progrediti come i Maya e gli Aztechi in Messico e gli Incas in Perù. Nell’America settentrionale le popolazioni erano rimaste a un stadio primitivo: non conoscevano la ruota, il cavallo, gli utensili da cucina e le armi da fuoco. Nonostante ci fossero le premesse per una convivenza pacifica le due razze vennero ai ferri corti. Le differenze portarono prima agli attriti, poi alle zuffe e sfociarono nella guerra aperta. La tecnologia avanzata degli occidentali portò alla capitolazione dei nativi americani, il tutto nascosto dall’intenzione di volerli convertire al cristianesimo, considerandoli un ostacolo da eliminare o addirittura un pericolo. Il comportamento dei coloni verso i nativi non fu altro che un elenco di trattati che poi venivano continuamente disattesi, di invasioni e annientamento e quando era necessario si corrompevano con ninnoli, prostitute e alcolici per farli rinunciare a ciò che possedevano, in altri casi si ricorreva a intimidazioni violente. Per ben tre secoli i bianchi attraverso non solo le guerre, ma anche le malattie e l’alcool commisero un vero e proprio genocidio minando il loro morale, distruggendo la loro cultura e la loro identità. Per la sicurezza dei loro insediamenti i coloni dovettero spesso affrontare la resistenza degli indiani appoggiata da nazioni europee rivali dell’Inghilterra. I primi coloni ebbero a che fare con le tribù della costa meno bellicose stabilendo relazioni amichevoli; i wampanoag istruirono i pellegrini sul come comportarsi in quella natura selvaggia insegnando loro a sopravvivere. Man mano che i coloni si addentravano nei territori invadendo i terreni di caccia degli indiani le tribù tentarono di fermare la loro avanzata.

Le continue violazioni dei diritti verso gli indiani guastarono i rapporti anche con i wampanoag portando alla guerra di re Philip (1675 – 76): anche in questo caso dopo l’ennesima violazione da parte dei coloni, gli indiani attaccarono distruggendo una ventina di insediamenti della Nuova Inghilterra e sterminando più di mille coloni, la guerra terminò anche in questo caso con l’asservimento degli indiani. I soli coloni che ebbero una certa considerazione per i nativi furono i quaccheri in Pennsylvania: nel 1682 William Penn stipulò un trattato con le tribù degli indiani Delaware che garantì cinquanta anni di armonia. I successori di Penn disattesero il trattato facendo giungere nella colonia gli scozzesi che minarono la politica di tolleranza, convinti che le tribù “paganeggianti” non avevano il diritto di esistere in quelle terre “quando i cristiani ne avevano bisogno per procurarsi da vivere”, depredando i Delaware e i loro beni.

Con la Rivoluzione americana, le guerre napoleoniche e la guerra con la Gran Bretagna del 1812 la situazione dei nativi americani non migliorò. Dal 1783 i funzionari britannici mantennero contatti con le popolazioni indiane dei Territori del Nordovest; incoraggiando i nativi a unirsi per opporsi all’espansione americana, non solo avevano rifornito di armi gli indiani, ma avevano anche appoggiato l’idea della creazione di uno stato cuscinetto indiano. L’irrequietezza degli indiani era dovuta sia alla fame di terre da parte dei coloni sia dall’incapacità del governo federale di proteggere gli indiani e garantire loro i loro diritti. La Northwest Ordinance garantì che le terre occupate dai nativi “non sarebbero mai state tolte senza il loro consenso”, tuttavia questa ordinanza veniva disattesa ogni volta dal governo per violare i diritti degli indiani.

