Migrare e non, accogliere e non, diritti e doveri

Re: Migrare e non, accogliere e non, diritti e doveri

Messaggioda Berto » sab mag 20, 2017 1:43 pm

Cassazione: "Migranti devono conformarsi a nostri valori"
Condannato un indiano Sikh che voleva circolare con un coltello 'sacro' secondo i precetti della sua religione: "Non è tollerabile che l'attaccamento ai propri valori porti alla violazione di quelli della società ospitante". Cei: "Decisione equilibrata, ma politica non strumentalizzi"
15 maggio 2017

http://www.repubblica.it/politica/2017/ ... -165521982

ROMA - Gli immigrati che hanno scelto di vivere nel mondo occidentale hanno 'l'obbligo' di conformarsi ai valori della società nella quale hanno deciso 'di stabilirsi' ben sapendo che 'sono diversi' dai loro. "Non è tollerabile che l'attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante". A stabilirlo è la Cassazione, che ha condannando un indiano Sikh che voleva circolare con un coltello 'sacro' secondo i precetti della sua religione.

Nessuna deroga a sicurezza. Secondo la Cassazione, "in una società multietnica la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l'identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere. Se l'integrazione non impone l'abbandono della cultura di origine, in consonanza con la previsione dell'art. 2 della Costituzione che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante".

Il caso. I supremi giudici hanno respinto il ricorso di un indiano sikh condannato a duemila euro di ammenda dal Tribunale di Mantova, nel 2015, perché il 6 marzo del 2013 era stato sorpreso a Goito (Mn), dove c'è una grande comunità sikh, mentre usciva di casa armato di un coltello lungo quasi venti centimetri. L'indiano aveva sostenuto che il coltello (kirpan), come il turbante "era un simbolo della religione e il porto costituiva adempimento del dovere religioso". Per questo aveva chiesto alla Cassazione di non essere multato e la sua richiesta era stata condivisa dalla Procura della Suprema Corte che, evidentemente ritenendo tale comportamento giustificato dalla diversità culturale, aveva chiesto l'annullamento senza rinvio della sentenza di condanna.

Ad avviso della Prima sezione penale della Suprema Corte, invece, "è essenziale l'obbligo per l'immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all'ordinamento giuridico che la disciplina".

Il verdetto aggiunge che "la decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha la consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quella di provenienza, ne impone il rispetto".

Le reazioni. Una sentenza che "non fa sconti a nessuno". Così la deputata Forza Italia, Daniela Santanché, commenta la decisione della Suprema Corte: "è sacrosanta. Alla faccia dei buonisti e del tutto è permesso, questa sentenza non fa sconti a nessuno...Oggi era un indiano che voleva girare libero con un coltello sacro per le vie della città e magari domani potevamo imbatterci in una bella carovana di elefanti che trasportavano merci di ogni genere. Siamo in Italia - termina Santanchè - e chi viene ospite nel nostro Paese ha il dovere di seguire le regole che ci impone il codice civile, quello penale e la nostra Costituzione".

Il capogruppo di Fratelli d'Italia-Alleanza nazionale, Fabio Rampelli, parla di "de profundis per l'ideologia buonista": Chi viene in Italia deve rispettare le nostre leggi, le nostre regole, i nostri valori. Per noi è assodato, per la sinistra multiculturalista che ha promosso un'accoglienza contraria alla legalità e al diritto no. Rom, estremisti islamici, osservanti della sharia che non intendono adeguarsi devono andare fuori dall'Italia. O si rispettano le leggi o non c'è spazio".

Emanuele Fiano, responsabile Sicurezza del Partito democratico, si augura che la sentenza non sia strumentalizzata: "Speriamo che ora non sia usata come una clava dai vari Salvini! Perchè la sentenza della cassazione, che richiama gli immigrati che hanno scelto di vivere nel mondo occidentale 'all'obbligo' di conformarsi ai valori della società nella quale hanno deciso 'di stabilirsi', dichiara un principio semplice e giusto. E si riferisce a un caso singolo. A noi preoccupa la fanfara della xenofobia che userà una sentenza che difende un corretto uso del diritto di tutti come un'arma nei confronti di qualcuno".

Di decisione 'equilibrata', che, però, non va strumentalizzata dalla politica parla anche la Cei, che evidenzia come il giudizio dei giudici sottolinei "anche il valore della diversità e della multiculturalità e la necessità di un cammino di integrazione degli immigrati, oltre a ribadire che ciò non può prescindere dal rispetto giuridico e legale di alcune regole su cui è strutturata la nostra società, con i suoi valori", ha detto monsignor Giancarlo Perego direttore di 'Migrantes', la fondazione della Cei che si interessa di migranti, rifugiati, profughi.

Il senatore Roberto Calderoli, vice Presidente del Senato e Responsabile Organizzazione e Territorio della Lega Nord, ribadisce che la sentenza "rappresenta un precedente che, da adesso, deve riportare al rispetto totale delle nostre leggi, a cominciare da quella che vieta di girare in luoghi pubblici con un copricapo o un velo che travisano o nascondono il volto, per cui basta burqa o niqab in luoghi pubblici". Ma soprattutto, prosegue il rappresentante del Carroccio, "questa sentenza deve rappresentare un chiaro monito a chi vuole vivere qui: se non accetti tutte le nostre regole qui non puoi restare e se queste regole non ti vanno bene puoi andartene altrove o tornare da dove sei venuto".



'Gli immigrati devono conformarsi ai nostri valori'. Ad esempio quali?
Guido Rampoldi

http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/05 ... li/3594138


Ahi, i nostri valori. Ogni volta che li sento evocare mi chiedo quali mai saranno, questi nostri valori, i valori di noi italiani. Ma niente, non te lo dicono. Dev’essere una specie di segreto nazionale, e così ben protetto che mica lo raccontano alla gente comune. O magari una parola d’ordine tra persone d’un certo rilievo. “I nostri valori”: capisci subito di avere a che fare con uno affidabile, uno che conta. Politici, giornalisti, intellettuali, adesso anche i giudici della Corte di Cassazione, prima sezione.

