Sorrisi al vertice, ma la Cina avverte: "Attenti o vi brucerete". Ai Giochi diplomatici assenti
Taiwan, scontro Xi-Biden. E Usa pronti a boicottare le Olimpiadi di PechinoValeria Robecco
17 Novembre 2021
https://www.ilgiornale.it/news/politica ... 1637134327È durato oltre tre ore il faccia a faccia virtuale tra Joe Biden e Xi Jinping, nel tentativo di allontanare il rischio che la concorrenza tra le due potenze si trasformi in un conflitto. «Dobbiamo stabilire alcune barriere di buon senso, essere chiari e onesti dove non siamo d'accordo e lavorare insieme dove i nostri interessi si intersecano», ha detto il presidente americano al collega cinese, rivolgendo l'appello a «evitare un conflitto» tra Washington e Pechino. Da entrambe le parti hanno fatto sapere che si è trattato di un colloquio dai toni «franchi e schietti», da cui è emersa la volontà di un disgelo. Biden e Xi hanno individuato nella lotta ai cambiamenti climatici e nel campo dell'energia i due terreni su cui far partire una proficua cooperazione tra Stati Uniti e Cina, tentando di aprire una nuova era nei rapporti, mai così difficili da decenni. I punti di scontro tuttavia sono molti, e i nodi quanto mai irrisolti. Come riferisce il Washington Post, citando fonti dell'amministrazione Biden, gli Stati Uniti sarebbero pronti ad annunciare il boicottaggio diplomatico delle Olimpiadi invernali che si svolgeranno a Pechino il prossimo febbraio in segno di protesta per la violazione dei diritti umani da parte del governo cinese nello Xinjiang, in Tibet e ad Hong Kong. Nessuna decisione sarebbe stata ancora tecnicamente formalizzata (e durante il bilaterale non se ne è parlato), ma sulla scrivania dello Studio Ovale sarebbe approdata una raccomandazione che dovrebbe essere approvata dal presidente americano entro la fine di novembre, secondo cui né lui né altri esponenti del suo governo saranno presenti ai Giochi. Decisione che non avrà però alcun impatto sulla partecipazione degli atleti. Nel corso del colloquio l'inquilino della Casa Bianca si è detto molto preoccupato per la violazione dei diritti umani nello Xinjiang, in Tibet e a Hong Kong, quindi ha richiamato il Dragone a rispettare le regole sul fronte economico e commerciale, parlando di pratiche inique» che danneggiano le imprese e i lavoratori americani. Ma il confronto tra i due leader ha assunto toni minacciosi soprattutto sulla questione di Taiwan. Il Comandante in Capo ha messo ha messo in guardia il presidente cinese da «azioni unilaterali che cambino lo status quo e minino la pace e la stabilità nella regione». Parole a cui Xi ha risposto inviando un messaggio inequivocabile: coloro che cercano l'indipendenza di Taiwan e i loro sostenitori negli Usa «stanno giocando col fuoco». «La Cina è paziente e cerca la riunificazione pacifica con grande sincerità e impegno, ma se i secessionisti di Taiwan provocano, o addirittura superano la linea rossa, dovremo adottare misure decisive», ha avvertito. E a poche ore dall'incontro virtuale, il gigante asiatico ha effettuato un'incursione nello spazio aereo di difesa dell'isola con 8 jet militari. A riferirlo è stato il ministero della Difesa di Taipei, precisando di aver fatto decollare i propri caccia e di aver lanciato avvertimenti radio. D'altronde, Pechino ha promesso di portare l'isola sotto il controllo cinese se necessario con la forza, e negli ultimi mesi le tensioni nello stretto sono aumentate. Il vertice virtuale tra Biden e Xi non ha insomma portato a passi avanti sostanziali: «Non credo che lo scopo fosse quello di allentare le tensioni. Vogliamo assicurarci che la competizione sia gestita in modo responsabile», ha riferito un alto funzionario dell'amministrazione Usa.
Washington sfida Pechino e invita Taiwan al vertice per la Democrazia Atlantico Quotidiano
Michele Marsonet
26 Nov 2021
http://www.atlanticoquotidiano.it/quoti ... emocrazia/ Mantenendo una promessa formulata in campagna elettorale, Joe Biden ha fatto organizzare dal Dipartimento di Stato il vertice virtuale “The Summit for Democracy”. L’incontro si terrà il 9 e 10 dicembre, vedrà la partecipazione di ben 110 nazioni e tratterà soprattutto il tema dei diritti umani caro ai Democratici Usa (in particolare ai tempi della presidenza Obama).