L’espansione continuò con lo sconfinamento dei coloni nell’Indiana con la richiesta al governo federale di nuove concessioni. Con la presidenza di Jefferson si accelerò il processo di espropriazione delle terre agli indiani, il quale sosteneva che era necessario cacciare gli indiani per far posto ai coloni bianchi. Con l’acquisto della Louisiana nel 1800, Jefferson propose agli indiani di scambiare le loro terre a est del Mississippi con altre più a ovest. Per raggiungere i loro scopi il presidente Jefferson autorizzò il governatore dell’Indiana William Henry Harrison di usare tutti i mezzi possibili per costringere gli indiani del Nordovest a cedere migliaia di kmq di terre appartenenti alle loro tribù, per arrivare a tale scopo il governatore Harrison non si fece scrupolo di ricorrere ad imbrogli, corruzioni ed intimidazioni.

Tra i capi indiani che si fecero valere opponendosi all’avanzata degli americani vi fu il capo degli shawnee Tecumesh, che alleatosi degli inglesi organizzò una confederazione delle tribù nella valle del Mississippi. Per stroncare questa rivolta Harrison approfittò dell’assenza di Tecumesh impegnato in una campagna militare a sud, attaccando il suo quartier generale dell’Indiana a Tippecanoe il 7 novembre 1811.

Dopo la battaglia, gli americani rinvennero numerosi fucili di fabbricazione britannica, questo spinse gli americani a far si che il West diventasse un luogo sicuro dopo la cacciata degli inglesi.

Il centro di gravità della nazione andava sempre più verso Ovest, rispetto all’Est ormai civilizzato e simile all’Europa. Il West era più innovatore e aggressivo, per occuparlo e renderlo abitabile era necessario allontanare gli indiani da quei territori, avere un appoggio politico che incoraggiasse una politica economica e agraria più liberale, il West non era un mondo omogeneo, a sud vi erano i grandi piantatori di cotone ed era praticata la schiavitù, a nord vi era un sistema economico liberista in cui si andava sviluppando l’industria e il proletariato.

L’apertura della frontiera significò la fine dei nativi americani. Con la guerra del 1812 la resistenza delle tribù dei nativi americani era stata indebolita, il resto lo fecero la corruzione e le minacce con cui i nativi venivano obbligati a firmare trattati capestro. Alcune tribù non cedettero e il governo fu obbligato ad usare la forza per piegare la loro resistenza.

Le comunità dei nativi

L’annientamento dei nativi fu dovuto anche dallo stile di vita e dall’organizzazione sociale dei nativi, le tribù erano gruppi sociali troppo grandi e inadatte a svolgere le attività di sostentamento degli indiani, l’organizzazione sociale si fondava sul clan totemico che andava dalle trecento alle cinquecento persone; i clan erano autonomi e non avevano contatti con gli altri clan, non era infrequente che un clan della stessa tribù fosse in guerra con un altro clan e altri rimanevano in pace. Le tribù a est del Mississippi erano pacifiche e sedentarie mentre quelle delle pianure erano nomadi e guerriere. Il loro ritmo di vita e la loro sopravvivenza dipendeva dal bisonte che serviva a soddisfare tutte le necessità della tribù, dalla carne per nutrirsi, la pelle per fare capi di vestiario, calzature, tende e coperte, le ossa che servivano per fare strumenti e ornamenti, le corna per realizzare le tazze, i cucchiai, i mestoli, dai tendini ricavavano fili e corde per gli archi, dallo stomaco ricavavano gli otri per l’acqua e addirittura lo sterco veniva utilizzato come combustibile una volta seccato. In origine gli indiani cacciavano il bisonte a piedi, poi con l’arrivo degli spagnoli nel 1500 che portarono i cavalli cominciarono ad utilizzarlo per spostarsi nella prateria assieme alle mandrie di bisonti.