Hanno confermato la condanna di un cittadino indiano, un Sikh che se ne andava in giro con una daga (un coltello sacro, ndr), in quanto oggetto richiesto da un rito della sua religione. Avrebbero potuto motivare: chiunque arrivi in Italia, migrante o turista, deve rispettare le leggi italiane, così come richiede ogni Stato di questo pianeta. Ma sarebbe suonato banale. Avrebbero potuto aggiungere, per fare sfoggio di erudizione che nell’era di Tony Blair, all’inizio la polizia lasciò che mini-comunità asiatiche ignorassero varie sezioni dei codici britannici e applicassero le loro leggi tradizionali, pestassero le mogli, brutalizzassero le figlie. Ma se ne pentì e ammise che quella politica si era rivelata disastrosa.

Invece, i giudici l’hanno buttata sui valori. I nostri contrapposti ai loro, i valori degli stranieri. E i nostri in Cassazione risultano essere “i valori occidentali”. Qui le cose si complicano, neppure a Pechino, a Tokyo o a Marrakech la gente può andarsene a zonzo con una durlindana, perché ‘valori occidentali’? Ma il culturalismo inebria e ormai i giudici si sono entusiasmati: poche righe dopo ricordano ai migranti “il limite invalicabile (…) della nostra civiltà giuridica”.

Ora, tutto questo è detto con garbo e rispetto, senza l’ombra dell’aggressività che usa la politica per declinare tesi analoghe. Ma mettiamoci nei panni di un poveretto che arriva da un Paese lontano, un migrante, un ignaro. Apprende che deve accostumarsi ai “valori italiani” e prova a ricavarli dagli italiani che conosce o vede in tv: avrà l’impressione che di italiani ve ne siano di molto diversi, e differenti anche i loro valori.

Se poi lo straniero chiede esempi della “nostra civiltà giuridica” a, mettiamo, corrispondenti esteri in Italia, probabilmente si sentirà rispondere: il G8 di Genova e l’esito delle inchieste che ne sono seguite; l’assenza nei nostri codici del reato di tortura; l’inconcludenza di tanti tra i più grandi processi della nostra storia repubblicana.

Morale: oltre a spiegare ai migranti in Italia quali sono le nostre leggi, dovremmo avvertirli di non prenderci troppo sul serio: tipico della “nostra cultura” è parlare a vanvera.


Alberto Pento
Un valore tra i tanti è che non si va in giro armati di coltellacci. E non è un valore da niente. Mi meraviglio che a un testone come lei non sia venuto in mente un valore semplice ed elementare come questo. Forse importando ossessi religiosi dovremmo in cominciare anche noi a girare armati e non solo di coltellacci da 20 cm di lama ma di pistole e fucili automatici.




La rabbia dei sikh contro l'Italia per il coltello proibito
La comunità sikh indiana critica la sentenza con cui la Corte di Cassazione ha stabilito che i migranti devono conformarsi ai nostri valori, condannando un indiano che era stato fermato a Mantova dalla polizia perché trovato in possesso di un coltello kirpan, che per quella religione è un simbolo religioso e non un’arma impropria
Raffaello Binelli - Mer, 17/05/2017

http://www.ilgiornale.it/news/cronache/ ... 98273.html

Niente da fare, quella sentenza della Cassazione proprio non è piaciuta alla comunità sikh indiana.

Stiamo parlando, ovviamente, della sentenza che stabilisce che i migranti devono conformarsi ai nostri valori. Nello specifico la Cassazione aveva condannato un indiano trovato in possesso di un coltello kirpan, che per quella religione è un simbolo religioso e non un’arma impropria. ma per le leggi italiane resta pur sempre un'arma proibita.

Il partito Shiromani Akali Dal e il comitato dello Shiromani Gurdwara Parbandhak (Sgpc), il più importante organo della fede sikh, esprimono "angoscia" e promettono battaglia, dicendo che solleveranno la questione nelle sedi appropriate per assicurare "giustizia" ai loro fedeli presenti nel nostro Paese. La Cassazione ha "ignorato" il fatto che portare un kirpan è un fattore essenziale e obbligatorio per il nostro codice religioso, afferma in un comunicato un portavoce di Akali Dal. "È una questione di fede e di diritti fondamentali dei sikh" e questo divieto "significa che nessun sikh potrà vivere in Italia dopo questa sentenza".

Il presidente dell’Sgpc, Avtar Singh Makkar, ricorda che ogni religione ha la propria dignità e il proprio codice di comportamento e vietare queste tradizioni è inaccettabile: "C’è una volontà del nostro Dio, imposta da un Paese che è stato salvato dalla comunità sikh durante la Prima e la seconda guerra mondiale. Essere ingiusti verso questa comunità e attaccare la sua dignità è deplorevole". Il massimo organo della comunità ha chiesto al governo indiano di trovare con il governo italiano una soluzione al problema. La decisione della Corte di Cassazione ha scosso la comunità sikh di tutto il mondo".

Trenta milioni di fedeli, i sikh sono una comunità religiosa e politico-militare dell’India, fondata nel Punjab da Nanak (1469-1538) nell’intento di unire indù e musulmani nella fede in un Dio unico, che non doveva essere rappresentato con figurazioni materiali, e nel rifiuto di ogni distinzione castale. I sikh sono monoteisti e credono nella legge del karma e nella reincarnazione.



Ira sikh: “Non rinuncio al coltello, ricorrerò alla Corte europea”
Singh Jatinder, il sikh condannato a pagare una multa di due mila euro per via di quel pugnale infilato nella cintola ricorrerà alla Corte europea di Giustizia e annuncia: “Io il Kipran non me lo tolgo”
Elena Barlozzari - Gio, 18/05/2017

http://www.ilgiornale.it/news/cronache/ ... 98813.html

Rispetta la giustizia italiana, dice, ma solo sulla carta perché non rinuncerà al suo coltello.

Questa, in estrema sintesi, la posizione di Singh Jatinder, 33 anni ed una multa di duemila euro da pagare per quel pugnale infilato nella cintola. Così il giovane sikh promette: “Ricorrerò alla Corte europea di giustizia”.

Qualche giorno fa, infatti, la Cassazione ha stabilito che “è essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale”. Nel caso specifico, quindi, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso presentato da Jatinder, già condannato dal Tribunale di Mantova per via del coltello tradizionale, il Kirpan, che porta sempre addosso come simbolo di devozione religiosa.