Fin qui niente di eclatante. Si tratta del solito vertice internazionale, che per di più si svolgerà a distanza, destinato a ribadire le posizioni dei vari Paesi partecipanti senza che nessuno si attenda esiti importanti. C’è però un fatto clamoroso e degno di nota. A differenza di quanto avveniva in occasione di eventi simili, tra gli invitati non figura la Repubblica Popolare Cinese (ossia la Cina comunista fondata da Mao Zedong), bensì la Repubblica di Cina (ovvero Taiwan, erede della Cina nazionalista di Chiang Kai-shek).
Scontata la reazione furiosa di Xi Jinping e dei media cinesi, che hanno ancora una volta avvertito Biden di “non scherzare col fuoco”, frase usata ogni volta che qualcuno osa mettere in dubbio l’appartenenza di Taiwan alla Cina continentale. E, di conseguenza, il “diritto” di Pechino ad annettere la piccola isola – che è pure una grande potenza tecnologica – con le buone o con le cattive.
In ogni caso mette conto notare che il presidente americano, con questa mossa di alto valore simbolico, continua a manifestare l’intenzione di difendere Taiwan ad ogni costo, anche militarmente se necessario. E tale atteggiamento, invece, non è affatto scontato. Negli ultimi decenni gli Stati Uniti, pur mantenendo stretti rapporti economici e politici con Taiwan, hanno accettato lo slogan di Pechino “Una sola Cina”, lasciando di fatto l’isola in una sorta di “limbo” diplomatico che ha consentito al Partito comunista cinese di isolarla quasi completamente nello scenario internazionale.
Si tratta ora di capire se Biden, che deve far dimenticare agli alleati la sua disastrosa gestione del ritiro dall’Afghanistan, è disposto a giocare sino in fondo questa fondamentale partita, magari cercando di capire quali carte ha in mano il suo avversario (e vecchio conoscente) Xi Jinping. In altri termini, bisogna capire, da un lato, se il presidente Usa è disposto a correre il rischio di uno scontro diretto con la Repubblica Popolare, che potrebbe anche condurre a un conflitto con armi nucleari.
Lo stesso ragionamento vale per i cinesi, che probabilmente non si sentono ancora pronti ad affrontare un simile scontro visto che le forze armate americane sono tuttora le prime al mondo. Diversi sono i fattori in gioco in questo caso. Xi si è impegnato personalmente a far “rientrare” l’isola nella Cina, mossa che non è riuscita ai suoi predecessori da Mao in avanti. Se andate a Pechino, trovate facilmente molti gadget con slogan inneggianti al ritorno di Taiwan nei confini cinesi, anche se l’isola può vantare lunghi periodi si separazione dalla cosiddetta “madrepatria”.
Ma bisogna pure tener conto del fatto che dall’ultimo plenum del Partito comunista è giunto a Xi l’invito a non esacerbare troppo le ragioni di conflitto con gli Usa. Di questo segnale il segretario del PCC deve tener conto, anche perché l’anno prossimo sarà in gioco la sua nomina al terzo mandato, avendo il suddetto plenum cancellato la norma che imponeva il vincolo dei due mandati. L’unica carta che Xi potrebbe giocare è la profonda divisione della società e del mondo politico americani, che di fatto indeboliscono un presidente già debole per suo conto. Ma è tutto da dimostrare che tale divisione sia così forte da impedire una decisa reazione Usa all’invasione di Taiwan.
I giochi, insomma, sono del tutto aperti. Difficile che l’invito di partecipazione rivolto alla Repubblica di Cina, a scapito della Repubblica Popolare, preluda al pieno riconoscimento diplomatico di Taiwan. Pechino ha fatto capire più volte che un simile riconoscimento verrebbe considerato una vera e propria dichiarazione di guerra. E l’America, come del resto le altre nazioni occidentali, non può permetterselo visti i rapporti economici e commerciali – tuttora stretti – che legano Pechino alle nazioni dell’Occidente. Tuttavia è importante che il problema sia stato posto in termini espliciti in occasione di un vertice internazionale.
Gli eredi di Mao sono finora riusciti ad evitare proteste ufficiali per l’isolamento diplomatico cui Taiwan è condannata a causa dei diktat di Pechino. Ma era inevitabile che, in occasione di un vertice dedicato allo stato di salute della democrazia, la Repubblica Popolare venisse esclusa considerata la sua natura dittatoriale. Altrettanto inevitabile (anche se c’è voluto coraggio) invitare al suo posto Taiwan, una liberal-democrazia in linea con quelle occidentali.
