El manicomio de Rovigo

Re: El manicomio de Rovigo

Messaggioda Berto » gio dic 15, 2016 9:00 pm

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: Manicomi

Messaggioda Sixara » ven dic 16, 2016 11:12 am

Le foto de G. Berengo Gardin :

Immagine

Morire di classe

Guardatele con attenzione perché queste immagini sono una parte della storia italiana. Una storia per decenni dimenticata. Vicende di uomini e donne che sono stati solo fantasmi. Queste sono le foto che nessuno avrebbe voluto vedere, quelle che per la prima volta permisero agli italiani di aprire gli occhi sulla spaventosa ingiustizia della realtà manicomiale. Era il 1969 e Franco Basaglia aveva già cominciato la battaglia per la chiusura dei manicomi. "Morire di classe", il reportage realizzato da Gianni Berengo Gardin insieme a Carla Cerati, diede un contributo fondamentale alla costruzione del movimento d'opinione che avrebbe portato, nel 1978, all'approvazione della legge 180/78. Scatti che, a 40 anni di distanza, mantengono immutata la loro carica di indignazione e ci invitano a non chiudere, mai, gli occhi.
Avatar utente
Sixara
 
Messaggi: 1764
Iscritto il: dom nov 24, 2013 11:44 pm

Re: El manicomio: storie

Messaggioda Sixara » ven dic 16, 2016 12:26 pm

Ke fàce gà-li i màti? ke storie gà-li - pardedrio - i màti?

Immagine
(foto G. Berengo Gardin)

e le màte?

Immagine
(foto GBG)

Cusì la Merini la fà el so racconto del manicomio:

«Quando venni ricoverata per la prima volta in manicomio, ero poco più di una bambina, avevo sì due figlie e qualche esperienza alle spalle, ma il mio animo era rimasto semplice, pulito, in attesa che qualche cosa di bello si configurasse al mio orizzonte; del resto, ero poeta e trascorrevo il mio tempo tra le cure delle mie figlie e il dare ripetizione a qualche alunno, e molti ne avevo che venivano e rallegravano la mia casa con la loro presenza e le loro grida gioiose.
Insomma, ero una sposa e una madre felice, anche se talvolta davo segni di stanchezza e mi si intorpidiva la mente. Provai a parlare di queste cose a mio marito, ma lui non fece cenno di comprenderle e così il mio esaurimento si aggravò e, morendo mia madre, alla quale io tenevo sommamente, le cose andarono di male in peggio, tanto che un giorno, esasperata dall’immenso lavoro e dalla continua povertà e poi, chissà, in preda ai fumi del male, diedi in escandescenze e mio marito non trovò di meglio che chiamare un’ambulanza, non prevedendo certo che mi avrebbero portata in manicomio.

Fu lì che credetti di impazzire

Ma allora le leggi erano precise e stava di fatto che ancora nel 1965 la donna era soggetta all’uomo e che l’uomo poteva prendere delle decisioni per ciò che riguardava il suo avvenire.

Fui quindi internata a mia insaputa, e io nemmeno sapevo dell’esistenza degli ospedali psichiatrici perché non li avevo mai veduti, ma quando mi ci trovai nel mezzo credo che impazzii sul momento stesso: mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto molta fatica a uscire.

Mi ribellai. E fu molto peggio
La sera vennero abbassate le sbarre di protezione e si produsse un caos infernale. Dai miei visceri partì un urlo lancinante, una invocazione spasmodica diretta ai miei figli e mi misi a urlare e a calciare con tutta la forza che avevo dentro, con il risultato che fui legata e martellata di iniezioni calmanti.
Non era forse la mia una ribellione umana? Non chiedevo io di entrare nel mondo che mi apparteneva? Perché quella ribellione fu scambiata per un atto di insubordinazione? Un po’ per l’effetto delle medicine e un po’ per il grave shock che avevo subito, rimasi in istato di coma per tre giorni e avvertivo solo qualche voce, ma la paura era scomparsa e mi sentivo rassegnata alla morte.

Dopo qualche giorno, mio marito venne a prendermi, ma io non volli seguirlo. Avevo imparato a riconoscere in lui un nemico e poi ero così debole e confusa che a casa non avrei potuto far nulla.
E quella dissero che era stata una mia seconda scelta, scelta che pagai con dieci anni di coercitiva punizione. Il manicomio era sempre saturo di fortissimi odori. Molta gente addirittura orinava e defecava per terra. Dappertutto era il finimondo. Gente che si strappava i capelli, gente che si lacerava le vesti o che cantava sconce canzoni.
Noi sole, io e la Z., sedevamo su di una pancaccia bassa, con le mani raccolte in grembo, gli occhi fissi e rassegnati e in cuore una folle paura di diventare come quelle là.
In quel manicomio esistevano gli orrori degli elettroshock Ogni tanto ci assiepavano dentro una stanza e ci facevano quelle orribili fatture. Io le chiamavo fatture perché non servivano che ad abbrutire il nostro spirito e le nostre menti. La stanzetta degli elettroshock era una stanzetta quanto mai angusta e terribile; e più terribile ancora era l’anticamera, dove ci preparavano per il triste evento.
Ci facevano una premorfina, e poi ci davano del curaro, perché gli arti non prendessero ad agitarsi in modo sproporzionato durante la scarica elettrica. L’attesa era angosciosa. Molte piangevano. Qualcuna orinava per terra.
Una volta arrivai a prendere la caposala per la gola, a nome di tutte le mie compagne. Il risultato fu che fui sottoposta all’elettroshock per prima, e senza anestesia preliminare, di modo che sentii ogni cosa. E ancora ne conservo l’atroce ricordo».
Alda Merini
scritto per OK La salute prima di tutto nel maggio 2006

e cuà so fiòla la conta de so mama:

«Di noi quattro sorelle, io sono la maggiore – nata nel 1955 – e quella con più ricordi. Fino ai miei 6 o 7 anni la vita in famiglia era stata abbastanza gradevole, con momenti belli e dolci. Ma dopo la nascita di Flavia, nel 1958, nostra madre andò in depressione e non le restò abbastanza energia per dare a mia sorella le attenzioni che chiedeva. Flavia fu mandata a vivere per dei periodi dalla nonna materna, e lì cominciò la sua difficile vita di figlia a singhiozzo.
«Il punto di non ritorno, quando la mamma si ammalò davvero, arrivò nel 1966. Io avevo 11 anni, Flavia 8, Barbara e Simona non erano ancora nate. Mio padre, che era un uomo molto chiuso, un giorno disse che usciva per andare a un funerale e tornò dopo due giorni. Non abbiamo mai saputo dove sia stato. Mia madre fu presa da una terribile ansia, lo cercò disperatamente e, quando papà tornò, gli chiese conto di dove era stato. Lui non rispose, scoppiò una scenata violentissima.
«Mio padre non seppe gestire il litigio. Invece di calmarla, chiamò qualcuno al telefono: non abbiamo mai saputo chi. Poi portò me e Flavia dalla portinaia, risalì e poco dopo sentimmo nostra madre che gridava mentre la trascinavano giù per le scale. La sera stessa papà ci portò a Torino, da parenti che quasi non conoscevamo. In poche ore era sparita la nostra famiglia, non avevamo più una casa e nemmeno dei genitori. Quando ci penso, sento dentro le stesse sensazioni di allora: terrore, disperazione, senso di impotenza».

