Nazionalità e cittadinanza non sono la stessa identica cosa

Nazionalità e cittadinanza non sono la stessa identica cosa

Messaggioda Berto » gio feb 10, 2022 9:06 pm

Nazionalità e cittadinanza non sono la stessa identica cosa
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https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 0962421133

Nazionalità e cittadinanza non sono la stessa identica cosa e a volte non coincidono affatto e possono pure essere in contrasto.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Nazionalità e cittadinanza non sono la stessa identica cosa

Messaggioda Berto » gio feb 10, 2022 9:07 pm

Indice:

1)
Nazionalità e cittadinanza non sono la stessa identica cosa e a volte non coincidono affatto e possono pure essere in contrasto.

2)
Contributi e spunti sul tema e questione.

3)
Affinché la cittadinanza coincida con la nazionalità o comunanza/fratellanza nazionale e cioè con il sentimento naturale di appartenenza e di fratellanza umana, di condivisione culturale e civile onde ridurre i conflitti (etnici, sociali, culturali, religiosi) e poter esercitare pienamente i diritti e i doveri civili e la sovranità politica senza discriminazioni e in modo paritario per tutti i cittadini dello stato e della nazione,
vi sarebbe la necessità di concepire e istituire due forme o casi diversi di cittadinanza: ...

4)
Perdita e revoca della cittadinanza italo europea (piena o parziale) acquisita dallo straniero già in possesso della sua cittadinanza nazionale.


5)
Il caso di Lorena Cesarini e altri più o meno analoghi.

6)
Il caso delle violenze di piazza la notte di capodanno a Milano e altrove, perpretate da stranieri immigrati clandestini e regolari.

7)
La cittadinanza mondiale non esiste perché il Mondo non è una città, né una nazione né uno stato e quindi una cittadinanza mondiale non ha alcun senso, nemmeno come auspicio e utopia, allo stesso modo che non esiste una fratellanza mondiale.

8)
In Europa la doppia cittadinanza attiva concessa a stranieri di fede islamica si sta dimostrando un istituto estremamente pericoloso per i cittadini europei autoctoni e per i cristiani, con esiti preoccupanti di violenza e di guerra civile.

9)
Il caso delle violenze e delle molestie a Peschiera del Garda.

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Nazionalità e cittadinanza non sono la stessa identica cosa

Messaggioda Berto » gio feb 10, 2022 9:08 pm

1)
Nazionalità e cittadinanza non sono la stessa identica cosa e a volte non coincidono affatto e possono pure essere in contrasto.


La nazionalità è una qualificazione etnico culturale che si riceve per nascita dal sangue, dalla genetica e dalla cultura dei genitori, un po' come il carattere sessuale, si può ricevere sia nel paese originario dei genitori o in un paese straniero dove i genitori sono migrati e non dipende dalla cittadinanza;
mentre la cittadinanza è una qualificazione politica che si riceve in modo naturale e automatico dai genitori e coincide con la loro nazionalità o paese di origine; oppure si può acquisire anche in poco tempo come regalia tipo la cittadinanza onoraria oppure in qualche anno e su richiesta come in Italia dopo 18 anni essendovi nati come figli di stranieri, o semplicemente nascendo in un certo paese che lo prevede per diritto di nascita come negli USA e corrisponde allo jus solis.

La cittadinanza naturale, originaria, etnica e nazionale che si riceve in dote dai genitori come tratto politico coincidente con la nazionalità è un dato naturale come il carattere sessuale e non la si può mai perdere se non per rinuncia dopo aver acquisito un'altra cittadinanza che però non cambia in alcun modo la nazionalità originaria e sopratutto non comporta la sua negazione.
La cittadinanza acquisita invece non è obbligatoria ma sempre volontaria, vi si può rinunciare e può essere revocata e non corrisponde mai alla nazionalità originariamente diversa dalla prima cittadinanza.
La cittadinanza acquisita si aggiunge a quella originaria e naturale e vi sono casi in cui alcune persone hanno anche due o più cittadinanze aggiuntive acquisite.


La legge sulla cittadinanza italiana ammette il possesso di una doppia e persino tripla cittadinanza, in base al principio generale del diritto internazionale denominato “principio di rispetto della sovranità degli stati”.

https://consulenzaimmigrazione.eu/citta ... -italiana/



Oriana Fallaci affidò questa sua testimonianza a Padre Andrzej Majewski, caporedattore della televisione pubblica polacca (Telewizja Polska)
31 gennaio 2022

https://voxnews.info/2022/01/31/lappell ... -invasori/


L’intervista “perduta” alla Fallaci – pt.
1
Alessandro Gnocchi
8 Febbraio 2019,
https://www.nicolaporro.it/lintervista- ... laci-pt-1/


I responsabili degli attacchi terroristici a Londra erano mussulmani nati in Gran Bretagna o cittadini inglesi. Quindi potrebbero essere considerati europei. Crede che per difendere il nostro continente e la civiltà occidentale dovremmo esiliare tutti i mussulmani dell’Europa?

Per incominciare, non sono affatto europei. Non possono essere considerati europei. O non più di quanto noi potremmo essere considerati islamici se vivessimo in Marocco o in Arabia Saudita o in Pakistan beneficiando della residenza o della cittadinanza. La cittadinanza non ha niente a che fare con la nazionalità, e ci vuol altro che un pezzo di carta su cui è scritto cittadino inglese o francese o tedesco o spagnolo o italiano o polacco per renderci inglesi o francesi o tedeschi o spagnoli o italiani o polacchi. Cioè parte integrante di una storia e di una cultura. Secondo me, anche quelli con la cittadinanza sono ospiti e basta. O meglio: invasori privilegiati. Poi una cosa è espellere gli allievi terroristi o gli aspiranti terroristi, i clandestini, i vagabondi che vivono rubando o spacciando droga o, meglio ancora, gli imam che predicando la Guerra Santa incitano i loro fedeli a massacrarci. E una cosa è cacciare indiscriminatamente una intera comunità religiosa. L’esilio è una pena che già nell’Ottocento l’Europa applicava con le molle, e solo per qualche individuo. Ai nostri tempi si applica soltanto per i re e le famiglie reali che hanno perso la partita. In parole diverse, non si addice più alla nostra civiltà. Alla nostra etica, alla nostra cultura. E l’idea di trasformarci paradossalmente da vittime in tiranni, da perseguitati in persecutori, è per me inconcepibile.

Mi fa pensare ai trecentomila ebrei che nel 1492 vennero cacciati dalla Spagna, ai pogrom di cui gli ebrei sono stati vittime nell’intero corso della loro storia. Naturalmente, se volessero andarsene di loro spontanea volontà, non piangerei. Anzi, accenderei un cero alla Madonna. Nel saggio pubblicato giorni fa dal Corriere della Sera, “Il nemico che trattiamo da amico”, addirittura glielo suggerisco. «Se siamo così brutti, così cattivi, così spregevoli e peccaminosi» gli dico, «se ci odiate e ci disprezzate tanto, perché non ve ne tornate a casa vostra?». Il fatto è che se ne guardano bene. Non ci pensano nemmeno. Ed anche se ci pensassero, come attuerebbero una cosa simile? Attraverso un esodo uguale a quello con cui Mosè portò via gli ebrei dall’Egitto e attraversò il Mar Rosso? Sono troppi, ormai. Calcolando solo quelli che stanno nell’Unione Europea, sostengono i dati più recenti, circa venticinque milioni. Calcolando anche quelli che stanno nei Paesi fuori dell’Unione Europea e nell’ex Unione Sovietica, circa sessanta milioni.