Ma, nonostante il provvedimento avverso, il giovane indiano non intende rinunciare al suo pugnale, né pagare la multa: “Io il Kirpan non me lo tolgo”, ha detto ad un cronista della Gazzetta di Mantova. Nel frattempo Singh Dilbagh, rappresentante della comunità sikh, ha annunciato: “Rispettiamo la sentenza, abbiamo fiducia nella giustizia italiana, così come rispettiamo le leggi italiane. Si vede che non siamo riusciti a spiegarci bene davanti ai giudici; per questo ricorreremo alla Corte europea di giustizia”.

A scatenare la reazione della comunità sikh, che si è stretta attorno al giovane, è la dimensione collettiva che assume il provvedimento: “Noi non la viviamo come una cosa personale, ma collettiva”. Anche se, in Italia, non vige il sistema di common law e la giurisprudenza non fa diritto, un precedente così autorevole rischia di influenzare le future decisioni dei giudici. E sarebbero due, a Quistello e ad Acquanegra, i membri della comunità denunciati per la stessa ragione. “La normativa sulle armi bianche – spiegano i sikh – dice che se non hanno la punta e non tagliano, come il nostro pugnale, e non possono far male, non vengono considerate tali. Speravamo che i giudici ci dicessero di portarlo in un determinato modo. Un no secco è incomprensibile. Però, siamo pronti al dialogo su questo argomento”.




Mantova, il sikh condannato per il coltello sacro: 'Ora ci controllano tutti, ma il tasso di criminalità per noi è zero'
La Cassazione sul suo caso ha sancito che i migranti devono conformarsi a nostri valori. "Sono deluso e arrabbiato, i miei connazionali vengono fermati ogni giorno perché adesso i vigili sanno che portiamo il kirpan, che però è un simbolo di opposizione al male. Vogliamo rivolgerci alla Corte europea per far valere questo nostro diritto"
di ZITA DAZZI
17 maggio 2017

http://milano.repubblica.it/cronaca/201 ... -165610991

"Sono amareggiato, deluso, arrabbiato. Io mi sento ormai integrato nella vostra società, non ho mai commesso reati, sono sempre stato una persona onesta che ha lavorato e pagato le tasse. Proprio non ci sto a essere trattato come se fossi uno che potrebbe commettere un crimine, solo perché porto il kirpan, il pugnale che per noi sikh, è un simbolo religioso da indossare obbligatoriamente". Per colpa di quel pugnale, sequestrato dai vigili urbani, è stato condannato in via definitiva a pagare una ammenda di 2mila euro, il signor Singh Yantinder, 32 anni, che è in Italia da anni e vive a Goito, in provincia di Mantova, con la moglie. L'uomo, turbante d'ordinanza e carta di soggiorno, è un piccolo imprenditore del settore terziario legato all'industria alimentare, come molti altri suoi connazionali, che nella bassa mantovana, come nel bresciano e in molte parti della pianura Padana mandano avanti il settore caseario locale.

Signor Singh, per lei il Kirpan è un simbolo religioso, ma per la legge italiana è un'arma contundente che non si può portare in giro. La sentenza della Corte di Cassazione è chiara.
"Né io né la mia comunità capiamo questa sentenza, che va a incidere sulla nostra libertà religiosa e di culto prevista dalla Costituzione. Nessuno di noi ha mai fatto il male con il kirpan, anzi è un simbolo di resistenza al male, proprio il contrario di quello che sostiene la sentenza".

Ma come è iniziata questa storia?
"Era il marzo del 2015, stavo camminando per strada, con il kirpan alla vita, ignaro che questo potesse essere un problema. MI hanno fermato i vigili di Goito, chiedendomi di giustificare questo pugnale, che è racchiuso in un fodero molto elaborato. Ho provato a spiegare che è un simbolo obbligatorio per la mia religione, come i capelli lunghi che tutti noi portiamo, senza tagliarli mai, legati con un pettinino di legno, sotto al turbante. Dobbiamo anche avere braccialetto. Insomma, come gli ebrei indossano la kippah, come le donne islamiche indossano il velo sul capo, anche noi abbiamo le nostre usanze".

I vigili quindi non ascoltarono le sue ragioni?
"Ho spiegato che per noi sikh è obbligatorio tenere addosso i simboli della religione, ma gli agenti mi hanno sequestrato il pugnale, anche se ho spiegato che questo era molto grave. Ma non c'è stato verso, anzi, da quel giorno è stato avviato un procedimento di contravvenzione nei miei confronti, secondo la legge 110 del 1975. Ma per me è assurdo, non ho commesso reati, come è stato scritto, ma solo rispettato le regole della mia religione, come fanno altri 30 milioni di sikh nel mondo, 160mila dei quali in Italia. E noi siamo una comunità molto pacifica, come tutti sanno, abbiamo un tasso di criminalità pari a zero".

Quindi adesso che farà?
"Adesso a Goito, il mio paese, e a Mantova, abbiamo tutti paura e timore. Diversi altri miei connazionali e correligionari vengono fermati ogni giorno, anche a Cremona e a Crema perché i vigili adesso sanno che tutti portiamo il kirpan e vogliono farlo togliere a tutti noi. Questo è molto doloroso e ci dobbiamo riunire con i vertici della nostra comunità per capire come muoverci, con chi possiamo andare a parlare per ottenere ascolto".

Pensate ancora di riuscire a far cambiare idea alla magistratura su questo tema?
"Noi siamo disponibili a ridurre la dimensione del pugnale, anche a portarlo sotto i vestiti, invece che alla cintola e in modo visibile, se la questione è di ordine pubblico, ci adatteremo. Faremo di tutto pur di arrivare a una mediazione su un simbolo religioso, che non sarà mai e non è mai stato uno strumento di offesa, caso mai il suo contrario. Un simbolo di opposizione al male".

Ma la legge italiana non consente di portare oggetti contundenti e armi se non c'è un giustificato motivo, lo sa?
"E allora perché il macellaio, il falegname, il chirurgo, possono portare i loro strumenti di lavoro in giro? Perché la religione non è anche essa un giustificato motivo? Faremo qualsiasi cosa che ci consenta di rispettare il nostro credo. Nessuno di noi è stato mai stato fermato per aver commesso reati o fatto male a qualcuno con il kirpan. Per noi non è nemmeno come il crocefisso, cioè un simbolo religioso che si può inossare o meno, a seconda dei gusti. Per noi è obbligatorio indossarlo, non farlo è una grave mancanza religiosa, che non ha equivalenti nella religione cristiana".