Tu insegui le mie forme,
segui tu la giustezza del mio corpo
e non mai la bellezza
di cui vado superba.
Sono animale all’infelice coppia
prona su un letto misero d’assalti,
sono la carezzevole rovina
dai fecondi sussulti alle tue mani,
sono il vuoto cresciuto
sino all’altezza esatta del piacere
ma con mille tramonti
alle mie spalle:
quante volte, amor mio,
tu mi disdegni.
(Dies Irae, dedicata dalla Merini a suo marito nel 1953)

Eh insoma el parlava poco, so marìo de l Alda; el ghe ga dito ke l ndaxea a on funerale e l è tornà dopo du dì. Kisà còsa ke l avarà pensà, ela, par ela sola co do putìne, n caxa spetarlo. Co l è tornà la ghe ga domandà e lu - gnente. Nol parlava kel òmo, poco o gnente: non trovò di meglio che chiamare un’ambulanza, non prevedendo certo che mi avrebbero portata in manicomio. - la se ricorda la Alda.
Avatar utente
Sixara
 
Messaggi: 1764
Iscritto il: dom nov 24, 2013 11:44 pm

Re: El manicomio de San Sèrvolo

Messaggioda Sixara » lun gen 30, 2017 10:59 am

L è on bel posto l ixola de San Sèrvolo: a me ricordo na jornata de primavera tuta de òro e de azùro, pareva gnanca de stare te on manicomio. forse no ghe pareva gnan luri.
A San Sèrvolo, el 9 de otobre 1998 i ga fato on convegno so Psichiatria e Nazismo parké anca S.Servolo, come altri manicomi de Italia, el ga vù i so mati-ebrei deportati te i Lager nazisti.

Segnalo, da p. 61, La deportazione ebraica dagli ospedali psichiatrici di Venezia nell'ottobre
1944. Storia e contenuti
de Angelo Lallo e Lorenzo Toresini e, da parte tedesca, la riflesion de Michael von Cranach so La psichiatria nel periodo del Nazionalsocialismo.

La deportazione ebraica dagli ospedali
psichiatrici di Venezia nel 1 'ottobre 1944.
Storia e
contenuti
Angelo Lallo e Lorenzo Toresini (Portogruaro)

1. Premessa
Dopo oltre 50 anni dalla fine del nazifascismo si era sperato che il germe
dell'odio e della violenza fosse stato debellato alla radice.
Così non è stato poiché la ricca Europa di fine millennio, l'Europa
teoricamente pacificata trova difficoltà a fermare i sentimenti di odio e razzismo
che provocano, fatalmente, tensioni politiche, sociali e razziali.
Tuttavia, se non possiamo cambiare il senso della Storia, possiamo
"ricordare" alle nuove generazioni che Coloro che non si ricordano del passato sono condannati a riviverlo e che il passato non deve essere dimenticato.
Sicuramente hanno rivissuto il passato le popolazioni della Bosnia con le
atrocità di pulizia etnica, dei campi di concentramento che pensavamo non più
possibili.
Per evitare un'altra Bosnia, altre Shoah, tutti i saperi devono collaborare per
far sì che l'imperativo di essere testimoni attivi della democrazia entri nel codice
genetico dell'uomo contemporaneo.
In questa prospettiva, dopo la riscoperta di alcuni frammenti di olocausto
psichiatrico in Italia, presentiamo una ricerca su un caso di deportazione di
pazienti ebrei dall' 0spedale psichiatrico di San Servolo (Venezia), convinti che
è necessario approfondire queste ricerche nel nostro paese.
Il quesito da porre, in senso più generale è necessario è quanto la psichiatria nazista si
colleghi con alcuni presupposti teorici della psichiatria istituzionale; se in sostanza
si è in presenza dello stesso paradigma.

2. Dalle leggi razziali ai campi di concentramento
Venezia l939-1944

Nel 1937 i responsabili della Comunità Ebraica di Venezia, pur obbligati
a tranquillizzare i correligionari sul fatto che nulla sarebbe cambiato nella
normalità quotidiana, erano preoccupati per l'atteggiamento governativo che
stava diventando poco tollerante verso gli ebrei.5
Uno dei paradossi del Fascismo, la cui ideologia conteneva presupposti
razzisti, emerge con chiarezza dal fatto che, dopo l'avvento del Nazismo in
Germania, esso continuò, contemporaneamente al varo di leggi contro gli ebrei
italiani, a permettere pubblicamente l'accesso su territorio nazionale agli ebrei esuli. Era una permissività che serviva al regime, non solo come veicolo
promozionale nei confronti della stampa estera, ma anche ad occultare la mancanza
di democrazia interna.
Nel 1938 il regime promulgò le leggi antiebraiche con il titolo:
"Provvedimenti per la difesa della razza italiana", che colpirono tutti gli ebrei
residenti sul territorio italiano, compresi gli stranieri e quelli che nel frattempo
erano diventati apolidi. Per costoro si prevedeva l'espulsione se non avessero
abbandonato l'Italia entro il 12 marzo 1939.
...

