Sentenza Dell'Utri: assolti gli imputati principali della trattativa stato mafiaGiovanni Bianconi
23 settembre 2021
https://www.corriere.it/cronache/21_set ... P6wUZcY3VUCadono le accuse per gli ufficiali dei carabinieri Mori, Subranni e De Donno e anche per Marcello Dell’Utri. Quanto ai boss, prescrizione per Brusca, pena ridotta a Bagarella, condanna confermata per Cinà
Assolti gli ex carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e assolto l’ex senatore Dell’Utri: la trattativa non fu un reato. Prescritta la minaccia al governo Berlusconi nel 1994 da parte del boss Leoluca Bagarella, condannato a 27 anni di carcere per il ricatto contro il governo precedente, in carica tra il 1992 e il 1993. La sentenza d’appello ha ribaltato così il giudizio di primo grado che aveva bollato come reato il comportamento degli uomini delle istituzioni entrati in contatto con i rappresentanti della mafia al tempo delle stragi. Il clamoroso verdetto della corte d’assise d’appello di Palermo ha quindi cancellato ciò che in dieci anni la procura e la corte di primo grado avevano costruito con l’indagine e il processo sulla presunta trattativa.
Ribaltata la sentenza di primo grado
La sentenza di primo grado, pronunciata dalla corte d’assise il 20 aprile 2018, aveva stabilito che la minaccia allo Stato avanzata da Cosa nostra con le stragi del 1992 e del 1993 – un vero e proprio ricatt o: o si allenta la pressione antimafia o gli attentati proseguiranno – era stata «veicolata» da uomini delle istituzioni che in questo modo rafforzarono e resero più concrete le pretese dei boss: da un lato i carabinieri del Ros, gli ex generali Antonio Subranni e Mario Mori, e l’ex colonnello Giuseppe De Donno; dall’altro l’ex senatore Marcello Dell’Utri, che dall’inizio del ’94 avrebbe veicolato il messaggio mafioso al nuovo governo guidato da Silvio Berlusconi. Il quale, chiamato a deporre dai difensori di Dell’Utri, si è avvalso della facoltà di non rispondere in quanto indagato nel procedimento connesso sui mandanti occulti delle stragi del 1993.
Tutti condannati: Mori e Subranni a dodici anni di carcere come dell’Utri, De Donno a otto, insieme al boss Leoluca Bagarella (28 anni) e al medico legato a Cosa nostra Antonino Cinà (12 anni). La trattativa Stato-mafia era condensata in queste condanne, scaturite per un verso dagli incontri tra i carabinieri e l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino nell’estate del 1992, e per l’altro dai collegamenti tra Dell’Utri e la mafia, con il boss Vittorio Mangano e non solo, che hanno contribuito anche alla condanna definitiva dell’ex senatore per concorso esterno in associazione mafiosa. Tra gli imputati c’era pure un altro politico, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, ulteriore presunto tramite del ricatto; anzi il promotore della trattativa, secondo l’accusa, nel timore di essere una vittima designata delle cosche. Lui però ha scelto di farsi giudicare con il rito abbreviato, ed è stato assolto «per non aver commesso il fatto» in tutti i gradi di giudizio.
L’assoluzione di Mannino
Tra la sentenza di primo grado e quella di oggi l’assoluzione di Mannino è diventata definitiva, e l’ultimo verdetto è stato abbastanza categorico nel contraddire la ricostruzione formulata dai pubblici ministeri; sia quelli della Procura, in primo grado, che quelli della Procura generale, in corte d’appello. Una sentenza che s’è posta in contrasto anche con la decisione della corte d’assise che in primo grado aveva condannato gli altri imputati.
Per la corte d’assise che ha dichiarato colpevoli i vertici del Ros, la proposta di «trattativa» dei carabinieri a Ciancimino ebbe l’effetto di «far sorgere o quantomeno consolidare il proposito criminoso risoltosi nella minaccia formulata nei confronti del governo della Repubblica sotto forma di richieste di benefici, al cui ottenimento i mafiosi condizionavano la cessazione delle stragi».
Per i giudici che hanno assolto Mannino, invece, l’iniziativa del Ros fu nient’altro che «un’operazione info-investigativa di polizia giudiziaria, realizzata attraverso la promessa di benefici personali al Ciancimino di assicurare, ove possibile, le richieste nell’esclusivo interesse di Ciancimino stesso; tale operazione si proponeva, mediante la sollecitazione a un’attività di infiltrazione in Cosa nostra del predetto Ciancimino, che ne avrebbe dovuto contattare i capi, il fine della cattura di Totò Riina, interrompendo così la stagione delle stragi».