Questa è la loro Terra Promessa, mi spiego? Rispetto, tolleranza. Assistenza pubblica, libertà a iosa. Sindacati, prosciutto, il deprecato prosciutto, vino e birra, il deprecato vino e la deprecata birra. Blue jeans, licenza di esercitare in ogni senso prepotenze che qui non vengono né punite né rintuzzate né rimproverate. (Inclusa la licenza di buttare i crocifissi dalle finestre). Protettori cioè collaborazionisti sempre pronti a difenderli sui giornali e a impedirne l’espulsione nei tribunali. Caro padre Andrzej, è troppo tardi ormai per chiedergli di tornare a casa loro. Avremmo dovuto, avreste dovuto, chiederglielo venti anni fa. Cioè quando già dicevo: «Ma non lo capite che questa è un’invasione ben calcolata, che se non li fermiamo subito non ce ne libereremo mai più?». In nome della pietà e del pluriculturalismo, della civiltà e del modernismo, ma in realtà grazie ai cinici accordi euro-arabi di cui parlo nel mio libro La Forza della Ragione, invece, li abbiamo lasciati entrare. Peggio: avendo scoperto che non ci piaceva più fare i proletari, cogliere i pomodori, sgobbare nelle fabbriche, pulire le nostre case e le nostre scarpe, li abbiamo chiamati. «Venite, cari, venite, ché abbiamo tanto bisogno di voi». E loro sono venuti. A centinaia, a migliaia per volta. Uomini robusti e sbarbati, donne incinte, bambini. Sempre seguiti dai genitori, dai nonni, dai fratelli, dalle sorelle, dai cugini, dalle cognate, continuano a venire e pazienza se anziché persone ansiose di rifarsi una vita lavorando ci ritroviamo spesso vagabondi. Venditori ambulanti di inutilità, spacciatori di droga e futuri terroristi. O terroristi già addestrati e da addestrare. Pazienza se fin dal momento in cui sbarcano ci costano un mucchio di soldi. Vitto e alloggio. Scuole e ospedali. Sussidio mensile. Pazienza se ci riempiono di moschee. Pazienza se si impadroniscono di interi quartieri anzi di intere città. Pazienza se invece di mostrare un po’ di gratitudine e un po’ di lealtà pretendono addirittura il voto che in barba alla Costituzione le Giunte di Sinistra gli regalano a loro piacimento. Pazienza se, per proteggere la Libertà, a causa loro dobbiamo rinunciare ad alcune libertà. Pazienza se l’Europa diventa anzi è diventata l’Eurabia.

Caro padre Andrzej, io non so quel che accade in Polonia. Ma nel resto dell’Europa, e per incominciare nel mio Paese, non accade davvero quel che accadde a Vienna oltre tre secoli fa. Cioè quando i seicentomila ottomani di Kara Mustafa misero sotto assedio la capitale considerata l’ultimo baluardo del Cristianesimo, e insieme agli altri europei (Francia esclusa) il polacco Giovanni Sobieski li respinse al grido di «Soldati, combattete per la Vergine di Czestochowa». No, no. Qui accade quello che oltre tremila anni fa accadde a Troia, cioè quando i troiani apriron le porte della città e si portarono in casa il cavallo di Ulisse. Sicché dal ventre del cavallo Ulisse si calò con i suoi commandos e gli Achei distrussero tutto ciò che v’era da distruggere, scannarono tutti i disgraziati che c’erano da scannare, poi appiccarono il fuoco e buonanotte al secchio. Perbacco! Inascoltata e sbeffeggiata come una Cassandra, da anni ripeto fino alla noia il ritornello «Troia brucia, Troia brucia». Ed oggi ogni nostra città, ogni nostro villaggio, brucia davvero. Esiliare? Macché vuole esiliare. Oggi gli esuli siamo noi. Esuli a casa nostra.

Non è troppo tardi. E l’unica etica di cui dobbiamo sentirci responsabili, è quella verso i nostri discendenti, non verso invasori privilegiati.

Ora abbiamo chiaro quello che serve per non morire musulmani: blocco dei ricongiungimenti familiari, ritorno allo ius sanguinis. Ed espulsioni di massa.

Abbiamo chiuso i porti, e sembrava impossibile, possiamo riprenderci l’Italia ora che li hanno riaperti.


Il direttore di Libero, Vittorio Feltri, mi aveva avvisato. Oriana Fallaci aveva un carattere difficile. Per il nostro quotidiano, la possibilità di pubblicare un testo a firma dell’autrice de La Rabbia e l’Orgoglio era un’occasione unica. La Rizzoli non era al corrente della faccenda. C’erano problemi di copyright e la Signora non desiderava guastare i rapporti con la sua casa editrice storica. Fu convinta dalla scontentezza verso il Corriere della Sera (col quale comunque continuò a collaborare) e dall’amicizia che la legava a Feltri. La Fallaci considerava Libero un esperimento interessante. I nostri lettori, in crescita costante, la adoravano. Nel marzo 2005, Feltri lanciò una petizione per far nominare la Fallaci senatore a vita. Il successo fu travolgente. A Libero arrivarono decine di migliaia di firme. Il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi preferì Giorgio Napolitano e Sergio Pininfarina. Ma questa è un’altra vicenda. Io ero il giornalista incaricato di raccogliere il testo della scrittrice e di farlo arrivare in edicola, seguendolo in tutte le fasi, dopo che la Fallaci e il direttore avevano concordato il contenuto della nuova avventura editoriale. Per me la Fallaci è stata una voce. Non l’ho mai incontrata. Il lavoro si svolgeva per intero al telefono. La prima chiamata a New York non andò benissimo.

«Pronto, signora Fallaci, sono Alessandro Gnocchi di Libero, come sta?».

«Male, ho il cancro».

La Fallaci era famosa per il suo caratteraccio. Non era un luogo comune. Era davvero ruvida, aggressiva e insoddisfatta. La Rabbia e l’Orgoglio è un grande titolo perché riflette in pieno anche il suo carattere. Presto le infinte sedute telefoniche mi rivelarono le altre qualità della Fallaci. Era guidata da una passione feroce, non avrebbe mai concesso a sé stessa di arrendersi al dolore fisico o alla stanchezza morale. Dai collaboratori pretendeva una dedizione pari alla sua. Dopo aver composto il testo, iniziava a ritoccarlo. Lei mi dettava le correzioni. Io ricomponevo il testo, spesso molto ampio. Lo spedivo via fax a New York non prima di aver ritagliato e modificato le pagine in modo che non sembrasse ciò che era: una bozza di Libero. L’operazione andava avanti per giorni, tutto il giorno (e tenuto conto del fuso orario anche per un certo numero di ore notturne). La sala delle riunioni di Libero diventava il mio bunker, veniva allestita una postazione ad hoc, separata dal resto della redazione. In effetti era come entrare in una dimensione parallela.

Quando il testo si era cristallizzato, la Fallaci rileggeva a voce alta nella cornetta. Se era soddisfatta, si limitava a qualche ulteriore correzione fino all’ultimo momento disponibile prima di andare in stampa. Altrimenti si ricominciava da capo. Come ultima cosa, compilavamo insieme i sommari e sceglievamo le foto una ad una. Non c’era dettaglio che non meritasse la sua completa attenzione. La titolazione principale naturalmente spettava a Feltri. Cosa devo aggiungere? Niente. Posso solo ringraziare di avere avuto l’opportunità di conoscere una persona fuori dall’ordinario e di essere stato ammesso nella sua “officina”. Non racconterò storie false, tipo quanto ero amico della Fallaci. In questi anni l’hanno fatto in troppi senza provare alcuna vergogna. Non siamo stati amici. Il nostro era un rapporto di lavoro. Le nostre chiacchierate, che pure ci sono state, vertevano quasi esclusivamente su articoli e libri. Posso testimoniare che gli autori liberali (Tocqueville e Croce in particolare) citati nella Trilogia erano anche quelli ricorrenti nelle sue parole. Mi rammarico di non essere stato in confidenza con la Fallaci ma fino a un certo punto. Per la Signora, scrivere forse non era tutto ma senz’altro in quegli anni era molto, moltissimo. Vederla scrivere, con quella tenacia e con quell’amore, mi ha insegnato ad avere rispetto del mio lavoro e di me stesso.