La dott.ssa M. C. Cortesi testimonia, a proposito di San Servolo, che pochi
ebrei erano ricoverati; che la direzione del manicomio non poteva ricevere altri
ospiti, per tentare di salvarli, principalmente per il gran afflusso di parenti in isola
e poi perché i registri erano severamente controllati.
...
La mattina del 1 ottobre 1944 quando si presentarono i militari italiani,
nel manicomio erano presenti circa trenta giovani "partigiani" (secondo il relatore
della testimonianza erano renitenti alla leva) che accusavano finti disturbi psichici.
Costoro non furono presi in considerazione poiché l'attenzione dei militari era
indirizzata verso i pazienti ebrei, in precedenza avvisati dal direttore dell'ospedale
psichiatrico del pericolo che avrebbero potuto correre. I pazienti non seguirono i
consigli del direttore Cortesi, ad eccezione di R. A. che "fu l'unica che si oppose
con tutte le sue forze facendo la pazza pericolosa che fece scappare le SS. e la spia
tedesca terrorizzata. La signora R. A. aveva seguito le indicazioni del prof. Cortesi
eseguendo la messa in scena perfettamente".57
Gli altri, inconsapevolmente secondo la dott.ssa M. C. Cortesi, seguirono
"con gioia gli aguzzini, felici di andare in Germania. Dal confine mandarono una
cartolina al prof. Cortesi comunicandogli che erano in viaggio per la grande
Germania".5~

R. A. la ga fato la pazza pericolosa e la i ga fati scapare-via, le SS e la spia austriaca... :D
manco male ke ogni tanto - n mèzo le trajedie - a ghè anca motivo par rìdare.

Coalke dato n più so la R. A. ke l è sta bòna de terorizare SS e spia tedeski: http://www.cartedalegare.san.benicultur ... a-1944.pdf

R.A.
entrata a San Servolo il 2/12/1943
anni: 53
nascita: Venezia
provenienza: famiglia
religione: ebraica
stato civile: nubile
stato economico: povera
recidive: due recidive future, una una nel 1960 e una nel 1964
diagnosi: “stato distimico in psicoastenica”

Osservazioni dal diario clinico e documenti amministrativi:
- 3 dic. 1943, anamnesi del primario: “… non ha mai sofferto malattie importanti e nemmeno ha
dato segni in passato di un visibile turbamento mentale. Da qualche tempo (qualche anno) in
relazione con l’attuale stato di emergenza e con il disagio fisico e morale procedente da esso,
l’inferma ha cominciato a presentare sintomi di una costituzione paranoica, rinverdita di idee
persecutorie molto vivaci, insonnia, contegno strano e ostile. La vita in società divenne per
l’inferma presto impossibile” Si confronti l’anamnesi redatta dallo stesso primario per il paziente
G. R. Anche in quel caso si metteva esplicitamente in relazione l’apparire, o l’acutizzarsi dei
sintomi mentali con la situazione politica.
Diario clinico: “E’ entrata ieri mattina. All’ ingresso era un po’ inquieta e dominata da un senso di
ansia. Lucida e perfettamente orientata nel tempo, nello spazio e nella persona. Alle domande
risponde a tono e prontamente. E’ depressa di umore… Racconta con prolissità la sua situazione e
chiede che le si venga incontro con comprensione… Dice di dormire poco durante la notte e di far
dei sogni terribili. E’ diffidente”; 5 dic. 1943: “…E’ sempre preoccupata per la sua sorte e dice di
essere sotto l’incubo di disgrazie”. 11 dic.: “Depressa di umore. Chiede protezione e implora che la
si salvi”; 15 set. 1944: “Da qualche giorno è nuovamente depressa, sconfortata, vede tutto tetro e
invoca la morte”; 7 ott.: “Continua ad essere depressa con crisi di inquietudine ansiosa …”; 12 ott.:
“Depressa con crisi di intensa inquietudine e agitazione violenta. L’altra mattina [cioè l’11 ottobre,
1944, giorno della deportazione degli altri pazienti ebrei] dopo un’iniezione sedativa ha avuto un
collasso di lunga durata. Insonne”;
- 30 aprile 1944: “Dimessa per guarigione”.

Brava R. A. ke, almanco fin a l 64, la ga canpà la so vita o cuea ke ga riesesto de fare.

Kisà ke fàcia ke la ghea la R. A. ( o ke la ga fato, co el fotografo ghe ga fato la fotografia in ingrèso a el manicomio)... kisà se la ghè anca éla fra le tante mése n mostra da l artista norvejexe Anne-Karin Furunes tel so Back to Light :: fàce da màte.
Avatar utente
Sixara
 
Messaggi: 1764
Iscritto il: dom nov 24, 2013 11:44 pm

Re: El manicomio de Rovigo

Messaggioda Berto » mer feb 01, 2017 10:51 pm

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: El manicomio: la storia de Ida e Benito

Messaggioda Sixara » gio feb 02, 2017 11:12 am

La mussolina i ghe dixea a Ida Irene Dalsèr e sta
cuà la so storia, soa e de so fiòlo Benito Albino Mussolini:

Un giornalista di Trento indaga per anni e ricostruisce una terribile odissea sulla
quale gli storici non avevano mai fatto chiarezza. I documenti più importanti
erano nascosti dentro un gallo cedrone impagliato. Si chiamava Ida Dalser. Fu
lei a dargli i soldi per fondare “Il Popolo d’Italia”. Nel ’14 il futuro capo del
fascismo la porta all’altare. L’anno dopo nasce Benito Albino, riconosciuto in
tribunale. Ma a un mese dal lieto evento si celebrano in segreto le nozze civili
con Rachele Guidi. Ignare del sotterfugio, le due mogli si prendono per il collo
davanti al marito ferito. Nel ’25 la trascrizione del primo matrimonio viene
strappata “da gente interessata”. Quello stesso anno il Duce sposa Rachele
anche religiosamente: un’unione sacrilega e nulla. Ida Dalser è rinchiusa in
manicomio Lucida sino alla fine, profetizza la data della caduta del dittatore. Il
figlio viene rapito. Lo mettono in collegio, dove lo zio Arnaldo Mussolini va a
trovarlo. I comandi militari lo danno per caduto in uno scontro navale nel
Tirreno. Invece nel ’35 finisce nell’ ospedale psichiatrico di Mombello, dove
muore sano di mente il 26 agosto ’42. La sua prima fidanzata vive ancora a
Trento. Da piccolo andava a bottega e diceva: “Passerà a pagare mio papà
Benito”
Autore
Stefano Lorenzetto
Avatar utente
Sixara
 
Messaggi: 1764
Iscritto il: dom nov 24, 2013 11:44 pm

Re: El manicomio de Rovigo: contabilità

Messaggioda Sixara » mar mag 09, 2017 7:47 pm

La documentazion clinica de l O.P. de Rovigo la se càta a l Archivio de Stato; on Archivio Generale par Anno co i ricoverati, dimessi, morti el manca ( forse i se lo ga perso o nol ghe xe mai stà). Se pòe solo consultare la Busta Maschi/ Femmine Dimessi e la Busta Maschi/Femmine Morti col nùmaro progr. partendo da l àno I, 1930 fin l àno 1943, ke xe l oltemo àno consultabile pa via de la leje so i 70 àni.