Se non otterrete giustizia, che farete?
"Non so se decideremo di andare via dall'Italia per questo motivo, ma siamo molto perplessi, perché
in altri paesi sia europei sia extra europei persone di religione sikh sono accettate anche col kirpan. C'è addirittura un ministro in Canada che ci va in palamento. Noi siamo una comunità pacifica, siamo in Italia per integrarci e per rispettare i valori che sono alla base della società e della legislazione italiana. Ma per noi la fede è una cosa importantissima. Vorremmo anche andare alla Corte europea per far valere questo nostro diritto".



Anche la legge può essere un valore o un disvalore

La spada sikh è questione di legge, non di valori
Davide 19 maggio 2017
DI MASSIMO FINI

https://comedonchisciotte.org/la-spada- ... -di-valori

La sentenza della Corte di Cassazione che obbliga lo straniero che vive in Italia a conformarsi ai nostri valori (e implicitamente a quelli occidentali) è aberrante, inquietante, pericolosa e oserei dire paranoica.

Lo straniero che vive in Italia ha il solo obbligo, come tutti, di rispettare le leggi dello Stato italiano. Punto. Il sikh che girava con un coltello kirpan, sacro nella sua cultura, doveva essere condannato perché in Italia è vietato andare in giro armati. Se si accettasse il principio enunciato dalla Corte di Cassazione un italiano che vive in un paese islamico dovrebbe, in conformità alla cultura di quel paese, farsi musulmano (??? infatti nei paesi islamici le religioni non islamiche sono limitate, soggette a molte restrizioni e diviete e perseguitate).

La sentenza della Cassazione è incostituzionale perché viola l’articolo 3 della nostra Carta che recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

La questione non riguarda semplicemente le differenze religiose, punto su cui si sono soffermati quasi tutti, ma è molto più ampia: riguarda l’identità culturale, religiosa e non religiosa. La Cassazione afferma: “La società multietnica è una necessità, ma non può portare alla formazione di arcipelaghi culturali confliggenti a seconda delle etnie che la compongono”. Non so dove la Cassazione sia andata a scovare un principio di questo genere, inaudito nel senso letterale di mai udito fino a oggi. Lo straniero che vive in Italia non ha l’obbligo di conformarsi alle nostre tradizioni, ha il sacrosanto diritto di conservare le sue, sempre che, naturalmente, come si è già detto, non siano in contrasto con le nostre leggi (!!! le leggi sono anche valori o disvalori). Al limite lo straniero non ha nemmeno l’obbligo di imparare la nostra lingua, sarebbe più intelligente se lo facesse ma non ne è obbligato (!!! allora niente cittadinanza). Per decenni ci sono stati italiani emigrati in America che non spiccicavano nemmeno una parola di inglese, ma non per questo sono stati sanzionati.

La questione della sicurezza, importante ma che non ha nessuna rilevanza se lo straniero rispetta le leggi del nostro Stato (il burka va vietato non perché è un simbolo religioso ma perché copre l’intero viso e le nostre leggi prevedono che si debba andare in giro a volto scoperto !!!), sta facendo dell’ ‘arcipelago culturale’ occidentale un sistema totalitario che non tollera le diversità culturali sia all’esterno (vedi le aggressioni armate ad altri Paesi, dalla Serbia alla Libia) sia al proprio interno. Stiamo di fatto calpestando proprio quei valori, democrazia in testa, cui diciamo di appartenere e ai quali vorremmo costringere qualsiasi ‘altro da noi’. Alla povera gente che migra nel nostro Paese e negli altri stati europei, a causa molto spesso delle nostre prevaricazioni economiche e armate che abbiamo fatto nei loro, vorremmo togliere, alla fine, anche l’anima (??? non è vero).

Spostando il discorso mi piacerebbe sapere quali sono i nostri valori. A parte quello di una democrazia che in realtà non è tale, perché non appartiene ai cittadini ma è nel pieno possesso di oligarchie, nazionali e internazionali, non vedo in Occidente un altro valore che non sia l’adorazione del Dio Quattrino e la supina subordinazione alle leggi del mercato (???).

Siamo molto gelosi della nostra identità, più che altro a parole perché un’identità non l’abbiamo più (???), ma non tolleriamo quella altrui (???). Io sono libero di essere sikh, sono libero di essere indù, sono libero di essere musulmano (???), sono libero, se abito in un Paese di cultura diversa, di essere laico e non credente (???).

Dell’Illuminismo abbiamo conservato e sviluppato il peggio, ma abbiamo dimenticato il meglio che sta nella famosa frase di Voltaire: non sono d’accordo con le tue idee ma difenderò il tuo diritto a esprimerle fino alla morte. E per ‘idee’ bisogna intendere anche le tradizioni, la cultura, la religione, direi meglio: la spiritualità di chi è diverso da noi (!!! non si tratta di spiritualità ma di religiosità, la spiritualità e una e universale, quell che cambia caso mai è la religiosità).

La sentenza della Cassazione ci dice che anche i magistrati –che per fortuna non fanno le leggi (??? perché i politici che fanno le leggi sono forse migliori? e non sbagliano mai?) ma devono solo applicarle e giudicare caso per caso- hanno perso di vista i princìpi fondamentali del nostro diritto e della nostra cultura (???). Ma più in generale direi che noi occidentali abbiamo perso la testa (???).



Alberto Pento
No Fini, tu sei libero di essere quello che sei e che vuoi, soltanto se rispetti i Valori i Doveri e i Diritti Umani Universali nel loro Ordine Naturale, cosa che per esempio non fa l'immigrazione clandestina e selvaggia e nemmeno l'Islam che non è tanto una religione ma una "cultura" politico-religiosa legata a un certo territorio con tendenze egemoniche, imperialiste e violente.





Migranti devono conformarsi ai nostri valori, parola di Cassazione

Cassazione penale, sez. I, sentenza 15/05/2017 n° 24084
Pubblicato il 16/05/2017

http://www.altalex.com/documents/news/2 ... /immigrati

Una pronuncia che farà discutere e che dividerà le opinioni, non solo tra i differenti schieramenti politici, quella emanata ieri dalla I Sezione penale della Cassazione.