Nel 1875 la maggior parte delle tribù era ormai nelle riserve, sembrava scongiurato il pericolo di una guerra quando circolò la notizia della scoperta dell’oro nelle Black Hills scatenando una guerra con i Sioux. Le operazioni militari vennero affidate ai generali Nelson Miles, George Crook, al generale Wesley Merrit e al tenente colonnello George A. Custer il quale inviato nel Montana per aggirare i Sioux anziché attendere l’arrivo dei reggimenti al comando di Crook attaccò i Sioux che erano dieci volte superiori mentre il suo reggimento contava 265 cavalleggeri. Gli indiani erano comandati da Crazy Horse e Sitting Bull ed erano il gruppo di indiani più numeroso nella storia delle guerre indiane. Il 25 giugno 1876 a Little Big Horn, i Sioux fecero strage del reggimento di Custer e lo stesso Custer trovò la morte in battaglia. Nonostante la vittoria non vi furono vantaggi, gli indiani erano allo stremo senza cibo e senza munizioni e con la minaccia di ritorsioni da parte dell’esercito americano chiesero la resa.

Già dopo la guerra di secessione l’opinione pubblica americana era divisa sul problema indiano, i coloni dell’Ovest e i vertici militari sostenevano la necessità della guerra contro gli indiani e che l’unica conclusione era la sconfitta delle tribù indiane e il loro internamento nelle riserve. Bisognava costringere gli indiani ad abbandonare la vita nomade e riconvertirli all’agricoltura, a tagliarsi i capelli, ad accettare la proprietà privata, parlare inglese, imparare l’utilità del lavoro in cui le attività più umili non venissero lasciate solo alle donne. Molti esponenti che facevano capo ai gruppi umanitari cominciarono a fare pressioni per un trattamento più umano verso gli indiani, tra coloro che si batterono per una riforma favorevole verso i nativi c’erano gli ex abolizionisti Wendell Phillips e William Lloyd Garrison, il Vescovo Henry Whipple, il politico Carl Schurz, la scrittrice del Massachussetts Helen Hunt Jackson.

In realtà anche i sostenitori di queste idee riformiste erano dei visionari privi di senso pratico, dal 1870 le organizzazioni Indian Rights Association e l’Indian Defense Association convinsero il governo a varare una politica tesa a spezzare il sistema tribale per assimilare gli indiani alla civiltà di vita dell’uomo bianco. I bambini vennero sottratti ai genitori e rinchiusi in collegi speciali, venne proibito loro le pratiche religiose e i riti della tradizione indiana, a lungo andare anche questi tentativi di assimilare gli indiani si rivelarono fallimentari. Nel 1887 venne approvato il Dawes Act in cui le terre indiane venivano suddivise nelle riserve in piccole proprietà agricole familiari, nelle intenzioni dei riformatori il provvedimento doveva servire a far vivere gli indiani in armonia, le conseguenze furono disastrose, i pellirosse rimasero impoveriti da questo provvedimento che furono costretti a vendere i propri terreni ai contadini bianchi, la struttura tribale fu indebolita ma non fu sostituita da un’altra forma di organizzazione sociale alternativa. Anche le buone intenzioni distrussero una razza un tempo orgogliosa della propria identità e delle proprie tradizioni in una disintegrazione morale e fisica.




La locuzione guerre indiane è il nome usato dagli storici nordamericani per descrivere la lunga serie serie di conflitti armati che contrapposero i nativi americani ai governi e ai coloni europei, e successivamente alle autorità degli Stati Uniti d'America e del Canada britannico, nonché marginalmente del Messico.
https://it.wikipedia.org/wiki/Guerre_indiane
Alcune delle guerre furono provocate da una serie di paralleli atti legislativi, come l'Indian Removal Act, unilateralmente promulgate da una delle parti e potenzialmente considerabili alla stregua di guerra civile.[1]
Le guerre, che spaziarono dalla colonizzazione europea dell'America del XVIII secolo fino al massacro di Wounded Knee 1890 e alla parallela conclusione dell'epopea USA della "frontiera", risultarono complessivamente nella conquista, nella decimazione, nell'assimilazione delle nazioni indiane, e nella deportazione di svariate migliaia di persone nelle riserve indiane.