Fu un ricatto allo Stato?
Due ricostruzioni e due valutazioni opposte, che racchiudono il nodo della presunta trattativa tra i boss e alcuni rappresentanti delle istituzioni al tempo delle stragi: ne scaturì un reato, agevolando il ricatto mafioso allo Stato, oppure no? È lo stesso nodo che ha dovuto affrontare la corte d’assise d’appello presieduta dal giudice Angelo Pellino, seduto accanto al giudice a latere Vittorio Anania e ai sei componenti della giuria popolare.
L’assoluzione definitiva di Mannino è una delle novità intervenute durante lo svolgimento del processo d’appello. Insieme a nuove testimonianze come quelle proposte sia dall’accusa (ulteriori pentiti su presunti aspetti misteriosi delle stragi e dei contatti tra mafia e istituzioni) che dalla difesa (ad esempio la testimonianza dell’ex pm di Mani pulite Antonio Di Pietro, che ha raccontato i suoi dialoghi con Paolo Borsellino tra le stragi di Capaci e via D’Amelio, e l’interesse del magistrato assassinato per le inchieste sulla corruzione e gli appalti intrecciate con quelli milanesi).
Due anni di dibattimento
Due anni e mezzo di dibattimento in appello hanno prodotto la nuova sentenza. Pronunciata secondo i principi che il presidente Pellino aveva specificato nell’aprile 2019, alla prima udienza. Per replicare a chi si lamentava che quello sulla trattativa Stato-mafia è stato un processo alla storia anziché a singoli imputati accusati di specifici reati, il presidente chiarì: «Può accadere che in un processo che riguarda fatti molto eclatanti la riscrittura di un pezzo di storia di un Paese sia un effetto inevitabile dei temi trattati e del lavoro delle parti processuali che hanno concorso a scavare nei fatti; ma lo scopo del processo d’appello è verificare la tenuta della decisione di primo grado sotto la lente d’ingrandimento dei motivi d’appello. Gli imputati non sono archetipi socio-criminologici, bensì persone in carne e ossa che saranno giudicate per ciò che hanno o non hanno fatto, se si tratta di reati. Questo è l’impegno della corte, e mi sento di rassicurare le parti».
La sentenza di oggi è figlia di quell’impegno, e le motivazioni spiegheranno come ci si è arrivati.
Una sentenza che vale più di una riformaNicola Porro
24 Settembre 2021
https://www.ilgiornale.it/news/cronache ... 1632459542Ciò che ha dell'incredibile non sono le assoluzioni di ieri nel cosiddetto processo Stato-Mafia, ma il fatto che per venti anni siamo stati ostaggio di un gruppo di procuratori che ha costruito un teorema tanto mostruoso quanto fragile.
Una sentenza che vale più di una riforma
Ciò che ha dell'incredibile non sono le assoluzioni di ieri nel cosiddetto processo Stato-Mafia, ma il fatto che per venti anni siamo stati ostaggio di un gruppo di procuratori che ha costruito un teorema tanto mostruoso quanto fragile sin dalle fondamenta. Ci auguriamo che sia la fine dei processi, anzi delle accuse costruite sui teoremi.
Il reato di trattativa avrebbe coinvolto diversi governi, presidenti della Repubblica, generali dei carabinieri, ministri e forze politiche di tutti gli schieramenti. Il teorema è così riassumibile: dopo le stragi di mafia di inizio anni '90, un pezzo delle istituzioni è più o meno sceso a patti con la mafia per evitare che si ripetessero e per tutelare incolumità personali (è il caso di Calogero Mannino, per primo assolto). Ad un certo punto si è addirittura pensato che circolasse un vero e proprio contratto che sancisse questo accordo: un «papello» che, ovviamente, non è mai stato prodotto.
Una costruzione favolosa. Financo l'arresto di Riina da parte di uno degli imputati, ieri assolto, come il generale Mori, è stato considerato dall'accusa come una prova della trattativa. Verrebbe da dire: così vale tutto. Se non fosse che di mezzo è passata la vita di decine di persone che per venti anni hanno sofferto la più infamante delle accuse, soprattutto se uomini delle istituzioni: «flirtare» con i boss.