CARTELLE DIMESSI E DECEDUTI, maschi e femmine, 1930-1933 :
" Abbiamo sfogliato le cartelle... dal 1930 al '33 alla ricerca di documenti interessanti sul piano umano e storico sociale.
Dalle cartelle cliniche esce il quadro di una società, interna all'Ospedale ed esterna ad esso, poverissima :
gli uomini risultano quasi tutti analfabeti, fanno lavori di bracciantato quando li trovano, sono quasi sempre dediti al vino; Le donne sono sfiancate dalle numerose gravidanze, malate di tubercolosi, di pellagra e pediculosi, denutrite, prive di diritti e del tutto succubi di padri e mariti. L'Ospedale era usato più come asilo per derelitti, compresi i bambini con handicap fisici e mentali e gli anziani con demenze, che come luogo dedicato alle patologie psichiatriche. Vi era una fortissima pressione ambientale al ricovero, mentre il Direttore incontrava grandi difficoltà quando le persone, migliorate o guarite, erano in dimissione, perché molte famiglie rifiutavano di riprendere i loro congiunti."

(da Un altro mondo - Racconti del manicomio, a cura di viachiarugi 135, Archivio di Stato- Provincia di Rovigo, 2009)


BAMBINI - SOTTONATI MALATI
Tre bambini, di 5, 7, 8 anni vengono 'ammessi' per ' idiozia' e 'frenastenia', collocati provvisoriamente al reparto femminile e poi trasferiti all'Istituto Medico-Pedagogico di Thiene.
El primo putìn, cuéo de 5 àni : D.L di Taglio di Po, accolto dapprima al S.Servolo, proveniente dalla famiglia : " il padre riferisce che il b. non ha mai pronunciato nemmeno una parola e che non ha dimostrato di presentare l'udito. Non ha presentato mai affezione verso i genitori che non distingueva da altre persone; non distingueva neanche i pericoli tanto che , in questi ultimi tempi, onde evitare disgrazie, veniva tenuto costantemente a letto...". La relazione conclude : Diagnosi : Idiozia.
Putìni-dòne : i soggetti più svantaggiati, anche in Manicomio.
" Era un mondo povero, ma le donne erano ancora più povere e derelitte : prive di diritti, in balìa delle convinzioni e degli umori degli uomini della famiglia, vittime della cultura dell'epoca, spesso fisicamente malate e per questo colpevolizzate. Donne stigmatizzate per una gravidanza 'illegittima', rifiutate dal marito perché ritenute non-vergini, donne provate dalle gravidanze imposte nonostante soffrano di tubercolosi o malaria, donne inviate al manicomio perché abbandonate dal fidanzato, e questo all'epoca, specialmente nei paesi, equivaleva alla morte civile".
( Un altro mondo,2009)

Insoma tuto jrava intorno la sesualità de le dòne: al manicomio te podevi finirghe tanto par on stato 'iper-sessuale' ke par uno 'ipo-sessuale'. Lori i savéa còsa ke jera bèn par ti.

Vardando la 'contabilità' de le Donne morte 1942 ( 24) a se vede ke le dòne le jera : Stato civile : 9 coniugata, vedova 7, nubile 5, non registrata 3. Occupazione : casalinga 20, contadina 2, domestica 1, nessuna 1. Stato economico : povera 18, buono 2, nessuno 4. Grado cultura : alfabeta 4, analfabeta 5, 3a elementare 2, sa leggere e scrivere 2, 5a elementare niente 10. Età : fra 20 e 77.
Diagnosi : demenza senile,demenza paranoide, stato depressivo, stato di eccitamento,psicosi, frenosi, amenza.
Dentro a ghè anca el caxo de V.J., ammessa nel 1932, all'età di 24 a., 'nubile-casalinga-povera', con diagnosi 'Demenza precoce', morta nel 1943 per 'Tubercolosi polmonare a-sistolica'.
Avatar utente
Sixara
 
Messaggi: 1764
Iscritto il: dom nov 24, 2013 11:44 pm

Re: El manicomio de Rovigo: la Jones

Messaggioda Sixara » mar mag 09, 2017 8:01 pm

Pòra Jones, dal nome cusì stranbo. No i xe gnàn bòni de scrivalo te la so documentazion : na 'olta i lo skrive 'Joine', nantra 'Jomes' o anca 'Jome'.. 'l'alienata Jones, la maniaca Joine'. Nata a Bagnolo di Po, domiciliata a S.Bellino, ricoverata a 24, morta a 34 : na dòna par exenpio.
On caxo de 'stato di ipo-sessualità' o cusì el scrive el medico, dott. G.Conte, te l anamnesi al p.14. ( le osservazioni particolari che ... possano venire notate dal criterio o dalla sagacia del medico) : " Secondo il mio parere il male sta in un fondo iposessuale". Davvero molto sagace il dott. Conte. Forse el fa on colegamento col p.2 ( notizie sulla comparsa della pubertà e relativo alla vita sessuale ( onanismo, mestruazione, gravidanze, epoca critica) indoe ke l scrive : " mestruata a 17 anni - insensibilità sessuale : non ha mai accolto bene il fidanzato".
male-malissimo, pòra Jones.
Elora, la J. a 17-18 la mostra de èsare 'insensibile', a 19 la scumizia dare i primi segni de la so matìxia : al p. 4 ( se abbia mostrato in anomalie del carattere, in abitudini insolite, in idee bizzarre, in tendenze ad atti strani una tendenza alla pazzia...) el scrive : " normale fino a 5 anni fa ( 1927) poi in crescendo giunge allo stato attuale". A 21àni la scumizia dare i primi segni : " disturbi di tipo depressivo". L è fisà sto dotore : al p. 8 ( quali momenti eziologici si creda aver potuto provocare o favorire lo sviluppo della pazzia) : iposessualismo. Danòvo.