Immediate le reazioni da parte di alcuni esponenti dei partiti. Nell’Italia che si tinge di differenti culture, ma che stenta ad accettare la metamorfosi, il massimo consesso ha rilevato “l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi”, nonché di verificare preventivamente la conciliabilità della propria condotta con i principi che regolano la società in cui pretende di convivere.

In una società multietnica, la convivenza tra soggetti di gruppi differenti richiede l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere. A mente dell’art. 2 della Carta Costituzionale, l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine, bensì il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante. L’immigrato che decide di stabilirsi in una società in cui è consapevole che i valori di riferimento sono differenti da quella da cui proviene, ne impone il rispetto. Non è infine tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, anche se leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante.
Questo quanto riportato nella sentenza n. 24084 della I sezione Penale, con la quale la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di un indiano Sikh, condannato a duemila euro di ammenda per aver portato, fuori dalla propria abitazione, e senza alcun giustificato motivo, un coltello di quasi 20 centimetri, quindi considerato idoneo all’offesa.

Per essere scriminato, l’indiano aveva invocato il giustificato motivo e, nello specifico, aveva sostenuto che il coltello in questione doveva considerarsi un simbolo religioso e la condotta del portarlo appresso l’adempimento del relativo dovere. Ma i giudici ermellini, nel confermare la condanna, evidenziano che la decisione, presa dall’immigrato, di stabilirsi in una società dove i valori di riferimento sono diversi rispetto a quella di provenienza, ne impone il rispetto e non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppur leciti nel paese di origine, conduca alla violazione consapevole di quelli della società ospitante.

Nel motivare il dictum, gli ermellini hanno richiamato, oltre alla legislazione italiana, anche l’articolo 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, il quale stabilisce che la libertà di manifestare la propria religione può essere oggetto di quelle sole restrizioni che, stabilite per legge, costituiscono misure necessarie in una società democratica, per la protezione dell’ordine pubblico, della salute o della morale pubblica, ovvero per la protezione dei diritti e della libertà altrui.
Immediate le reazioni da parte di alcuni esponenti politici. La deputata Daniela Santanché (Forza Italia), esprimendosi con favore alla decisione, ha ricalcato che chi è ospite in Italia ha il dovere di seguire le regole che ci impongono i codici e la Costituzione. Identico giudizio per Fabio Rampelli (capogruppo di Fratelli d’Italia - Alleanza nazionale), ma aggiungendo, categorico, che “O si rispettano le leggi o non c’è spazio”. Dal versante opposto, Emanuele Fiano (responsabile Sicurezza del Partito democratico), formula l’auspicio che il verdetto non venga strumentalizzato a fini differenti da quelli propri e, parlando al plurale, ha concluso “A noi preoccupa la fanfara della xenofobia che userà una sentenza che difende un corretto uso del diritto di tutti come un’arma nei confronti di qualcuno”.

(Altalex, 16 maggio 2017)





CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Sezione Prima Penale

Sentenza 15 maggio 2017, n. 24084
Presidente Mazzei
Relatore Novik

Rilevato in fatto

1. Con sentenza emessa il 5 febbraio 2015, il Tribunale di Mantova ha condannato Si. Ja. alla pena di Euro 2000 di ammenda per il reato di cui all'art. 4 legge n. 110 del 1975, perché "portava fuori dalla propria abitazione senza un giustificato motivo, un coltello della lunghezza complessiva di cm 18,5 idoneo all'offesa per le sue caratteristiche". Commesso in Goito il 6 marzo 2013.

2. Risulta in fatto che l'imputato era stato trovato dalla polizia locale in possesso di un coltello, portato alla cintura. Richiesto di consegnarlo, aveva opposto rifiuto adducendo che il comportamento si conformava ai precetti della sua religione, essendo egli un indiano "SIKH".
Secondo il giudice di merito, le usanze religiose integravano mera consuetudine della cultura di appartenenza e non potevano avere l'effetto abrogativo di norma penale dettata a fini di sicurezza pubblica.

3. Avverso questa sentenza ha presentato ricorso l'imputato personalmente chiedendone l'annullamento per violazione dell'art. 4 della Legge n. 110/1975 e vizio di motivazione. Ritiene che il porto di coltello era giustificato dalla sua religione e trovava tutela dell'articolo 19 della Costituzione. Il coltello (KIRPAN), come il turbante, era un simbolo della religione e il porto costituiva adempimento del dovere religioso. Chiede quindi l'annullamento della sentenza.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è infondato.

2. Va premesso, in termini generali, che il reato contestato ha natura contravvenzionale, è punito anche a titolo di colpa, ed è escluso se ricorre un "giustificato motivo". L'assenza di giustificato motivo è prevista come elemento di tipicità del fatto di reato (trattasi di elemento costitutivo della fattispecie, come precisato da Sez. Un. n. 7739 del 9.7.1997). La giurisprudenza di legittimità ha costantemente affermato che il giustificato motivo di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 4, comma 2, ricorre quando le esigenze dell'agente siano corrispondenti a regole relazionali lecite rapportate alla natura dell'oggetto, alle modalità di verificazione del fatto, alle condizioni soggettive del portatore, ai luoghi dell'accadimento e alla normale funzione dell'oggetto (ex multis, Sez. 1 n.4498 del 14.1.2008, rv. 238946). Per fare alcuni esempi, è giustificato il porto di un coltello da chi si stia recando in un giardino per potare alberi o dal medico chirurgo che nel corso delle visite porti nella borsa un bisturi; per converso, lo stesso comportamento posto in essere dai medesimi soggetti in contesti non lavorativi non è giustificato e integra il reato.

2.1. Nel caso specifico, la sentenza impugnata da' atto che, al momento del controllo di polizia, l'imputato si trovava per strada e teneva il coltello nella cintola. A fronte della allegazione di circostanze di obiettivo rilievo dimostrativo, scatta l'onere dell'imputato di fornire la prova del giustificato motivo del trasporto.

2.2. L'imputato ha affermato che il porto del coltello era giustificato dal credo religioso per essere il Kirpan "uno dei simboli della religione monoteista Sikh" e ha invocato la garanzia posta dall'articolo 19 della Costituzione. Il Collegio, pur a fronte dell'assertività dell'assunto, non ritiene che il simbolismo legato al porto del coltello possa comunque costituire la scriminante posta dalla legge.