In questo lavoro non ci ripromettiamo di narrare analiticamente le vicende avvenute nel "West " americano ma di tracciare un quadro generale,una cornice che dia una interpretazione storica di fatti che in verità sono molto conosciuti dal grande pubblico ma solo attraverso una narrazione ampiamente romanzata ma su cui vi sono poche e soprattutto poco conosciute opere a carattere propriamente storico-scientifico
http://www.storiologia.it/statiuniti/indiani1.htm
Infatti la colonizzazione del vastissimo territorio fra l’Atlantico e il Pacifico degli Stati Uniti e in particolare le “guerre indiane” hanno un posto nell’immaginario collettivo un valore e un significato che vanno ben al di la del fatto storico ed hanno assunto un significato emblematico che forse può essere paragonato a quello che nel medio evo furono le leggende del paladino Orlando o nella antichità la guerra di Troia. La ”conquista del West” come si dice universalmente, assume nel bene e nel male spesso il paradigma della nascita non solo degli Stati Uniti ma di tutta la civiltà borghese,capitalista, moderna, liberista in qualunque modo si preferisce definirla. Nacque prima quindi una " leggenda del West" che vedeva nei coloni i paladini del bene ( del progresso, del lavoro, della libertà , della democrazia ) e poi una leggenda negativa che vedeva in essi invece gli agenti del “male” (dell’avidità sfrenata , dell’aggressione immotivata, del massacro, anche dell’inquinamento ecologico). In questo lavoro noi cercheremo di tracciare un quadro generale che vada al di la della leggenda, spiegare l'insieme degli eventi nella loro genesi e nel loro concatenarsi e lasciando ad altri i giudizi di valore.

LO SCONTRO

I rapporto fra i coloni bianchi e gli indiani seguirono uno schema diremmo "classico" in queste situazioni. All’inizio i bianchi erano pochi, dediti alla caccia e al commercio: non venivano percepiti quindi dai pellerossa come un pericolo e potevano avere con essi rapporti più o meno pacifici intramezzati da scontri sanguinosi. I bianchi rappresentavano cioè come un’altra tribù con la quale, secondo le circostanze, potevano esserci rapporti amichevoli o ostili come avveniva per ogni altra tribù. Man mano però il numero dei bianchi aumentava, arrivavano i coltivatori che recintavano le terre, arrivavano i grandi allevatori che si appropriavano dei pascoli e l’avanzata dei bianchi diventava una valanga incontenibile. A questo punto il mondo degli indiani e quello dei bianchi diventavano inconciliabili. Gli indiani erano anche disposti ad accogliere i bianchi ma si aspettavano che essi vivessero come loro senza pretendere ciò che ad essi pareva assurdo cioe di “possedere” la terra ( la terra era la grande madre che non si poteva dividere) I bianchi parimenti erano disposti ad accettare che gli indiani restassero nei loro territori ma assegnando ad essi dei terreni da coltivare: ma gli indiani non erano agricoltori, non comprendevano proprio questo modo di vivere,era una cosa che andava al di la della loro possibilità. Uno dei due mondi doveva necessariamente soccombere.

Ancora più importante era che per gli indiani,come abbiamo prima notato, era usuale operare scorrerie e furti. Non vi era poi nemmeno una autorità indiana in grado di tenere veramente a freno i gruppi guerrieri e i singoli che potevano sempre di propria iniziativa mettersi sul “sentiero di guerra”. I bianchi vedevano il problema indiano come un problema di sicurezza, di ordine pubblico, gli indiani erano assimilati ai fuorilegge. La stessa immensità delle distanze rendeva insostenibile la presenza di predoni incontrollabili. Non mancarono d’altra parte molte iniziative umanitarie a favore dei nativi e d'altra parte in quegli stessi anni in America si accettavano un numero grandissimo di immigrati. Ma gli indiani erano partecipi di una cultura troppo diversa: non potevano integrarsi. Inevitabilmente allora erano dei nemici pronti ad assalire i bianchi a ogni occasione propizia. I bianchi non potevano fidarsi e quindi concludevano che “un indiano buono era un indiano morto.”.

