Mostruosità italiane o italiche

Re: Mostruosità italiane o italiche

Messaggioda Berto » mer nov 29, 2017 10:41 pm

Trova un intruso in casa e lo picchia: lui condannato, il ladro assolto
2017/11

http://www.ladyradio.it/2017/11/trova-u ... ro-assolto

Simone, cinquantenne fiorentino, per la prima volta rende pubblica a Lady Radio la sua storia. Quella di un un babbo che una sera di agosto di due anni fa, tornando dalle vacanze, è entrato in casa con la figlia piccola. Un babbo che all’improvviso ha sentito la bambina gridare per lo spavento perché mentre andava in bagno aveva trovato un uomo nascosto. Un ladro che era entrato nell’appartamento con l’evidente intento di ripulirlo. Simone non ci ha visto più e, preso dall’impeto della situazione, con uno sconosciuto in casa sua e la bambina che urlava dalla paura, ha ingaggiato un corpo a corpo con il ladro, un rom. Nella lotta ha avuto la meglio e gli ha procurato lesioni. Quando le forze dell’ordine sono arrivate, avvertite dal vicinato, per il ladro è stato necessario il ricovero in ospedale. Quei cazzotti sferrati all’uomo che si era intrufolato in casa sua sono costati carissimi a Simone. Processato per direttissima, è stato condannato a un anno e sei mesi, trascorsi ai domiciliari per i primi sette mesi con la possibilità di uscire solo per andare a lavoro. Simone ha dovuto inoltre risarcire il ladro con 1500 euro (lui ne aveva chiesti 3mila), e ha dovuto pagare altre 700 euro di spese legali. E il ladro? Per lui nessuna condanna, non un solo giorno di carcere. Ascolta e guarda dal gr del mattino.


Difende sua figlia da un ladro: il giudice condanna il padre
Luca Romano - Ven, 01/12/2017

http://www.ilgiornale.it/news/cronache/ ... 69685.html

Sorprende il ladro in casa e lo picchia. Si fa sette mesi ai domiciliari e paga il risarcimento. Il bandito è libero

Il ladro rom libero di passeggiare in centro a Firenze. L'uomo che ha difeso la sua famiglia dal furto costretto a passare sette mesi ai domiciliari e a risarcire il nomade con 1500 euro.

Questa storia fa riflettere e spiega tante pieghe della giustizia di casa nostra che spesso sta dalla parte sbagliata. Lui, il protagonista di questa triste storia, si chiama Simone P., ha 50 anni e ha difeso la sua famiglia da un furto in casa circa due anni fa: "Era il 17 agosto del 2015, due anni fa. Tornavo dal mare con la mia bambina, che allora aveva dieci anni, e dopo aver preso un gelato in piazzale Michelangelo intorno a mezzanotte arriviamo a casa. Entriamo, lei va verso il bagno e improvvisamente comincia a urlare. C'era una persona, un ladro, avrà avuto tra i venti e i venticinque anni. Un rom. Lui mi spinge per scappare, e io non ci ho più visto. Ho pensato solo alla ragazzina, ai pericoli che poteva correre", spiega il cinquantenne a Libero.

Poi l'uomo racconta il contatto fisico con quel rom. Dopo anni di calcio storico fiorentino e pugilato, ha picchiato con furia il nomade: "E d' altronde che cosa ne so di quello che poteva avere in mano? Allora sono partito col sinistro, poi con il destro, gli ho spaccato subito il setto nasale, gli ho buttato giù un paio di denti e lui è finito per terra. Intanto i vicini stavano chiamando la polizia". Il tutto per il legittimo diritto di difendere casa sua e soprattutto sua figlia di dieci anni che è rimasta sotto choc: "Mia figlia è rimasta traumatizzata". Fin qui quanto accaduto. Ma adesso, come ricorda sempe su Libero, Cruciani, arriva la tremenda beffa della giustizia italiana. Ed è la stesso cinquantenne fiorentino a raccontare quanto accaduto: "Ho subìto un processo per lesioni aggravate, il rom si è presentato in carrozzina in tribunale per intenerire il giudice, e in effetti ci è riuscito. Alla fine mi sono beccato una condanna di un anno e sei mesi con la condizionale, e sette mesi li ho passati agli arresti domiciliari. Oltre a questo, tremila euro di danni, e per fortuna il mio avvocato è riuscito a ridurre il risarcimento a 1500 euro. Che comunque gli ho dovuto dare". E proprio qualche giorno fa l'uomo ha incontrato il bandito tranquillo per strada a Firenze. Simone non ha voluto fare ricorso in appello, non voleva avere più niente a che fare con questa storia. A pesare probabilmente la batosta ricevuta da quella giustizia che pensava stesse dalla sua parte.



Giornata europea delle vittime del nazismo mafioso zigano
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Re: Mostruosità italiane o italiche

Messaggioda Berto » gio nov 30, 2017 7:08 pm

«Multe latte La verità sta per venire fuori» - Economia
Eugenio Rigodanzo con le sue mucche nell’azienda di LonigoVancimuglio 1997: gli agricoltori “sparano” letame sull’autostrada
Piero Erle
LONIGO

http://www.ilgiornaledivicenza.it/perma ... croll=1987

«Non ha senso festeggiare. La questione è tutta in alto mare». Se chiedi di ricordare “Vancimuglio 1997” a Eugenio Rigodanzo, allevatore di Lonigo che 20 anni dopo la grande protesta continua la sua battaglia come fosse il primo giorno - anche a costo di dover vendere parti di proprietà - e ha perfino ridotto il numero di mucche in stalla, parte un fiume in piena. Quel famoso 20 novembre era il suo trattore a guidare la lunghissima carovana di mezzi che da Vancimuglio si spostò verso il casello di Vicenza est per la manifestazione prevista in A4 («la polizia era avvisata, dovevamo andare solo in corsia di emergenza, ma poi decisero di fermarci»).
E la famosa manganellata dell’ufficiale di polizia che colpì l’allevatore Cesare Filippi era indirizzata a lui, Rigodanzo: aveva reagito con estrema violenza verbale contro il dirigente che aveva bloccato i trattori - mai stato un “mediatore”, lui - e lo volevano colpire per “calmarlo”. Ma Rigodanzo aveva fatto a tempo ad abbassarsi. Ne nacque una baraonda «ed è stato Sandro Cristofari a fermarmi, perché io so - racconta in modo sempre diretto - cosa avrei potuto combinare in quei momenti».
«Ho dormito al presidio di Vancimuglio quasi tutte le 78 notti, a differenza di altri: me ne staccavo solo alle 5 del mattino per andare a mungere le mucche». Era sul mezzo da cui partì il letame sparato in autostrada, affrontò con altri il processo.

LA PRIMA DENUNCIA.
Ma tra le pagine del Giornale di Vicenza del 21 novembre dedicate a quegli scontri diventati notizia nazionale, Rigodanzo punta il dito su un articolo che non è di cronaca: i Cospa segnalavano la presenza di aziende a cui venivano riconosciute “quote di latte prodotto” (e pagato con i premi riconosciuti dall’Ue) senza che nessuno controllasse se in stalla avevano davvero mucche da mungere. «È la denuncia che abbiamo fatto fin dall’inizio, allora con l’avv. Michele Dalla Negra. Si parlava di 104 aziende, dopo 20 anni i numeri si sono moltiplicati».