2.3. In una società multietnica, la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l'identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere. Se l'integrazione non impone l'abbandono della cultura di origine, in consonanza con la previsione dell'art. 2 Cost. che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante. È quindi essenziale l'obbligo per l'immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all'ordinamento giuridico che la disciplina. La decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quella di provenienza ne impone il rispetto e non è tollerabile che l'attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante. La società multietnica è una necessità, ma non può portare alla formazione di arcipelaghi culturali configgenti, a seconda delle etnie che la compongono, ostandovi l'unicità del tessuto culturale e giuridico del nostro paese che individua la sicurezza pubblica come un bene da tutelare e, a tal fine, pone il divieto del porto di armi e di oggetti atti ad offendere.

2.4. Nessun ostacolo viene in tal modo posto alla libertà di religione, al libero esercizio del culto e all'osservanza dei riti che non si rivelino contrari al buon costume. Proprio la libertà religiosa, garantita dall'articolo 19 invocato, incontra dei limiti, stabiliti dalla legislazione in vista della tutela di altre esigenze, tra cui quelle della pacifica convivenza e della sicurezza, compendiate nella formula dell' ordine pubblico; e la stessa Corte costituzionale ha affermato la necessità di contemperare i diritti di libertà con le citate esigenze. Come osserva il Giudice delle leggi nella sentenza numero 63 del 2016 Tra gli interessi costituzionali da tenere in adeguata considerazione nel modulare la tutela della libertà di culto - nel rigoroso rispetto dei canoni di stretta proporzionalità, per le ragioni spiegate sopra - sono senz'altro da annoverare quelli relativi alla sicurezza, all'ordine pubblico e alla pacifica convivenza.

2.5. Nello stesso senso, si muove anche l'articolo 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo che, al secondo comma, stabilisce che La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo può essere oggetto di quelle sole restrizioni che, stabilite per legge, costituiscono misure necessarie in una società democratica, per la protezione dell'ordine pubblico, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui.

2.6. La giurisprudenza Europea, a proposito del velo islamico, in Leyla Sahin c. Turchia [GC], n. 44774/98, § 111, CEDU 2005 XI ; Refah Partisi e altri c. Turchia [GC], n. 41340/98, 41342/98, 41343/98 e 41344/98, § 92, CEDU 2003 II, ha riconosciuto che lo Stato può limitare la libertà di manifestare una religione se l'uso di quella libertà ostacola l'obiettivo perseguito di tutela dei diritti e delle libertà altrui, l'ordine pubblico e la sicurezza pubblica. Nella causa Eweida e altri contro Regno Unito del 15 gennaio 2013, la Corte ha riconosciuto la legittimità delle limitazioni alle abitudini di indossare visibilmente collane con croci cristiane durante il lavoro e ha suffragato l'opinione ricordando che, nello stesso ambiente lavorativo, dipendenti di religione Sikh avevano accettato la disposizione di non indossare turbanti o Kirpan (in questo modo dimostrando che l'obbligo religioso non è assoluto e può subire legittime restrizioni).

3. Pertanto, tenuto conto che l'articolo 4 della legge n. 110 del 1975 ha base nel diritto nazionale, è accessibile alle persone interessate e presenta una formulazione abbastanza precisa per permettere loro - circondandosi, all'occorrenza, di consulenti illuminati - di prevedere, con un grado ragionevole nelle circostanze della causa, le conseguenze che possono derivare da un atto determinato e di regolare la loro condotta (Go. ed altri c. Polonia (Grande Camera), n 44158/98, § 64, CEDU 2004), va affermato il principio per cui nessun credo religioso può legittimare il porto in luogo pubblico di armi o di oggetti atti ad offendere.

4. Consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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Re: Migrare e non, accogliere e non, diritti e doveri

Messaggioda Berto » mer giu 21, 2017 6:12 am

???

Il buonista Ruggeri: "I populisti se la prendono con gli immigrati che sono i più deboli
2017/06/13

http://www.norazzismoversoitaliani.it/2 ... ua-leggere

C’è rabbia e rabbia: “L’odio che provavo quando avevo vent’anni era una rivolta contro chi non si accorgeva di me e il furore del punk è servito a esprimerlo e a costringerli a prendermi in considerazione. Il rancore dei movimenti populisti, invece, è il sentimento di chi difende i deboli a scapito dei debolissimi, la disperazione di chi guadagna sette euro all’ora sfogato contro chi ne guadagna cinque, una miseria interiore travestita da istanza sociale. Nell’uno c’era l’anima, nell’altro ci sono solo viscere”.

Enrico Ruggeri è cresciuto nel crepuscolo, figlio di due nobili decaduti che hanno reagito al precipitare nella scala sociale all’opposto, la madre reinventandosi concertista e maestra, il padre contemplando il tramonto: “Mio papà si è dedicato con metodo e costanza a dilapidare un patrimonio accumulato da chissà quante generazioni. Non ha mai lavorato. Ogni volta che gli servivano dei soldi, svendeva qualcosa. Ha continuato così fino a quando non ci è rimasto più quasi nulla. Col senno di poi, non posso che ringraziarlo: mi ha trasmesso l’aristocratico disprezzo per il denaro tipico dei ricchi, più la collera e la determinazione tipiche dei poveri”.

E la musica?

Passava i pomeriggi ad ascoltare arie classiche a occhi socchiusi. Io ero troppo piccolo per apprezzare, però avvertivo il piacere che provava e qualcosa inconsciamente operò dentro di me.

Lei cosa preferiva?

Ogni mercoledì correvo in edicola a comprare “Ciao 2001”, una rivista che raccontava mondi lontanissimi dentro i quali aspiravo di vivere. Ognuno aveva il suo giornalista di riferimento. Il mio era Manuel Insolera. Mi fece scoprire Iggy Pop e i New York Dools, David Bowie e i Roxy Music, i Mott The Hoople e tutto il rock decadente.

Perché fu così importante?

Perché era una musica che si contrapponeva agli ascolti obbligatori della Milano degli anni sessanta: il progressive, il cantautorato intellettualistico, tutte le formazioni comunisteggianti e poi gli Inti Illimani, il gruppo che dovevi amare per forza.

Era opprimente?