Si pensò allora ad assegnare ad essi delle aeree specifiche , le famose “riserve” che esistono tuttora. All’inizio potevano anche essere accettabili ma man mano che la avanzata bianca procedeva le riserve erano zone sempre più marginali, piccole (relativamente alla visione indiana) e povere. Il governo si impegnava però a distribuire razioni di viveri e altre cose necessarie. Ma gia questo era ovviamente una tragedia: i fieri guerrieri e cacciatori erano privati della loro dignità, non vivevano più della loro abilità ma elemosinavano il cibo dal governo. Inoltre agenti del governo disonesti rubavano ampiamente spingendo alla fame e alla disperazione quegli uomini già cosi umiliati. Gli indiani quindi prorompevano in disperate e sanguinose “rivolte” che venivano represse sanguinosamente.

Gli indiani e i bianchi in effetti nel West non erano ne buoni ne cattivi: agivano come non potevano non agire, erano nemici mortali tali che la vita degli uni era la morte degli altri al di la di ogni buona intenzione. E’ cosa triste: ma ogni civiltà procede in questo modo, eliminando quelli che si oppongono ad essa: anche la civiltà moderna procede in questo modo.

Come per le altre culture primitive gli indiani furono o assorbiti nella società bianca o ridotti nelle riserve dove conservano qualche vestigia della loro cultura originaria. Attualmente dei loro discendenti, circa due milioni e mezzo , una parte sono ancora in riserve sopravvivendo un pò con i sussidi statali e un pò con il turismo messo su dal grande mito del West ma hanno condizioni di vita nettamente inferiori a quelle medie degli americani anche se superiori a certi slum presenti nelle grandi metropoli americane. Gli altri si sono più meno pienamente inseriti nella società americana : in gran numero hanno partecipato alla Prima e alla Seconda guerra mondiale e in questa si distinsero nel teatro del Pacifico nelle radio- trasmissioni usando la loro lingua tribali del tutto incomprensibile ai Giapponesi. Ad indiani anche si deve molta parte nella costruzione dei grattacieli in quanto si sono specializzati nel difficile lavoro delle intelaiatura in condizione di sospensione nel vuoto. Attualmente abbiamo un vero e proprio revival della cultura indiana con moltissime stazioni radio e televisive e anche giornali in lingua tribali.
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Re: Ma quale genocidio dei nativi americani?

Messaggioda Berto » lun mar 22, 2021 8:43 pm

Usa, i nativi americani si ricomprano le terre. Per proteggerle
Enrico Franceschini
25 febbraio 2021

https://www.lastampa.it/green-and-blue/ ... /?ref=fbpp


LONDRA - "Stiamo rimettendo insieme un cuore spezzato". Le parole di Willa Powless, leader dei Klamath, una tribù di nativi americani storicamente basata in Oregon, evocano "Seppellite il mio cuore a Wounded Knee", il libro di Dee Brown che nel 1970 iniziò a riscrivere la storia della conquista del territorio americano da parte dei coloni bianchi, o dei cowboys come sono chiamati nei film western, dal punto di vista delle vittime. E l'operazione che questa piccola popolazione superstite di indiani d'America ha portato a termine in questi giorni ha effettivamente il sapore di un miracoloso intervento chirurgico, capace di restituire la vita all'organo a cui era stata strappata.

I Klamath sono infatti riusciti a riacquistare circa 700 ettari di prateria, laghi e montagne nell'Oregon meridionale, parte del territorio 10 mila volte più grande che fu requisito loro dal governo degli Stati Uniti centocinquanta anni or sono durante la cosiddetta conquista del West. La riserva loro concessa dalle autorità di Washington era in un primo tempo di oltre 7 mila ettari, ma anche quella fu progressivamente estorta con la legge o con l'inganno.