14MILA PAGINE.
Di Rigodanzo le cronache si sono occupate anche in seguito, per vari gesti eclatanti di protesta, compresa la doppia occupazione dell’Avepa o l’irruzione col trattore al raduno del “parlamento” dei leader della Lega (anche se ricorda che fu Umberto Bossi nel ’97 a impedire il sequestro di tutti i trattori dei Cospa): «Allora non avevo ancora chiaro - attacca - quello che era successo: uno scambio, una specie di accordo che coinvolgeva Governo, Lega, associazioni sindacali, Ministero, probabilmente Agea e una parte dei miei ex colleghi. Ma la verità verrà fuori a breve, ne sono assolutamente convinto». Rigodanzo si è messo a trainare altri allevatori in un lavoro molto più efficace delle proteste: studiare le carte, in quella sua casa di Lonigo che è quasi un archivio storico. E così quando 5 anni fa a Roma archiviarono l’inchiesta della Procura sulle denunce fatte da lui e dagli altri, invece di arrendersi diede una svolta: chiese l’accesso agli atti. «Ci vollero sei mesi per arrivare ai documenti: 14200 pagine. Ci mettemmo a leggerle tutte, notte dopo notte. E le carte ci davano ragione».

L’ELEMENTO CLOU.
Il sospetto è sempre lo stesso: il sistema italiano delle “quote latte” ha permesso negli anni di pagare i fondi Ue anche ad aziende che le mucche non le avevano ma facevano giungere latte dall’estero (a prezzo ben più basso) per poi magari venderlo a chi produce formaggi Dop e altro. «Hanno fatto di tutto - si arrabbia Rigodanzo - per creare confusione nelle procedure burocratiche del sistema e impedire controlli». Dalle carte emerge anche la relazione dei carabinieri del Ministero che l’ex ministro Luca Zaia ha fatto giungere alle Procure. Poco dopo in un burrascoso incontro a Roma a Rigodanzo viene proposto di «rateizzare le multe, che vedrà che poi soldi per le aziende ce ne saranno quanti ne vuole», e al colonnello Mantile in un incontro registrato segretamente al Ministero viene detto «la vostra relazione è fatta bene, ma non si può far scoppiare un caso così enorme con l’Ue». C’è una parlamentare della Lega che confida che c’è un documento di Agea del 2004 che parla di 660 allevamenti “senza mucche” per 5,5 milioni di quintali «ma intanto - attacca Rigodanzo - il ministro Zaia faceva passare la legge per rateizzare le multe». E c’è il neo-ministro Giancarlo Galan che va in Parlamento a “sparare” che «il caso è chiuso: è stata controllata ogni singola azienda». Finché si arriva agli ultimi fatti raccontati dal nostro giornale: Rigodanzo e i suoi compagni che con i legali riescono a dimostrare che c’è un metodo per calcolare quante mucche da latte “in attività” ci sono davvero in Italia e smentire quel famoso algoritmo dello Stato che conteggia che ogni mucca fa latte per 80 anni.

L’INCHIESTA PROSEGUE.
La svolta, come noto, è la decisione del gip Paola Di Nicola di chiedere nuove indagini alla Procura di Roma perché c’è la concreta ipotesi che il latte davvero prodotto in Italia fosse meno del tetto imposto dall’Ue, e quindi che le multe siano state sbagliate (anche se tutt’ora Agea sta spedendo centinaia di intimazioni di pagamento). «Il pm Pisani ha assicurato che rispolvererà le denunce fatte anche in passato: ne ho fatte una valanga. Il “tutti colpevoli, nessun colpevole” ci ha portato all’esasperazione e ha rovinato lo Stato di diritto. La mole di denaro truffato è immensa, il danno fatto è incalcolabile, a cominciare dalla morte di Franco Slaviero che si è ucciso per le multe, e da quel 74% di aziende chiuse. Adesso mi aspetto giustizia, poco ma sicuro».
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Re: Mostruosità italiane o italiche

Messaggioda Berto » gio nov 30, 2017 7:15 pm

Meno nascite… Ma perché? | Contropiano
di Claudio Conti

http://contropiano.org/altro/2017/11/28 ... che-098219

La benemerita Istat ha rilasciato il suo ennesimo report sull’andamento (negativo) della popolazione italiana. Da istituto statistico dà i numeri ma si guarda bene – specie dopo la successione di presidenti proni al potere politico degli ultimi anni – dal fornire spiegazioni che aiutino a far luce sulle cause.

E dunque partiamo dai numeri e vediamo di avanzare delle (robuste) ipotesi.

“Nel 2016 sono stati iscritti in anagrafe per nascita 473.438 bambini, oltre 12 mila in meno rispetto al 2015. Nell’arco di 8 anni (dal 2008 al 2016) le nascite sono diminuite di oltre 100 mila unità”. Si tratta di un calo di quasi il 20% in un arco di tempo brevissimo. Per trovare andamenti così veloci bisogna probabilmente andare a vedere gli anni di guerra, quando milioni di uomini partivano “per il fronte” e una buona percentuale, poi, non tornava.

L’Istat, rilievi anagrafici alla mano – nota che “Il calo è attribuibile principalmente alle nascite da coppie di genitori entrambi italiani. I nati da questa tipologia di coppia scendono a 373.075 nel 2016 (oltre 107 mila in meno in questo arco temporale). Ciò avviene fondamentalmente per due fattori: le donne italiane in età riproduttiva sono sempre meno numerose e mostrano una propensione decrescente ad avere figli”.

E qui la mano dell’ideologo estensore del report si sovrappone all’ottimo e duro lavoro dei ricercatori. Viene infatti abbozzata obliquamente una possibile “causa”: la “colpa” delle donne italiane in età fertile che sarebbero “poco propense” a fare figli.

La causa sarebbe dunque “culturale”, risiederebbe nella mentalità e nei costumi correnti. Vedremo dopo quanto falsa sia questa “ipotesi comportamentale”.

“La diminuzione delle nascite registrata dal 2008 è da attribuire interamente al calo dei nati all’interno del matrimonio: nel 2016 sono solo 331.681 (oltre 132 mila in meno in soli 8 anni). Questa importante diminuzione è in parte dovuta al contemporaneo forte calo dei matrimoni, che hanno toccato il minimo nel 2014, anno in cui sono state celebrate appena 189.765 nozze (57 mila in meno rispetto al 2008)”. Ci si sposa meno e, anche quando lo si fa, si fanno pochi figli. Il perché resta nell’aria, ancora accostato ai “comportamenti” umani, come se questi fossero slegati da qualsiasi causa materiale.