Ciò come faxevelo saverle ste robe el dotore? ghe lo gà dito el moroxo, la fameja, la J. o l è na idea ke l s à fato lù? Dògnimodo 4 mexi prima del ricovaro ( al p.9 : quando e come la famiglia e i conoscenti si siano accorti di cambiamenti nei sentimenti, nelle abitudini, nelle idee del malato) la J. la fa na roba ke no la dovea : " interrompeva il lavoro fissandosi su idee persecutive".
Senpre el p. 9 :Specificare... quali siano le manifestazioni principali della pazzia. Sentimenti morbosi, idee pazzesche, preoccupazioni e aspirazioni strane; atti anormali - da rilevare specialmente se di scandalo o pericolo altrui -, e se vi sono tentativi di suicidio:
: Idee di persecuzione a fondo religioso, desiderio di ritornare nella grazia di Dio. Minaccia di uccidere e di uccidersi. Discorre da sola come se avesse delle visioni o delle allucinazioni .
La discore da ela-sola? la 'àsa lì de laorare e la dixe ke la voria coparli tuti ( e po dopo coparse) ?
P.12 : Se l'ammalato si debba giudicare pericoloso a sé e agli altri o di pubblico scandalo e non possa essere convenientemente custodito fuorché in un Manicomio :
" E' pericolosa a sé e agli altri , tanto che il sottoscritto non può assumersi la responsabilità di sorvegliarla." Bravo dott. Conte.
Avatar utente
Sixara
 
Messaggi: 1764
Iscritto il: dom nov 24, 2013 11:44 pm

Re: El manicomio de Rovigo

Messaggioda Berto » mar nov 28, 2017 9:55 am

"Libertina, snaturata, irosa" - Storia delle donne internate in manicomio durante il fascismo

https://www.vice.com/it/article/53mm7d/ ... i-fascismo

Tutte le foto e i materiali d'archivio per gentile concessione della Fondazione Università degli Studi di Teramo.

Mentre in Italia restano da chiudere ancora due Opg—gli ospedali psichiatrici giudiziari tristemente famosi per la loro lunga storia di condizioni disumane di degenza—e si fanno tentativi di ristrutturare l'istituzione dalle fondamenta, dal passato delle cure psichiatriche del nostro paese continuano a emergere terribili testimonianze.

Durante il Ventennio fascista, per esempio—complice l'ampliarsi della categoria della "devianza" morale e sociale—i manicomi si riempirono di donne accusate di essere libertine, indocili, irose, smorfiose o, soprattutto, madri snaturate. I ricercatori Annacarla Valeriano e Costantino Di Sante hanno passato al vaglio i documenti del manicomio cittadino di Sant'Antonio Abate, uno degli storici luoghi di trattamento dei disturbi psichici e custodia di persone sgradite alla società, per raccontare le vite delle donne che vi erano recluse durante quel periodo. Ora foto, lettere e cartelle cliniche dell'archivio dell'istituto sono esposte in una mostra in corso alla Casa della Memoria e della Storia di Roma.

Ho contattato Annacarla Valeriano, della Fondazione Università degli Studi di Teramo, per parlare di devianza, ospedali psichiatrici e foto segnaletiche.

Tutte le foto e i materiali d'archivio per gentile concessione della Fondazione Università degli Studi di Teramo.

VICE: Per cominciare, da dove nasce l'idea di questa ricerca?
Annacarla Valeriano: L'idea nasce da un progetto molto più ampio della Fondazione Università degli Studi di Teramo, che nel 2010 ha iniziato a valorizzare le memorie del Manicomio Sant'Antonio Abate, che si trova al centro della città, è stato fondato nel 1881 ed è rimasto aperto fino al 1998.

Nel corso di svariati anni passati in archivio ho analizzato circa 7.000 delle 22.000 cartelle cliniche di uomini e donne ricoverati dal 1881 al 1945, facendo confluire una prima parte del lavoro—fino al 1931—nel libro Ammalò di testa. Storia del manicomio di Teramo. Sono poi tornata una seconda volta in archivio per concentrarmi sulle donne internate durante il Ventennio fascista.

Come mai ha scelto proprio questo particolare gruppo? C'era qualcosa di distintivo della situazione delle donne internate durante il Fascismo?
Durante il periodo passato in archivio mi ero accorta che sul frontespizio delle cartelle cliniche relative alle donne in epoca fascista cominciavano a comparire le foto delle pazienti. Prima era una pratica molto rara, ma durante il Ventennio era diventata diffusa—mentre, contemporaneamente, un concetto di "devianza" più ampio rispetto alla morale fascista faceva sì che le donne internate fossero sempre di più. Così ho deciso di approfondire il concetto di devianza femminile.

La foto veniva allegata con una funzione "lombrosiana", come a voler riscontrare nei tratti somatici la figura della malattia mentale?
Sì, ma bisogna tenere presente che il regime non ha inventato nulla di nuovo, sia per quanto riguarda il principio della fotografia psichiatrica—già diffusa da fine Ottocento—sia per quanto riguarda i modelli positivisti in cui si incardina lo stereotipo della donna deviante. Secondo i principi positivisti di derivazione lombrosiana, si potevano riconoscere la devianza e la malattia mentale nei tratti fisici: nello sguardo, nell'asimmetria del volto, in uno zigomo diverso dall'alto. Ma c'era anche una ragione sociale, quella di descrivere la devianza per renderla riconoscibile e dunque controllabile—se una di queste donne fosse fuggita, si poteva rintracciarla attraverso la foto segnaletica.

Quali erano le "patologie", le ragioni principali per cui le donne venivano internate?
Diciamo che nel carnaio del manicomio venivano internate varie tipologie di donne devianti. La categoria principale è quella delle cosiddette madri snaturate, ovvero coloro che non hanno saputo assolvere a quel ruolo materno su cui la propaganda martellava, perché già a partire dal discorso dell'ascensione del 1925 Mussolini aveva affermato che l'unico ruolo della brava donna fascista era quello della madre. E in manicomio finiscono tutte quelle donne che non sono riuscite ad andare fino in fondo a quel ruolo.

Da quali ceti sociali venivano queste donne, e in che modo si stabiliva che non assolvessero ai propri compiti?
Parliamo di donne della classe contadina, di un ceto basso che sfiorava spesso condizioni miserabili. Il manicomio attingeva le sue pazienti da una società rurale che in quegli anni era completamente destrutturata, nonostante i proclami di Mussolini riguardanti il ritorno idillico al mondo rurale e la figura della massaia rurale. Erano donne che avevano avuto magari dieci, 12, 14 figli, e che contemporaneamente dovevano svolgere i ruoli di madre, donna di casa e lavoratrice nei campi. Quando, oberate, davano segno di esaurimento nervoso—dovuto anche alla malnutrizione e all'assoluta indigenza in cui vivevano—o non riuscivano a prestare ai figli o al marito le attenzioni necessarie, venivano etichettate come "contro natura". La stessa etichetta veniva affibbiata alle donne che soffrivano di depressione post partum o manifestavano la volontà di non volere più o non volere proprio figli.

