I mussulmani Rohingya perseguitati o persecutori ?

Re: I mussulmani Rohingya perseguitati o persecutori ?

Messaggioda Berto » dom dic 03, 2017 12:37 pm

Postato da me il 29 agosto, alla luce delle recenti esternazioni idiote del Papa ve lo ripropongo


IL MYANMAR HA SCELTO DI ELIMINARE IL PROBLEMA ISLAM ALLA RADICE
https://www.facebook.com/alessandro.pri ... 3535116157

Da qualche giorno in Myanmar (o Birmania) vanno avanti scontri molto violenti tra ribelli della minoranza musulmana rohingya e forze di sicurezza birmane.
I rohingya sono musulmani e vivono per lo più nello stato del Rakhine: sono poco più di un milione, in un paese dove la stragrande maggioranza delle persone è buddista.

Con grande lungimiranza, nel 1982 ai rohingya fu tolta la cittadinanza birmana,
non avendo la cittadinanza, i rohingya non godono di alcun beneficio o sussidio statale riservati ai cittadini birmani e ovviamente non hanno il diritto di voto, eppure questo non è bastato nel farli desistere dal loro intento di islamizzare il paese e continuare a fare del proselitismo radicale.

Così, dallo scorso anno il governo birmano ha deciso di ritirare loro le “carte di identità temporanee”, trasformandoli in tutto e per tutto in apolidi, cioè persone prive di nazionalità nella speranza che tornassero da dove erano venuti, il Bangladesh, per tutta risposta i ribelli rohingya hanno attaccato trenta centrali di polizia e una base militare.
Il Governo ha così deciso che la misura fosse colma dando il via ad una operazione da parte dell'esercito birmano per mettere in sicurezza il territorio e i propri cittadini da futuri attacchi terroristici a matrice islamica.
Aung San Suu Kyi premio nobel per la pace e i diritti umani nonchè consigliere del governo birmano riferisce: «Non è in atto una pulizia etnica nei confronti dei rohingya, ma una operazione militare a legittima difesa dei nostri valori»,
La situazione degli ultimi giorni sembra stia iniziando a dare i primi risultati, tant'è che da venerdì duemila rohingya hanno superato il confine con il Bangladesh e altri migliaia si stanno mettendo in marcia
Alessandro Prignacchi
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Re: I mussulmani Rohingya perseguitati o persecutori ?

Messaggioda Berto » dom dic 03, 2017 6:48 pm

Papa Francesco: "Ho pianto per i rohingya. Volevano cacciarli dal palco, ma mi sono arrabbiato"
Papa Francesco durante l'incontro stampa sull'aereo che lo riportava in Italia (afp)
Intervista con il pontefice sul volo di ritorno dalla visita in Asia. "San Suu Kyi? Bisogna valutare sapendo che il Myanmar è in piena transizione". "Dal Bangladesh un grande esempio di accoglienza; un paese piccolo ha ricevuto 700 mila profughi. E ci sono paesi che chiudono le porte!". "Viaggio in Cina? Mi piacerebbe, ma non è in programma". E sul nucleare: "Vedo irrazionalità, c'è il rischio che l'umanità finisca"
dal nostro inviato PAOLO RODARI
02 dicembre 2017

http://www.repubblica.it/vaticano/2017/ ... P1-S1.8-T1

Dice che "con le armi nucleari non è lecito spingersi oltre. Siamo al limite. Il rischio è che l'umanità finisca". Sul volo di ritorno dal viaggio in Myanmar e Bangladesh il Papa risponde ad alcune domande dei giornalisti chiedendo che siano incentrate solo sulla sua permanenza nei due Paesi asiatici. Unica eccezione, una domanda sul tema degli armamenti nucleari. Sui Rohingya racconta come è arrivato a pronunciare il loro nome. "Volevano cacciarli dal palco" alla fine dell'incontro interreligioso di Dhaka "e anche che non parlassero con me", dice. "Non l'ho permesso. Ho pianto per loro cercando di non farlo vedere e, dopo averli ascoltati, ho sentito crescere cose dentro di me e ho pronunciato il loro nome". E spiega che nell'incontro col generale Ming Aung Hlaing di lunedì non ha "negoziato la verità".

Durante la Guerra fredda Giovanni Paolo II disse che la deterrenza nucleare era moralmente accettabile. Lei ha detto di recente che anche il possesso di armi nucleari è da condannare. Perché questo cambiamento? Hanno influito le tensioni tra il presidente Trump e Kim Jong-un?
"Cosa è cambiato? L'irrazionalità. Penso all'enciclica 'Laudato Si' sulla custodia del creato. Dal tempo in cui Giovanni Paolo II nel 1982 ha detto queste cose sono passati tanti anni. Oggi siamo al limite, è la mia opinione convinta, della liceità di avere e usare le armi nucleari. Perché oggi con un arsenale nucleare così sofisticato si rischia la distruzione dell'umanità o almeno di gran parte di essa. È cambiato questo: la crescita dell'armamento nucleare, le armi sono capaci di distruggere le persone senza toccare le strutture. Da Papa mi faccio questa domanda: è lecito mantenere gli arsenali nucleari così come stanno o per salvare il creato e l'umanità non è forse necessario tornare indietro? Pensiamo a Hiroshima e Nagasaki, settant'anni fa. E pensiamo a ciò che succede quando dell'energia atomica non si riesce ad avere tutto il controllo. Pensate all'incidente in Ucraina. Per questo, tornando alle armi che servono per vincere distruggendo dico che siamo al limite della liceità".

La crisi del Rohingya ha catturato l'attenzione del viaggio. L'altro ieri lei ha pronunciato il loro nome. Voleva parlarne anche in Myanmar?
"Non è la prima volta che ne ho parlato. Già in piazza di San Pietro lo feci. Per me la cosa più importante è che il messaggio arrivi. Se nel discorso ufficiale avessi detto quella parola, sarebbe stato come sbattere la porta in faccia ai miei interlocutori. Così a volte fanno certe denunce nei media: dette con aggressività chiudono il dialogo, chiudono la porta, e il messaggio non arriva. Allora ho descritto la situazione, ho parlato dei diritti delle minoranze, per permettermi poi nei colloqui privati di andare oltre. Sono rimasto soddisfatto dei colloqui: è vero, non ho avuto il piacere di sbattere la porta in faccia pubblicamente a nessuno, ma ho avuto la soddisfazione di dialogare, di dire la mia".

Cosa ha sentito quando ha chiesto perdono?
"Non era programmato. Sapevo che avrei incontrato i Rohingya, non sapevo dove e come. Dopo contatti col governo e con la Caritas, il governo ha permesso ai Rohingya di viaggiare: quello che fa il Bangladesh per loro è grande, è un esempio di accoglienza. Un Paese piccolo, povero, che ha ricevuto 700mila persone... Penso ai Paesi che chiudono le porte! Dobbiamo essere grati per l'esempio. Il momento del dialogo interreligioso ha preparato il cuore di tutti noi. Eravamo religiosamente aperti, io mi sentivo così. È arrivato il momento del saluto. Qualcuno ha detto loro che non potevano dirmi nulla. Volevano alla fine anche cacciarli via dal palco. Io mi sono arrabbiato e ho chiesto rispetto. Così sono rimasti lì. Dopo averli ascoltati uno a uno ho cominciato a sentire crescere cose dentro di me: 'Non posso farli andare senza dire una parola'. E ho chiesto il microfono. Non ricordo cosa ho detto, so che a un certo punto ho chiesto perdono, perdono due volte. Io piangevo, cercavo che non si vedesse. Loro piangevano pure".