Vigeva la dittatura culturale della sinistra extraparlamentare: in piazza urlavano slogan che inneggiavano a Stalin e Mao Tse-tung, indossando la divisa d’ordinanza della ribellione come tanti piccoli soldatini: le barbe lunghe, l’eskimo, le camice a quadri. Si professavano vicini al proletariato. Erano per la maggior parte figli dell’alta borghesia.

C’era anche una dimensione tragica nella politica, però.

Quando assassinarono Kennedy, avevo sei anni. Fui scosso dalle immagini di quel proiettile che gli fece esplodere la testa. Ma erano cose lontane, come la maggior parte dei drammi del mondo. Poi, il 12 dicembre del 1969, scoppiò una bomba a Piazza Fontana, a un chilometro da casa mia. Morirono persone che incontravo nel tram, bambini che giocavano sotto il mio cortile. Improvvisamente, la storia irruppe nella vita della mia generazione e la cambiò per sempre.

Lei però non diventò un gruppettaro.

Nella Milano degli anni settanta, l’estrema sinistra era in cima all’establishment. Niente sfuggiva al controllo della sua dottrina, dal modo di parlare, a quello di essere. Se non osservavi i suoi comandamenti, venivi tagliato fuori. Una volta, cercarono di picchiarmi perché avevo i capelli corti e gli occhiali Ray Ban, un accessorio che ai loro occhi faceva di me un fascista. Mi salvai solo perché l’amico che era con me prese gli occhiali e mostrò loro che erano da vista.

Si ribellò?

Da Londra, arrivò il punk. M’innamorai di questi tipi che urlavano il loro essere come gli veniva, con immediatezza. Fu sconvolgente. Per anni, avevamo pensato che per suonare dovevamo aver studiato al conservatorio, essere dei super virtuosi, possedere chitarre che non potevamo permetterci di comprare. Da un giorno all’altro, vedemmo salire sul palco persone che suonavano peggio di noi, ma che avevano cose da dire.

Quel mondo la prese male?

Quando mettemmo su il primo concerto punk a Milano con i Decibel, i centri sociali organizzarono una manifestazione contro. Finì con le cariche della polizia in strada. L’iconografia dei punkettoni non aderiva al copione del musicista impegnato, che serviva la causa, benché fosse chiaro che la furia del punk fosse l’urlo di persone oppresse. Ci volle del tempo perché il punk venisse accolto e assorbito anche in quell’ambiente.

Nel frattempo, voi andaste a Sanremo.

Il festival era considerato l’epicentro del sistema. Parteciparvi, un tradimento. Sotto casa, mi scrissero con la vernice: “Venduto”. Erano anni tremendi. Gli autonomi arrivarono a contestare Francesco De Gregori, accusandolo di essere un borghese. Per non parlare di Lou Reed.

Lou Reed?

Era il 13 aprile del 1974, salì sul palco dopo Angelo Branduardi, che scappò piangendo per gli insulti che si prese. Suonò ‘Sweet Jane’ e ‘Coney Islan Baby’, poi cominciò ad arrivargli addosso di tutto: sputi, urla, pietre, buste d’acqua. Era vestito di nero. Gli urlavano: ‘Nazista”. A lui che era ebreo.

È un episodio meno noto, questo.

Ce ne furono tantissimi, così: per anni, una piccola minoranza di stronzi impedì lo svolgersi regolare di concerti. Durò fino a quando nel 1979 non arrivò Iggy Pop, che ebbe la sfacciataggine di prendere i volantini che gli lanciarono, abbassarsi i pantaloni e pulirsi il culo. Dal pubblico, partì un’esultanza liberatoria, dello stesso genere di quella che accolse il giudizio di Fantozzi su ‘La corazzata Potëmkin’.

Era la fine degli anni settanta, non solo sul calendario.

Gli anni ottanta irruppero lavando via tutti i residui dell’ideologismo. Cominciarono a girare un sacco di soldi. Furono anni d’oro anche per l’industria musicale. Andavo in banca e sul conto mi ritrovavo ogni settimana sempre più soldi. Non sapevo nemmeno come spenderli. Avevo vinto Sanremo. Tutto andava bene. Aveva bisogno di una grande cazzata. Cominciai a farmi di cocaina.

Una droga nello spirito di quei tempi.

Ho sempre odiato l’hashish, l’eroina, le droghe che ti rilassano. Erano le sostanze degli insoddisfatti, di chi desiderava l’esperienza che l’avvolgesse e lo facesse tornare alla placenta della madre. Io no. Io volevo dormire tre ore a notte. Avere la forza di andare a cena, poi a un concerto e dopo fare una paio di centinaia di chilometri in macchina per andare a una festa e ricominciare da capo il giorno successivo. Volevo vivere più possibile. Avevo fame di vita. Non volevo addormentarmi.

Quando smise?

Non so quante volte salii sul palco senza nemmeno sapere in quale nazione mi trovassi. Non sentivo nulla. Volevo essere sempre sveglio, godermi tutto, eppure non riuscivo a provare il piacere di esserci. Mi faceva schifo trovarmi a notte fonda in compagnia di gente che di giorno disprezzavo, solo perché dovevamo farci insieme. In Brasile assaggiai una coca purissima e capii la merda che avevo tirato. Avevo compiuto quarant’anni. Quando tornai, mi dissi: “Che cazzo stai facendo?”. E smisi.

Oggi cosa la irrita?

L’egemonia delle tweet star, la sottile dittatura del nuovo buonismo, la corrente che trascina tutti nell’obbligo di esprimere la propria opinione, anche su argomenti di cui non sa niente.

Qual è la musica che sente più vicina adesso?

Potrei parlati per ore dei Led Zeppelin, di Crosby, Stills, Nash & Young, di Billy Cobham. Ho ascoltato talmente tanti capolavori che non m’interessa più nulla di quello che si fa oggi.

Nemmeno il rap?

Poteva diventare il nuovo punk: aveva una dimensione sociale, la forza di rivendicazioni vere, la lava dell’emarginazione. In Italia, si è trasformato nella musica per undicenni, la colonna sonora dei bimbiminkia.

I suoi Decibel si sciolsero di fronte alla foga degli adolescenti.

Ascoltavamo i Velvet Underground e il nostro riferimento artistico era Andy Warhol: non potevamo sopportare che delle ragazzine ci aspettassero fuori dagli alberghi per tirarci addosso dei peluche rosa. Quando accadde, capimmo che qualcosa non andava.

C’è chi non desidera altro.