E per quanto riguarda la devianza sessuale? Mi diceva che non erano tanto le prostitute a finire internate, dato che all'epoca c'erano le case chiuse, quanto piuttosto donne che si manifestavano particolarmente "libertine".
Sì, anche se alcune internate potevano essere prostitute, questo era "ininfluente" a livello di quadro clinico, perché il regime aveva altri metodi di contenimento della prostituzione. Il problema per cui finivano in manicomio, in quei casi, era piuttosto la sifilide. Ma soprattutto c'era il problema delle donne e delle ragazze che si sottraevano ai ruoli sociali e alla potestà famigliare o fraterna, alcune delle quali manifestavano anche esuberanza sessuale—erano ragazze ribelli che dovevano essere ricondotte all'ordine.

Ha trovato delle storie che l'hanno colpita in modo particolare, o ha avuto modo di ricostruire qualche vicenda più straziante delle altre?
Sono affezionata a varie storie—contrariamente a quello che dovrebbe fare il ricercatore quando si avvicina a un oggetto di studio, non ho potuto fare a meno di sentirmi presa da questo vero e proprio archivio del dolore. Le cose più toccanti sono proprio le parole delle degenti, che abbiamo avuto modo di leggere dato che nelle cartelle cliniche sono raccolte le lettere che le donne—le poche alfabetizzate—scrivevano alle famiglie o alla direzione della clinica, e che poi venivano sottoposte a censura preventiva, mai spedite e allegate alla cartella clinica.

Sono spesso appelli accorati alla famiglia per essere riprese in casa, oppure alla direzione del manicomio per essere dimesse; o ancora scritti in cui raccontano la loro vita, le giornate interminabili, sempre uguali, i soprusi, il controllo, il cibo che non basta mai, il vestiario inadeguato.

Ma chi chiedeva il loro internamento, sapendo che non doveva essere un'esperienza piacevole?
Erano le famiglie stesse che chiedevano alle istituzioni manicomiali di curare la propria congiunta, per riportarla ai ruoli che aveva abbandonato—per farla tornare in sé. Il ricovero coatto di "persone alienate pericolose a sé e agli altri e di pubblico scandalo" era regolamentato dalla legge numero 36 del 1904. Di solito era appunto la famiglia a segnalarle, e allora il sindaco con l'indicazione del medico condotto poteva ordinare l'internamento—non tanto diverso dai moderni TSO. Poi, nel 1968, la legge Mariotti ha introdotto la possibilità di ricovero volontario.

Quindi l'ospedale psichiatrico era visto effettivamente come luogo di cura—cioè, l'opinione pubblica aveva fiducia in esso?
Sì, se per cura si intende quello che si intendeva all'epoca. Una finalità fondamentale dei manicomi, allora, era la custodia degli alienati, ovvero delle persone che manifestavano anomalie di comportamento. Un tratto che si coglie nella stragrande maggioranza delle cartelle cliniche di quegli anni è quella di assimilare le anomalie del comportamento a un problema psichico. Un uomo che non aveva voglia di lavorare era disturbato, così come una donna libertina veniva tacciata di "immoralità costituzionale"—che, si capisce dalla formulazione stessa, è una diagnosi che attinge alla sfera morale e non a quella psichica. In molti casi, prima dell'arrivo nel 1952-53 degli psicofarmaci, l'isolamento e la custodia erano considerati di per sé una cura.

Ma a parte la custodia, quali erano le cure che venivano somministrate?
Se ne sono avvicendate diverse: a fine Ottocento vi era una concezione della malattia mentale come scompenso fondamentalmente organico che si cercava di risolvere con bagni caldi e freddi e con la cosiddetta "terapia del riposo", che consisteva nel tenere le persone legate al letto per lunghi periodi. Ma gli anni del fascismo sono anni di maggiore sperimentazione, in cui si cominciano a usare la malarioterapia, l'insulinoterapia e, a partire dal 1938, l'elettroshock.

In cosa consistono la malarioterapia e l'insulinoterapia?
Sono inoculazioni funzionali a provocare shock organici. Inoculando la malaria nei pazienti psichiatrici, per esempio, si provocavano accessi febbrili fortissimi, con picchi di 42 gradi, che potevano portare al risveglio dalla catatonia o uno shock seguito da repentino abbassamento della temperatura corporea, e quindi a una remissione dalla mania. Ovviamente, erano sperimentazioni molto rischiose che non tutti tolleravano bene—anche perché a volte avvenivano per due-quattro settimane di fila.

Ma dai manicomi si usciva?
Sì, le cartelle cliniche infrangono lo stereotipo culturale che vuole che dai manicomi non si uscisse più. In realtà erano istituzioni porose: ho riscontrato tanti casi di persone internate e rilasciate più volte, che entravano per cure di qualche mese, poi uscivano, poi rientravano. Ma questo dipendeva sempre dal fatto che all'esterno ci fosse una famiglia disposta a riprenderle, che si prendesse la responsabilità di badare a loro. I casi di persone morte in manicomio o che ci hanno passato 50-60 anni sono legati all'assenza di parenti disposti a riprendersele.

Immagino che per le famiglie fosse anche vissuto come stigma sociale l'avere una madre, una sorella o una figlia internata in manicomio, o appena uscita.
Assolutamente sì, una volta entrate in manicomio queste donne smettevano di essere persone; non solo, perdevano anche tutti i diritti civili: il regime fascista includeva chi veniva internato in manicomio nel casellario giudiziario. Per le famiglie era motivo di grande vergogna avere un parente in manicomio, tanto che con il processo di deospedalizzazione successivo alla legge Basaglia molti sono venuti a sapere di avere parenti anche di primo grado in manicomio di cui non avevano sentito parlare perché la famiglia aveva applicato una vera damnatio memoriae ai loro danni. Nell'ambito del terzo tassello del nostro progetto, legato alle memorie più recenti, medici, infermieri e personale mi stanno raccontando alcuni casi eclatanti.

Alla luce dei suoi studi, e considerati anche i cambiamenti nell'istituzione degli ultimi tempi, ci sono elementi nell'istituzione psichiatrica italiana che ancora la preoccupano?
Tanto è stato fatto. Il problema, ora, è scardinare il pregiudizio per cui le persone con disturbi mentali sono pericolose. Per esempio, la prima cosa che spesso le cronache dicono in caso di un omicidio è che il killer è "uno squilibrato", perché questo ci serve a rassicurarci e deresponsabilizzarci. C'è anche il problema della violenza e dei soprusi nelle strutture, ma a quanto ne so sono casi isolati. E resta aperta ancora oggi la questione degli istituti psichiatrici giudiziari, che secondo me sono un po' quello che resta di quella grande aberrazione che sono stati i manicomi in Italia.