Un’ultima cosa, la più importante. I testi usciti su Libero spesso si presentano come estratti dai libri della Trilogia per evitare guai con la Rizzoli. In sostanza lo sono. Ma sono fortemente rielaborati a seconda delle esigenze dettate dalla cronaca. Il filologo qui troverà pane per i suoi denti, tra varianti e passaggi nuovi di zecca. Un caso a parte è l’intervista che propongo di seguito. Qualcuno ha detto che si tratta di un inedito camuffato da colloquio. Non è del tutto vero. Lo speciale della televisione polacca esiste così come l’annunciata trascrizione su rivista. Ma le risposte della Fallaci, come è facile capire dalla loro lunghezza, nella versione italiana uscita su Libero sono infinitamente più articolate e scritte ex novo. Ripubblico tutto come uscì all’epoca, ringraziando Libero e il suo attuale direttore Maurizio Belpietro.

* * *

Da Libero, domenica 14 agosto 2005

Pubblichiamo l’intervista concessa da Oriana Fallaci a Padre Andrzej Majewski, caporedattore della televisione pubblica polacca (Telewizja Polska). Prendendo spunto dai recenti attentati kamikaze di Londra, Padre Andrzej ha chiesto alla scrittrice italiana di esporre la sua opinione sull’immigrazione islamica in Europa, sul ruolo di Papa Benedetto XVI, sulla guerra in Iraq e sul Corano. Il testo, riveduto e convalidato dalla stessa Fallaci, apparirà sul prossimo numero del mensile edito dai gesuiti polacchi Przeglad Powszechny (Rassegna Universale) di Varsavia, rivista di cultura e problemi sociali.

I responsabili degli attacchi terroristici a Londra erano mussulmani nati in Gran Bretagna o cittadini inglesi. Quindi potrebbero essere considerati europei. Crede che per difendere il nostro continente e la civiltà occidentale dovremmo esiliare tutti i mussulmani dell’Europa?

Per incominciare, non sono affatto europei. Non possono essere considerati europei. O non più di quanto noi potremmo essere considerati islamici se vivessimo in Marocco o in Arabia Saudita o in Pakistan beneficiando della residenza o della cittadinanza. La cittadinanza non ha niente a che fare con la nazionalità, e ci vuol altro che un pezzo di carta su cui è scritto cittadino inglese o francese o tedesco o spagnolo o italiano o polacco per renderci inglesi o francesi o tedeschi o spagnoli o italiani o polacchi. Cioè parte integrante di una storia e di una cultura. Secondo me, anche quelli con la cittadinanza sono ospiti e basta. O meglio: invasori privilegiati. Poi una cosa è espellere gli allievi terroristi o gli aspiranti terroristi, i clandestini, i vagabondi che vivono rubando o spacciando droga o, meglio ancora, gli imam che predicando la Guerra Santa incitano i loro fedeli a massacrarci. E una cosa è cacciare indiscriminatamente una intera comunità religiosa. L’esilio è una pena che già nell’Ottocento l’Europa applicava con le molle, e solo per qualche individuo. Ai nostri tempi si applica soltanto per i re e le famiglie reali che hanno perso la partita. In parole diverse, non si addice più alla nostra civiltà. Alla nostra etica, alla nostra cultura. E l’idea di trasformarci paradossalmente da vittime in tiranni, da perseguitati in persecutori, è per me inconcepibile.

Mi fa pensare ai trecentomila ebrei che nel 1492 vennero cacciati dalla Spagna, ai pogrom di cui gli ebrei sono stati vittime nell’intero corso della loro storia. Naturalmente, se volessero andarsene di loro spontanea volontà, non piangerei. Anzi, accenderei un cero alla Madonna. Nel saggio pubblicato giorni fa dal Corriere della Sera, “Il nemico che trattiamo da amico”, addirittura glielo suggerisco. «Se siamo così brutti, così cattivi, così spregevoli e peccaminosi» gli dico, «se ci odiate e ci disprezzate tanto, perché non ve ne tornate a casa vostra?». Il fatto è che se ne guardano bene. Non ci pensano nemmeno. Ed anche se ci pensassero, come attuerebbero una cosa simile? Attraverso un esodo uguale a quello con cui Mosè portò via gli ebrei dall’Egitto e attraversò il Mar Rosso? Sono troppi, ormai. Calcolando solo quelli che stanno nell’Unione Europea, sostengono i dati più recenti, circa venticinque milioni. Calcolando anche quelli che stanno nei Paesi fuori dell’Unione Europea e nell’ex Unione Sovietica, circa sessanta milioni.

Questa è la loro Terra Promessa, mi spiego? Rispetto, tolleranza. Assistenza pubblica, libertà a iosa. Sindacati, prosciutto, il deprecato prosciutto, vino e birra, il deprecato vino e la deprecata birra. Blue jeans, licenza di esercitare in ogni senso prepotenze che qui non vengono né punite né rintuzzate né rimproverate. (Inclusa la licenza di buttare i crocifissi dalle finestre). Protettori cioè collaborazionisti sempre pronti a difenderli sui giornali e a impedirne l’espulsione nei tribunali. Caro padre Andrzej, è troppo tardi ormai per chiedergli di tornare a casa loro. Avremmo dovuto, avreste dovuto, chiederglielo venti anni fa. Cioè quando già dicevo: «Ma non lo capite che questa è un’invasione ben calcolata, che se non li fermiamo subito non ce ne libereremo mai più?». In nome della pietà e del pluriculturalismo, della civiltà e del modernismo, ma in realtà grazie ai cinici accordi euro-arabi di cui parlo nel mio libro La Forza della Ragione, invece, li abbiamo lasciati entrare. Peggio: avendo scoperto che non ci piaceva più fare i proletari, cogliere i pomodori, sgobbare nelle fabbriche, pulire le nostre case e le nostre scarpe, li abbiamo chiamati. «Venite, cari, venite, ché abbiamo tanto bisogno di voi». E loro sono venuti. A centinaia, a migliaia per volta. Uomini robusti e sbarbati, donne incinte, bambini. Sempre seguiti dai genitori, dai nonni, dai fratelli, dalle sorelle, dai cugini, dalle cognate, continuano a venire e pazienza se anziché persone ansiose di rifarsi una vita lavorando ci ritroviamo spesso vagabondi. Venditori ambulanti di inutilità, spacciatori di droga e futuri terroristi. O terroristi già addestrati e da addestrare. Pazienza se fin dal momento in cui sbarcano ci costano un mucchio di soldi. Vitto e alloggio. Scuole e ospedali. Sussidio mensile. Pazienza se ci riempiono di moschee. Pazienza se si impadroniscono di interi quartieri anzi di intere città. Pazienza se invece di mostrare un po’ di gratitudine e un po’ di lealtà pretendono addirittura il voto che in barba alla Costituzione le Giunte di Sinistra gli regalano a loro piacimento. Pazienza se, per proteggere la Libertà, a causa loro dobbiamo rinunciare ad alcune libertà. Pazienza se l’Europa diventa anzi è diventata l’Eurabia.

Caro padre Andrzej, io non so quel che accade in Polonia. Ma nel resto dell’Europa, e per incominciare nel mio Paese, non accade davvero quel che accadde a Vienna oltre tre secoli fa. Cioè quando i seicentomila ottomani di Kara Mustafa misero sotto assedio la capitale considerata l’ultimo baluardo del Cristianesimo, e insieme agli altri europei (Francia esclusa) il polacco Giovanni Sobieski li respinse al grido di «Soldati, combattete per la Vergine di Czestochowa». No, no. Qui accade quello che oltre tremila anni fa accadde a Troia, cioè quando i troiani apriron le porte della città e si portarono in casa il cavallo di Ulisse. Sicché dal ventre del cavallo Ulisse si calò con i suoi commandos e gli Achei distrussero tutto ciò che v’era da distruggere, scannarono tutti i disgraziati che c’erano da scannare, poi appiccarono il fuoco e buonanotte al secchio. Perbacco! Inascoltata e sbeffeggiata come una Cassandra, da anni ripeto fino alla noia il ritornello «Troia brucia, Troia brucia». Ed oggi ogni nostra città, ogni nostro villaggio, brucia davvero. Esiliare? Macché vuole esiliare. Oggi gli esuli siamo noi. Esuli a casa nostra.