La proliferazione della "democrazia con caratteristiche cinesi" Atlantico Quotidiano
Mauro Giubileo
22 dicembre 2021
https://www.atlanticoquotidiano.it/quot ... he-cinesi/Da almeno due anni viviamo in un mondo in preda al caos. La pandemia ha portato con sé un enorme carico di morti ed insieme altri e sempre nuovi problemi. Soprattutto in Occidente, a volte si ha l’impressione che una tragedia dopo l’altra si abbatta su di noi; sembra che non vada bene nulla. Ogni fragile certezza si sgretola di fronte ai quotidiani sconvolgimenti. L’economia è flagellata da vecchi e nuovi mali che tornano. Le nazioni si trovano ad essere sempre più deboli e sempre più sole. In molti si sentono smarriti e atterriti. Ecco, penso che di fronte a una tale situazione nulla possa fare più male di una ignobile e sadica risata alle nostre spalle. Specialmente se questa risata giunge proprio da chi detiene una larghissima quota di maggioranza in questo capitale di mali che affliggono ultimamente il pianeta.
E invece è proprio quello che da quasi due anni sta avvenendo. L’ultimo episodio risale a poche settimane fa. Si tratta di un tweet, datato 3 dicembre 2021, della signora Hua Chunying, portavoce e direttore generale del Dipartimento informazione del Ministero degli Affari esteri della Repubblica Popolare Cinese. Tweet che recava il seguente testo:
“#China’s model of #democracy fits in well with its national conditions. It enjoys the support of the people. It is real, effective, and succesfull democracy. China is indeed a true democratic country.”
(Traduzione italiana: “Il modello di democrazia cinese si adatta bene alle sue condizioni nazionali, gode del sostegno del popolo, ed è una democrazia reale, efficace e di successo. La Cina è davvero un Paese democratico.”)
Ancora più beffarda la chiusura, con gli ebeti, cerulei e sadici hashtag “#whatisdemocracy #whodefinesdemocracy”.
Per rispondere alla signora Hua si potrebbe partire da qualche insignificante dato oggettivo. Ad esempio, il fatto che nella Repubblica Popolare non si svolgano elezioni (non “libere elezioni”, attenzione, ma elezioni punto e basta) da ben 68 anni, ossia da quel glorioso 1949 in cui i comunisti di Mao presero il potere e indirizzarono il Paese sulla strada del sol dell’avvenire. Oppure le si potrebbe ricordare come una democrazia moderna non sia monopartitica. O che, per esempio, il capo dello Stato o del governo non abbiano un mandato vitalizio, o che le minoranze etniche o religiose non vengano solitamente rinchiuse nei lager, o che non sia “democratico” tacere di fronte al mondo sulla diffusione di un virus letale, eccetera eccetera. Ma purtroppo armi del genere potrebbero avere un impatto totalmente risibile nei confronti di chi è conscio di mentire e mistificare.
E la signora Hua è una vera esperta in quest’arte. Scorrendo sul suo profilo Twitter – social che ella usa con significativa abitudine e che è invece interdetto ai comuni cittadini cinesi – si nota con quanta acribia si profonda nella diffusione di post che mettono in luce le criticità e le malattie dell’Occidente, e in modo particolare della democrazia americana. Lo fa attingendo a fonti giornalistiche – perlopiù di area liberal-progressista – come il Guardian, Bbc, Abc News, National Public Radio. Testate che in una società democratica dovrebbero cercare di rendere trasparenti al pubblico le manovre di chi è chiamato a governarlo, ma che in questo caso vengono sfruttate ad uso e consumo di una autocrazia per seminare un sentimento di profondo scoramento, rassegnazione e delusione tra i cittadini dell’Occidente allargato, proprio nei giorni nei quali alla corte di Joe Biden i leader dello stesso Occidente allargato si ritrovano in un giusto, nobile ma forse scarsamente efficace consesso a parlare di loro stessi e dello stato delle democrazie nel mondo. A questo meeting telematico ospitato dal presidente Biden nei giorni 9 e 10 dicembre, il cosiddetto Summit for Democracy, la Cina rappresentava di fatto il grande non-invitato, assieme alla Russia, la Turchia, l’Iran, l’Arabia Saudita e (per motivazioni alquanto deboli) l’Ungheria di Viktor Orbán (curiosa invece la decisione di ammettere tra i convitati il Pakistan amico dei Talebani e prima potenza nucleare in Medio Oriente, peraltro non aderente al Tnp).