Il primo giorno in Myanmar ha incontrato a sorpresa il generale Ming Aung Hlaing. Che incontro è stato?
"Ci sono incontri nei quali vado a trovare la gente e incontri nei quali ricevo gente. Il generale ha chiesto di parlare e l'ho ricevuto. Mai chiudo la porta. È stata una bella conversazione. Non dico il contenuto perché è stata privata. Non ho negoziato la verità. Ma ho fatto in modo che capisse perché una strada come quella dei brutti tempi passati oggi non è perseguibile. È stato un incontro civile".

Perché il generale ha chiesto di vederla prima del previsto? Si è sentito che voleva manipolarla?
"È arrivata la richiesta perché doveva poi partire per la Cina. Se posso spostare un appuntamento lo faccio. A me interessava il dialogo chiesto da loro. Il dialogo è più importante del sospetto che volessero dire: noi qui comandiamo. Io ho usato con lui le parole per arrivare al messaggio e quando ho visto che il messaggio veniva accettato ho osato dire tutto quello che volevo dire. Intelligenti pauca".

Le ha incontrato Aung San Suu Kyi e poi in Bangladesh il primo ministro. Cosa porta via da tutti questi incontri?
"Non sarà facile andare avanti in uno sviluppo costruttivo, non sarà facile per chi volesse tornare indietro. L'Onu ha detto che i Rohingya sono oggi la minoranza etnico-religiosa più perseguitata del mondo, è un punto che pesa per chi vuole tornare indietro. La speranza io non la perdo".

Aung San Suu Kyi è stata criticata per il silenzio sui Roihngya. Cosa pensa?
"Nel Myanmar è difficile valutare una critica senza prima chiedersi: è possibile fare questo? Sarà possibile farlo? Il Paese è in transizione e le possibilità sono da valutare in quest'ottica".

Perché non è andato nel campo profughi dei Rohingya?
"Mi sarebbe piaciuto ma non è stato possibile. Si sono studiate le cose e non è stato possibile per vari fattori, anche il tempo, la distanza".


Gruppi jihadisti volevano farsi tutori dei Rohingya?
"Ci sono gruppi di terroristi che cercano di approfittare dei Rohingya che è gente di pace. C'è sempre un gruppo fondamentalista, e anche noi cattolici ne abbiamo. I militari giustificano il loro intervento a motivo di questi gruppi. Io non ho scelto di parlare con questa gente, ma con le vittime di questa gente che è il popolo Rohingya che soffre per le discriminazione ed è difeso dall'altra parte dai terroristi. Il governo del Bangladesh fa una campagna molto forte di tolleranza zero al terrorismo anche per evitare altri punti".

C'è opposizione fra evangelizzare e dialogo interreligioso? Qual è la priorità, evangelizzare o dialogare per la pace?
"Prima distinzione. Evangelizzare non è fare proselitismo. La Chiesa cresce non per proselitismo ma per attrazione, cioè per testimonianza, lo ha detto Benedetto XVI. Evangelizzare è testimoniare come vivere il Vangelo e in questa testimonianza ci sono conversioni. Ma noi non siamo entusiasti di fare subito le conversioni. Se vengono, si parla, per cercare che sia la risposta a qualcosa che lo Spirito ha mosso nel cuore davanti alla testimonianza del cristiano. Nel pranzo coi giovani a Cracovia uno mi ha chiesto: cosa devo dire a un compagno di università amico bravo ma che è anche ateo? Cosa devo dirgli per cambiarlo, per convertirlo? La risposta è stata questa: l'ultima cosa che devi fare è dire qualcosa. Tu vivi il tuo Vangelo e se lui ti domanda perché gli puoi spiegare perché lo fai e lascia che lo Spirito Santo lo attiri. Questa è la forza: la mitezza dello Spirito Santo. Non è un convincere mentalmente con spiegazioni apologetiche. Noi siamo testimoni del Vangelo. Il proselitismo non è Vangelo".

È in preparazione un viaggio in Cina?
"Il viaggio in Cina non è in preparazione. Ma mi piacerebbe tanto visitarla. Non è una cosa nascosta. Le trattive con la Cina sono ad alti livelli, culturali, in questi giorni c'è una mostra dei musei in Cina e una dei musei cinesi in Vaticano. Ci sono i rapporti culturali e scientifici. Poi c'è il dialogo politico. Si deve andare avanti passo-passo con delicatezza, lentamente. Le porte del cuore sono aperte. E credo che farà bene a tutti un viaggio in Cina. A me piacerebbe farlo".

I preti che ha ordinato avevano paura di diventare sacerdoti in un Paese musulmano?
"Ho l'abitudine cinque minuti prima dell'ordinazione di parlare con loro in privato. Sono sembrati sereni, tranquilli, coscienti della missione, normali. "Giocate a calcio?", ho chiesto loro. Si, mi hanno detto, e questo è importante. La paura non l'ho percepita".

Sappiamo che vuole andare in India. Quando esattamente? Perché in questo viaggio non ha potuto?
"Il primo piano era di andare in India e Bangladesh. Ma poi le trattative per andare in India si sono ritardate, il tempo premeva e ho scelto questi due Paesi. È stato provvidenziale perché per visitare l'India ci vuole un solo viaggio. Devi andare al Sud, al Centro, all'Est, al Nord... per le diverse culture dell'India. Spero di farlo nel 2018 se vivo, ma l'idea era India e Bangladesh".
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Re: I mussulmani Rohingya perseguitati o persecutori ?

Messaggioda Berto » dom dic 03, 2017 9:52 pm

I Rohingya e i Degar. (Il mondo è orbo).
03 domenica Dic 2017

https://leonardolugaresi.wordpress.com/ ... ndo-e-orbo

In questi giorni alla televisione e sulla stampa e negli altri media si portano molto i Rohingya. Impossibilitati a saperne alcunché fino a poco fa, perché nessuno ce ne parlava, noi gente comune siamo ora imperiosamente sollecitati a interessarci moltissimo a questo popolo, che oggi al telegiornale ho sentito definire “il più perseguitato della terra” (come facciano a fare queste classifiche non so, ma tant’è). Il viaggio papale in Birmania e in Bangladesh, mediaticamente ha avuto il suo fulcro e il suo senso nell’incontro con i Rohingya, oscurando il fatto che il papa là presumibilmente c’è andato, prima di tutto, per visitare e confermare nella fede gli sparuti cristiani di quelle regioni, (anch’essi, per inciso, provati da ostilità quando non da vere e proprie persecuzioni).

Ma i Degar, sapete chi sono? Non credo, e anche se li chiamo Montagnard la cosa non cambia molto.