“Le donne italiane hanno in media 1,26 figli (1,34 nel 2010), le cittadine straniere residenti 1,97 (2,43 nel 2010)”. I numeri sono quelli, indubbiamente, ma accostarli in questo modo crea legami di significato e addirittura “prescrittivi” assai poco innocenti. Le donne straniere fanno più figli e questo dipende probabilmente anche da fattori “culturali”, nel senso che provengono in maggior parte da paesi in cui fare molti figli è un’assicurazione sulla possibilità che qualcuno resti vivo e perpetui la discendenza. Se le donne italiane non fanno altrettanto, però, non può dipendere solo dalla “cultura moderna”…

L’estensore del report ci prova comunque: “L’effetto della modificazione della struttura per età della popolazione femminile è responsabile per quasi i tre quarti della differenza di nascite osservata tra il 2008 e il 2016. La restante quota dipende invece dalla diminuzione della propensione ad avere figli.” Apprendiamo ancora una volta che l’invecchiamento della popolazione è – per tre quarti! – talmente avanzato che il numero di donne in età riproduttiva è molto più limitato di prima. Ma ancora una volta spunta la “propensione”. Sembra si sentire nelle orecchio un eco degli spot voluti a suo tempo dalla Lorenzin…

E allora proviamo noi ad avanzare qualche ragione decisamente più concreta.

La stessa Istat, infatti, ci informa regolarmente che un numero velocemente crescente di giovani cittadini italiani lascia questo paese. Siamo arrivati al punto che il flusso migratorio italiano verso altri paesi ha superato quello in ingresso, fatto di richiedenti asilo, profughi e “migranti economici”. I nostri emigranti, insomma, sono tutti “economici”.

Questa caratteristica, se fosse riconosciuta dall’anonimo estensore del report, dovrebbe suggerire che le cause della bassa natalità sono da ricercare proprio della sfera economica. La precarietà contrattuale che perseguita soprattutto i giovani (ma sempre più anche gli “anziani”) sconsiglia in genere di metter su famiglia e in primo luogo di generare figli, che vanno cresciuti, vestiti, nutriti, scolarizzati, curati, ecc. I bassi salari connessi alla condizione precaria aggravano il probleMeno nascite… Ma perché?ma, come sa chiunque conosca il prezzo dei pannolini…

Ma cominciano ad esserci anche cause endocrinologiche in molte parti del paese. La fertilità maschile si va riducendo, e sono sempre più numerosi i casi di “giovani adulti” con carenze nella produzione di spermatozoi in salute (attivi, regolari, in quanitità sufficiente, ecc).

Contemporanemente, sempre più donne in età fertile riscontrano problemi di endometriosi.

Unendo i due fenomeni negativi si vede facilmente che si moltiplicano i casi di coppie giovani con problemi riproduttivi serissimi (a uno o entrambi i partner).

Ne consegue che una o due generazioni, già ridotte di numero rispetto alle precedenti, sottoposte alla falcidia dell’emigrazione, dei bassi redditi e delle difficoltà riproduttive, non possono far altro che “produrre” un minore numero di figli.

Forse è il caso di spiegarlo all’anonimo ideologo incaricato di “abbellire” moralisticamente i report dell’Istat. Ci sembra infatti che abbia una “propensione” a scambiare gli effetti per cause. E questo nuoce gravemente alla reputazione di una delle poche “eccellenze italiane” ancora in vita.





Giovani, i nuovi poveri in Italia
Francesca Devescovi

http://www.alleyoop.ilsole24ore.com/201 ... 6_ueoyJba0

I giovani sono i più colpiti dalla povertà. A dirlo è il recente Rapporto sulla povertà della Caritas Italiana che restituisce una fotografia preoccupante del nostro Paese: la povertà infatti è un fenomeno più pervasivo e diffuso rispetto agli scorsi anni. Inoltre, come si diceva, il dato allarmante è che le persone più penalizzate non sono solo gli anziani, i pensionati, come nel passato, ma i giovani. E mentre in Europa la povertà giovanile è in declino, in Italia è in aumento (dal 2010 al 2015 si riscontra un incremento del 12,9%).

Nel 2015 (ultimo anno disponibile per questo tipo di dato fornito dall’Eurostat) spicca la presenza di oltre 117 milioni di europei a rischio di povertà (23,3% della popolazione complessiva legalmente presente nell’UE a 27 paesi, al primo gennaio 2016). In Italia, il numero totale di persone nello stesso tipo di condizione è di 17 milioni 469mila (28,8% della popolazione), di questo esercito quasi 2 milioni sono giovani.

Solitamente erano gli anziani, i nuclei con disoccupati e le famiglie numerose ad essere povere ma oggi la Caritas rileva una tendenza inversa proprio all’età: più si abbassa l’età, più aumenta la povertà. Sono i giovani (under 34) a vivere la situazione più critica e più allarmante di quella vissuta un decennio fa dagli ultra-sessantacinquenni. La crisi economica ha colpito tutti ma sono stati i giovani ad essere più penalizzati: oggi i nipoti sono più insicuri e poveri rispetto ai loro nonni e anche i figli lo sono rispetto ai propri genitori. Anche in prospettiva i figli finiranno la loro vita più poveri dei loro padri.

Questa nuova povertà dei giovani pesa di più rispetto a quella degli anziani perché ha maglie più larghe e colpisce un intero ecosistema. Un giovane povero è un giovane che non investe nell’educazione, che non può permettersi uno sport, che non va in vacanza. E’ un giovane che ha scarse possibilità di trovare un lavoro, uscire dalla propria casa di origine e fare famiglia. E’ quello che a livello europeo viene chiamato il fenomeno dei NEET, giovani privi di lavoro e fuori dal circuito educativo: l’Ocse stima che uno su tre vive ai margini della società.

I giovani che lavorano hanno anche un salario più basso rispetto a quello delle generazioni precedenti e anche questo fattore contribuisce ad una penalizzazione nei progetti di vita che oggi sono incerti e con tappe più diradate nel tempo rispetto al passato. La profonda recessione e il lento recupero dopo la crisi finanziaria del 2008 sono le cause primarie di questo fenomeno ma anche i cambiamenti del mercato del lavoro, il calo demografico che sta portando all’invecchiamento della popolazione e la riduzione del nucleo familiare. Questo circolo vizioso vale a livello globale ma l’Italia è uno dei Paesi più colpiti perché in altri Stati, come ad esempio la Svezia, sono state introdotte delle misure specifiche per incoraggiare i giovani allo studio e incrementare opportunità di lavoro di qualità e con salari equi.

L’impatto della povertà giovanile è quindi molto più ampio e il divario intergenerazionale in termini socio-economici penalizza i giovani nel nostro Paese a favore delle persone più anziane, meglio retribuite e con maggiori livelli di protezione sociale. Lo hanno capito anche gli stranieri: non solo i flussi migratori verso il nostro paese stanno diminuendo ma sono tanti gli stranieri che decidono di lasciare il nostro Paese, nel 2015 sono stati 44.000, il triplo rispetto a nove anni prima. Non solo gli stranieri ma anche i giovani che emigrano: nel 2016 73.000 giovani diplomati e laureati hanno abbandonano l’Italia ritenendolo un Paese per vecchi che perde il capitale umano più importante, quello dei giovani.

L’Italia si trova quindi di fronte ad una situazione drammatica: ha tanti anziani da proteggere e pochi giovani sui cui puntare. E i primi sono sempre al centro del dibattito politico e ben rappresentati invece i secondi versano nell’indifferenza più generale.