Emblematiche, in questo incontro sbandierato dal presidente americano come un capolavoro di multilateralismo, sono state le parole del ministro taiwanese Audrey Tang, che rispondendo alle lamentele di chi non è stato invitato ha suggerito a queste nazioni di “raddoppiare gli sforzi per democratizzarsi”, in modo da potersi “ritrovare assieme al prossimo meeting”. Sforzo che da un Paese come la Repubblica Popolare, che ha aderito (o meglio, è stata fatta entrare estromettendo di forza proprio Taiwan) all’Onu nel 1971, sposandone mandato e valori (solo sulla carta, dato che proprio in quegli anni si dilettava nel supportare con ogni risorsa gli Khmer Rossi in Cambogia), tutto il mondo si sarebbe aspettato da tempo, specialmente a seguito delle riforme economiche sotto il regno di Deng Xiaoping e all’ingresso, a Doha nel 2001, nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) dopo ben quindici anni di negoziati. Ci si aspettava, e per anni ci si è aspettato, che a seguito di un ingresso di Pechino nel club del mondo libero, quelli di Piazza Tienanmen, della Grande carestia del 1960, o dell’invasione del Tibet, sarebbero rimasti solo come dei brutti ricordi. E invece non è stato così.
Un cambio di rotta significativo è avvenuto soprattutto con l’ascesa al potere, nel 2012, di un despota come Xi Jinping, che con grande ragione il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, nel mandarne alle stampe una biografia, ha efficacemente definito “il nuovo Mao”. La sua politica è chiara: fare della Cina la potenza egemone globale, comprandone pezzo per pezzo ogni asset strategico con le Vie della Seta, individuate nel 2017 con una riforma dello stesso statuto del Pcc come il mezzo privilegiato per cambiare le sorti del mondo, imporre il dominio di Pechino, ribaltare il quadro delle alleanze e far soccombere l’Occidente (non è un caso, tra l’altro, che la Nuova Via della Seta sia uno strumento di pertinenza del Ministero per la sicurezza nazionale, e non di quello del commercio estero). E già dal 2015 in poi, con ben quattro revisioni legislative, “il nuovo Mao” – che, lo ricordiamo, ha anche cambiato la Costituzione per restare presidente a vita – ha imposto l’obbligo (non la facoltà, l’obbligo!) a qualsiasi cittadino e azienda cinese di rispondere ai Servizi di sicurezza e militari, e di fornire loro informazioni e assistenza. Non proprio una manovra democratica.
A questo si accompagnano potenti e spregiudicati attacchi cyber e soprattutto una massiccia opera di infiltrazione e di influenza cinese in Occidente: nel mondo accademico, tra i parlamentari (si rimanda al rapporto di qualche mese fa di Sinopsis e del Global Committee for the Rule of Law “Marco Pannella”, ripreso nei contenuti in un articolo a firma di Marco Respinti e Andrea Morigi uscito su Libero il 20 novembre 2021) e nei settori strategici dell’economia e dell’industria. Va riconosciuto al presidente del Consiglio Draghi il merito di aver saputo finora utilizzare con efficacia lo strumento del golden power, come è avvenuto per la vicenda delle sementi e dei semiconduttori, e come speriamo avvenga per quella – per citarne solo una – del porto di Palermo.
E allora, di fronte a un nemico tanto grande e quanto potente, ben venga il multilateralismo, ben venga la cooperazione, ben vengano i summit di Biden, ben venga il rafforzamento dell’Occidente allargato in nome dell’esaltazione del valore della democrazia. Ma finché non si imporrà sul tavolo con durezza la verità, finché sarà consentito alla Cina di prenderci in giro, finché una dittatura riuscirà a diffondere menzogne perché le sarà permesso farlo da un Occidente che si autoflagella e si auto dipinge in continuazione come “razzista”, “omofobo”, “non inclusivo”, “intollerante”, “retrogrado”, “chiuso”, “ricettacolo di diseguaglianze”, “palude di sovranismi”, non potremo mai pensare di avere un adeguato potere contrattuale nei confronti di Pechino.
E ancor più non potremo averlo se a rappresentarci saranno (come oggi sono) persone che credono a queste fandonie, e che solo ora, forse, si rendono conto di aver compiuto – magari inconsapevolmente – per anni, il più grande capolavoro di autolesionismo mai visto sulla scena geopolitica mondiale: quello di rendere debole la democrazia in nome della stessa democrazia, e di dare adito a tante, troppe ipotesi di volerla soppiantare. Magari proprio con una “democrazia con caratteristiche cinesi”.