Come crede che Papa Benedetto XVI dovrebbe reagire a questa situazione essendo il capo della Chiesa Cattolica Apostolica Romana e il leader d’una religione che predica pace, non-violenza, bontà?

Senta, nel saggio “Il nemico che trattiamo da amico” a un certo punto mi rivolgo direttamente a Ratzinger. Pardon, a Papa Benedetto XVI. (Sa, io lo chiamo sempre Ratzinger e basta. Manco fosse un mio ex professore o addirittura un mio ex compagno di scuola). E mi rivolgo a lui confutando ciò che confutavo a Wojtyla, pardon, a Papa Giovanni Paolo II. Il Dialogo con l’Islam. «Santità» gli dico «Le parla una persona che La ammira molto. Che Le vuole bene, che Le dà ragione su un mucchio di cose. Che a causa di questo viene dileggiata coi nomignoli atea-devota, laica-baciapile, liberal-clericale. Una persona, inoltre, che capisce la politica e le sue necessità. Che comprende i drammi della leadership nonché i suoi compromessi. E che rispetta l’intransigenza della fede. Però il seguente interrogativo glielo devo porre ugualmente: crede davvero che i mussulmani accettino di dialogare coi cristiani, anzi con le altre religioni o con gli atei come me? Crede davvero che possano cambiare, ravvedersi, smetterla di seminar bombe?». E ora aggiungo: il terrorismo islamico non è un fenomeno isolato, un fatto a sé stante. Non è una iniquità che si limita a una minoranza esigua dell’Islam. (Peraltro una minoranza tutt’altro che esigua. Si calcola che l’Europa disponga di ben quarantamila terroristi pronti a scattare. E non dimentichiamo che dietro ogni terrorista c’è una organizzazione precisa, una rete di contatti eccellenti, un oceano di soldi. Ergo, quel numero “quarantamila” va moltiplicato almeno per cinque anzi per dieci. E, stando alla matematica, così facendo s’arriva a duecentomila o quattrocentomila). Il terrorismo islamico è soltanto un volto, un aspetto, della strategia adottata fin dai tempi di Khomeini (anzi fin dai giorni dei cinici accordi euro-arabi) per attuare la globale offensiva chiamata “Revival dell’Islam”.

Risveglio dell’Islam. Un risveglio che ancora una volta mira a cancellare l’Occidente, la sua cultura, i suoi principii, i suoi valori. La sua libertà e la sua democrazia. Il suo Cristianesimo e il suo Laicismo. (Sissignori, anche il laicismo. Forse, soprattutto il laicismo. Ma non l’avete ancora capito che il laicismo non può coabitare con la teocrazia?!?). Un risveglio, insomma, che non si manifesta soltanto attraverso le stragi ma attraverso il secolare espansionismo dell’Islam. Un espansionismo che fino all’assedio di Vienna avveniva con gli eserciti e le flotte dei sultani, i cavalli, i cammelli, le navi dei pirati, e che ora avviene attraverso gli immigrati decisi a imporre la loro religione. La loro prepotenza, la loro prolificità. E tutto ciò sfruttando la nostra inerzia, la nostra debolezza, o la nostra buonafede. Peggio: la nostra paura.

Be’: Papa Ratzinger, pardon, Benedetto XVI, lo sa meglio di me. Basta leggere i suoi libri, conoscere ciò che scrive sull’Europa, capire l’allarme che esprime nei riguardi dell’Europa, per concludere che lo sa meglio di me. Meglio di tutti noi. Il guaio è che si trova in una situazione difficilissima. Forse la più difficile che possa intrappolare un leader del nostro tempo. Difficile da un punto di vista teologico e filosofico. Difficile da un punto di vista politico e umano. Il fatto di stare a capo d’una Chiesa che basa il suo credo sull’amore e sul perdono, anzitutto. Che in termini ecumenici predica «ama-il-prossimo-tuo, quindi-pure-il-nemico-tuo-come te stesso». Poi il fatto di governare un’immensa comunità che, nei riguardi dell’Islam, anche nei suoi ranghi gerarchici è divisa cioè arroccata su opposte posizioni. Pensi alla Caritas che raccatta i clandestini e magari li nasconde. Pensi ai frati Comboniani che con la sciarpa arcobaleno sulla tonaca bianca gli distribuiscono simbolici permessi-di-soggiorno. Pensi ai preti che sull’altare della loro chiesa permettono agli imam di celebrare il matrimonio misto e berciare Allah-akbar, Allah-akbar. (Come è successo, per esempio, a Torino). E infine il fatto d’essere l’immediato successore d’un Papa, Papa Wojtyla, che a parlare di Dialogo è stato il primo. Che con il comunismo e l’Unione Sovietica usava il pugno di ferro ma con l’Islam usava il guanto di velluto. Che gli imam li invitava ad Assisi. Che l’ex terrorista e magnate di terroristi Yasser Arafat lo riceveva in Vaticano. E che contro Bin Laden non tuonava mai in modo diretto. (Padre Andrzej, mi dispiace dirlo a lei che è polacco e che con questa intervista si rivolge ai polacchi: so bene quanto è venerato Wojtyla in Polonia. E non a torto perché Wojtyla era un grand’uomo, un grande leader. Ma, su quel punto, secondo me sbagliava). Be’, Ratzinger amava molto Wojtyla. Per stargli vicino, si sa, rinunciò perfino al desiderio di invecchiare nella sua Baviera e tornare al lavoro che gli piaceva di più cioè l’insegnamento. Inoltre lo sosteneva, lo consigliava. E si può forse pretendere che di punto in bianco imbocchi un’altra strada, sconfessi il sogno del dialogo?

Eppure io ho fiducia in Ratzinger, in Benedetto XVI. È troppo intelligente per non rendersi conto che il Risveglio dell’Islam s’è ingigantito come all’epoca dell’Impero Ottomano, e che col suo fondamentalismo ha assunto i contorni d’un nuovo nazismo. Che dialogare o illudersi di poter dialogare con un nuovo nazismo equivale a commettere lo stesso errore che l’Inghilterra di Chamberlain e la Francia di Daladier commisero nel 1938. Cioè quando, illudendosi di poter trattare con Hitler, Francia e Inghilterra firmarono il Patto di Monaco e un anno dopo si ritrovarono con la Polonia invasa dai nazisti. È un uomo davvero raziocinante, Benedetto XVI. Guardi come affronta, lui, l’irresolubile problema di conciliare la fede con la ragione. Capisce benissimo che nei riguardi dell’Islam il laicismo ha perso il treno! Che i laici a parole ma non a fatti sono mancati all’appuntamento loro offerto dalla Storia. Che soprattutto a Sinistra si sono messi dalla parte del nemico. Un nemico deciso ad estendere la sua ideologia teocratica all’intero pianeta. Altrettanto bene capisce che, mancando all’appuntamento loro offerto dalla Storia, quei laici hanno aperto una voragine. Hanno creato un vuoto da riempire. Non a caso penso che prima o poi, (meglio prima che poi), lui lo riempirà. Il suo volto è buono, il suo sorriso è mite, ma i suoi occhi sono molto fermi. Molto risoluti.

Questo non significa aizzare Crociate, guerre di religione: l’accusa che mi rivolgono gli imbecilli in malafede. Non significa vendersi al Vaticano, tradire il laicismo. (Il mio laicismo, padre Andrzej, è a prova di bomba. Non di convenienza). Non significa insomma mettersi al servizio d’un Papa, invitarlo a sostenere il ruolo di Giovanni Sobieski che ai suoi soldati urla «Combattete per la Vergine di Czestochowa». Non significa chiedergli di indossare l’armatura cara ai suoi predecessori rinascimentali, di sguainare la spada, tagliare la testa di chi la taglia a noi. E tanto meno significa spingere all’orrore dei pogrom. Significa ricordare all’intransigenza della fede che l’autodifesa è una legittima difesa. Non un peccato. Significa sostenere che, quando è necessario, anche un sant’uomo può fare la voce grossa.