Sono un altro popolo dell’estremo oriente. Vivono (male) in Vietnam, subiscono anche loro una dura persecuzione, anche moltissimi di loro sono profughi. Sono così poco considerati che, se fate una ricerca su internet scoprite che non è facile trovare informazioni aggiornate sulla loro condizione. Comunque, per averne un’idea, qui c’è un articolo di due anni fa, che mi pare attendibile: https://www.hrw.org/news/2015/06/26/vie ... christians . Se avete problemi con l’inglese, potete almeno guardare la voce di Wikipedia.it che, per quanto scarsa, contiene questa affermazione che, se è vera, è decisamente impressionante: «Negli settante del XX secolo erano stimati attorno ai due milioni e mezzo di unità nell’intero Vietnam. Mantenendo il tasso di crescita del resto nella nazione, nel 2006 avrebbero dovuto essere circa sei milioni di individui, ma tenendo conto degli eccidi , dei massacri, e delle oppressioni subite, i superstiti sono stati stimati tra i 700 e gli 800 mila».

Chi si occupa di loro? Chi se ne interessa? Chi chiede perdono per le violenze che hanno subito e tuttora subiscono?

Ah, dimenticavo: i Degar sono cattolici.
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Re: I mussulmani Rohingya perseguitati o persecutori ?

Messaggioda Berto » lun dic 04, 2017 5:39 am

???

È sempre questione di petrolio e infrastrutture
Federico Dezzani

http://federicodezzani.altervista.org/c ... astrutture

Nella ex-Birmania, oggi Myanmar, è riesplosa la tensione tra la minoranza mussulmana e la maggioranza buddista. Washington e Londra hanno istallato ai vertici dello Stato il premio Nobel Aung San Suu Kyi, perché avvallasse la secessione della strategica regione mussulmana dell’Arkan. La giunta militare birmana, però, non intende cedere ed ha rafforzato i legami con la Cina: in palio ci sono i giacimenti di idrocarburi e la strategica via di comunicazione che unirebbe Pechino all’Oceano Indiano, senza passare dallo Stretto di Malacca. Si ripropone lo stesso schema sperimentato durante l’occupazione del Giappone, durante cui buddisti e mussulmani combatterono rispettivamente contro e a favore degli inglesi. ???


I mussulmani Rohingya, una vecchia conoscenza dell’impero britannico

Trascorrono gli anni, i decenni ed i secoli, ma la geopolitica non cambia e con lei restano immutati gli elementi basilari del contesto umano-geografico: divisioni religiose, minoranze etniche, catene montuose, stretti marittimi, vie di comunicazione, etc. etc. Certo, gli attori che si contendono l’egemonia non sono sempre gli stessi, ma il teatro dove si sfidano subisce pochissimi cambiamenti: è quindi sufficienti studiare cosa accade in passato, per capire il presente ed anticipare il futuro.

Corre l’anno 1942: l’impero nipponico è al suo apogeo, estendendosi dalla Manciuria alle isole Salomone, passando per la strategica Singapore che presidia lo Stretto di Malacca e separa l’Oceano Pacifico da quello Indiano. La Cina, schierata a fianco degli Alleati, riceve armi e mezzi attraverso una via di comunicazione costruita ad hoc: è la “Burma road” che consente ai rifornimenti angloamericani di passare dall’Oceano Indiano alla Cina continentale, attraverso la Birmania sotto controllo britannico. La volontà di tagliare questa strategica via di comunicazione, unita alla sete di materie prime, spinge Tokyo ad invadere la Birmania, partendo dalla Thailandia occupata.

Nel marzo 1942 cade la capitale Rangoon, obbligando gli inglesi a ritirarsi nella vicina India. I giapponesi possono avvalersi nella loro avanzata del sostegno di alcuni strati della popolazione birmana: i giovani nazionalisti ed i buddisti salutano con favore l’ingresso dell’occupante asiatico, che promette la liberazione dal giogo inglese. Al contrario, la minoranza mussulmana rimane fedele alla corona inglese e riceve armi ed equipaggiamenti da Londra per frenare la marcia dei giapponesi e dei loro alleati locali. La regione di Arkan, oggi Rakhine, è teatro di sanguinosi scontri etnici tra i buddisti-filogiapponesi ed i mussulmani-anglofili. Questi ultimi, concentrati nel litorale settentrionale, vicino al moderno Bangladesh, si chiamano Rohingya.

Una strategica via di comunicazione che unisce la Cina all’Oceano Indiano raggirando Singapore, la presenza di idrocarburi, una maggioranza buddista schierata su posizioni nazionaliste-militariste, una minoranza mussulmana su posizioni anglofile: sono questi gli elementi che, rimasti immutati a distanza di 75 anni, permettono di capire quanto sta avvenendo in Birmania.

Oggetto di un colpo di Stato di ispirazione socialista nel 1962, la Birmania rimane ai margini della Guerra Fredda. Fomentate nel 1988 alcune rivolte studentesche che anticipano la tentata rivoluzione colorata di Piazza Tienanmen, crollato il Muro di Berlino nel novembre 1989, anche Rangoon è sospinta dagli angloamericani verso “la democrazia”.

Nel maggio del 1990, si svolgono le prime elezioni libere dall’avvento dei militari, dominate dalla figura di Aung San Suu Kyi: figlia del “padre della patria” che contrattò con gli inglesi l’indipendenza del 1947, educata in Inghilterra, trascorsi alle Nazioni Unite, sposata con un cittadino britannico, Aung San ha tutte la carte in regola per traghettare la Birmania dall’economia pianificata al libero mercato. La giunta militare, conscia delle spinte centrifughe che attraversano il Paese, non ha però nessuna intenzione di abdicare: rifiutato l’esito delle elezioni, l’altisonante “Consiglio di Stato per la Pace e lo Sviluppo” scioglie l’assemblea ed arresta i leader politici d’opposizione. Lo smacco, per Washington e Londra, è cocente: assegnare il Premio Nobel per la Pace a Aung San Suu Kyi (1991) è una contromisura d’effetto, sebbene di scarsa efficacia. Gli anni ‘90 ed i primi dieci anni del XXI secolo trascorrono, infatti, senza che Rangoon mostri segni di ravvedimento, lasciando Aung San relegata agli arresti domiciliari.

D’altronde, le priorità degli Stati Uniti sono altre in quel momento: Bill Clinton deve espandere la NATO ad Est e ridisegnare i Balcani, George W. Bush sogna di ridisegnare il Medio Oriente e piantare la bandierina in Afghanistan, cuore dell’Eurasia. Mentre gli angloamericani dilapidano migliaia di miliardi di dollari in Iraq, la Cina cresce però vorticosamente: l’establishment liberal realizza che lo stesso Paese dove le aziende americane hanno delocalizzato sarà anche la maggior minaccia all’egemonia statunitense. Barack Hussein Obama lascia il Medio Oriente, dopo aver scientificamente appiccato l’incendio (Primavere Arabe del 2011), per focalizzarsi sull’Oceano Pacifico e su Pechino: è il “pivot to Asia”, che mira a contenere l’avanzata cinese con una serie di accordi politici-militari-economici (in primis, il TTP).

La Birmania, quindi, torna prioritaria. Il Segretario di Stato Hillary Clinton incontra Aung San Suu Kyi nel 2011, durante la sua visita ufficiale nel Paese asiatico, ribadendo la predilezione di Washington per il Nobel della Pace. Nel 2015 si svolgono le elezioni legislative cui può partecipare anche la formazione della Aung San Suu Kyi, Lega Nazionale per la Democrazia: la vittoria arride, ovviamente, al “nuovo”. Alla Suu Kyi toccherebbe la presidenza, ma il passaporto britannico del defunto marito e dei figli le impediscono di assumere formalmente la carica, obbligandola ad assumere funzione equipollente di “Consigliera dello Myanmar”: con grande soddisfazione, Barack Obama riceve il premio Nobel alla Casa Bianca nel novembre 2016, affermando che è finalmente giunto il momento di revocare le sanzioni economiche alla Birmania.