Povertà, poartà/povartà e mexeria venete
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Re: Mostruosità italiane o italiche

Messaggioda Berto » mer dic 13, 2017 8:50 pm

Mostruosità demenziali comuniste, internazicomuniste

Aiutare i nostri concittadini è sbagliato noi dobbiamo aiutare chi viene dal mediterraneo
https://www.facebook.com/11205669180155 ... 7956757766

“Gli Italiani sono ignoranti perché considerano gli immigrati un peso”. E se non ci credi è sufficiente ascoltarlo dalla sua viva voce...
https://www.facebook.com/videococomero/ ... 9592204734


Comunisti, internazicomunisti e dintorni
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Re: Mostruosità italiane o italiche

Messaggioda Berto » dom dic 24, 2017 10:18 am

Veneti ke łi se ga copà o morti xbandonà e de mexeria
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http://www.life.it/1/uccisi-dallo-stato/#more-5329

Questa pagina è dedicata ai 160 imprenditori veneti che hanno deciso di lasciarci, morti non suicidi come si vuole far credere, ma uccisi dal sistema Italia alla stessa stregua dei soldati morti nella grande guerra: non caduti per amore della patria ma mandati al massacro da criminali mitomani a capo di un’Italia, perfida matrigna.
Ricordiamoli con una preghiera, questi nostri colleghi ed amici e vigiliamo perché il loro sacrificio non venga un giorno strumentalizzato e mitizzato per “beceri fini patriottici” dalla Stato italiano che quasi sempre, in queste tristi vicende, ha rivestito il ruolo di impietoso aguzzino.
Meritano tutto il nostro rispetto le vittime e la nostra solidarietà le loro famiglie, perché testimoni imperituri delle condizioni disumane a cui spesso, noi imprenditori, siamo condannati nella più completa solitudine.

Daniele Quaglia



UN GIORNO INCONTRAI UN AMICO, aveva quasi sessant'anni, troppo giovane per smettere di lavorare, ma troppo vecchio per ripartire.

https://www.facebook.com/raffaello.dome ... ment_reply

Era stato costretto a chiudere la sua attività per colpa della crisi e si ritrovava a scrivere un curriculum senza sapere da dove cominciare.
Lessi nei suoi occhi la disperazione.
In seguito gli amici che furono costretti a lasciare la loro attività diventarono sempre di più, in un vortice che coinvolgeva i loro dipendenti e famiglie.
Persone che avevano superato i cinquant'anni e si trovavano a ricominciare da zero, senza prospettive.
Un numero in espansione di disoccupati senza alcun paracadute, buttati in strada dopo che erano stati spolpati di ogni guadagno, colpevoli di avere fatto da soli senza attaccarsi alle mammelle dello stato, partite IVA.
Lavoratori instancabili, che scommettevano il loro denaro e dedicavano il loro tempo nella loro attività, certo, non erano splendidi come quelli che attraversano l'oceano per fare volontariato (pagato) nei paesi del terzo mondo, ad alcuni parevano perfino meschini, ma davano alla propria famiglia e ai loro dipendenti la possibilità di vivere una vita dignitosa grazie a un lavoro, senza ricorrere a vergognosi bonus statali.
Ecco, io dedico a questi che come me passeranno queste feste senza la certezza di un domani, i miei più sentiti auguri di buon Natale e che l'anno prossimo vi sia amico e riporti la serenità nelle vostre famiglie. (B. Bianchi)
Ah, ahahahahahahah....:
.... forse stavano proprio discutendo di questo in tanti workshop!






Artigiano di 59 anni si toglie la vita nel suo laboratorio
18 dicembre 2017

https://udine.diariodelweb.it/udine/art ... 218-472817

La tragedia

A trovare il suo corpo, appeso a una trave, sono stati i famigliari che sconvolti hanno chiamato aiuto. Purtroppo il personale del 118 non ha potuto fare nulla
Ennesima tragedia del male oscuro che, periodicamente, miete vittime in Friuli. Un artigiano di 58 anni si è tolto la vita lunedì, impiccandosi nel suo laboratorio che si trova in uno dei comuni della provincia di Udine.
Stava attraversando un periodo difficile, e purtroppo, come accade a molti, faticava a vedere la luce alla fine del tunnel. per questo, preso da un momento di sconforto, ha preferito togliersi la vita.
A trovare il suo corpo, appeso a una trave, sono stati i famigliari che sconvolti hanno immediatamente chiamato aiuto. Purtroppo il personale del 118 non ha potuto fare altro che constatarne la morte. Dell'accaduto è stato informato anche il magistrato di turno e sul posto sono intervenuti i carabinieri.


Povertà e miseria nel Veneto, in Italia e in Europa
viewtopic.php?f=161&t=2444
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Re: Mostruosità italiane o italiche

Messaggioda Berto » dom dic 24, 2017 7:01 pm

All'origine della nostra povertà:


LA NATURA CLASSISTA DELLA COSTITUZIONE ITALIANA
di GUGLIELMO PIOMBINI

https://www.miglioverde.eu/la-natura-cl ... e-italiana

In questo libro davvero meritevole di lettura, Costituzione, Stato e crisi. Eresie di libertà per un paese di sudditi,lo studioso padovano Federico Cartelli disseziona con cura la nostra carta costituzionale, rilevando tutti i suoi caratteri illiberali, statalisti, accentratori. Le sue critiche trovano piena conferma nell’inarrestabile processo di espansione dello Stato avvenuto dal dopoguerra a oggi sotto l’egida di una Costituzione che non ha mai frenato l’aumento della tassazione, della spesa pubblica, del debito pubblico, della burocrazia, dell’alluvione legislativa.

A cosa dovrebbe servire, invece, una Costituzione?
A proteggere coloro che sono senza potere da coloro che esercitano il potere pubblico. Storicamente i ceti operosidella società (il “Terzo Stato”) hanno visto nelle costituzioni uno strumento per difendersi dalla spogliazione dei frutti del proprio lavoro da parte delle classi politico-burocratiche parassitarie. Infatti, come testimonia la storia dei regimi socialisti, quando l’esercizio del potere politico non conosce limiti legali, le nomenklature che controllano le leve fiscali e redistributive dello Stato possono procurarsi ogni genere di privilegio sfruttando in maniera illimitata i produttori di ricchezza.

L’esistenza di uno Stato, democratico o meno che sia, divide sempre la società in due grandi classi: quella dei pagatori di tasse che si guadagnano da vivere producendo beni e servizi richiesti dal mercato, e quella dei consumatori di tasse mantenuti dalle imposte. Nella regolazione dei rapporti fra questi due ceti sociali, come ha operato fino a oggi la Costituzione italiana?
Se escludiamo i primi decenni del “miracolo economico”, quando gli apparati fiscali e burocratici non avevano ancora avuto il tempo di ampliarsi e organizzarsi, la Costituzione ha di fatto ha sempre funzionato a vantaggio della classe che vive di trasferimenti statali, e a svantaggio della classe che opera nel settore privato dell’economia.
Questa tendenza ha avuto un’accelerazione negli ultimi decenni, durante i quali si è avuto un colossale travaso di ricchezze dal settore privato al settore statale. Nel 1996 le entrate dello Stato italiano ammontavano a più di 450 miliardi di euro, nel 2003 hanno raggiunto i 600 miliardi, e nel 2013 i 760 miliardi. L’aumento della spesa è stato ancora più rapido di quello delle entrate. La spesa pubblica, che nel 1996 superava di poco i 500 miliardi di euro, ha raggiunto i 600 miliardi nel 2001, ha quasi toccato i 700 miliardi nel 2005, per poi superare gli 800 miliardi nel 2013.