E così ieri pomeriggio la Corte di Assise di Palermo ha assolto i generali del Ros Mori e Subranni, il colonnello De Donno e Marcello dell'Utri che sarebbe stato, secondo l'accusa, lo sponsor della trattativa con Berlusconi.
Nulla di tutto ciò si è verificato.
Questa clamorosa assoluzione si intreccia con la recente riforma della giustizia, spacciata come epocale. Essa tra l'altro prevede che «per celebrare un processo non sia sufficiente avere elementi per sostenere l'accusa». Il pm infatti dovrebbe richiedere l'archiviazione «quando gli elementi acquisiti nelle indagini non consentono una ragionevole previsione di condanna».
Secondo il legislatore è sufficiente questa ipocrita petizione di principio, senza la previsione di alcun parametro oggettivo, affinché i procuratori, semplifichiamo, invece di andare a processo chiedano archiviazioni. E non perché li ritengano innocenti, ma perché pensino di non avere elementi sufficienti perché un giudice li condanni. Una cosa è pretendere che il procuratore, se in possesso di prove a tutela dell'indagato, le produca (cosa peraltro che non sarebbe avvenuta a Milano nel processo Eni), una cosa obbligarlo ad avere anche la testa del giudice terzo.
Chi ha pensato questa norma pensa di vivere in un altro mondo. Con una sua decisione la corte di Assise di Palermo ha fatto molto di più di una riforma che non c'è.
L'assoluzione spiazza i colpevolisti. L'imbarazzo del M5s: "Non commentiamo""Schiaffo ai manettari". Letta disorientato: leggerò le motivazioni
Laura Cesaretti
24 Settembre 2021
https://www.ilgiornale.it/news/politica ... 77362.htmlSpiazzati, confusi, imbarazzati: i colpevolisti che avevano sponsorizzato il surreale teorema della «trattativa», o che per acquiescenza o utilità politica lo avevano silenziosamente avallato si riconoscono subito. Sono tutti trincerati dietro la polverosa formula di rito: «Aspettiamo le motivazioni».
Ecco subito i Cinque stelle, ancora frastornati dalla sentenza che smonta anni di loro propaganda: «La rispettiamo e non la commentiamo - recita un comunicato imbarazzato dei parlamentari della commissione Giustizia -. Possiamo solo aggiungere che rimaniamo in attesa di conoscere nel dettaglio le motivazioni». Poi si aggrappano alla formula dell'assoluzione, «il fatto non costituisce reato», per alimentare un ultimo filo di speranza: «Lascia intendere che i fatti siano confermati e che a livello politico restino intatte le responsabilità». Ma è una speranza esile, tant'è che il sempre rumoroso presidente della Commissione Antimafia Morra stavolta evita di aprire bocca sul tema. Resta assai sul vago anche il leader Pd Enrico Letta: è «sorpreso», la sentenza «farà discutere», e comunque «su temi così complessi serve leggere le motivazioni». Altri, nel suo partito, sono meno incerti: «Tre servitori dello Stato e l'intera Arma dei carabinieri hanno visto infangato il loro nome per lunghi anni. Chi potrà risarcirli? Cosa cancellerà gli anni di dolore per un'accusa incomprensibile?», si chiede il parlamentare Umberto Buratti. Che non usa giri di parole e parla di inchiesta «farsa» e di «giustizialismo spettacolo che ammorba il paese».
Non si nasconde dietro ambigui paraventi neppure Matteo Renzi, che parla di «una pagina di storia giudiziaria decisiva per il paese» e afferma: «Ciò che per anni i giustizialisti hanno fatto credere nei talk show e sui giornali era falso: non c'è reato. Ha vinto la giustizia, ha perso il giustizialismo». Matteo Salvini si dice «felice» per l'assoluzione, che è «l'ennesima prova che è necessaria una vera e profonda riforma della giustizia, tramite i referendum promossi dalla Lega».
Un j'accuse durissimo arriva da Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso dalla mafia: «Ho sempre avuto dubbi sull'inchiesta, e ritenuto scorretto che a pomparla mediaticamente fossero i pm titolari: un comportamento che mio padre non avrebbe mai approvato». E denuncia: «Le energie dedicate alla trattativa potevano essere indirizzate verso piste che volutamente non si sono percorse». Per Giorgio Mulè «viene riconosciuto il calvario subito dai servitori dello Stato». Sempre da Forza Italia Franco Dal Mas parla di «carriere antimafia costruite su teoremi e pregiudizi». Per Vittorio Sgarbi è «una giornata memorabile che restituisce onore allo Stato».