Comportarsi come Gesù Cristo che al Tempio perde la pazienza e rovescia le bancarelle dei mercanti, magari gli tira anche un bel pugno sul naso. E per me significa scegliere bene il proprio alleato. Per me atea-cristiana (devota no ma cristiana sì) il Cristianesimo non è soltanto una filosofia di prima qualità, un pensiero al quale ispirarmi, una radice dalla quale non posso e non devo e non voglio prescindere. È anche un alleato. Un compagnon de route. Di conseguenza, lo è pure chi lo interpreta ai massimi livelli. Cioè chi lo rappresenta. Sa, nel mio caso non si tratta di mischiare il sacro con il profano, il diavolo con l’acqua santa. Si tratta di esercitare la razionalità. L’autodifesa che è legittima difesa, e la razionalità.

Infatti la cosa che mi ha dato più conforto negli ultimi tempi è stata l’intervista che l’acutissimo vescovo Rino Fisichella, il Rettore dell’Università Lateranense, dette al Corriere della Sera a proposito del mio sentirmi meno sola dacché leggo Ratzinger e Ratzinger è diventato Benedetto XVI. Intervista che il Corriere pubblicò sotto il commovente titolo: “Ratzinger, Oriana: l’incontro di due pensieri liberi”. Più che un’intervista, una sentenza. Un verdetto. «Non la stupisce» gli chiede subito l’intervistatore «questa concordanza con il Papa da parte di una donna che si definisce atea?». E Fisichella, pardon, il vescovo Fisichella, risponde: «Non mi stupisce. Anzi mi conferma la possibilità, sempre offerta a tutti, d’un vero incontro sulla base della Ragione. La Forza della Ragione è un titolo famoso della Fallaci, ma anche un’espressione che ricorre negli scritti del teologo Ratzinger. Come del resto ricorre nell’Enciclica Fides et Ratio di Giovanni Paolo II». E quando l’intervistatore gli chiede quale sia il segreto di quell’intesa sulla base della Ragione, risponde: «Nel caso della Fallaci e del Papa che si incontrano nel giudizio sulla crisi dell’Europa e dell’Occidente, il segreto sta nella Libertà. Sappiamo quanto la Fallaci tenga alla sua autonomia di giudizio che è forse la qualità che più le ha permesso di fare storia nel giornalismo e nella narrativa. E ugualmente sappiamo quanto il teologo Ratzinger sia sempre stato libero dalle idee ricevute nonché incurante del politically correct». Infine, alla domanda che-dice-sulla-battuta-della-Fallaci: «Se un’atea e un Papa sostengono la medesima cosa, significa che in quella cosa dev’esserci qualcosa di vero», risponde: «Dico che, se si pensa davvero, ci si incontra. Dico che, se si va oltre le diverse forme di relativismo cui siamo abituati, se si superano gli schematismi e i pensieri deboli, si arriva a un’unità profonda. Anche se partiamo da luoghi diversi».

Sacrosante parole a cui non ho da aggiungere una virgola, e su cui tanti dovrebbero riflettere un po’. (Non dico quanto ho riflettuto io sulla geniale raccomandazione che Ratzinger rivolge ai non credenti: “Comportatevi come se Dio esistesse, velut si Deus daretur”… Si stancherebbero troppo. Ma una pensatina, sì.

Qual è la sua opinione sulla guerra contro il terrorismo attualmente condotta dagli Stati Uniti?

Senta, padre Andrzej: un mese prima che scoppiasse la guerra in Iraq scrissi per lo Wall Street Journal e per il Corriere della Sera un articolo intitolato “La rabbia, l’orgoglio e il dubbio”. Articolo dove, insieme a molte altre cose per cui sono stata messa alla gogna anzi crucifissa, dicevo questo: «E se l’Iraq diventasse un secondo Vietnam? E se dalla sconfitta di Saddam Hussein nascesse una Repubblica Islamica dell’Iraq cioè una copia della Repubblica Islamica dell’Iran khomeinista? La libertà e la democrazia non si possono regalare come due pezzi di cioccolata. Specialmente in un Paese, in una società, che di quei concetti ignora il significato. La Libertà bisogna conquistarcela. E per conquistarcela bisogna sapere cos’è. Bisogna capirla, bisogna volerla. La democrazia, ovvio, lo stesso. Forse mi sbaglio, ma gli iracheni io li lascerei bollire nel loro brodo». Sbagliavo? Temo di no. D’accordo, provo conforto a vedere che Saddam Hussein è caduto dal trono con la sua banda. Provo soddisfazione, anzi un goccio di sia pur perplessa speranza, a pensare che anche ignorando cos’è la democrazia tanti iracheni e tante irachene siano andati a votare. Ma, visto il prezzo che stanno pagando e che stiamo pagandouu, visti i morti che a entrambi ci costa, continuo a credere che sarebbe stato meglio lasciarli bollire nel loro brodo. In Iraq gli Stati Uniti si sono impantanati come si impantanarono in Vietnam. Nel pantano il cancro dell’antiamericanismo è diventato più velenoso quindi più pericoloso del falso pacifismo che gli arcobalenisti sventolano da una parte sola. E per capirlo basta un esempio che indigna: ad ogni strage di piccoli iracheni assiepati intorno al Marine che distribuisce le caramelle, gli imbecilli in malafede scrivono che «gli americani si fanno scudo dei bambini». Parole che, inutile dirlo, aiutano non poco i Bin Laden e gli Zarqawi. Quasi ciò non bastasse, l’Iran di Khomeini è uscito allo scoperto imponendo le sue centrali nucleari ed eleggendo presidente il bieco individuo che a Teheran capeggiò il sequestro degli ostaggi americani presi all’Ambasciata. Il petrolio sale, e con l’aiuto dell’Iran la Repubblica Islamica dell’Iraq incombe sempre di più.

Detto questo, cioè ammesso che la frittata è ormai fatta, affermo che attribuire il terrorismo alla guerra in Iraq è un errore anzi una frode per ingannare gli stolti. Accidenti, l’Undici Settembre del 2001 la guerra in Iraq non c’era. La guerra che l’Undici Settembre ci venne dichiarata ufficialmente da Osama Bin Laden, invece, c’era già. Da decenni i figli di Allah tormentavano l’Europa e l’America e Israele con le loro carneficine. Ricorda quelle che anche in Italia subivamo ad opera degli Habbash e degli Arafat? Oh, lo capisco a che cosa mira la sua domanda. Mira alla faccenda del ritirare le truppe dall’Iraq. E le rispondo: non è imitando l’irresponsabile e insopportabile Zapatero che il terrorismo islamico cesserà o diminuirà. Al contrario. Ogni volta che un contingente si ritira, l’Europa dà un’altra prova di debolezza, di paura. Ed oltre ad abbandonare gli iracheni nelle grinfie di Al Qaeda e dell’Iran, ogni volta affondiamo la vanga dentro la fossa che ci stiamo scavando con le nostre stesse mani. Per andarcene, per tentar di rimediare alla frittata ormai fatta, ci vorrà tempo. E parecchio cervello.

A suo avviso definire l’Islam “una religione di pace” e dire che il Corano insegna la misericordia è una sciocchezza. Perché?