Questi numeri rivelano che nell’arco di una ventina d’anni, caratterizzati da una bassissima crescita economica, i privati sono stati costretti a suon di campagne intimidatorie e denigratorie orchestrate dall’alto (“evasori”, “bottegai”, “parassiti”) a versare nelle mani dei membri dell’apparato statale 300 miliardi aggiuntivi all’anno, oltre ai 500 miliardi che già pagavano!
Se escludiamo le esperienze storiche delle rivoluzioni comuniste, probabilmente non si è mai verificata un’espropriazione di ricchezze private così rapida e imponente. Grazie dunque alla “Costituzione più bella del mondo” il peso fiscale complessivo sulle imprese ha raggiunto, nel corso degli anni, il 70 per cento degli utili: un livello di depredazione che non ha eguali al mondo.
Questo processo è stato favorito dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, la cui linea interpretativa sembra infatti congegnata apposta per favorire, sempre e comunque, gli interessi di coloro di coloro che vivono di spesa pubblica. Le recenti dichiarazioni di incostituzionalità del mancato adeguamento delle pensioni più elevate o degli stipendi dei dipendenti pubblici, ad esempio, seguono una linea che favorisce, per partito preso, le categorie dei consumatori di tasse a danno delle categorie dei pagatori di tasse.

Per la Corte i benefici che il potere politico attribuisce, anche una tantum, ai consumatori di tasse rimangono tali per sempre. Poiché è impossibile trovare nel testo della Costituzione questo principio, la Corte ha dovuto creare una dottrina su misura, quella dei “diritti acquisiti”, che sancisce ufficialmente una pesante discriminazione a danno dei produttori privati di reddito. La Corte infatti non riconosce un analogo diritto in capo ai pagatori di tasse privati, perché se il governo riduce un’imposta o aumenta una detrazione fiscale, questa non diventa mai un “diritto acquisito” in capo al contribuente. Il governo può tranquillamente revocarla in qualsiasi momento, anche retroattivamente, senza incorrere in censure di incostituzionalità.

Nell’ordinamento italiano, quindi, non c’è nessuna previsione che possa anche solo rallentare la progressiva invadenza del settore pubblico a danno del settore privato. Le imposte, la spesa pubblica, il debito pubblico e la burocrazia possono solo aumentare, mai diminuire, mentre le misure di segno opposto rischiano sempre la bocciatura per incostituzionalità, dato che danneggerebbero questo o quel “diritto acquisito”. Vitalizi, pensioni retributive e stipendi degli statali sembrano dunque diventati variabili indipendenti dall’economia. Se anche il prodotto interno lordo italiano dovesse dimezzarsi, i ceti produttivi dovranno saldare questi impegni fino all’ultimo euro.
In questo modo l’Italia è diventata un inferno fiscale, uno stato di polizia tributaria nel quale fare attività d’impresa è diventato molto pericoloso. Aprire la partita IVA significa diventare un bersaglio dello Stato, che può saltarti addosso con tutto il suo apparato e un po’ alla volta portarti via la tranquillità personale, i risparmi, l’attività, la casa e nei casi più tragici anche la vita.

Sfogliando le pagine economiche dei quotidiani si possono trovare appaiate quasi ogni giorno due generi di notizie: da un lato nuovi privilegi, aumenti e benefit concessi a questa o quella categoria statale; dall’altra nuove tasse, multe, sanzioni e restrizioni imposte alle categorie private. Le pagine di cronaca riportano frequenti casi di sanzioni stratosferiche a imprenditori, professionisti, artigiani o commercianti per questioni formali della minima importanza, e numerosi casi di totale impunità per i dipendenti statali responsabili di mancanze gravissime o addirittura reati: pare che nemmeno chi venga scoperto commettere furti o rapine sul luogo di lavoro possa essere licenziato. Queste misure discriminatorie hanno determinato una situazione fortemente sbilanciata.

Fino a qualche decennio fa, invece, c’era un certo equilibrio tra le condizioni di impiego nel settore privato e nel settore pubblico. Soprattutto nelle regioni del nord il settore privato garantiva gli stipendi più elevati, tanto che, negli anni Sessanta, un operaio della Fiat guadagnava più di un impiegato pubblico. Oggi una situazione del genere è diventata impensabile. In Italia, come ricordava Oscar Giannino in una recente trasmissione radiofonica, la retribuzione lorda è mediamente di € 33.000 nel settore pubblico e di € 23.400 nel settore privato; in Francia è di € 35.000 nel pubblico e di € 34.000 nel privato; in Gran Bretagna è di € 34.000 nel pubblico e di € 38.000 nel privato. Anche per quanto riguarda le pensioni, in Italia quelle degli statali sono del 72 % più alte rispetto a quelle dei privati, malgrado la crescente esosità dei contributi previdenziali imposti a questi ultimi.

Solo in Italia esiste una distinzione di rango così marcata tra chi lavora dentro e chi lavora fuori dal perimetro della pubblica amministrazione. Al vertice della casta statale si trovano circa un milione di persone retribuite mediamente cinque volte di più rispetto agli altri paesi occidentali, con redditi e pensioni superiori dalle 10 alle 30 volte quelle di molti lavoratori privati. Sono queste le persone che nel corso degli ultimi decenni hanno edificato il debito pubblico attraverso sperperi e folli deficit, e che si sono assicurate un flusso crescente di entrate personali per mezzo di metodi fiscali incivili e vessatori sanciti dalla legge a danno dei lavoratori non garantiti: solve et repete,accertamenti induttivi fondati su semplici presunzioni, spesometro, redditometro, tassazione su redditi non conseguiti, ecosì via.

Questa persecuzione fiscale delle attività private ha arricchito notevolmente le categorie che vivono di spesa pubblica, ma ha prodotto delle conseguenze rovinose sull’economia del suo complesso. Negli anni ’50 e ’60, quando le tasse erano basse e i controlli fiscali molto blandi, l’economia cresceva a due cifre e gli italiani sono passati dalla miseria al benessere; negli anni ’70 e ’80 le tasse e la spesa pubblica sono aumentate e la crescita è diminuita; negli anni ’90 e 2000 tasse e spese sono ulteriormente aumentate e la crescita si è arrestata; oggi l’imposizione fiscale e la spesa pubblica sono elevatissime, il paese è in recessione perenne e gli italiani si stanno impoverendo.
Questa guerra scatenata dallo Stato contro l’apparato produttivo del paese, tuttora in pieno svolgimento, non ha alcuna giustificazione razionale, né dal punto di vista politico, né dal punto di vista economico. La spesa pubblica italiana era considerata eccessiva già negli anni Novanta; pochi ne chiedevano l’ulteriore aumento, nessuno chiedeva di raddoppiarla in meno di vent’anni. Nella società italiana non è mai esistita una domanda di “maggior Stato” tale da giustificare quell’elenco interminabile di nuove tasse introdotte negli ultimi anni.