Adesso la tribù, utilizzando nuove regolamentazioni e fondi in parte pubblici, è stata in grado di comprare di nuovo un pezzo della propria terra ancestrale, su cui intende sviluppare attività tradizionali come caccia, pesca e pascoli, facendone anche una battaglia conservazionista in difesa dell'ambiente. "Non è la terra che appartiene a noi, bensì siamo noi che apparteniamo alla terra", commenta un altro capo dei Klamath, Clayton Dumont.

In pratica, i nativi si riprendono sul mercato immobiliare ciò che era stato loro tolto nell'ambito dell'avanzata dei bianchi, quel "destino manifesto" che fu a lungo un pilastro dell'espansione nei territori indiani, ma in seguito non condiviso da tutti. È come essere espulsi dal proprio paese e poi ricomprarselo, metro per metro, presso un'agenzia immobiliare. Naturalmente i Klamath non potranno ricomprarselo tutto. Ma la loro non è un'iniziativa isola, bensì parte di una specie di risorgimento delle vecchie tribù per riprendersi almeno una parte della terra dei propri avi e proteggerne le risorse naturali.

La nazione degli Oneida, per esempio, ha riacquistato due terzi dei 25 mila ettari della riserva originale che aveva in Wisconsin, in larga misura perduti "per trucchi e inganni", accusa il loro capo Bobby Webster. La tribù degli Yurok ha fatto qualcosa di analogo in California e quella dei Cherokee lo stesso in Nord Carolina.

Sono trattative legalmente complicate, anche perché i nativi, una volta rientrati in possesso della terra, vogliono proteggerla con la legislazione speciale che concede loro agevolazioni fiscali e permessi speciali. Per questo ci è voluto molto tempo. "È cominciato tutto negli anni '70", dicono i capi dei Klamath. Oggi, secondo cifre del dipartimento degli Interni Usa, più di 22 milioni di ettari di territorio americano sono stati incorporati in questo modo dai nativi. "La nostra gente nasce con una connessione naturale con la terra", commenta Willa Powless. "Qualcosa che ci viene tramandato dagli anziani e che noi tramandiamo ai figli. Riottenere un ampio pezzo di territorio, specie se è terra selvaggia, non sviluppata, è probabilmente il modo migliore di sanare le nostre ferite".

Non è una restituzione. Ed è un pezzo di terra comprato in parte con i proventi dei casinò che prosperano nelle riserve indiane. Ma è come se quel cuore seppellito a Wounded Knee riprendesse a battere, almeno un po'.
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Re: Ma quale genocidio dei nativi americani?

Messaggioda Berto » lun apr 26, 2021 2:41 pm

Quando si parla di genocidi dei Nativi in USA sappiamo che avvennero guerre da parte degli immigrati Inglesi e dei Francesi.
Jaime Andrea Jaime
25 aprile 2021

https://www.facebook.com/jaime.mancagra ... &ref=notif

La Louisiana, vastissima, andava da New Orleans fino al Canada, mentre gli Inglesi erano sulla costa Atlantica.
Sappiamo anche che i Nativi, specialmente tra loro, non erano santi nemmeno loro.
Poi la storia prosegui' anche dopo la nascita degli USA.
Cio' che pero' molti non sanno e' che per riparare a quei fatti, negli anni, sono state fatte moltissime leggi, sia Federali sia da parte dei singoli Stati, che hanno dato terre e statuti speciali agli attuali Nativi ( piu' di cinque milioni) che le gestiscono, sulle loro riserve, autonomamente con permessi per numerosissimi Casino' e di Resorts di lusso per vacanze.
Moltissimi e bellissimi campi da Golf sono sorti negli anni: in tutti gli USA.
Come questo vicino a Vegas, dove sono stato alcune volte ospite di un mio amico, che ne era socio.
E non era a buon mercato ma il campo ed i servizi sono eccellenti e pure il ristorante.