La mostra I fiori del male - Donne in manicomio ai tempi dei fascismo rimarrà aperta fino al 18 novembre alla Casa della Memoria e della Storia di Roma.



Le ragazze madri trattate come pazze - Tempo Libero

http://gazzettadimantova.gelocal.it/tem ... -1.9401811


““Figlie e figli di nessuno”, l’ultimo libro (edito da PresentArsì)di Luigi Benevelli, psichiatra e storico mantovano, scritto con Francesca Baraldi, docente di metodologia della ricerca sociale all’università di Brescia, è stato presentato nell’auditorium della sede universitaria di Lunetta. Con i due autori c’erano Chiara Mortari, università di Brescia sede di Mantova), Maurizio Bertolotti, Istituto mantovano di storia contemporanea e Maurizio Rizzini, università di Verona, metodologia ricerca sociale. Ma è nelle parole dell’ex assessore provinciale Maria Zuccati, intervenuta alla fine della presentazione, che si coglie l’importanza del ponderoso volume. «Questo lavoro risponde a un desiderio espresso tempo fa a Benevelli - afferma Maria Zuccati - quello cioè di raccontare la storia delle donne nei manicomi mantovani e la storia dei bambini illegittimi ed esposti, due vicende che hanno segnato la nostra storia, non solo mantovana, ma due vicende tragiche legate tra di loro. Questo libro racconta una storia che ad oggi è rimasta sepolta, e che gli autori hanno saputo riportare alla luce». Il volume, ha osservato Bertolotti, è uno spaccato di storia locale che fa luce, come insegna la storiografia del ‘900, sulla macro storia. Sulla specificità della ricerca si è soffermato Rizzini, in una dettaglia analisi dei 5 capitoli, soffermandosi molto sull’apparato di dati e numeri ricordato da Baraldi nel suo intervento.

Dal 1863 al 1873 su 27 milioni di italiani censiti, il 7% sono figli illegittimi, dato che va calando fino al 1950 quando si attesta sul 3,4%. Nella provincia di Mantova le percentuali sono ben diverse: nel 1883 il 7,1% di illegittimi che però nel 1924 salgono al 15%. Una delle cause, spiegano Bertolotti e Rizzini, sta nella rotazione dei salariati fra le varie cascine nelle campagne mantovane. Benevelli aggiunge una riflessione alla base del suo lavoro di ricerca. La medicalizzazione delle ragazze madri, addirittura nei manicomi, e dei bimbi nei brofotrofi ha prodotto segregazione e danni psichici permanenti. Non solo nel fisico si vedono i segni di questa politica, ma nella mente dei bimbi che «per essere tenuti buoni» racconta Benevelli, «venivano legati al letto e i segni di questa prassi si vedono poi, da adulti, quando ancora la paura di essere legati tormenta queste persone, per tutta la vita».



I fiori del male. Quelle donne troppo libere rinchiuse nei manicomi d’Italia
di Marco Sarti
18 Novembre Nov 2016

http://www.linkiesta.it/it/article/2016 ... -dit/32422

Un percorso espositivo tra fotografie e referti clinici riporta alla luce storie dimenticate da oltre un secolo. Madri, mogli e figlie internate per immoralità e comportamenti contrari ai valori dell’epoca. In alcuni casi erano vittime della guerra, altre volte di violenze carnali e miseria


I fiori del male

La prima ricoverata si chiamava Antonia. Il giorno in cui entrò nel manicomio Sant’Antonio Abate di Teramo aveva ventisei anni. Internata nel settembre del 1881 con la diagnosi di “idiozia”, morì dopo 14 anni di isolamento a causa di un’infezione acuta della pelle. Così, almeno, c’è scritto sui referti clinici dell’epoca. Nei decenni successivi seguirono la sorte di Antonia centinaia di altre donne. Vittime di patologie mentali, ma non solo. Le storie di quelle esistenze interrotte raccontano ragazze poco allineate ai valori del periodo, mogli poco remissive e vittime di violenze carnali. Figure femminili costrette a pagare oltre misura la propria “diversità”. Grazie all’impegno dell’Università degli studi di Teramo, del dipartimento di salute mentale della Asl e dell’Archivio di Stato del centro abruzzese, tornano alla luce vicende drammatiche dimenticate da oltre un secolo. Il percorso espositivo allestito presso la Casa della memoria di Roma si snoda attraverso fotografie e documenti medici. E con loro i diari e le lettere delle ricoverate, in particolar modo durante gli anni del fascismo. «Volti di donne coperti dal tempo, dimenticati tra carte ingiallite. Sguardi resi opachi dall’abbandono, dal dolore, inghiottiti dalle mura di un luogo che avrebbe dovuto spegnerne le scintille di trasgressività».

I manicomi iniziano diffondersi in tutto il Paese nel corso dell’Ottocento. Sono luoghi di cura, certo. E anche altro. Come spiegano gli esperti, queste strutture rappresentano «la risposta della moderna società borghese nei confronti della follia e degli elementi di incertezza e turbamento che rischiavano di compromettere la stabilità sociale». Nel 1914, alla vigilia del primo conflitto mondiale, nei manicomi italiani sono rinchiusi oltre 50mila pazienti. Inutile dire che lo scoppio delle due guerre mondiali porterà ad accrescere ulteriormente il numero dei ricoverati. Si tratta soprattutto di soldati colpiti da alienazione mentale durante il servizio al fronte. Ma anche civili: donne e anziani vittime dei traumi bellici. Tutti internati, come prescriveva la legge. La n.36 del 1904, che imponeva la custodia nei manicomi per «le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo».