Anche dal punto di vista economico questa offensiva fiscale non sembra avere una legittimazione plausibile. La decisione delle classi governanti di dare il via all’escalation di tasse e spesa pubblica non ha migliorato il livello qualitativo di nessun servizio pubblico rispetto a vent’anni fa, ma ha aumentato a dismisura le occasioni di spreco e di corruzione, la corsa ai privilegi odiosi e ingiustificati, ha distrutto una larga fetta del tessuto produttivo privato costringendo alla chiusura centinaia di migliaia di piccole imprese, ha provocato l’aumento della disoccupazione e più in generale l’abbassamento del tenore di vita delle famiglie.

Quando la tassazione supera un certo livello, l’equilibrio pacifico tra la classe dei pagatori di tasse e quella dei consumatori di tasse si rompe, e i ceti produttivi diventano le vittime sacrificali delle caste legate allo Stato. Oggi infatti viviamo in uno Stato classista che perseguita e depreda i lavoratori del settore privato, cioè gli unici che di fatto producono ricchezza e sopportano per intero il carico fiscale, per tutelare e mantenere legioni di statali improduttivi supertutelati, pensionati d’oro o baby, membri privilegiati della casta e altri sprechi colossali. Ma quando il numero dei consumatori di tasse diventa troppo alto rispetto a quello dei produttori, la società muore.

In definitiva, è difficile chiamare “Costituzione”, almeno nel senso classico del termine, una carta che tutela solo i membri dell’apparato statale a scapito del resto della popolazione. Fino ad oggi la Costituzione della Repubblica Italiana non è mai stata intesa dei politici, dei magistrati e dei giuristi come uno strumento di protezione della società civile dal potere, ma come base di partenza ideologica per la sua progressiva espansione. Tutto questo non dipende solo da un’interpretazione deformante del testo costituzionale, ma anche dai difetti genetici del dettato costituzionale, così nitidamente messi in luce da Federico Cartelli.


L'orrenda costituzione italiana
viewtopic.php?f=139&t=2412
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Re: Mostruosità italiane o italiche

Messaggioda Berto » mar dic 26, 2017 12:37 pm

LA STRADA OBBLIGATA VERSO L’INFERNO FISCALE
di MATTEO CORSINI

https://www.miglioverde.eu/la-strada-ob ... no-fiscale

Così come ci sono giornalisti che si occupano di vicende giudiziarie i cui articoli appoggiano sempre e comunque l’operato della magistratura, ce ne sono che si occupano di faccende fiscali i quali già quando scrivono di elusione fiscale sembra che invochino la caccia all’untore. Figuriamoci se scrivono di evasione.
Tra costoro c’è Alessandro Galimberti, che scrive sul Sole 24Ore. Il quale, riferendosi alle recenti mosse dell’antitrust europeo contro i cosiddetti tax ruling sottoscritti da diverse multinazionali con le autorità fiscali di alcuni Paesi Ue, afferma: “È ancora ammissibile la possibilità di avere 27 sistemi fiscali differenti nello spazio Ue, ognuno con proprie leggi, proprie regole, con proprie aliquote e con propri uffici che trattano la materia come fosse questione nazionale? L’esperienza e la storia recente dimostrano che questo modello ha perpetuato l’esistenza di paradisi “reali” – con l’aggravante dello spazio allargato Ue – e ne ha addirittura creati di nuovi, basti pensare alla Gran Bretagna e alle sue meravigliose isole, ma anche ai granducati, ai principati, a Malta e ai Paesi Bassi, alle microrepubbliche e alle città-stato, per non parlare dei paradisi alpini che sono molti e spesso insospettabili.
Il problema oggi non è tanto “come uscire” da questo circolo vizioso, perché è evidente che la strada è obbligata ed è una sola, armonizzare il diritto fiscale comunitario e la sua giurisdizione. Il tema è invece “se” e “quando” ci saranno le condizioni per l’inversione di tendenza, visto che ad oggi nessuno dei Paesi che vivono di dumping fiscale (alle e sulle spalle dei loro “partner” continentali) ha la benché minima intenzione di cambiare rotta”.
Si noti che ogni Paese che applica una tassazione meno pesante di quella media europea è accusato di praticare dumping fiscale. Si noti anche che siamo all’assurdo per cui un’autorità europea che si occupa (almeno a parole) di tutelare la concorrenza agisce per limitare la concorrenza tra sistemi fiscali.

Quanto alla armonizzazione del diritto fiscale e della sua giurisdizione, che Galimberti (e non solo lui) indica come essere la sola “strada obbligata”, credo che complessivamente sia un bene che ci sia chi non intende “cambiare rotta”.
Se, infatti, avere a che fare con sistemi fiscali diversi nei vari Paesi europei comporta costi per le inevitabili consulenze fiscali che potrebbero essere evitate (o ridimensionate) in presenza di sistemi uniformi, è bene tenere in considerazione che la vera uniformità a cui puntano i “livellatori” fiscali riguarda il peso della tassazione. In un contesto comunitario in cui i mantra sono “serve più Europa” e “serve un bilancio comunitario più ampio”, è abbastanza semplice rendersi conto che il livellamento avverrebbe verso l’alto.
Per i tassatori e i loro sostenitori “senza se e senza ma” sarebbe una soluzione; per chi paga le tasse sarebbe sempre più un inferno.
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Re: Mostruosità italiane o italiche

Messaggioda Berto » mar dic 26, 2017 7:26 pm

Polizia penitenziaria, perché i secondini stanno peggio anche degli ergastolani
25 Dicembre 2017
di Azzurra Noemi Barbuto

http://www.liberoquotidiano.it/news/ita ... olani.html

«Garantire la speranza è il nostro compito» è il motto della polizia penitenziaria. Una speranza che spesso risulta assente nelle carceri italiane e nei cuori di chi ci vive sia come detenuto che come agente. Dal 2011 ad oggi 48 appartenenti al corpo di polizia penitenziaria, uno dei quattro corpi di polizia dello Stato italiano, si sono tolti la vita, una media di 8 suicidi ogni 12 mesi. L' ultimo tragico episodio risale al 9 dicembre, quando un assistente capo di 51 anni verso le 3 di notte si è ucciso con l' arma di ordinanza nella portineria del carcere di Tolmezzo, Udine. Quindici giorni prima un altro agente si era ammazzato a Padova, afflitto anche lui da quella sorta di male di vivere che come un virus infetta e non di rado stronca coloro che respirano l' aria asfittica delle galere.

Negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della polizia penitenziaria hanno sventato, nelle carceri italiane, più di 19 mila tentati suicidi ed impedito che quasi 145 mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze. Ma - parafrasando la celebre locuzione latina tratta da una satira di Giovenale - "quis custodiet ipsos custodes?", ossia "chi sorveglierà i sorveglianti stessi?".