Mario Giuliani
Da non dimenticare che le Tribu' non pagano tasse. I casino' nelle terre dei nativi americani hanno guadagnato 26,5 miliardi di dollari nel 2011. Le 236 tribù di nativi americani gestiscono 422 strutture in 28 stati. Eppure le tribù dei nativi americani e le loro corporazioni tribali interamente controllate non sono soggette alle imposte sul reddito federali sui loro guadagni. L'esenzione è assoluta. Alcuni tipi di organizzazioni esentasse sono tassati su alcuni tipi di reddito. Le tribù sono esenti dalle imposte federali sul reddito anche quando conducono attività commerciali. Possono formare società per condurre affari e il loro reddito rimane esente. Ma individualmente le tasse le pagano. I nativi americani sono cittadini statunitensi e, a differenza delle loro tribù, gli individui sono soggetti alle imposte federali sul reddito. Anche il reddito tribale esente può essere tassato se distribuito ai singoli membri della tribù. Una delle disposizioni più complicate dell'IGRA consente alle tribù dei nativi americani di distribuire pro capite le entrate derivanti dalle attività di gioco ai membri della tribù. Queste distribuzioni pro capite sono tassate. Alcuni pagamenti di "benessere generale" a individui nell'ambito di programmi di assistenza sociale non sono tassati. In generale, per essere esentasse, i pagamenti devono essere effettuati nell'ambito di un programma governativo; essere per la promozione del benessere generale (cioè, basato generalmente su esigenze individuali, familiari o di altro tipo); e non essere un compenso per i servizi. Questa eccezione generale per il benessere dal reddito è diventata sempre più controversa in quanto applicata ai membri della tribù e si chiede all'IRS di intervenire. In assenza di un'autorizzazione espressa da parte del Congresso, gli stati non hanno il potere di tassare i nativi americani che vivono in una riserva il cui reddito deriva da fonti di prenotazione. Tuttavia, uno stato può tassare i nativi americani sul reddito (compresi i salari derivanti dall'occupazione tribale) se risiedono nello stato ma al di fuori della riserva.


Riccardo Batori
Solo negli USA hanno un trattamento “di favore” che io non condivido ma è una mia opinione , di nativo hanno la discendenza loro sono nati negli States non nel 1600 , un po’ come se io chiedessi dei danni ai Romani perché sono etrusco , oppure i Francesi (Galli) lo facessero con gli Italiani per il genocidio dei Galli da parte di Cesare.



Gino Quarelo
Diciamo che non si è trattato di un vero e proprio genocidio.
Ma di un confronto civile, politico, militare, economico, culturale che è durato secoli tra i migranti dall'Europa in età moderna e gli indigeni amerindi.
Questo confronto si è sviluppato anche con guerre e reciproci massacri, alla fine ha vinto il più forte, il migrante europeo che anche lui aveva il diritto di vivere.
Ai nativi pellirossa va imputato l'incapacità di adeguarsi al nuovo mondo.
Non vi è stata integrazione e fusione ma conflitto e guerra fino a che i migranti europei non hanno avuto il sopravvento completo.
Certo vi furono massacri, ma furono più le malattie a uccidere gli indiani che un deliberato piano genocidiario come con gli ebrei, gli armeni e i tutsi.


Fabio Fioroni
e sono cosi' liberi di fare quello che vogliono nelle loro terre che addirittura mi sembra (correggimi se sbaglio) che ad esempio i Navajo nella loro nazione danno ospitalita' a un altro popolo , gli Hopi, che a loro volta gestiscono da sé il loro territorio.
La terra delle liberta' e delle opportunita'.



Adriano Mastromarco
Leggendo un racconto di John Grisham ho appreso che molte comunità di nativi americani sono diventate ricche gestendo casinò e proprietà adiacenti che fruttano milioni di dollari ogni anno.
Molte persone sono andate a studiare il loro albero genealogico alla ricerca di un po' di "sangue pellerossa" per fare in modo di entrare in queste comunità di privilegiati.
Anche se è una zecca e un politico democratico bisogna riconoscergli un buon talento nella scrittura o nella scelta romanzi che poi lui compra

http://www.thrillercafe.it/linformatore ... a%20Fusari
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Re: Ma quale genocidio dei nativi americani?