La prima ricoverata si chiamava Antonia. Il giorno in cui entrò nel manicomio Sant’Antonio Abate di Teramo aveva ventisei anni. Internata nel settembre del 1881 con la diagnosi di “idiozia”, morì dopo 14 anni di isolamento a causa di un’infezione acuta della pelle. Così, almeno, c’è scritto sui referti clinici dell’epoca

Il Sant’Antonio Abate di Teramo diventa in breve tempo uno dei manicomi più importanti dell’Italia centro-meridionale. La mostra “I fiori del male” raccoglie le vicende di tante donne ricoverate in questa struttura. Le fotografie e le cartelle cliniche sono un lungo e drammatico percorso di miseria. C’è Margherita F. 30 anni, coniugata, contadina e analfabeta. Entrata in manicomio nel 1903 con una diagnosi di “Frenosi epilettica (pazzia impulsiva)”. «Narra l’inferma - si legge - che dai parenti del marito ricevette delle percosse al capo e che durante questi anni di matrimonio è stata dai medesimi continuamente maltrattata, minacciata, oltraggiata». Rosa D., 60 anni, coniugata, risulta affetta da “Pazzia degenerativa, mania cronica, poi demenza secondaria”. Entrata nel 1892, rimase rinchiusa a Sant’Antonio Abate fino al giorno della morte, giunta diciassette anni dopo. La sua patologia? «Fin da fanciulla mostravasi strana - scrivono i dottori - da giovanetta poi ben presto si manifestò il suo carattere stravagante, girando continuamente per il paese senza badare alla sua famiglia e non curando punto i rimproveri dei parenti». Accanto ai referti clinici, ci sono le lettere delle ricoverate. Grida di dolore e d’aiuto rimaste quasi sempre inascoltate. Nel 1920 la paziente Haidé B. scriveva ai familiari: «Io trovami in questa sezione, tra malate d’ogni genere, tra le sofferenti, tra le asmatiche, tra le dementi, con visi stravolti, con il fetore della notte, da sentirmi difficile la respirazione. Oh questo è troppo, troppo».

Il percorso si concentra sulle storie delle internate durante gli anni del fascismo. Donne che provengono in maggioranza dalle campagne, da povertà e violenze. Mogli, figlie e madri che manifestano spesso «segni di insofferenza per una condizione segnata dal disagio e dalla rassegnazione». Il rifiuto dei doveri coniugali, l’immoralità, la disubbidienza all’autorità familiare diventano tutti segnali di un disturbo mentale

Il percorso si concentra sulle storie delle internate durante gli anni del fascismo. Le protagoniste sono sempre le stesse. Donne che provengono in maggioranza dalle campagne, da povertà e violenze. Mogli, figlie e madri che manifestano spesso «segni di insofferenza per una condizione segnata dal disagio e dalla rassegnazione». Il rifiuto dei doveri coniugali, l’immoralità, la disubbidienza all’autorità familiare diventano tutti segnali di un disturbo mentale. Persino un desiderio di indipendenza troppo accentuato può giustificare un destino di emarginazione ed esclusione sociale. Ad aprire le porte del manicomio quasi sempre sono comportamenti che infrangono o mettono in discussione quell’universo di ruoli e valori imposto dal regime.

Tra le mura del Sant’Antonio Abate di Teramo finiscono donne diversissime tra loro, unite da un comune destino di dolore. Ci sono molte vittime della guerra, che dal 1943 al 1944 attraversò l’Abruzzo. I bombardamenti, la distruzione e la perdita dei propri cari finiscono per sviluppare una serie di disturbi psichici: malinconia e depressione, stati confusionali e allucinazioni. È il caso di Concetta. La cartella clinica racconta di una sessantenne, nubile, casalinga, colpita da “Malinconia involutiva”. Dopo aver visto il proprio paese devastato e la casa distrutta, la donna viene ricoverata in manicomio. «Da parecchio tempo - si legge - è resa irascibile, in preda a mania di persecuzione, paura per la propria persona e per i parenti. Si strappa gli abiti, lacera le lenzuola, si rende pericolosa per tali atti per sé e per gli altri». Non mancano casi di donne violate. Vittime di violenza carnale «che in seguito al trauma patito avevano iniziato a manifestare forme di disagio». Al dramma umano spesso si aggiunge il pregiudizio etico. Le descrizioni mediche parlano di coscienza morale «lungi dall’essere prossima a quella della norma» e di «un senso dell’onore poco sviluppato». Tra le internate spiccano casi di “madri contro natura”, donne condannate perché incapaci di sviluppare l’istinto della maternità, riferimento obbligato ai valori del regime. E poi ci sono le isteriche. Una figura patologica retaggio dei decenni precedenti. «Nell’isteria finivano per condensarsi tutti i caratteri più eversivi della devianza. Le isteriche erano donne che, più delle altre, avevano tentato di sovvertire le regole, si erano poste fuori dai recinti che circoscrivevano le identità, eleggendo il rifiuto e la contestazione a linguaggi privilegiati per l’affermazione delle loro personalità e dei loro disagi». Altre vittime. Altri fiori del male, rinchiusi e recisi anzitempo.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: El manicomio: sintomi

Messaggioda Sixara » mar nov 28, 2017 7:55 pm

Entrata in manicomio nel 1903 con una diagnosi di “Frenosi epilettica (pazzia impulsiva)”. «Narra l’inferma - si legge - che dai parenti del marito ricevette delle percosse al capo e che durante questi anni di matrimonio è stata dai medesimi continuamente maltrattata, minacciata, oltraggiata». Rosa D., 60 anni, coniugata, risulta affetta da “Pazzia degenerativa, mania cronica, poi demenza secondaria”.

Coalkeduna la stava mèjo in manicomio canofà caxa co so marì.

SINTOMATOLOGIA E TERAPIA
Immagine

ghe xela na cura pa sti sintomi cuà? ke racuànti a ghe ne soffro anca mi :D

A gh è gnente da skerzare, a lo sò, però mi calcoséta l avarìa da dire sia sol titolo de la mostra, sia so i contenuti: dire ke

«All’istituzione psichiatrica furono consegnate le ‘cellule’ impazzite, quelle donne che avevano espresso il rifiuto di sottoporsi a una piena fascistizzazione, preferendo collocarsi nel campo indefinito del non conforme. Su queste anomalie della femminilità, il dispositivo disciplinare applicò un programma di rieducazione che avrebbe dovuto riportare le loro condotte entro i recinti di una normalità biologicamente e socialmente controllata. (…)»

l è farle pasàre da rivoluzionarie kele pòre dòne, come se le ghése opposto on rifiuto politico al fasìxmo, preferendo collocarsi nel campo indefinito del non conforme. Lore le avarìa 'preferìo' na vita normale, co (o senza) so moroxo, marì, co so fiòi... fasìxmo o nò ke difarènza ghe faxea? sènpre pàke le se ciapàva.

Vabè. Cuà el documentario.
Avatar utente
Sixara
 
Messaggi: 1764
Iscritto il: dom nov 24, 2013 11:44 pm

Precedente

Torna a Diritti umani, discriminazioni e razzismi

Chi c’è in linea

Visitano il forum: Nessuno e 10 ospiti

cron