Perché a parte quattordici secoli di Storia, (secoli durante i quali l’Islam non ha fatto che scatenar guerre ossia conquistare e sottomettere e massacrare), lo dice il Corano. È il Corano, non mia zia, che chiama i non-mussulmani «cani infedeli». È il Corano, non mia zia, che li accusa di puzzare come le scimmie e i cammelli. È il Corano, non mia zia, che invita i suoi seguaci a eliminarli. A mutilarli, lapidarli, decapitarli, o almeno soggiogarli. Sicché se in Arabia Saudita ti fai beccare con una crocetta al collo, un santino in tasca, una Bibbia in casa, finisci in galera o magari al cimitero. E se in Sudan sei un povero africano o una povera africana che prega la Madonna, finisci almeno coi ceppi ai polsi ed ai piedi cioè in stato di schiavitù. Ma volete mettervela in testa questa semplice, inequivocabile, indiscutibile verità? Tutto ciò che i mussulmani fanno contro di noi e contro sé stessi è scritto nel Corano. Richiesto o voluto dal Corano. La Jihad o Guerra Santa. La violenza, il rifiuto della democrazia e della libertà. L’allucinante servitù delle donne. Il culto della Morte, il disprezzo della Vita. E non mi risponda come i furbacchioni del presunto Islam Moderato, non mi dica che il Corano ha versioni varie e diverse. Gira e rigira, in ogni versione la sostanza è la stessa. E dove si nasconde, in quella sostanza, la “religione di pace”? Dove si nasconde “la misericordia di Allah”? Io non la capisco la deferenza con cui voi cattolici vi riferite al Corano. Io non lo capisco l’ossequio che manifestate verso Maometto. Manco Cristo e Maometto fossero due amiconi che bisbocciano insieme in Paradiso o nel Djanna. Non lo capisco il vostro insistere con la scappatoia del Dio Unico. Domenica 17 luglio, in una chiesetta della provincia di Varese, un parroco ha invitato un bambino mussulmano a pregare Allah poi ha concluso la Messa dichiarando quasi minacciosamente ai fedeli: «E badate bene che chi non vuole chiamare Padre anche Allah, non è degno di recitare il Pater Noster». Ma come?!? Allah non ha nulla a che fare col Dio del Cristianesimo. Nulla. Non è un Dio buono, non è un Dio Padre. È un Dio cattivo. Un Dio Padrone. Gli esseri umani non li tratta come figli. Li tratta come sudditi, come schiavi. E non insegna ad amare: insegna a odiare. Non insegna a rispettare: insegna a disprezzare. Non insegna ad essere liberi: insegna a ubbidire. Basta leggere le Sure sui cani-infedeli per rendersene conto. Ad esempio le quattro in base alle quali, nel lercio libretto scritto dal mussulmano (naturalizzato italiano) che butta i crocifissi dalla finestra e che definisce la Chiesa cattolica “un’associazione a delinquere” (ma nessuno lo processa), i mussulmani vengon sollecitati a castigare la Fallaci cioè ad eliminarla.

No, no, il nostro primo nemico non è Bin Laden. Non è Zarqawi. Non sono i terroristi e i tagliateste. Il nostro primo nemico è quel libro. Il libro che li ha intossicati. Ecco perché dico che il dialogo con l’Islam è impossibile e respingo la fandonia dell’Islam Moderato, cioè l’Islam che ogni tanto si degna di condannare le stragi però alle condanne aggiunge sempre un “se” o un “ma”. Ecco perché la convivenza col nemico che trattiamo da amico è una chimera, e la parola “integrazione” è una bugia. Ecco perché illudersi di poter trattare con loro equivale a firmare il Patto di Monaco con Hitler, a ripetere l’errore di Chamberlain e di Daladier. Ecco perché parlo sempre di nazismo islamico e mi rifaccio a Churchill che diceva: «verseremo lacrime e sangue». Ecco perché sostengo che il loro nazismo non è una questione di razza, di etnia: è una questione di religione. Giuridicamente, infatti, molti sono davvero nostri concittadini. Gente nata in Inghilterra, in Francia, in Italia, in Spagna, in Germania, in Olanda, in Polonia, eccetera. Individui cresciuti come inglesi, francesi, italiani, spagnoli, tedeschi, olandesi, polacchi, eccetera. Giovani che hanno studiato o studiano nelle nostre scuole medie e nelle nostre università, che parlano bene le nostre lingue, che giocano a football o a cricket e frequentano le discoteche e le palestre. Che non di rado bevono il vino e la birra e la vodka. Che sembrano davvero inseriti nella nostra società. A colpo d’occhio lo sembrano, sì. Non portano nemmeno la barba.

Intanto, però, trattano le loro donne (e anche le nostre) come le trattano. Le picchiano, le umiliano, a volte le ammazzano. E, quando mettono piede in moschea, si fanno ricrescere la barba. Ascoltano l’imam che predica la Jihad, studiano cioè imparano a memoria il Corano, e paf! Diventano aspiranti terroristi poi allievi terroristi poi militanti terroristi. Mentre quelli che non lo diventano, i cosiddetti moderati, farfugliano i loro ambigui “se” o “ma” o “però”. (E in Israele pretendono addirittura di modificare l’inno e la bandiera). Padre Andrzej, a me le statistiche sono antipatiche. Tuttavia non possono essere ignorate, e dall’inchiesta che dopo la strage di Londra è stata condotta per il Daily Telegraph risulta che il 24% dei mussulmani inglesi ammette di “provar simpatia per i sentimenti e i motivi che hanno portato alla strage del 7 luglio”. Il 46% dei moderati capisce “perché quegli ex sbarbati si comportano in tal modo”. Il 32% ritiene “che i mussulmani debbano porre fine alla decadente civiltà Occidentale”. Il 14% confessa “di non sentirsi in dovere d’avvertire la polizia se sanno che è in preparazione un attentato, e ancor meno se un imam incita alla Guerra Santa”. Quasi non bastasse, da un rapporto governativo indicato come “The Next London Bombing” risulta che in Gran Bretagna vi sono sedicimila mussulmani impegnati in attività terroristiche, e che la metà dei giovani mussulmani intervistati si dicono “ansiosi di passare alla violenza per eliminare la nostra immorale società”. Per giudicare senza statistiche basta leggere ciò che è emerso dall’arresto del terrorista di cittadinanza inglese e nazionalità etiope o eritrea Hamdi Issac: arrestato a Roma dov’era vissuto per cinque anni insieme alla numerosa famiglia.

E dove anche i suoi fratelli con regolare Permesso di Soggiorno sono finiti in carcere per rilascio di passaporti falsi a scopo terroristico. Ma lo sa che in Italia quell’Issac c’era arrivato (con falso passaporto somalo) come “rifugiato politico”? Lo sa che a Londra aveva abitato sei anni a spese dello Stato Britannico da cui riceveva sussidi anche per l’alloggio? Lo sa che la cittadinanza britannica gliela avevano data senza batter ciglio e senza accorgersi che il suo nome era falso? Lo sa che insieme agli altri tre (anche loro naturalizzati cittadini britannici, anche loro mantenuti col sussidio statale) e insieme al suo boss Muktar Said Ibrahim (anche lui naturalizzato cittadino britannico, anche lui mantenuto col sussidio statale) confezionava esplosivi cui si divertiva ad aggiungere chiodi e bulloni e lamette per far più male? («Ma lui dice che non voleva uccidere nessuno. Voleva fare soltanto un’azione dimostrativa» ha dichiarato la fascinosa avvocatessa che lo Stato italiano gli ha fornito a spese dei contribuenti).

Padre Andrzej, le dà fastidio udire certe cose: vero? Le ripugna vedere in tanti nostri ospiti una nuova Hitler-Jugend che applica il suo Mein Kampf: vero? E trova eccessivo che in loro io veda un pericolo per l’Occidente e il resto dell’umanità: vero? Allora le rammento che a installare il nazismo in Germania, in Europa, non fu l’intero popolo tedesco. Fu la non esigua minoranza di sciagurati che al profeta Adolf Hitler guardava come i terroristi di oggi guardano al profeta Maometto. E se crede che sia ingiusto darne la colpa a una religione anzi a un libro, pensi al ragazzo americano che i Marines catturarono coi Talebani durante la guerra in Afghanistan. Americano, ripeto. Californiano. Losangelino con la pelle bianca come il bianco dell’uovo sodo, e di educazione laico-cristiana. Non marocchino o tunisino o saudita o senegalese o somalo. Con la pelle scura. Ma un giorno quel losangelino aveva messo piede in moschea, aveva detto: «Mammy, daddy, voglio studiare il Corano». Poi era andato in Pakistan, il Corano se l’era imparato a memoria, il cervello se l’era fatto lavare dagli imam, ed era finito coi Talebani a Kabul.