Messaggioda Berto » sab ott 09, 2021 9:14 pm

???

Ancora orrore in Canada: i resti di centinaia di bambini nativi sotterrati nei pressi di una ex scuola cattolica
24 giugno 2021

https://www.lastampa.it/esteri/2021/06/ ... 1.40424925

Ancora orrore in Canada. I resti di centinaia di bambini nativi sono stati ritrovati sotterrati nei pressi di un ex scuola cattolica, la ‘Marieval Indian Residential School’ di Saskatchewan. Lo hanno reso noto con un comunicato le comunità indigene della Federation of Sovereign Indigenous First Nations senza specificare il numero dei corpi ritrovati, ma facendo capire che è superiore a quello dei resti di 215 bambini scoperti il mese scorso nei pressi della Kamloops Indian Residential School, in British Columbia. Gli istituti facevano parte di una rete di scuole, attive fino alla fine degli anni Settanta, fondate dal governo canadese e amministrate dalle Chiese cattoliche che rimuovevano i figli degli indigeni dalla loro cultura per assimilarli alla propria.

Canada, scoperti i corpi di 215 bambini in una fossa comune: frequentavano una scuola per indigeni americani

Come a Kamloops, anche a Marieval - dove la scuola ha operato dal 1899 al 1997 - sono stati usati dei radar per controllare l'area dove è stata ritrovata la fossa comune. Il capo della comunità Cowessess, Cadmus Delorme, e il capo della Federazione, Bobby Cameron, oggi terranno una conferenza stampa per dare maggiori informazioni sul ritrovamento che il leader della comunità indigena canadese definisce tragico. «Chiedo a tutti i canadesi di stare al fianco delle First Nations in questo momento estremamente difficile», ha scritto su Twitter Perry Bellegarde, a capo della assemblea delle First Nations.

Sono stati oltre 150mila i bambini nativi che tra il 19esimo secolo e la fine degli anni settanta sono stati costretti ad entrare in queste scuole residenziali, dove venivano convertiti: ai bimbi non veniva permesso di parlare la propria lingua, venivano spesso maltrattati e picchiati. Secondo alcune stime si ritiene che oltre 6mila bambini siano morti in queste scuole, l'ultima delle quali ha chiuso a metà degli anni '90. Nel 2008 il governo canadese si è scusato formalmente, davanti al Parlamento, per questa politica e per gli abusi fisici e sessuali che sono stati commessi in queste scuole. In quell'anno è stata anche creata una commissione, la Truth and Reconciliation Commission, che per anni ha indagato per ricostruire tutta la verità ed alla fine ha stabilito che molti dei bambini non tornarono mai nelle loro comunità.

Alberto Pento
Semplice cimitero o che altro?

Demenziali calunnie contro la chiesa cristiana.
Non fosse comuni ma normali cimiteri.
Non sterminio di nativi ma morti per lo più naturali.
L’anticlericalismo piu violento si è dato alla pazza gioia (e alla pazza rabbia) dopo le notizie sulle persone seppellite nei pressi di alcune chiese in Canada.
Strage, genocidio culturale, crimini contro l’umanità si legge.
Ma basta un minimo di lucidità e capacità di informarsi per capire che dietro ai titoloni si nascondono fatti del tutto innocenti o, al limite, errori ingigantiti all’inverosimile.
Casa sappiamo fino ad ora?
Che delle persone povere venivano accolte negli istituti di carità per essere educate e per offrirgli un futuro migliore.
Che queste persone sono morte come avviene da milioni di anni a tutti gli esseri viventi e qui siano state seppellite, pare con regolare censimento e addirittura con delle lapidi sulle loro tombe.
Queste persone erano in maggioranza giovani ma non solo, native delle Americhe ma non solo.
Cosa mi sfugge?
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