E mentre qualche irriducibile come Leoluca Orlando geme che i giudici così «lasciano zone di ombra», esulta un'altra vittima, già assolta, del processo così miseramente crollato. «La cosiddetta trattativa Stato-mafia - dice l'ex ministro Nicola Mancino - è stata spazzata via da una sentenza scrupolosa che chiude un'intera vicenda giudiziaria che non avrebbe mai dovuto iniziare».
Sentenze ignorate, calunniatori e filoni nuovi. Perché il super-processo non stava in piediMariateresa Conti
25 Settembre 2021
https://www.ilgiornale.it/news/politica ... 1632544799Sei anni di processo di primo grado, altri due di processo d'appello. Per non parlare di tutta la fase preliminare d'indagine, cominciata da Antonio Ingroia quando ancora indossava la toga, proseguita da Nino Di Matteo, oggi al Csm. Oltre un decennio speso a dare la caccia a «un fatto che non costituisce reato», per dirlo con la sentenza di due giorni fa. Eppure, a volerli guardare, gli elementi che non reggevano c'erano, eccome se c'erano. Bastava leggere le sentenze assolutorie (8 pronunciamenti in tutto, compreso quello di giovedì) dell'ex ministro Calogero Mannino e del generale Mario Mori, tutte acquisite e tutte agli atti.
A cominciare dalle più antiche, quelle al prefetto Mori per la mancata perquisizione del covo di Riina nel 1993 e per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995 in un casolare di campagna in cui si teneva un summit, a Mezzojuso. Quella su Riina risale al 2006, il processo trattativa non era ancora nato (e tanto era granitica che l'allora pm Ingroia decise di non fare appello), L'altra un po' più recente, è diventata definitiva nel 2017.
Identico discorso per la sentenza assolutoria dell'ex ministro Calogero Mannino, definitiva da un anno. Mannino, che ha scelto il rito abbreviato per il processo trattativa, è stato assolto in tutti e tre i gradi di giudizio. Eppure nell'impostazione dell'accusa nulla è cambiato rispetto al ruolo, smentito per sentenza, dell'ex ministro. E neppure rispetto alle accuse ai generali Mori e Subranni e al colonnello De Donno.
Anche una sentenza di condanna agli atti, quella dell'ex senatore Marcello Dell'Utri, era istruttiva, molto. E avrebbe dovuto essere presa in considerazione. Dell'Utri infatti è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti antecedenti al 1992. Qui invece gli si assegna un ruolo di tramite delle minacce della mafia a Berlusconi tra il '93 e il '94. Peccato che non ce ne sia prova alcuna. E peccato che ci sia invece la controprova. Come ha detto in arringa l'avvocato di Dell'Utri, Francesco Centonze non c'è una prova che sia una «che ci sia stato un solo provvedimento legislativo, una norma, un codicillo varato dal governo Berlusconi favorevole a Cosa nostra». Dell'Utri, per la cronaca, è stato assolto «per non aver commesso il fatto».
Gran parte delle accuse si sono poi sviluppate sulle dichiarazioni a rate di Massimo Ciancimino, l'ex supertestimone che alla fine si è beccato una condanna per calunnia (poi caduta in prescrizione). Ricordate i chili di «pizzini» portati in Aula? C'era persino il celebre «papello», il padre di tutti i pizzini, la prova documentale che la trattativa ci fu. Peccato che sia stato accertato che era proprio un falso, magari con contenuti realistici ma falso.
Infine, un filone inesplorato, quello delle indagini che Paolo Borsellino conduceva sul rapporto Mafia e appalti del Ros. In primo grado la testimonianza di Antonio Di Pietro, invocata dalla difesa, non era stata ammessa: «superflua». In questo processo d'appello invece è arrivata. E va in rotta di collisione, ha ricordato in arringa l'avvocato di Mori, Basilio Milio, con la tesi accusatoria che ad accelerare l'uccisione di Borsellino sia stata la trattativa. Già, perché parla dell'interesse di Borsellino per quel rapporto e per quelle indagini. Interesse che le sentenze di Caltanissetta e di Catania sulla strage di Capaci individuano come acceleratore della sua uccisione. Altro che trattativa.