Il trionfo del "politically correct" rende più simili Usa e Cina Atlantico Quotidiano
Michele Marsonet
3 gennaio 2022
https://www.atlanticoquotidiano.it/quot ... sa-e-cina/ Il vertice virtuale The Summit for Democracy, convocato dal presidente americano Joe Biden il 9 e 10 dicembre, non ha avuto il successo sperato. L’irritazione di alcuni Paesi per non essere stati invitati era scontata. Ma anche i partecipanti hanno mostrato scarso entusiasmo.
Pesa ovviamente lo scacco subito con il disorganizzatissimo e disastroso ritiro dall’Afghanistan, che la promessa di difendere Taiwan da un’eventuale invasione cinese non ha affatto mitigato. Si fa strada, insomma, la sensazione di trovarsi di fonte a un declino dell’impero americano, già evocato – con toni degni del “Tramonto dell’Occidente” di Oswald Spengler – da numerosi intellettuali ed analisti.
Elementi che confermano un quadro così fosco non derivano soltanto da considerazioni relative al mantenimento o meno della supremazia militare Usa. Ad essere in crisi, nell’America attuale, è la cultura nel senso più vasto del termine. Ovvero il settore che ha garantito il soft power degli Stati Uniti e la diffusione della American way of life nel mondo.
La crisi si manifesta infatti, in primo luogo, nelle università americane (e anche britanniche) con la diffusione senza limiti del politically correct, un fenomeno che impone la diffusione di un pensiero unico e che giunge al punto di togliere la parola a chi non è d’accordo con determinate tesi.
E non basta. Acquista sempre più forza la tendenza a licenziare docenti, anche famosi e in molti casi per niente reazionari, che non si adeguano a tesi preconfezionate spacciate come “verità assolute”.
Il problema è che non si tratta di casi relativi a piccoli college dell’Arkansas o del North Dakota. Ad essere coinvolti sono soprattutto gli atenei più prestigiosi della Ivy League come Harvard, Princeton, Yale, Cornell, MIT etc. Dunque proprio quelli che in teoria sono il cuore della cultura americana, e che ogni anno riescono ad attirare milioni di studenti stranieri, in primo luogo cinesi.
Poiché in un primo tempo sembrava una tendenza “di sinistra”, studiosi e docenti, in grande maggioranza progressisti, lo appoggiarono volentieri e con forza. In seguito i più accorti tra loro, soprattutto gli anziani come Noam Chomsky, iniziarono a fiutare il pericolo.
Se tu neghi d’ufficio la parola a chi non concorda con te, e se poi organizzi pure campagne per licenziarlo confidando sull’acquiescenza di rettori compiacenti (o semplicemente impauriti), compi un attentato contro la libertà d’espressione nel suo complesso. Stravolgi inoltre le caratteristiche principali della comunicazione culturale nel tuo Paese (gli Stati Uniti).
Tale cultura diventa insomma “illiberale”, poiché toglie il diritto di parlare agli avversari. E questo – almeno finora – in America non era possibile. Lo era invece nella Cina della Rivoluzione Culturale maoista, e lo è tuttora in quella di Xi Jinping.
Come possono allora gli americani convocare un summit globale sulla democrazia, accusando i Paesi non invitati di non rispettare i diritti umani e la libertà di espressione, se poi, a casa loro, si verificano fenomeni assai simili? Ecco quindi il fallimento del Summit e l’imbarazzo del presidente Biden nel rispondere a queste accuse.
E’ pur vero che il governo Usa non è direttamente responsabile di questa situazione, poiché i suoi atenei sono politicamente autonomi. Potrebbe tuttavia difendere con maggiore vigore il diritto alla libera espressione delle idee, e proteggere il dissenso ovunque esso si manifesti.
Ciò in realtà non avviene poiché gran parte della cultura liberal Usa, e molti rappresentanti del Partito democratico americano al Senato e nella Camera dei rappresentanti, sono allineati con le follie del politically correct e le appoggiano senza rimorso alcuno.
Attenzione però. Se l’attuale tendenza proseguirà con la medesima forza, o addirittura si espanderà, avremo una conseguenza che definire “curiosa” è dir poco. Gli studenti provenienti dalla Repubblica Popolare Cinese si troveranno infatti inseriti in un ambiente culturale assai più simile al loro di quanto possano immaginare.
Negli atenei cinesi ogni manifestazione di dissenso è repressa immediatamente, e i dipartimenti che promuovono il marxismo-maoismo quale unica filosofia ufficiale ed ammessa vegliano con attenzione sull’ortodossia ideologica. Durante la Rivoluzione culturale promossa da Mao furono innumerevoli i docenti processati, inviati in esilio nelle campagne e, molto spesso, uccisi.