Il progetto di “democratizzazione” della Birmania contempla però, qui come in molte altre realtà (Russia, Iraq, Libia, Siria, etc. etc.), anche la frantumazione della Birmania, attraverso la secessione di importanti zone del Paese, dove vivono minoranze etniche e linguistiche. L’installazione ai vertici della Birmania di Aung San Suu Kyi dovrebbe infatti facilitare la secessione del mussulmano Arkan: la quasi concomitante comparsa nel 2016 dell’Arakan Rohingya Salvation Army, formazione militare con forti legami con l’Arabia Saudita, scatena la violenza nella regione e l’immediata reazione dello Stato centrale. Le tensioni riesplodono e, come ai tempi dell’occupazione giapponese, il Paese si polarizza: la giunta militare, espressione della maggioranza buddista-nazionalista, cerca appoggio presso la potenza asiatica emergente, la minoranza mussulmana, i celebri rohingya, è adoperata dagli angloamericani per i propri scopi.

Nel 2017, la potenza asiatica emergente non è ovviamente il Giappone, bensì la Cina: eppure l’interesse di Pechino per la Birmania è dettato dalle stesse ragioni che spinsero Tokyo ad allargare la propria sfera di influenza fino a Rangoon. Materie prime (la Birmania è un importante produttore di gas naturale e petrolio) e vie di comunicazioni. Come gli inglesi costruirono la “Burma Road” per raggiungere la Cina dall’Oceano Indiano, senza passare dallo Stretto di Malacca, oggi i cinesi progettano di sboccare sull’Oceano Indiano attraverso la Birmania, raggirando così Singapore ed un eventuale blocco angloamericano dello Stretto. La moderna “Burma Road” scorre, ovviamente, sui binari dei treni ad alta velocità/capacità ed è parte integrante della “Nuova Via della Seta”, il grande piano di infrastrutture ferroviarie/marittime/aeroportuali con cui la Cina vuole coprire l’intera Eurasia.

La minoranza mussulmana dei rohingya è invece utile agli angloamericani come, e forse più, del 1942. Oltre ad essere in ottimi e storici con Londra e Washington, quest’etnia di fede islamica, da sempre ostile ai buddisti-nazionalisti, è concentrata nella regione dell’Arkan (oggi Rakhine) dove le ferrovie e gli oleodotti cinesi dovrebbero sfociare nell’Oceano Indiano. La secessione della regione mussulmana, oltre a seppellire l’attuale Stato birmano, servirebbe quindi a vanificare la strategia di Pechino per raggirare lo Stretto di Malacca.

Gli angloamericani si sarebbero attesi dal premio Nobel una pubblica presa di posizione a favore dell’insurrezione mussulmana, primo passo verso l’indipendenza: la Aung San Suu Kyi, però, consapevole che tale mossa comporterebbe la sua immediata deposizione da parte della giunta militare che controlla ancora de facto il Paese, ha sinora taciuto, attirandosi pesantissime critiche dagli ambienti anglofoni che ne hanno curato l’ascesa.

La difesa dei rohingya è sinora toccato alla solita Amnesty International, basata a Londra, ed all’americana Human Rights Watch: “Burma: Military Massacres Dozens in Rohingya Village”, “Myanmar: contro i rohingya è pulizia etnica”, etc. etc. Gli USA, attraverso il nuovo Segretario di Stato, Rex Tillerson, hanno avvalorato la tesi della “pulizia etnica” ai danni dei mussulmani, ma si sono sinora astenuti dall’imposizione di nuove sanzioni: per aumentare la pressione mediatica su Rangoon si sono limitati ad inviare in viaggio apostolico Jorge Mario Bergoglio, che in Asia come in Medio Oriente, dimostra così di seguire pedissequamente l’agenda dei poteri che l’hanno portato al soglio petrino.

Di fronte all’aumentare della violenza interna e degli assalti mediatico-diplomatici, la giunta militare ha reagito rafforzando ulteriormente il dialogo con la Cina: il comandante in capo delle forze armate birmane, il generale Min Aung Hlaing, si è recentemente intrattenuto sei giorni a Pechino, incontrando il Presidente Xi Jinping ed il suo omologo cinese. Un’analoga visita dovrebbe prossimamente essere svolta anche dalla Aung San Suu Kyi, testimoniando che il Nobel per la Pace, di fronte al rischio di balcanizzazione del suo Paese, si sta allontanando dai vecchi mentori.

La dinamica di fondo, lo spostamento del potere da Washington a Pechino, gioca a favore della giunta militare e dell’integrità della Birmania. Qualche pericoloso colpo di coda da parte dell’impero angloamericano è però inevitabile: l’imposizione di nuove sanzioni o, più probabilmente, la comparsa anche a Rangoon e dintorni dell’ISIS e dei “mujaheddin stranieri”.
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Re: I mussulmani Rohingya perseguitati o persecutori ?

Messaggioda Berto » mar dic 05, 2017 8:53 pm

L’altro volto dei Rohingya (per giusta chiarezza)
Written by Franco Londei|

http://www.francolondei.it/laltro-volto ... -chiarezza

Rohingya, un nome che abbiamo imparato a conoscere ultimamente specie dopo che a detta di tutti il Governo della Birmania (Myanmar) ha iniziato una durissima repressione che ha spinto migliaia di profughi Rohingya a fuggire dal Paese. Solo che, sebbene l’odiosa repressione dei Rohingya sia un dato di fatto incontestabile, non sempre i media ci danno un quadro totale della situazione e questo non va bene per chi vuole farsi una idea della situazione reale.

Si dice che i Rohingya siano un popolo e che siano originari della Birmania, in realtà si tratta di un gruppo etnico di religione musulmana sunnita che secondo molti proverrebbe dal Bangladesh da dove è fuggito durante la dominazione inglese trasferendosi in massa nell’attuale Myanmar (fonte Wikipedia). Il Papa ha sentito la necessità di chiedere scusa ai Rohingya per la dura repressione di cui sarebbero vittime in Birmania. Peccato che il buon Papa Francesco non abbia fatto alcun cenno all’altro volto dei Rohingya, quello del Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA), l’esercito di liberazione dei Rohingya che con le sue azioni armate ha spinto il Governo birmano a iniziare una campagna volta a eradicare il gruppo terrorista che si autodefinisce un “movimento di resistenza e liberazione”, un termine che siamo abituati a vedere applicato anche ad altri gruppi terroristici islamici, vedi Hamas, Hezbollah e altri.