Padre Andrzej, è questa la mia risposta al suo ultimo perché. E so bene che a dargliela rinforzo il rischio di andare in galera per reato di opinione mascherato con l’accusa di “vilipendio all’Islam”. So bene che insieme alla galera rischio la vita cioè sfido ancora di più la nuova Hitler-Jugend che vorrebbe ammazzarmi. So altrettanto bene che neanche noi siamo stinchi di santo. Che nella nostra Storia anche noi ne abbiamo combinate di cotte e di crude. Ma oggi il pericolo non siamo noi. Sono loro. È il loro libro. E visto che nessuno lo dice, visto che qualcuno deve dirlo, lo dico io. Col che saluto i polacchi che attraverso la sua traduzione ci hanno seguito. Saluto Lei, e la ringrazio d’avermi ascoltato.

Padre Andrzej Maiewski
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Nazionalità e cittadinanza non sono la stessa identica cosa

Messaggioda Berto » gio feb 10, 2022 9:09 pm

In classe solo un'italiana e 18 stranieri. La mamma: “Sono razzisti con lei”
Secolo d'Italia
lunedì 16 Ottobre 2017

https://www.secoloditalia.it/2017/10/in ... lei-video/

Questa è l’integrazione che piace ai buonisti, a Laura Boldrini, alla Kyenge e alla solita compagnia di giro dell’accoglienza. Scene di razzismo al contrario sono quelle raccontate da una mamma ad Agorà, il programma di approfondimento mattutino di Raitre, l’esperienza della propria figlia a scuola, unica italiana in una classe con 18 bambini stranieri. Se ad essere emarginata è un’italiana, la famiglia deve faticare a farsi ascoltare. Siamo alla quasi sostituzione degli italiani con bambini di origine straniera. Missione compiuta per la sinistra, ma non per la famiglia. “Mia figlia era emarginata perché non era della loro stessa razza – ha spiegato la donna -. Invitavamo i compagni a casa a fare i compiti ma rifiutavano perché non era della stessa religione”. Si riempiono la bocca che l’integrazione deve passare dalla scuola, ma poi, quando la mancata integrazione colpisce i ragazzi italiani si fa finta che va bene così. Accade a Modena, ma come molti genitori sanno è una situazione comune a quasi tutte le città italiane, dalla provincia fino alle metropoli e non solo nei quartieri più disagiati. Hanno fatto discutere i casi analoghi di alcune scuole di Milano e Padova usciti fuori a scuole appena iniziate. Anche il caso della scuola di Modena era stata posta all’attenzione. Inutimente. Esclusa dalle attività scolastiche e parascolstiche, esclusa a ricreazione, insomma non una vita facile per la bambina.


Razzismo al contrario

Arriva quindi in studio la domanda stupida dell’intervistatrice, faziosa quanto basta per infischiarsene del caso umano della bambina italiana: “Ma signora, anche gli altri bambini sono italiani…”, dice alla madre, dimostrando di non avere capito il problema. I 18 altri bambini della classe hanno provenienze diverse ma la maggior parte sono comunque bambini nati in Italia. La signora intervistata lo sa benissimo e spiega quale è il problema. «Non sono un problema i bambini. Io non ho paura dello straniero – spiega molto sinceramente la mamma – ma vorrei che la scuola funzionasse correttamente». La famiglia in questione non ha problemi alla convivenza con gli stranieri, semmai è vero il contrario: «Lo dimostra il fatto che siamo rimasti in questa scuola nonostante altri abbiano preferito andarsene. Vorremmo però che la scuola fosse un posto dove davvero si pratica l’integrazione. Una classe concepita in questo modo significa non avere minimamente presente quello che succede tra i nostri ragazzi». Immaginiamo, verosimilmente, che l’altra faccia della mancata integrazione, ossia gli italiani emarginati dai nuovi italiani, non interessi a nessuno, non sia argomento utile agli obiettivi politici che interessano: lo ius soli e al diavolo tutto il resto.


Alberto Pento
Agli stranieri la cittadinanza non dà la nazionalità e nemmeno l'essere nati e cresciuti in Italia dà la nazionalità.
La concessione della cittadinanza italiana non porta con sé l'identità etnica e culturale nazionale italiana, dà solo una qualifica politica che può essere politicamente ingannevole e umanamente e civilmente dannosa per gli italiani nazionali.
Nascere in italiana non trasforma i figli dei non italiani immigrati in Italia in italiani nazionali.
Questa intervistatrice demenziale, ignorante e politicamente corretta è un pericolo pubblico.
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Nazionalità e cittadinanza non sono la stessa identica cosa

Messaggioda Berto » gio feb 10, 2022 9:09 pm

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Nazionalità e cittadinanza non sono la stessa identica cosa

Messaggioda Berto » gio feb 10, 2022 9:10 pm

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Nazionalità e cittadinanza non sono la stessa identica cosa

Messaggioda Berto » gio feb 10, 2022 9:10 pm

2)
Contributi e spunti sul tema e questione


Nazionalità e cittadinanza
Cittadinanza e nazionalità sono la stessa cosa ?

Maria Grazia Roversi

https://www.cittadinanza.biz/nazionalit ... tadinanza/

Fra il concetto di cittadinanza e quello di nazionalità ci sono delle differenze sostanziali, spesso non colte dato che questi due termini vengono usati come sinonimi o quasi nei discorsi comuni.

Definizione di cittadinanza

In ogni caso per cittadinanza vogliamo intendere la condizione della persona fisica alla quale vengono riconosciuti, dallo Stato, tutti i diritti civili e politici.

Per questo la cittadinanza è in primis uno status del cittadino, dal punto di vista giuridico, ma è anche una relazione particolare fra il cittadino e lo Stato; grazie a questo status, il primo può esercitare una serie di diritti.

Il concetto di cittadinanza è, dal punto di vista storico, abbastanza recente perché è espressione dello Stato moderno, caratterizzato dalla sovranità e dalla territorialità.

Lo Stato esercita, su un territorio ben specifico, la sua autorità e questo crea un sistema di relazioni fra colui che subisce l’autorità (cittadino) e lo Stato medesimo.

Il cittadino, al contrario dello straniero, mantiene questo peculiare rapporto col suo Stato d’appartenenza anche quando esce al di fuori dei suoi confini, a differenza di quello che avviene invece con lo straniero, il quale ha un rapporto più o meno intenso con lo Stato limitato al periodo della sua permanenza sul territorio nazionale.


Nazionalità definizione

Diversa dalla cittadinanza è la nazionalità. Quando si parla di nazionalità si può intendere semplicemente come ‘appartenenza ad una nazione’.
L’appartenenza ad una nazione – o nazionalità – consiste nel sentimento di comunanza rispetto ad una lingua, ad una certa cultura, a determinate tradizioni, ad una religione e via dicendo.
Il termine nazionalità, quindi, ha un’accezione meramente culturale. Il concetto di nazionalità non era però sconosciuto, già ai Romani utilizzavano la parola “natio”.
Quando si fa riferimento al rapporto giuridico che intercorre fra lo Stato ed il cittadino, ed in virtù del quale al cittadino sono riconosciuti diritti e doveri, non si deve parlare di nazionalità, bensì di cittadinanza.