I grandi pentiti, gli 007 e la pista americana. Ecco tutti gli enigmi mai risolti dalla ProcuraFelice Manti
25 Settembre 2021
https://www.ilgiornale.it/news/politica ... 1632544784Le indagini di Caltanissetta si fermarono prima di scoprire cosa dissero davvero Buscetta e Mutolo a Falcone e Borsellino. I veri killer impuniti
I grandi pentiti, gli 007 e la pista americana. Ecco tutti gli enigmi mai risolti dalla Procura
Adesso che è finita la caccia ai fantasmi, adesso che la folle idea che dietro le stragi di mafia ci fosse la nascita di Forza Italia e l'ascesa di Silvio Berlusconi c'è una verità che merita risposte. Chi ha ucciso veramente Giovanni Falcone e Paolo Borsellino? A chi hanno giovato quelle morti? Ha agito la mafia, ma su ordine di chi? E perché Falcone fu ostacolato anni prima dal Csm nella corsa a poltrone prestigiose nella procura di Palermo?
Sin dall'inizio le indagini sulla morte dei due magistrati hanno registrato interferenze, depistaggi, manipolazioni. Lo sa bene Gioacchino Genchi, il consulente della Procura di Caltanissetta che in quei maledetti cinquanta giorni tra le due stragi analizzava le due agende elettroniche (una Casio e una Sharp) sulle quali Falcone registrava ogni cosa, come ricorda Edoardo Montolli, autore del libro I Diari di Falcone e Il caso Genchi. «Il processo sulla Trattativa è una delle più grandi assurdità partorita dalla giustizia italiana», disse Genchi nel 2014. La risposta alla strage di Capaci è invece forse nel viaggio in America di Falcone, dove avrebbe incontrato Tommaso Buscetta dopo il delitto di Salvo Lima? I magistrati di Caltanissetta guidata da Giovanni Tinebra, (che l'ex legale Eni Pietro Amara oggi accosta solo da morto alla famigerata loggia Ungheria), non vollero approfondire, Genchi se ne andò sbattendo la porta dopo una lite furiosa con Arnaldo La Barbera, considerato poi il suggeritore del depistaggio. È nella pista americana la chiave? E cosa disse veramente a Falcone l'autista di Riina Gaspare Mutolo nel 1991 nel carcere di Spoleto, incontro segreto di cui c'è traccia nell'agendina Sharp? Anche Borsellino quando ascoltò le rivelazioni del boss tre giorni prima di morire arrivò a casa sconvolto e secondo la moglie vomitò per la tensione, non prima di averne trascritto ogni dettaglio nella famosa agenda rossa. Sparita da via D'Amelio.
Sono passati 29 anni dalle stragi e ancora non sappiamo tutto neanche degli esplosivi. Fu la 'ndrangheta a fornirli dalla nave Laura C. affondata a largo di Saline Joniche? Le rivelazioni del killer pentito Maurizio Avola a Michele Santoro nel libro-inchiesta Niente altro che la verità sono poco credibili quando pretendono di confinare le stragi solo dentro il perimetro mafioso. I telefoni di Nino Gioè e Gioacchino La Barbera, registi della strage di Capaci, clonavano due numeri non ancora assegnati dalla Sip a Roma in una filiale che nascondeva una base dei servizi. Anche il commando era atipico. Non boss potenti ma mafiosi di secondo e terzo livello, tipo l'attendente di Riina Salvatore Biondino, che una volta in aula confessò a un legale: «Possibile che lo abbiamo fatto noi, quattro sprovveduti?». Ne è convinto anche l'autista di Falcone, Giuseppe Costanza: «Ha pagato solo la manovalanza, mai gli altri responsabili».
Adesso spetta alla Procura di Palermo fornire le risposte. E ai giornali il compito di non sposare tesi strampalate, come conferma l'amaro sfogo all'Huffington Post di Giovanni Fiandaca, giurista e mentore di Antonio Ingroia e Antonino di Matteo, colpevole di essersi bevuto le panzane del finto boss Vincenzo Scarantino: «Anche per i giornalisti contribuire alla lotta alla mafia non può equivalere a sostenere acriticamente ogni processo penale per fatti di mafia». Soprattutto se Il Fatto non sussiste.