Tolto che effettivamente i Rohingya sono da sempre discriminati in Birmania e che ogni azione civile volta a garantire loro gli stessi diritti dei birmani è finita nel cestino, il gruppo terrorista islamico ARSA non solo si è macchiato di gravi crimini contro i civili e la polizia birmana, ma ha progressivamente abbracciato l’ideologia jihadista tipica dei gruppi terroristi islamici di fede sunnita, tra i quali il reclutamento forzato (anche di bambini). Il loro leader sarebbe Ata Ullah, un uomo di etnia Rohingya nato a Karachi , in Pakistan , e cresciuto a La Mecca , in Arabia Saudita, che all’inizio aveva formato un gruppo armato che vigilasse sui villaggi musulmani per difenderli dall’esercito birmano, salvo poi trasformare il gruppo in un un organismo “offensivo” che ha portato decine di attacchi a stazioni della polizia birmana fino a quando, il 26 agosto 2017, il Governo birmano lo ha dichiarato un gruppo terrorista. E’ stato a quel punto che in Myanmar le persecuzioni contro i Rohingya sono aumentate in maniera esponenziale spingendo centinaia di migliaia di persone a fuggire dalla Birmania per rifugiarsi in Bangladesh.

Ora, va detto che le persecuzioni di cui sono stati fatti oggetto i musulmani in Birmania non sono giustificabili in nessun modo, tuttavia è utile conoscere ogni sfaccettatura della vicenda prima di incolpare una sola parte altrimenti si rischia di trasformare una etnia in un popolo e una guerra al terrorismo islamico in una guerra di religione, un po’ come succede in Medio Oriente con i palestinesi. E ce ne sono di similitudini con la vicenda palestinese, come quella di chiamare un gruppo terrorista con la definizione di “resistenza” o di “esercito di liberazione”, termini con i quali si vuole giustificare ogni azione violenta e condannare ogni reazione, oppure quella di creare un popolo che storicamente non esiste. Manca solo di creare una agenzia ONU apposita per per i Rohingya come è stato fatto per i palestinesi (la UNRWA) e le similitudini sarebbero complete.

A scanso di fastidiosi equivoci ribadisco che le persecuzioni e le discriminazioni contro i Rohingya da parte del Governo birmano non sono in alcun modo giustificabili, ma da qui a dare totalmente la colpa al Myanmar ce ne corre. La faccenda è un tantino più complessa di come la si descrive, non ci sono buoni e cattivi, più o meno sono tutti in torto, i birmani perché la faccenda non si risolve espellendo tutti i musulmani dal paese, i Rohingya perché hanno occupato una terra non loro sulla quale, da buoni musulmani, rivendicano il possesso senza curarsi né della storia né del fatto che devono sottostare alle leggi del paese che li ospita.
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Re: I mussulmani Rohingya perseguitati o persecutori ?

Messaggioda Berto » mer dic 06, 2017 11:23 pm

‘Siamo in migliaia e ben armati’
15/11/2017

http://m.asianews.it/index.php?art=42326&l=it

Tra le fila dell’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa) 5mila guerriglieri. Solo i giovani Rohingya si sottopongono all’addestramento. Il reclutamento nei villaggi iniziato più di tre anni fa. Le azioni dello scorso agosto pianificate da mesi. Alle violenze hanno preso parte anche gli abitanti dei villaggi musulmani. Almeno 150 jihadisti hanno trovato rifugio nei 15 campi profughi di Cox’s Bazar, Bangladesh.

Naypyitaw (AsiaNews/Rfa) – L’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), gruppo armato islamista responsabile per l’innesco delle recenti violenze etniche nello Stato occidentale di Rakhine, vanta tra le sue fila migliaia di combattenti ed armi sottratte alle Forze di sicurezza del Myanmar. È quanto dichiara a BenarNews, testata affiliata a Rfa, un militante coinvolto in alcuni degli attacchi letali dello scorso 25 agosto.

Da un campo profughi di Cox’s Bazar (Bangladesh), il 28enne Nurul Islam [nome fittizio, ndr] afferma che 5mila guerriglieri dell’Arsa hanno preso parte a quella che egli definisce “un’insurrezione organizzata”. “Ogni compagnia comprendeva tra i 500 ed i 1000 Rohingya armati di bastoni e coltelli, insieme ad una manciata di squadre addestrate che avevano pistole e bombe a mano. L'azione voleva intimidire le forze armate birmane, ingannarle facendo creder loro che fossero in inferiorità numerica”, racconta il militante.

I ribelli erano armati anche di “pistole fatte a mano, fucili e bombe”, la maggior parte delle quali acquistate da banditi locali o frutto di saccheggi. Nurul Islam riferisce che non tutti i guerriglieri dell’Arsa sono addestrati per combattere, ed i membri lavorano a “diversi livelli”. Solo i giovani Rohingya che sono fisicamente ed emotivamente forti, si sottopongono all’addestramento. Gli altri sono assegnati ad incarichi come il reclutamento, il monitoraggio delle attività delle truppe birmane, l’organizzazione di armi e fondi per il gruppo e l’assistenza ai poveri ed ai bisognosi Rohingya. “Non abbiamo armi all'avanguardia. A differenza di quanto molti pensano, non siamo associati a nessuna organizzazione terroristica”, dichiara il militante.

Più di tre anni fa, i membri dell’Arsa, che in precedenza si chiamava Harakah al-Yaqin (HaY) o “Movimento della Fede”, hanno iniziato a passare di villaggio in villaggio nel Rakhine, dove è concentrata la popolazione musulmana dei Rohingya. Essi hanno invitato i giovani locali ad aderire alla loro lotta contro le forze armate del Myanmar e i buddhisti etnici Rakhine, accusati di collaborare con i militari. “Bruciano le nostre case, stuprano le nostre madri e sorelle, si impossessano della nostra terra. Perché siamo musulmani, ci chiamano ‘bangladeshi’ e ci dicono che non apparteniamo alla Birmania. Non ci consentono di professare la nostra religione, distruggono moschee e madrase”, afferma Nurul Islam.

Egli ha preso parte anche agli attacchi islamisti del 9 ottobre 2016, che hanno causato la morte di nove poliziotti. Anche allora l’esercito birmano ha risposto con una dura controffensiva. Nurul Islam racconta che nella notte tra il 24 e il 25 agosto scorsi, i militanti dell’Arsa hanno attaccato 24 avamposti militari in un’operazione “pianificata da mesi”. L’unità di cui il guerrigliero ha fatto parte era composta da 10 jihadisti addestrati e 500 abitanti dei villaggi Rohingya. Essi hanno attaccato una postazione delle forze di sicurezza birmane a Maungdaw, uccidendo almeno cinque poliziotti.

Ore dopo, l'ufficio della leader birmana Aung San Suu Kyi ha rilasciato un comunicato secondo cui 59 militanti e 12 agenti di Myanmar sono rimasti uccisi nelle violenze. Nei giorni successivi, la reazione del Tatmadaw [l’esercito del Myanmar, ndr], ha causato l’esodo in Bangladesh di oltre 600mila Rohingya. Tra di loro, rivela Nurul Islam, vi sono almeno 150 jihadisti che hanno trovato rifugio nei 15 campi profughi di Cox’s Bazar, distretto di confine che ospita un totale di circa un milione di Rohingya fuggiti dal Myanmar.