Se il politically correct americano prendesse sempre più piede, anche grazie alla presenza di un presidente debole come Joe Biden, non sarebbe lecito attendersi una diminuzione significativa della distanza ideologica tra le due superpotenze oggi in competizione? Qualcuno risponderà che l’America possiede gli anticorpi necessari a prevenire un esito tanto infausto. Chi scrive, tuttavia, comincia a nutrire dei dubbi al riguardo.
Svelati i legami della famiglia Biden con la CinaBreitbart News
29 gennaio 2022
https://osservatorerepubblicano.com/202 ... n-la-cina/Sean Hannity ha elogiato l’ultimo libro di Peter Schweizer, “Red-Handed: How American Elites Get Rich Helping China Win” come “fenomenale” e “da leggere assolutamente” durante un’intervista con l’autore nell’edizione di martedì del suo omonimo show radiofonico.
Hannity ha detto che avrebbe fatto una “serie di interviste” con Peter Schweizer, presidente del Government Accountability Institute ed ospite del Drill Down oltre ad essere un collaboratore senior di Breitbart News, “per arrivare in fondo a tutta” la documentazione del libro che espone la corruzione delle élite americane rispetto al Partito Comunista Cinese (PCC).
Red-Handed esamina come la strategia del governo cinese della “cattura dell’élite” prenda di mira figure di spicco degli Stati Uniti nel mondo degli affari, dello spettacolo, della politica e della tecnologia. Il PCC si procura influenza e complicità con tali figure attraverso lo sviluppo di relazioni finanziarie.
Il libro di Schweizer documenta un caso di un membro dell’élite del PCC che “se la ride” per il compromesso del governo cinese con Joe Biden.
Hannity ha dichiarato: “Tu parli di una scena. Tu fornisci anche una data. Era il 28 novembre 2020, solo poche settimane dopo le elezioni presidenziali americane, e di come apertamente parlino dell’accesso che ora hanno ai più alti livelli del governo degli Stati Uniti, e letteralmente, i membri del politburo [e] gli ambasciatori stanno quasi ridendo del fatto che – fondamentalmente – hanno compromesso il più alto funzionario eletto degli Stati Uniti d’America“.
Schweizer ha risposto:
“Questo è stato in un incontro a Pechino che si è tenuto poco dopo le elezioni. Un accademico, che è stato anche coinvolto in alcune operazioni di influenza straniera negli Stati Uniti a Washington, D.C., si è alzato di fronte a questo gruppo [di élite cinesi] ed ha parlato di tutti gli amici che Pechino ha ora negli Stati Uniti, ed ha parlato di Wall Street – e naturalmente ho un capitolo nel libro sui titani di Wall Street che sono intimi amici di Pechino – ma a due terzi del discorso dice: “Oh, e abbiamo il figlio del nuovo presidente, Hunter Biden, che ha avviato tutte queste imprese. Chi lo ha aiutato ad avviare tutte queste attività?”
“È una scena incredibile, perché questa grande folla di centinaia di alti dirigenti cinesi e funzionari governativi inizia a ridere. Sanno la risposta, ed è davvero straordinario.”
“Questo non è un libro [potremmo] arrivare in fondo [se gli] dessimo tutte le tre ore del nostro show”, ha detto Hannity del nuovo libro di Peter Schweizer Red-Handed.
Schweizer: “Pechino ha potere” sulla famiglia Biden – “Questo richiede un’indagine.
Il collaboratore senior di Breitbart News Peter Schweizer ha detto martedì ad “Hannity” della Fox News che la Cina, la Russia e l’Ucraina hanno anche “assolutamente” informazioni compromettenti sulla famiglia di Joe Biden.
Schweize ha detto: “Quello che abbiamo scoperto è che circa 31 milioni di dollari sono stati dati alla famiglia Biden da cinque individui provenienti dalla Cina“.
Ha continuato: “Questi individui hanno tutti legami con i più alti livelli dell’intelligence cinese. Così quella che è stata una storia di corruzione e clientelismo è sempre più una storia di spionaggio, spionaggio e di sicurezza nazionale”.
Schweizer ha aggiunto: “Questo richiede un’indagine. Non si tratta solo di politici che ricevono denaro dal loro ufficio”.