"Assoluzioni assurde" Da Travaglio a Ingroia gli ultimi giapponesi del giustizialismoStefano Zurlo
25 Settembre 2021
https://www.ilgiornale.it/news/politica ... 1632544780 Aspettano le motivazioni. Ma intanto sono loro ad anticiparle: una condanna senza appello dell'assoluzione. Gli orfani della trattativa si stracciano le vesti: la giustizia va benissimo quando conferma i loro teoremi, è da strattonare quando rovescia i loro pregiudizi. Marco Travaglio sul Fatto parla di una sentenza «da avanspettacolo» e gioca con le parole, trasformando il verdetto in un perfido scioglilingua: «Trattare con lo Stato è reato, trattare con la mafia non è reato». Insomma, la condanna del boss Bagarella, cui il direttore del Fatto quotidiano indirizza la sua ironica solidarietà, a questo punto è uno scandalo perché farebbe a pugni con l'assoluzione degli ufficiali dei carabinieri.
Le sentenze, dunque, si rispettano solo quando sono uno specchio dei propri convincimenti. Naturalmente, il fatto che il verdetto fosse in qualche modo atteso perché preceduto da altre assoluzioni in processi collegati diventa un'aggravante. Se l'accusa ha fatto cilecca anche con Mannino e con Mori, è colpa dei giudici e della corte d'appello di Palermo che ha restituito l'onore ai militari forse perché avevano agito «a loro insaputa o sovrappensiero».
Da Siracusa, dove presenta il suo libro Controcorrente, Matteo Renzi contrattacca: «Non si può dire che o ha ragione Marco Travaglio o siamo tutti collusi con la mafia», ma per i duri e puri le complicità sono ovunque, soprattutto ai piani alti dello Stato e tutto il resto è ipocrisia e menzogna.
Le vedove della trattativa non ammettono che la procura, forse, si è allargata, andando a riscrivere un pezzo di storia italiana e perdendo così di vista i fatti e gli eventuali reati. Per carità, l'epica dei pm che scoperchiano la botola dei segreti e dei rapporti inconfessabili non può essere messa in discussione, perché negli anni ha generato una militanza ed è diventata un genere letterario. Una visione del mondo non può entrare in crisi per un verdetto che rompe quell'interpretazione a reti unificate.
Antonio Ingroia, il pm che scandagliò quei presunti rapporti e oggi è avvocato, non si arrende: «Certamente lo Stato non esce assolto da questa vicenda. Sono un po' curioso di leggere le motivazioni per capire come sia possibile che ne rispondano solo i mafiosi ma nessun colletto bianco». Come dire, scetticismo e gocce di veleno per una pronuncia che sarebbe degna di un equilibrista.
Tutti vogliono leggere le motivazioni, ma nessuno ha la pazienza di aspettare e il verdetto viene tirato di qua e di là, nel tentativo di farlo combaciare con le teorie coltivate negli ultimi vent'anni. Il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho va a Skytg24 e riesce a leggere le assoluzioni come una conferma delle condanne di primo grado. I due verdetti si danno idealmente la mano: «Dal punto di vista dell'Antimafia, la sentenza determina esclusivamente un'indicazione sull'interpretazione, ma quel che l'Antimafia ha sviluppato è stata la ricostruzione di un percorso: i comportamenti posti in essere, i collegamenti che ci sono stati con i vertici mafiosi, tutto ciò che è riportato nella sentenza di primo grado poi verificato nella sentenza di secondo grado». Appunto, le assoluzioni sembrano non scalfire la narrazione di questi decenni: «Diciamo che la valutazione della sussistenza del reato ha riguardato l'aspetto psicologico di coloro che hanno operato». Dettagli, rispetto a un impianto che resterebbe in piedi.
Il partito giustizialista è anche negazionista: un'assoluzione assoluzione è impossibile e gira e rigira la si presenta come una nuova condanna. Anche se chi si aggrappava al verdetto di primo grado precipita nel lutto. Salvatore Borsellino pronuncia parole terribili che naturalmente vanno rispettate: «Sono amareggiato, mio fratello Paolo è morto invano».
I presunti esperti non smobilitano, restano acquattati nella giungla, pronti a cogliere le trame del nemico che ha solo vinto un round. «Le assoluzioni - ribatte Maurizio Gasparri - smentiscono quanti attribuivano ai carabinieri una resa alla mafia», ma molti continuano a vedere lo stesso film. «Esiste una verità giudiziaria - afferma il presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra - poi esiste la verità dei fatti che si conquista scavando fino in fondo, anche nel torbido. Per verità e giustizia c'è ancora molto da lavorare». Un attimo di smarrimento, poi la lotta può ripartire.