Il Battaglione di azione rapida del Bangladesh (Rab), l'unità anti-terrorismo d’élite della polizia di Dhaka, nega le affermazioni del militante. “Non esiste alcuna presenza organizzata dell’Arsa qui. Senza prove, non possiamo accusare nessuno di esserne membro. A mio parere, non c'è alcun membro dell’Arsa a Cox’s Bazar, dichiara a BenarNews Ruhul Amin, comandante della compagnia Rab del distretto. All'inizio di questo mese, il ministro degli Affari interni Bangladesh Asaduzzaman Khan Kamal ha riportato che, durante i recenti colloqui bilaterali a Naypyidaw, il governo di Myanmar aveva fornito ai funzionari bangladeshi un elenco di circa 500 sospetti membri dell’Arsa che si ritiene nascosti dall'altro lato del confine.
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Re: I mussulmani Rohingya perseguitati o persecutori ?

Messaggioda Berto » mer dic 13, 2017 6:12 am

???


Cartier boicotta la Birmania in difesa dei Rohingya: “No alle gemme del genocidio”
giuseppe agliastro
2017/12/11

http://www.lastampa.it/2017/12/11/ester ... agina.html

Splendidi e splendenti, preziosi ed esclusivi, molte donne sognano di metterli almeno una volta al collo o di possederli. Ma i gioielli di Cartier contengono pietre preziose provenienti dalla Birmania. Sono «gemme del genocidio», come le chiama qualcuno. E sono finite al centro delle polemiche perché favorirebbero il finanziamento illegale alle forze armate birmane, che ne controllano il business, favorendo la cacciata dei Rohingya dai loro villaggi. Così Cartier, come racconta il quotidiano britannico Times, ha comunicato la scorsa settimana che non prenderà più i preziosi dall’ex colonia inglese.

L’attività di estrazione e la vendita all’asta sono dirette dai generali e dagli ex generali, attraverso imprese controllate dalle forze armate. Più volte, negli anni passati, si erano sollevate proteste internazionali contro le major dei gioielli di lusso, che hanno posto sotto i riflettori la persecuzione nei confronti della minoranza musulmana. Nel 2007 c’era stato anche un appello di Laura Bush a boicottare l’acquisto dei gioielli. In un post sulla sua pagina Facebook americana, Cartier ha annunciato che non si fornirà più in Birmania. Prima di lei, il medesimo messaggio l’aveva lanciato Tiffany.

Quello dei preziosi birmani è stato finora un motivo di vanto. La collezione parigina presentata di recente dalla griffe di gioielli Van Cleef & Arpels, ad esempio, comprende dichiaratamente la collana Oiseau sur la Branche, con 28 rubini birmani di colore rosso intenso e un peso di 567,17 carati. La collezione «Tutti Frutti» di ispirazione asiatica di Cartier mostra preziosi con pietre della Birmania incastonate, tra cui una collana contenente smeraldi, platino e diamanti, con al centro uno zaffiro intagliato. Sono solo alcune delle meraviglie, rese possibili dalla caccia delle gemme in Birmania.

Cartier non pubblica i prezzi sul suo sito, ma una pietra preziosa birmana acquistata, non ancora incastonata in un gioiello, può costare ad un rivenditore diverse migliaia di sterline. Un rubino birmano tagliato e trattato termicamente di 1,5 carati può essere acquistato per circa 7.500 sterline. Uno zaffiro rosa di 1,5 carati costa circa 1.000 sterline. Come quello che indossava la modella americana Bella Hadid, che ha vestito una collana di Bulgari con zaffiro birmano da 180 carati al festival di Cannes. L’industria birmana delle gemme è già stata soggetta a sanzioni da parte dell’Unione europea e degli Stati Uniti, ma alla fine le sanzioni sono state revocate rispettivamente nel 2013 e nel 2016, dopo che i generali hanno liberato Aung San Suu Kyi, l’ex dissidente ora leader birmana, dagli arresti domiciliari e hanno permesso un parziale ritorno alla democrazia. Ma la persecuzione nei confronti dei Rohingya non si arresta, e anche le aziende del lusso che con la Birmania fanno affari importanti sono pronte a denunciarlo.
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Re: I mussulmani Rohingya perseguitati o persecutori ?

Messaggioda Berto » sab dic 16, 2017 9:01 am

???

I dialoghi privati tra il Papa e i gesuiti sul dramma Rohingya e sui migranti
Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica
Milano, 13 dicembre 2017

http://www.corriere.it/cronache/17_dice ... 2793.shtml

Civiltà Cattolica pubblica in esclusiva le domande che i religiosi incontrati durante il viaggio im Myanmar e in Bangladesh hanno posto al Pontefice su delicate tematiche

Santità, che cosa si aspetta da noi?
«Credo che non si possa pensare una missione — lo dico non soltanto da gesuita, ma da cristiano — senza il mistero dell’Incarnazione. Il gesuita è colui che deve sempre approssimarsi, come si è avvicinato il Verbo fatto carne. Le sfide non sono dietro, sono avanti. In questo il beato papa Paolo VI ha aiutato molto la Compagnia, e il 3 dicembre 1974 ci ha rivolto un discorso che resta pienamente attuale. Dice, per esempio: “Ovunque, nei crocevia della storia vi sono i gesuiti”. E per andare ai crocevia della storia bisogna pregare!».

Molti media hanno detto che la Sua visita in Myanmar è una delle più difficili. È così?
«Questo è un viaggio molto difficile, sì. Forse ha rischiato pure di essere cancellato, a un certo punto. Ma proprio perché difficile, dovevo farlo! Il Popolo di Dio è popolo povero, umile, che ha sete di Dio. Noi pastori dobbiamo imparare dal popolo. Perciò, se questo viaggio appariva difficile, sono venuto perché noi dobbiamo stare nei crocevia della storia».

Spesso lei dice che bisogna avere l’odore delle pecore. Alcuni di noi sentono l’odore dei rifugiati.
«Ho visitato finora quattro campi di rifugiati. Tre enormi: Lampedusa, Lesbo e Bologna. E là il lavoro è di vicinanza. A volte sono veri campi di concentramento, carceri. Io cerco di visitare, parlo chiaro, soprattutto con i Paesi che chiudono le loro frontiere. Purtroppo in Europa ci sono Paesi che hanno scelto di chiudere le frontiere. La cosa più dolorosa è che per prendere questa decisione hanno dovuto chiudere il cuore. E il nostro lavoro missionario deve raggiungere anche quei cuori che sono chiusi all’accoglienza degli altri. Queste cose non arrivano ai salotti delle nostre grandi città. Abbiamo l’obbligo di denunciare e di rendere pubbliche le tragedie umane che si cerca di silenziare».

Io vengo da una regione dove ci sono molte tensioni con i musulmani. Mi chiedo come è possibile prendersi cura delle persone che hanno questa tendenza al fondamentalismo.
«Guarda, di fondamentalismi ce ne sono dappertutto. E noi cattolici abbiamo “l’onore” di avere fondamentalisti tra i battezzati. È un atteggiamento dell’anima che si erge a giudice degli altri e di chi condivide la sua religione. È un andare all’essenziale — pretendere di andare all’essenziale — della religione, ma a un punto tale da dimenticarsi di ciò che è esistenziale. Dimentica le conseguenze. Gli atteggiamenti fondamentalisti prendono diverse forme, ma hanno il fondo comune di sottolineare molto l’essenziale, negando l’esistenziale. Il fondamentalista nega la storia, la persona. E il fondamentalismo cristiano nega l’Incarnazione».