Nessuno sembra curarsi di loro e la lista dei morti si allunga di mese in mese, come fosse un bollettino di guerra.
Gli istituti penitenziari italiani sono grandi calderoni in cui individui che hanno compiuto reati di varia natura, che hanno culture e nazionalità diverse, problematiche diversificate di salute sia fisica che mentale, che sono in attesa di giudizio o già stati condannati in via definitiva, si trovano costretti nello spazio angusto di una cella in cui manca tutto, dall' acqua calda a materassi adeguati. Più che luoghi di rieducazione sembrano luoghi di tortura, in cui la sofferenza è ineludibile e dove la scelta della devianza non viene abbandonata, bensì consolidata. Queste condizioni vengono patite anche dai poliziotti che vivono e lavorano negli istituti di pena. Essi, quando decidono di togliersi la vita, muoiono di carcere. Si tratta di morti bianche.

IL REGIME APERTO
«La situazione nelle carceri è e resta allarmante e drammatica», esordisce Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (SAPPE).
Negli ultimi venticinque anni, dopo l' introduzione della legge n. 395/1990, che ha sciolto il corpo degli agenti di custodia istituendo quello di polizia penitenziaria, i rapporti tra detenuti e guardie carcerarie si è trasformato, dal momento che a queste ultime sono stati affidati nuovi compiti istituzionali e nuove responsabilità, come il servizio di pubblico soccorso e la partecipazione al trattamento rieducativo del reo. L' agente è sia guardiano preposto al mantenimento dell' ordine e della sicurezza che, in un certo senso, educatore, o confidente, che si fa carico del detenuto persino dal punto di vista morale ed emotivo, pur non avendone gli strumenti, cosa che comporta un fortissimo stress.

Secondo Capece, il cosiddetto «regime aperto», che è stato applicato di recente e che consente ai detenuti di trascorrere parte della giornata fuori dalla cella, avrebbe peggiorato la situazione interna delle carceri, diventata ormai implosiva.

LA MOSSA SBAGLIATA
«Esautorando il poliziotto penitenziario da quella che è la sua funzione principale, ossia il mantenimento dell' ordine, lo Stato ha affidato la sicurezza ai detenuti stessi. Il passaggio dalla vigilanza dinamica a quella statica mediante l' apertura delle celle ha ingenerato confusione, tanto che nello stesso carcere vengono compiuti reati non più perseguiti, come furti, sopraffazioni, violenze. Prima il poliziotto fungeva da deterrente. Lasciare le celle aperte ovunque vuol dire consentire lo stato brado, dato che gli agenti non sono presenti in sezione ed i detenuti si autogestiscono», continua Capece. Insomma, l' agente penitenziario sarebbe stato privato della autorità di cui godeva, requisito fondamentale per poter svolgere il suo lavoro ed essere rispettato dai detenuti. Tutto questo, secondo il segretario generale del SAPPE, ha determinato persino l' aumento delle evasioni. «Durante l' assenza del poliziotto i detenuti si danno da fare per tentare la fuga.

L' applicazione della direttiva europea sulle celle aperte, la quale avrebbe dovuto dare maggiore spazio fisico ai carcerati, in Italia ha creato il caos, dal momento che i detenuti gironzolano nei corridoi senza fare un bel niente. E si sa quali e quanti danni può generare la noia», continua Capece. Ma il danno più grave provocato dalla recente riforma dell' ordinamento penitenziario è - a giudizio di Capece - l' avere stabilito un compenso di 1500 euro per il detenuto che lavora 6 ore al giorno, quando le guardie prendono stipendi di 1300/1400 euro al mese per svolgere il loro compito gravoso. «È inevitabile che gli agenti, che per lavorare rischiano la vita, si sentano maltrattati e non riconosciuti da uno Stato matrigno. Questo determina un sentimento di rabbia. Il personale è sfiduciato e stanco. Ripristinare la chiusura delle celle è un intervento da realizzare con urgenza», dichiara Capece. Il ritorno ad un regime chiuso, però, non solo sarebbe contro la legge, ma costituirebbe una sconfitta per lo Stato. «Il sistema a celle aperte, che consente ai detenuti di trascorrere 8 ore al giorno fuori dalle proprie camere di pernottamento è fondamentale nel trattamento rieducativo, a condizione che i condannati siano impegnati in attività lavorative, o culturali, o di manutenzione dei fabbricati del carcere stesso, affinché essi non restino inattivi.

La passivizzazione fuori dalle celle non giova a nessuno, bisogna che vengano realizzate attività utili», dichiara Agostino Siviglia, garante dei diritti dei detenuti di Reggio Calabria. La soluzione ideale, atta a migliorare la situazione all' interno degli istituti di pena, quindi, non dovrebbe mettere in pericolo i diritti dei detenuti, costringendoli a permanere 24 ore su 24 in tre metri quadrati disponibili in cella.

IL CAMBIAMENTO
«Il Dipartimento dell' Amministrazione Penitenziaria ci ascolta, ma sembra incapace di provvedere alle riforme strutturali. Noi stiamo urlando aiuto. Gli agenti si uccidono perché lo stress è altissimo, molti sono strappati dalle terre native senza prospettive di un ricongiungimento familiare. Ci vuole una politica diversa per il carcere che va rivisto totalmente», afferma il segretario del SAPPE. È il sovraffollamento uno dei principali fattori che rendono insopportabile la vita negli istituti carcerari.

Nonostante nel 2013 la Corte europea dei diritti dell' uomo abbia condannato l' Italia per tortura e trattamento inumano a causa di tale problematica, nulla è cambiato in questi anni e ad oggi risulta che i detenuti in eccesso nelle nostre carceri sarebbero 10,320 (18,15% del totale) e quelli coinvolti nel sovraffollamento 46,336 (81.49% del totale dei detenuti presenti), mentre gli istituti penitenziari in sovraffollamento sarebbero 131 su 194 (67,88% del totale). «In carcere devono starci coloro che hanno compiuto reati gravi e che potrebbero rappresentare un pericolo per la società.
Per i reati minori dovrebbero essere applicate le misure alternative. Già questo contribuirebbe a risolvere il sovraffollamento che rende il carcere un inferno», suggerisce Capece. «Il sovraffollamento incide in modo negativo sia sul trattamento rieducativo, che non può essere individualizzato a causa del gran numero di condannati presenti, che sulla sicurezza dell' istituto. Dovrebbe esserci un' equa proporzione tra detenuti ed agenti. Purtroppo, il personale è spesso insufficiente», specifica Siviglia.
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Re: Mostruosità italiane o italiche

Messaggioda Berto » mar dic 26, 2017 7:30 pm

Polizia penitenziaria, perché i secondini stanno peggio anche degli ergastolani
25 Dicembre 2017
di Azzurra Noemi Barbuto

http://www.liberoquotidiano.it/news/ita ... olani.html

«Garantire la speranza è il nostro compito» è il motto della polizia penitenziaria. Una speranza che spesso risulta assente nelle carceri italiane e nei cuori di chi ci vive sia come detenuto che come agente. Dal 2011 ad oggi 48 appartenenti al corpo di polizia penitenziaria, uno dei quattro corpi di polizia dello Stato italiano, si sono tolti la vita, una media di 8 suicidi ogni 12 mesi. L' ultimo tragico episodio risale al 9 dicembre, quando un assistente capo di 51 anni verso le 3 di notte si è ucciso con l' arma di ordinanza nella portineria del carcere di Tolmezzo, Udine. Quindici giorni prima un altro agente si era ammazzato a Padova, afflitto anche lui da quella sorta di male di vivere che come un virus infetta e non di rado stronca coloro che respirano l' aria asfittica delle galere.

Negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della polizia penitenziaria hanno sventato, nelle carceri italiane, più di 19 mila tentati suicidi ed impedito che quasi 145 mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze. Ma - parafrasando la celebre locuzione latina tratta da una satira di Giovenale - "quis custodiet ipsos custodes?", ossia "chi sorveglierà i sorveglianti stessi?".

Nessuno sembra curarsi di loro e la lista dei morti si allunga di mese in mese, come fosse un bollettino di guerra.
Gli istituti penitenziari italiani sono grandi calderoni in cui individui che hanno compiuto reati di varia natura, che hanno culture e nazionalità diverse, problematiche diversificate di salute sia fisica che mentale, che sono in attesa di giudizio o già stati condannati in via definitiva, si trovano costretti nello spazio angusto di una cella in cui manca tutto, dall' acqua calda a materassi adeguati. Più che luoghi di rieducazione sembrano luoghi di tortura, in cui la sofferenza è ineludibile e dove la scelta della devianza non viene abbandonata, bensì consolidata. Queste condizioni vengono patite anche dai poliziotti che vivono e lavorano negli istituti di pena. Essi, quando decidono di togliersi la vita, muoiono di carcere. Si tratta di morti bianche.

IL REGIME APERTO
«La situazione nelle carceri è e resta allarmante e drammatica», esordisce Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (SAPPE).
Negli ultimi venticinque anni, dopo l' introduzione della legge n. 395/1990, che ha sciolto il corpo degli agenti di custodia istituendo quello di polizia penitenziaria, i rapporti tra detenuti e guardie carcerarie si è trasformato, dal momento che a queste ultime sono stati affidati nuovi compiti istituzionali e nuove responsabilità, come il servizio di pubblico soccorso e la partecipazione al trattamento rieducativo del reo. L' agente è sia guardiano preposto al mantenimento dell' ordine e della sicurezza che, in un certo senso, educatore, o confidente, che si fa carico del detenuto persino dal punto di vista morale ed emotivo, pur non avendone gli strumenti, cosa che comporta un fortissimo stress.

Secondo Capece, il cosiddetto «regime aperto», che è stato applicato di recente e che consente ai detenuti di trascorrere parte della giornata fuori dalla cella, avrebbe peggiorato la situazione interna delle carceri, diventata ormai implosiva.

LA MOSSA SBAGLIATA
«Esautorando il poliziotto penitenziario da quella che è la sua funzione principale, ossia il mantenimento dell' ordine, lo Stato ha affidato la sicurezza ai detenuti stessi. Il passaggio dalla vigilanza dinamica a quella statica mediante l' apertura delle celle ha ingenerato confusione, tanto che nello stesso carcere vengono compiuti reati non più perseguiti, come furti, sopraffazioni, violenze. Prima il poliziotto fungeva da deterrente. Lasciare le celle aperte ovunque vuol dire consentire lo stato brado, dato che gli agenti non sono presenti in sezione ed i detenuti si autogestiscono», continua Capece. Insomma, l' agente penitenziario sarebbe stato privato della autorità di cui godeva, requisito fondamentale per poter svolgere il suo lavoro ed essere rispettato dai detenuti. Tutto questo, secondo il segretario generale del SAPPE, ha determinato persino l' aumento delle evasioni. «Durante l' assenza del poliziotto i detenuti si danno da fare per tentare la fuga.

L' applicazione della direttiva europea sulle celle aperte, la quale avrebbe dovuto dare maggiore spazio fisico ai carcerati, in Italia ha creato il caos, dal momento che i detenuti gironzolano nei corridoi senza fare un bel niente. E si sa quali e quanti danni può generare la noia», continua Capece. Ma il danno più grave provocato dalla recente riforma dell' ordinamento penitenziario è - a giudizio di Capece - l' avere stabilito un compenso di 1500 euro per il detenuto che lavora 6 ore al giorno, quando le guardie prendono stipendi di 1300/1400 euro al mese per svolgere il loro compito gravoso. «È inevitabile che gli agenti, che per lavorare rischiano la vita, si sentano maltrattati e non riconosciuti da uno Stato matrigno. Questo determina un sentimento di rabbia. Il personale è sfiduciato e stanco. Ripristinare la chiusura delle celle è un intervento da realizzare con urgenza», dichiara Capece. Il ritorno ad un regime chiuso, però, non solo sarebbe contro la legge, ma costituirebbe una sconfitta per lo Stato. «Il sistema a celle aperte, che consente ai detenuti di trascorrere 8 ore al giorno fuori dalle proprie camere di pernottamento è fondamentale nel trattamento rieducativo, a condizione che i condannati siano impegnati in attività lavorative, o culturali, o di manutenzione dei fabbricati del carcere stesso, affinché essi non restino inattivi.

La passivizzazione fuori dalle celle non giova a nessuno, bisogna che vengano realizzate attività utili», dichiara Agostino Siviglia, garante dei diritti dei detenuti di Reggio Calabria. La soluzione ideale, atta a migliorare la situazione all' interno degli istituti di pena, quindi, non dovrebbe mettere in pericolo i diritti dei detenuti, costringendoli a permanere 24 ore su 24 in tre metri quadrati disponibili in cella.

IL CAMBIAMENTO
«Il Dipartimento dell' Amministrazione Penitenziaria ci ascolta, ma sembra incapace di provvedere alle riforme strutturali. Noi stiamo urlando aiuto. Gli agenti si uccidono perché lo stress è altissimo, molti sono strappati dalle terre native senza prospettive di un ricongiungimento familiare. Ci vuole una politica diversa per il carcere che va rivisto totalmente», afferma il segretario del SAPPE. È il sovraffollamento uno dei principali fattori che rendono insopportabile la vita negli istituti carcerari.

Nonostante nel 2013 la Corte europea dei diritti dell' uomo abbia condannato l' Italia per tortura e trattamento inumano a causa di tale problematica, nulla è cambiato in questi anni e ad oggi risulta che i detenuti in eccesso nelle nostre carceri sarebbero 10,320 (18,15% del totale) e quelli coinvolti nel sovraffollamento 46,336 (81.49% del totale dei detenuti presenti), mentre gli istituti penitenziari in sovraffollamento sarebbero 131 su 194 (67,88% del totale). «In carcere devono starci coloro che hanno compiuto reati gravi e che potrebbero rappresentare un pericolo per la società.
Per i reati minori dovrebbero essere applicate le misure alternative. Già questo contribuirebbe a risolvere il sovraffollamento che rende il carcere un inferno», suggerisce Capece. «Il sovraffollamento incide in modo negativo sia sul trattamento rieducativo, che non può essere individualizzato a causa del gran numero di condannati presenti, che sulla sicurezza dell' istituto. Dovrebbe esserci un' equa proporzione tra detenuti ed agenti. Purtroppo, il personale è spesso insufficiente», specifica Siviglia.
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Re: Mostruosità italiane o italiche

Messaggioda Berto » mer dic 27, 2017 8:41 am

PER I CLANDESTINI I SOLDI CI SONO SEMPRE, PER UNA VEDOVA CON DUE FIGLI DISABILI NO!
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