Esempi di differenze tra i due concetti

Da considerare anche che non sempre la nazionalità coincide con la cittadinanza. La nazionalità italiana (come comunanza di lingua, tradizione e cultura, modo di pensare) per esempio accomuna anche cittadini di altri Stati diversi dall’Italia, come quello del Vaticano o di San Marino.
È bene quindi sottolineare che non sempre cittadinanza e nazionalità coincidono, e che i due termini dovrebbero essere utilizzati con maggiore precisione.
Per acquisire la cittadinanza, di solito si pretende che il richiedente abbia assimilato la lingua, la cultura e le tradizioni locali, che insomma si sia integrato.


CITTADINANZA E NAZIONALITA'

https://www.italianiallestero.net/citta ... lita-.html

Molto spesso i significati di nazionalità e cittadinanza vengono erroneamente confusi e identificati nel medesimo concetto.

La nazionalità definisce l'appartenenza ad una comunità per storia, religione, tradizione, cultura e lingua.

È un legame giuridico, un diritto fondamentale.

Tale principio è stato elemento aggregatore nella formazione degli Stati nazionali e trova oggi un suo correlato, anche se di contenuto non coincidente, nel principio di “autodeterminazione dei popoli” sancito dalla Carta delle Nazioni Unite e da numerose risoluzioni delle organizzazioni internazionali (come dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo all’art. 15 e dalla Convenzione Europea sulla Nazionalità del 1997 all’art. 4).

La cittadinanza è la condizione giuridica del cittadino alla quale l'ordinamento di uno Stato identifica la pienezza dei diritti politici e civili e, più precisamente, l'insieme dei diritti (elettorato passivo e attivo) e dei doveri (rispetto delle leggi).

Nel diritto romano la sussistenza dello “status civitatis” (ovvero essere cittadino romano), era uno dei requisiti necessari insieme allo “status libertatis” (essere libero), e allo “status familiae”(essere “pater familias”) che permettevano di identificare i soggetti che godevano della capacità giuridica e cioè coloro che potevano imputare a sé stessi gli effetti di un determinato atto: tali soggetti venivano definiti “sui iuris”.

L'art. 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 1948, sancisce che ogni individuo, in ogni parte del mondo, ha il diritto ad avere un legame giuridico con uno Stato: "ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza".

In quasi tutti i Paesi, le leggi che definiscono le regole per ottenere la cittadinanza seguono i seguenti criteri:

filiazione o diritto del sangue "iure sanguinis": è cittadino per nascita il figlio di un cittadino;
matrimonio: acquisisce la cittadinanza lo straniero che sposa un cittadino;
diritto del suolo "iure soli": acquisisce la cittadinanza il figlio di un cittadino straniero che nasce sul territorio nazionale;
naturalizzazione: acquisisce la cittadinanza lo straniero che richiede una nazionalità nuova, che per il più delle volte risulta essere quella del paese di residenza.


Istituto Nazionale Previdenza Sociale INPS
‘Cittadinanza e Nazionalità : una distinzione necessaria’
http://www.aisfonlus.it/download/cittad ... nalita.pdf


NAZIONALITÀ
SCHNAPPER, Dominique
Antonio Perotti

http://www.interculturatorino.it/glossary/nazionalita/

Termine che ha due significati principali: l’uno legato alla nazione/stato e dice riferimento alla cittadinanza giuridica e il secondo legato al concetto di nazione che include il concetto più ampio di coscienza storica e appartenenza identitaria collettiva.

Nella sua prima accezione giuridica la “nazionalità” designa il legame giuridico tra una persona e uno Stato e si confonde con il termine di “cittadinanza” e non indica l’origine etnica o culturale della persona. È solo in questo senso che si può parlare giuridicamente di “pluralità di nazionalità” o di “doppia nazionalità”, termini che designano la possessione di due o più nazionalità da parte della stessa persona.

È la nazionalità come legame giuridico tra una persona e uno Stato che è l’oggetto della Convenzione europea sulla nazionalità del Consiglio d’Europa firmata il 6 novembre 1997 da 17 Stati membri, tra cui l’Italia. Per il diritto internazionale compete a ogni Stato determinare nella propria legislazione quali sono i suoi cittadini, entro il quadro del diritto internazionale vigente. Le regole sulla nazionalità di ogni Stato firmatario della Convenzione europea sulla nazionalità devono, ad esempio, essere fondate sui principi seguenti:

a) ogni individuo ha diritto ad una nazionalità;
b) deve essere evitata l’apatridia (non appartenenza giuridica a nessun Stato);
c) nessuno può essere privato della propria nazionalità;
d) né il matrimonio, né la dissoluzione del matrimonio tra un cittadino di uno Stato membro e uno straniero, né il cambiamento di nazionalità dell’uno dei congiunti durante il matrimonio possono avere effetto automatico sulla nazionalità dell’altro congiunto.

Per attribuire la nazionalità, gli Stati membri utilizzano quattro criteri principali, che sono segni del legame potenziale dell’individuo allo Stato: il luogo di nascita, detto anche “diritto del suolo” dal latino “ius soli”; il legame di filiazione, ossia la/le nazionalità dei genitori, detto anche “diritto del sangue” dal latino “ius sanguinis”; la situazione matrimoniale (essere sposati con un cittadino dello Stato rispettivo); la residenza passata, presente o futura o una durata di soggiorno più o meno lunga sul territorio dello Stato.

La nazionalità, in un senso più largo (etnologico e politico) è un concetto dinamico, intermediario tra l‘etnia e la nazione e si definisce nello stesso tempo sia come coscienza storica (sentimento di una comunità di territorio, di lingua e di tradizione), sia come volontà di vivere insieme e sia come aspirazione politica. È questo progetto storico-politico che distingue la nazionalità dall’etnia. Oggi si assiste, tuttavia, al fatto che all’interno di numerose etnie si rivendichi non solamente il diritto all’esistenza, ma il diritto di essere soggetti della storia, di diventare nazioni, pur rifiutando le strutture monolitiche dello Stato. Si assiste così, sotto l’effetto del sentimento di nazionalità, a uno slittamento semantico significativo che mostra che i termini di etnia e di nazione sono in piena evoluzione e che non si può fissarli entro definizioni rigide per la semplice ragione che i loro campi semantici tendono a sovrapporsi almeno parzialmente.

La nazione, come realtà storica, deve distinguersi dal nazionalismo. Questo termine designa sia la rivendicazione delle etnie a essere riconosciute come nazioni, sia a fare coincidere la comunità storico-culturale (o etnia) con l’organizzazione politica, sia la volontà di potenza delle nazioni già costituite per affermarsi a spese delle altre. Spesso le critiche indirizzate contro le nazioni riguardano i nazionalismi.




Cittadinanza e nazionalità si wikipedia

La cittadinanza è la condizione giuridica e sociale di chi appartiene a uno Stato, dalla quale deriva il riconoscimento di diritti civili, sociali, economici e politici e altrettanti doveri.
In sociologia il concetto assume una valenza più ampia e si riferisce all'appartenenza e alla capacità d'azione dell'individuo nel contesto di una determinata comunità politica.
https://it.wikipedia.org/wiki/Cittadinanza



La nazionalità è il senso di appartenenza ad una nazione per lingua, cultura, tradizione, religione, storia; in questo senso, la nazionalità coincide con l'idea di nazione esprimente il complesso di quegli elementi culturali che caratterizzano la storia di un gruppo etnico.
Talora i due termini vengono separati per non confondere la Nazione - identificata, anche se non sempre in maniera propria, con lo Stato, entità più giuridica che culturale - con le nazionalità che la compongono, come fa, ad esempio, l'articolo 2 della Costituzione della Spagna del 1978.
Nel linguaggio comune in Italia il termine è spesso usato, in maniera errata, come sinonimo di cittadinanza.
https://it.wikipedia.org/wiki/Nazionalit%C3%A0
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Nazionalità e cittadinanza non sono la stessa identica cosa

Messaggioda Berto » gio feb 10, 2022 9:11 pm

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Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Nazionalità e cittadinanza non sono la stessa identica cosa

Messaggioda Berto » gio feb 10, 2022 9:11 pm

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