Santità, grazie per aver parlato del popolo Rohingya. Sono nostri fratelli e sorelle.
«Gesù Cristo oggi si chiama Rohingya. Tu parli di loro come fratelli e sorelle: lo sono. Penso a san Pedro Claver, che mi è molto caro. Lui ha lavorato con gli schiavi del suo tempo. E pensare che alcuni teologi di allora — non tanti, grazie a Dio — discutevano se loro avessero un’anima o no! La sua vita è stata una profezia, e ha aiutato i suoi fratelli e le sue sorelle che vivevano in una condizione vergognosa. Ma questa vergogna oggi non è finita. Oggi si discute tanto su come salvare le banche. Il problema è la salvezza delle banche. Ma chi salva la dignità di uomini e donne oggi? La gente che va in rovina non interessa più a nessuno. Il diavolo riesce ad agire così nel mondo di oggi. Se noi avessimo un po’ di senso del reale, dovrebbe scandalizzarci. Lo scandalo mediatico oggi riguarda le banche e non le persone. Davanti a tutto questo dobbiamo chiedere una grazia: di piangere. Il mondo ha perso il dono delle lacrime. La sfacciataggine del nostro mondo è tale che l’unica soluzione è pregare e chiedere la grazia delle lacrime. Davanti a quella povera gente che ho incontrato ho sentito vergogna! Ho sentito vergogna per me stesso, per il mondo intero! Scusate, sto solo cercando di condividere con voi i miei sentimenti...».

Lei è venuto in Bangladesh, ha creato cardinale l’arcivescovo della capitale. Come mai questa attenzione?
«Nominando i cardinali, ho cercato di guardare alle piccole Chiese. Non per dare consolazione, ma per lanciare un chiaro messaggio: le piccole Chiese che crescono in periferia e sono senza antiche tradizioni cattoliche oggi devono parlare alla Chiesa universale. Sento chiaramente che hanno qualcosa da insegnarci».


La demenza irresponsabile di Bergoglio, dei suoi vescovi e dei falsi buoni che fanno del male e che non rispettano i nostri diritti umani, questi idolatri presuntuosi che si credono salvatori dell'umanità e del mondo a nostre spese.
viewtopic.php?f=132&t=2591
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Re: I mussulmani Rohingya perseguitati o persecutori ?

Messaggioda Berto » lun dic 18, 2017 8:53 pm

???

Si uccide anche nel nome di Buddha
5 dicembre 2017

http://thevision.com/attualita/stermini-buddisti


In Occidente si guarda da tempo al buddismo come alla chiave di volta per essere i partecipanti ideali a una società che tende sempre più spesso a portare a nevrosi e isterismi generici. L’antidoto definitivo a una realtà in cui l’individualismo e la frenetica ricerca del successo e della soddisfazione personale regnano sovrani. Con il passare degli anni, gli scaffali delle librerie dedicati alla “filosofia orientale” sono diventati sempre più affollati di volumi e sempre più perlustrati da un pubblico ormai disilluso dall’utilità delle religioni abramitiche come palliativo alla vita. In un’epoca in cui bisogna non solo essere perfetti a livello fisico e operativo, ma possibilmente anche serafici, forse la soluzione definitiva va cercata un po’ più a Oriente.

Questa idea di perfetta complementarietà allo stile di vita occidentale non è immotivata, del resto. Chi aderisce ai dettami di Buddha trova in essi una motivazione a rallentare il proprio ritmo, ascoltarsi di più e mitigare il proprio individualismo, questo grazie a una visione del mondo più olistica, in cui l’ego trova scarso spazio.

Fin dalla sua diffusione nell’Occidente moderno, il buddismo ha goduto di un posto speciale nella gerarchia delle religioni, proprio per questo suo intrinseco richiamo alla non-violenza. Il suo primo precetto, del resto, è “non uccidere”. Questo in realtà viene intimato nel caso di tutte tre le religioni monoteiste, salvo poi essere contraddetto con grande disinvoltura nelle pagine successive dei rispettivi testi sacri (e l’Antico Testamento in questo è arrivato molto prima del Corano). Così come la stessa logica del karma può essere accostata, con le dovute differenze, a quella del peccato cristiano. Sempre tenendo a mente che il buddismo non rimanda il riscontro delle proprie azioni a un non ben precisato Aldilà, ma nel qui e nell’ora. Altra differenza notevole: per chi segue la via del Buddha non ci sono distinzioni tra fedeli e infedeli, tra puri e impuri. E in questo si distacca in modo positivo e netto da altre credenze più “esclusive”.

Ma tutto questo è valido a livello teorico. Perché poi, nella pratica, anche la filosofia buddista è stata travisata e adottata come vessillo di lotte politiche totalmente incompatibili con il suo messaggio originale.

L’esempio più attuale lo troviamo in Myanmar, nello Stato di Rakhine, dove i Rohingya – minoranza musulmana apolide – dal 25 agosto sono di nuovo vittima di violenze e scontri con l’esercito birmano. Più di 430mila persone sono scappate a seguito di questa ennesima offensiva – descritta dall’ONU come “un esempio da manuale di pulizia etnica” – per rifugiarsi in Bangladesh e affollarne i campi rifugiati. La popolazione birmana, a maggioranza buddista, da tempo considera l’Islam una minaccia. Ciò ha fatto da terreno fertile per la maturazione e la radicalizzazione di istanze politiche come il movimento 969, tra i cui membri troviamo il monaco U Wirathu, definito da Time nel 2013 “il volto del terrorismo buddista” e autoproclamatosi “il Bin Laden buddista”. U Wirathu diffonde da tempo video di sermoni e pamphlet in cui mette in guardia la popolazione birmana dall’”islamificazione dell’Asia”. Lui e altri monaci sono arrivati a consigliare ai frequentatori dei propri templi di evitare di sposare o fare affari con i musulmani. Un Rohingya del villaggio di Ah Nauk Pyin ha raccontato a Reuters di come dei buddisti avrebbero urlato a lui e ad altri abitanti del villaggio della stessa di etnia “andatevene o vi uccidiamo tutti”. Da molto tempo i musulmani di Rakhine sarebbero oggetto di discriminazioni da parte della maggioranza buddista, che li considera immigrati illegali, non concedendogli né la cittadinanza né i pieni diritti che ne conseguono. Aung San Suu Kyi, Primo Ministro, premio Nobel per la pace e a sua volta buddista, ha deciso di visitare lo Stato solo lo scorso 2 novembre, nonostante non fossero mancate le sollecitazioni ad agire da parte di svariati rappresentanti di Stato.

C’è poi il caso dello Sri Lanka, scenario dal 1983 al 2009 di una sanguinosa guerra civile in cui si sono scontrati da una parte le Tigri Tamil, che volevano uno Stato indipendente, dall’altra il governo cingalese, che per impedirgli di ottenerlo, tra le altre cose, ha strumentalizzato proprio il messaggio del buddismo. La popolazione locale è composta per il 70% da buddisti, il restante 30 da Tamil e musulmani. Anche in questo caso, la netta preponderanza demografica dei primi non ha impedito loro di sviluppare organizzazioni politiche estremiste, come nel caso dei BBS, acronimo cingalese di “Forza di potere buddista”. Questo movimento e altre compagini affini hanno incitato le folle a distruggere moschee e a incendiare case e negozi appartenenti a musulmani. Nel giugno 2014, un discorso incendiario pronunciato dal leader dei BBS, Galagodaththe Gnanasara, ha portato alla morte di quattro persone e al ferimento di oltre 80, dopo scontri violenti nel sud del Paese. Gli episodi di ostilità più recenti, però, risalgono allo scorso 18 novembre, e hanno visto come evento scatenante un incidente stradale tra una donna musulmana e un uomo buddista nella provincia meridionale di Galle. In quell’occasione sono stati distrutti dieci veicoli (perlopiù di musulmani) e 62 edifici. Diciannove persone sono state arrestate ed è stato imposto un coprifuoco dalle 6 di mattina alle 6 di sera. Tra i leader della “Forza di potere buddista” ci sono numerosi monaci, tra cui lo stesso Gnanasara, ma il tipo di buddismo praticato in Sri Lanka – Theravada – non ammetterebbe alcun tipo di violenza. Quantomeno non nei propri testi canonici.