Sean Hannity ha chiesto: “Questo dossier su Hunter, e sapevano essere un tossicodipendente. Gli piaceva assumere donne lavoratrici della notte – Lo diremo in questo modo. Lei crede che con tutta probabilità, e che le possibilità siano molto alte, per cui la Cina, la Russia, l’Ucraina, e molti di questi paesi abbiano compromesso la famiglia Biden?“
Schweizer ha detto: “Oh, assolutamente, non c’è dubbio. Guarda, se il ministero cinese per la sicurezza dello stato sta cercando di impegnarsi nella ‘cattura dell’élite‘, come la chiamano loro, con i Biden e sono stati forniti 31 milioni di dollari, lo vedrebbero come un fallimento catastrofico dell’intelligence se non avessero ottenuto almeno una leva sulla famiglia Biden. Questo è ciò che rende questo così preoccupante e che richiede un’indagine, perché se non lo facciamo, il presidente sta per basare le decisioni sui suoi interessi finanziari familiari, e sul fatto che Pechino abbia una leva sulla sua famiglia“.
Il collaboratore senior di Breitbart News Peter Schweizer ha poi detto, sempre martedì a “Stinchfield“, un programma di Newsmax TV, che “ogni singolo accordo” che la famiglia di Joe Biden ha ottenuto in Cina è stato fatto con funzionari che erano collegati ai più alti livelli dell’intelligence cinese.
Il conduttore Grant Stinchfield ha chiesto: “Una domanda per te, se puoi, molto veloce. Ci sono accuse impressionanti e fatti realmente accaduti in questo libro. Ce n’è uno che ti colpisce che non potevi credere quando l’hai scoperto?
Schweizer ha detto: “La cosa che mi ha colpito di più sono state le informazioni sui Biden. Ho trovato questa storia sul loro coinvolgimento commerciale con la Cina nel 2018. “
E ha continuato: “Quello che abbiamo fatto in questo libro è stato usare il portatile di Hunter Biden, usando le email che abbiamo ottenuto da uno dei partner commerciali di Hunter Biden. Siamo risaliti a come sono avvenuti quegli affari. E quello che abbiamo scoperto è che ogni singolo affare che i Biden hanno condotto– ed il totale è di circa 31 milioni di dollari – ogni singolo affare che hanno condotto è venuto da un funzionario in Cina che era collegato ai più alti livelli dell’intelligence cinese. Ciò che voglio dire è che erano partner di persone come il viceministro della sicurezza dello stato, le cui responsabilità includono il reclutamento di stranieri, quindi questa è stata la più grande rivelazione per me”.
Schweizer ha aggiunto: “Ecco perché credo che dobbiamo fare la domanda e indagare se i Biden sono compromessi“.
L'élite diventata ricchissima con la CinaGiulio Meotti
31 gennaio 2022
https://meotti.substack.com/p/lelite-di ... issima-con “‘I capitalisti ci venderanno la corda con cui li impiccheremo’. Ci sono poche prove che Vladimir Lenin abbia pronunciato queste parole esatte. Ma mentre l'Unione Sovietica di Lenin è finita nelle pagine della storia, oggi a Wall Street, nella Silicon Valley e a Washington, troppi giocano a vendere corde. E l'acquirente è Pechino”.
Si apre così il libro di Peter Schweizer pubblicato da Harper Collins in cui rivela che i ricchi e i potenti in America sono diventati intimi con la Cina a spese del proprio paese. Lo scoop centrale di Red-Handed è che la famiglia Biden ha raccolto 31 milioni di dollari da individui legati all'intelligence cinese. Ma non solo. Il libro è il racconto della più grande porta girevole internazionale: politica, affari, famiglie, aziende…
Come scegliere il nome della prima figlia? Mark Zuckerberg lo ha chiesto al presidente cinese Xi Jinping. A una cena di gala alla Casa Bianca, il creatore di Facebook avrebbe chiesto a Xi di fare l'onore a lui e alla compagna Priscilla Chan e decidere il nome della loro prima figlia. Xi ha declinato dicendo che si tratta di una responsabiltà troppo grande. “Chiedere al leader cinese di nominare tuo figlio può sembrare strano o inquietante” scrive Schweizer. “Ma molti dei più grandi nomi della tecnologia hanno collaborato attivamente con il regime cinese, aiutandoli a controllare meglio la loro popolazione. Hanno persino aiutato il tentativo della Cina di superare gli Stati Uniti nelle capacità militari. Accecate dalla loro ambizione, le élite della Silicon Valley stanno aiutando la Cina a raggiungere il suo obiettivo finale: la ‘supremazia tecnologica’ sull'Occidente. Alla fine del 2014, un alto funzionario cinese di nome Lu Wei fece un viaggio nella Silicon Valley. Xi Jinping lo aveva nominato a capo del ‘Gruppo centrale per la sicurezza e l'informazione in Internet’. In breve, Lu era lo zar cinese di Internet, con il compito di limitare l'accesso a determinate idee e monitorare il flusso di informazioni. Ma quando Lu ha visitato il quartier generale di Facebook in California a Menlo Park, Zuckerberg lo ha trattato come un vip”.