Episodi molto simili avvengono regolarmente anche in Thailandia, che ha una composizione demografica molto simile a Sri Lanka e Myanmar: stando ai dati rilevati dal Pew Research Centre, i buddisti ammonterebbero al 93.2% della popolazione, con un restante 5.6% di musulmani, concentrato soprattutto nelle province meridionali. Anche lì numerosi monaci si sono resi protagonisti di violenze finalizzate – secondo loro – a difendere la propria religione e cultura da una presunta minaccia musulmana.

Molti studiosi della religione buddista hanno fatto notare come questo credo, in sé e per sé, non sarebbe compatibile con alcun tipo di violenza. Le varie istanze di nazionalismo portate avanti in nome di Buddha sarebbero un totale travisamento del dharma – i suoi insegnamenti – e dei suoi precetti. Cosa che non dovrebbe sbalordire, se si pensa a quanto è avvenuto nel caso di altre religioni, ma lascia comunque sorpresi se si considera che la religione in questione è vista come una delle più pure e pacifiche che ancora sopravvivono. Una cosa, però, è sicura: nessuna guerra è compatibile con il buddismo, e lo stesso concetto di “guerra buddista” promosso dai vari gruppi nazionalisti del Sud-est asiatico è una contraddizione in termini.

Nella filosofia buddista, la prima delle Quattro Nobili Verità – ovvero il primo apparato dottrinale di questa religione – riconosce la sofferenza come elemento imprescindibile dell’esistenza. La seconda lega questa sofferenza all’attaccamento a desideri, persone o luoghi. E forse è proprio per un’ostinata devozione alla propria identità culturale e alla propria religione – una sorta di ego collettivo – che si possono spiegare tutti questi casi di violenza avvenuti nel nome di Buddha, ma che col buddismo non hanno nulla a che vedere.

Tenendo a mente le fondamenta concettuali che reggono il dharma di Buddha, diventa molto difficile giustificare ideologie come quella del nazionalismo buddista, specialmente quando questo comporta la sofferenza di individui che rimangono esclusi da un concetto arbitrario e del tutto artificioso di “nazione”. Ci si chiede spesso se esista una “religione di pace”, e se sì, quale sia. Ma ci dimentichiamo che la fede, sia essa cristiana, ebraica o buddista, rimane un precipitato culturale dell’uomo. E che, in ultima battuta, dipende da quest’ultimo il modo in cui i dogmi dell’una o dell’altra si applicheranno alla realtà. Diventa così piuttosto naïf pensare di poter determinare la natura di una religione senza aver valutato prima il tipo di uomo che la praticherà. Esisterà mai una religione di pace? Probabilmente no, finché saranno più vantaggiosi conflitto e autoesclusione.


Gino Quarelo
Certo anche i buddisti come i santi quando non ne possono più possono anche uccidere per legittima difesa.
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Re: I mussulmani Rohingya perseguitati o persecutori ?

Messaggioda Berto » gio gen 11, 2018 2:23 pm

???


Myanmar, per la prima volta l'esercito ammette il massacro di 10 Rohingya. Unicef: "60mila bambini dimenticati"
10 gennaio 2018

https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/0 ... ti/4084602

L’esercito del Myanmar ha ammesso per la prima volta di aver ucciso 10 musulmani Rohingya, i cui corpi erano stati ritrovati nel mese di dicembre in una fossa comune. L’ammissione, la prima di questo tipo dall’inizio dell’offensiva nello stato Rakhine quattro mesi fa, è arrivata mercoledì dallo stesso capo delle forze armate birmane, il generale Min Aung Hlaing. In un post sul suo profilo Facebook, il generale ha parlato per la prima volta di una “rappresaglia” nei confronti della minoranza.

“Alcuni abitanti del villaggio di Inn Din e alcuni membri delle forze di sicurezza hanno ammesso di aver ucciso dieci terroristi bengalesi” si legge nel post. Le uccisioni dei “terroristi bengalesi“, nella versione dell’esercito, sono state una rappresaglia dei militari e di buddisti locali dopo che i Rohingya avevano ucciso dei buddisti in un villaggio. “L’incidente è avvenuto perché i residenti buddisti erano stati minacciati e provocati dai terroristi”, conclude il comunicato. Il messaggio dell’esercito birmano definisce i membri della minoranza proprio con il termine dispregiativo spesso usato nei loro confronti.

Un’ammissione che si limita ad un solo episodio di violenza ma che, di fatto, apre ad un riconoscimento di tutta l’offensiva condotta nei confronti dei Rohingya, definita dall’Onu “un esempio da manuale di pulizia etnica“. Accuse che però le autorità birmane hanno sempre negato. Dalla fine di agosto, oltre 650mila Rohingya sono fuggiti dallo Stato birmano di Rakhine rifugiandosi in Bangladesh e portando con sé innumerevoli testimonianze di uccisioni, abusi sessuali, roghi appiccati a interi villaggi. Fino ad oggi, l’esercito aveva sempre sostenuto di non aver ucciso nessun Rohingya. Il mese scorso, l’organizzazione Medici senza frontiere ha invece stimato in almeno 6.700 le vittime in quattro mesi.

Nello stesso giorno in cui l’esercito ammette una parte delle sue colpe, l’Unicef ha diffuso i dati sugli effetti di queste rappresaglie sui minori. Il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia stima che “dall’inizio delle violenze nello stato di Rakhine, in Myanmar, ad agosto, 655 mila persone, la maggior parte delle quali Rohingya, hanno attraversato il confine settentrionale verso il Bangladesh, mentre nella zona centrale dello stato di Rakhine oltre 120 mila sono rimasti bloccati dal 2012 in squallidi campi profughi, e ulteriori 200 mila vivono in villaggi in cui la loro libertà di movimento e l’accesso ai servizi di base sono sempre più limitati. In tutto questo, più di 60 mila bambini sono dimenticati nel Rakhine” si legge nella nota.




Gino Quarelo

Solo legittima difesa:
“Alcuni abitanti del villaggio di Inn Din e alcuni membri delle forze di sicurezza hanno ammesso di aver ucciso dieci terroristi bengalesi” si legge nel post. Le uccisioni dei “terroristi bengalesi“, nella versione dell’esercito, sono state una rappresaglia dei militari e di buddisti locali dopo che i Rohingya avevano ucciso dei buddisti in un villaggio. “L’incidente è avvenuto perché i residenti buddisti erano stati minacciati e provocati dai terroristi”, conclude il comunicato.
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