Nel febbraio 2017, l'Università della Pennsylvania (Penn) ha annunciato che l'ex vicepresidente Joe Biden era stato nominato a una cattedra e che il Biden Center all’università avrebbe promosso la visione dell'ex vicepresidente. “Dopo l'annuncio del Biden Center all'Università della Pennsylvania, le donazioni dalla Cina alla Penn sono triplicate. Nei tre anni precedenti l'annuncio, l'università ha ricevuto 15 milioni di dollari. Nei tre anni successivi, 40 milioni. Gran parte del denaro cinese dopo l'apertura del Biden Center è anonimo. Ma il 19 aprile 2018, poche settimane dopo l'apertura del Biden Center, la China Merchants Bank ha inviato un contributo di 950.000 dollari alla Penn. La banca è un'impresa statale sotto la diretta supervisione del Consiglio di Stato cinese”.
Si scopre poi che il marito di Nancy Pelosi, Paul, è diventato un investitore in Matthews International Capital Management, un fondo di investimenti che ha interessi importanti in Cina. Ma Schweizer non risparmia neanche la famiglia di Mitch McConnell, a capo dei Repubblicani al Senato, e di John Boehner, già speaker della Camera. E poi i legami del ceo di Google, Eric Schmidt, e di Bill Gates, con l’apparato militare cinese.
Il marito della potentissima senatrice democratica Diane Feinstein, Richard Blum, è stato uno dei primi investitori americani in Cina e direttore di una società chiamata Shanghai Pacific Partners. Quella società ha creato una joint venture con una banca governativa cinese chiamata Shanghai Investment and Trust Company. Un’altra società di Blum, la Newbridg,e ha acquistato una partecipazione del 18 per cento nella Shenzhen Development Bank. Per la prima volta una società straniera poteva acquistare una partecipazione in una banca di stato cinese.
Poi c’è il capitolo Wall Street. “Stephen Schwarzman è una delle persone più potenti di Wall Street. Soprannominato il ‘Re di Wall Street’ dalla rivista Fortune, ha fondato il Blackstone Group e lo ha trasformato in un titano finanziario globale. Gli enormi successi finanziari di Schwarzman, in parte, derivano dal suo stretto rapporto con i funzionari del Partito Comunista Cinese. Nel 2007, Blackstone è stata quotata in borsa e Schwarzman ha trovato un nuovo partner. Il governo cinese ha acquistato una partecipazione del 9,9 per cento nella neonata azienda per 3 miliardi di dollari”.
Una delle persone più potenti di Wall Street è Ray Dalio, fondatore di Bridgewater, il più grande hedge fund del mondo. “Dalio ha guadagnato miliardi da fondi di investimento. Nel solo 2018, il suo compenso da Bridgewater è stato di 2 miliardi. Nel 2010, Bridgewater aveva fatto grandi affari con la Cina. La State Administration of Foreign Exchange del governo cinese ha investito miliardi di dollari in una serie di hedge fund negli Stati Uniti, tra cui Bridgewater. Mentre costruiva potenti legami a Pechino, Dalio assumeva persone con relazioni a Washington. Dalio ha scelto James Comey, ex procuratore generale degli Stati Uniti, che nel 2013 è stato nominato direttore dell'FBI da Barack Obama”.
Senza contare le donazioni del regime cinese alle università americane. In dieci anni, 1 miliardo di dollari. La sola Harvard, 93 milioni.
Nei giorni scorsi, il giornale giapponese Nikkei ha raccontato in una inchiesta come la Cina sta diventando la “farmacia del mondo”, stabilendo un legame dietro l’altro con i grandi gruppi farmaceutici occidentali.
"Ci troviamo in quello che i tedeschi chiamano Systemwettbewerb, una competizione di sistemi tra le democrazie liberali e il capitalismo della Cina, che sta proiettando sempre più la sua pretesa assoluta di potere oltre i suoi confini", ha detto Thorsten Benner, fondatore del Global Public Policy Institute a Berlino. La guerra Fredda con la Russia sovietica era più chiara. “Avevamo un antagonista ideologico e della sicurezza che non era un concorrente economico. C'era un muro cinese tra le economie dell'Occidente e dell'Unione Sovietica. Oggi, ci troviamo di fronte a un avversario che è un potente concorrente economico e riuscito ad attirare l'Occidente nella sua orbita, per stritolarlo”.
Non si è ancora capito quanto sia stretta la corda che i cinesi ci hanno messo al collo.