Noi c’infilavamo nei garage a suonare perché avevamo bisogno di testimoniare la nostra esistenza, sentivamo un desiderio folle di sfuggire all’anonimato e mostrare ciò che fremeva dentro di noi. Oggi i ragazzi di smaniano per partecipare a un talent, desiderano avere il successo e la fama, più che sentire il bisogno di esprimersi.

È sbagliato?

Non ha niente a che fare con la musica. I talent show sono solo uno sfoggio di vocalità muscolare. Il lessico è quello della pura competizione. “Tu ce la farai”. “Avrai successo”. “Dimostra quello che vali”. Se Jannacci, De André, Battiato, Liguabue, Vasco Rossi, Guccini o Paolo Conte avessero partecipato a un’edizione qualsiasi, avrebbero perso.

Fonte: Huffington Post
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Re: Migrare e non, accogliere e non, diritti e doveri

Messaggioda Berto » mer giu 21, 2017 6:12 am

??? Quante menzogne raccontano questi dementi manipolatori di diritti e di doveri ???

La giornata del rifugiato più amara che si potesse immaginare

https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/0 ... re/3673624

Una giornata del rifugiato più amara di quella 2017 è difficile da immaginare: mai così tanti i profughi, mai tanto dure e miopi le politiche dei paesi occidentali. Qualche numero: secondo l’Alto Commissariato per i rifugiati sarebbero 65 milioni gli individui in fuga e solo la settimana passata potrebbe essere di 100 vittime il tragico bilancio settimanale dei morti nel Mediterraneo.

L’Unione europea guarda, il governo italiano pensa a non indispettire gli elettori e gli esecutivi di mezza Europa continuano, senza un briciolo di decenza, a stare con i piedi in due staffe, praticando il pragmatismo a parole e il populismo nei fatti.

L’anno passato e quello precedente abbiamo visto un po’ di tutto: le frontiere esterne sono sigillate e militarizzate (no, muri e filo spinato in mare non è ancora possibile costruirne), quelle frontiere interne vengono aperte e chiuse a discrezione (vedi il caso danese), i leader europei stanno – de facto – già costringendo i richiedenti asilo nei paesi limitrofi ai loro, senza alcun rispetto degli standard minimi di tutela dei diritti umani, anche se, nel Vecchio Continente, ospitiamo solo due rifugiati su dieci. Chi parla di “tsunami” dovrebbe andare a vedere quanti rifugiati accolgono Turchia e Libano: se Ankara ne ospita quasi 3 milioni, in Libano sono – addirittura – un abitante del Paese su quattro.

Anche in Europa, però, abbiamo record da difendere. La Repubblica Ceca ha un primato invidiabile, per esempio: dal 2015 ha ospitato dodici rifugiati: sì, avete letto bene, dodici. E sembrano davvero un esercito rispetto a Polonia e Ungheria dove il saldo è zero. E qui parliamo dei Paesi “cattivi” ma anche a sbirciare tra i numeri di quelli virtuosi la situazione non migliora: il piano europeo di redistribuzione dei migranti giunti in Italia e Grecia è indietro perché nessuno Stato sta rispettando proprio quelle quote che si è imposto: ad oggi, infatti, solo il 5% dei migranti è stato ricollocato. Ma come, non doveva essere “respingimenti e flusso regolato”; fermezza e umanità? Se la parte militare sembra pienamente operativa, quella politica è ancora non pervenuta.

In Europa questa è la desolante situazione nella Giornata del rifugiato. E mentre i governi perdono tempo, di volta in volta, con nuove sofisticate geometrie per dare un colpo al cerchio ed uno alla botte – grazie a provvedimenti-toppa che durano giusto il tempo di una legislatura – le problematiche alla base rimangono immutate: nessun canale legale per chi fugge, poche soluzioni umane per chi è arrivato, pochissime risorse per l’integrazione e per coloro ai quali è stata respinta la richiesta d’asilo.

L’Alto Commissario per i rifugiati Filippo Grandi ha detto che i richiedenti asilo andrebbero premiati per resistenza e coraggio. E ha ragione da vendere. Fuggire da guerre e persecuzioni per trovarsi poi a dover fare i conti con burocrazia, razzismo e ignoranza richiede una forza d’animo ed un coraggio fuori dal comune.
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Re: Migrare e non, accogliere e non, diritti e doveri

Messaggioda Berto » mar lug 25, 2017 3:06 am

??? I dementi irresponsabili e manipolatori dei diritti umani di questo giornalaccio infame. Ricordo a questi imbecilli che i paesi dell'Est di sono liberati della mostruosità sovietica dell'URSS non certo per finire in un'altra mostruosità simile che è l'UE ???

Polonia, gli Stati dell'Est fanno la guerra su diritti, giustizia e migranti: così la Contro-Europa demolisce i valori dell'Ue
di Leonardo Coen | 24 luglio 2017

http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/07 ... ue/3751519

La riforma dell'ordinamento giudiziario voluta dal governo di Varsavia è solo l'ultimo episodio: gli Stati di Visegrad - Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia - riemersi dal blocco comunista, mettono in discussione i principi fondanti dell'Unione e le decisioni di Bruxelles a partire dal ricollocamento dei richiedenti asilo in nome della sovranità statale. Una battaglia aperta, culturale ed ideologica contro il sistema democratico che Bruxelles rischia di perdere ???

Ricorsi della Storia? Vengono i brividi, ad immaginare il potenziale distruttivo che incombe su di noi. Anche nel 1939 tutto cominciò da quella che allora venne chiamata “crisi polacca”, in realtà un pretesto inventato dai nazisti, che invasero la Polonia fieramente nazionalista – coll’assenso di Stalin – innescando la Seconda Guerra Mondiale. Quasi ottant’anni dopo, un’altra minaccia grava sull’Europa che si vorrebbe unita e che invece è sempre più divisa e incontrollabile. Il governo polacco, guidato dal partito che beffardamente si chiama Diritto e Giustizia (Prawo i Sprawiedlywose, formazione iper conservatrice, nazionalista ed euroscettica pilotata dall’ex premier Jaroslaw Kaczynski, anche se formalmente non occupa alcuna funzione), sta infatti distruggendo lo Stato di diritto del Paese. Per il momento, parte di questo progetto dittatoriale è stato frenato dal no del presidente Andrzej Duda e dalle proteste che si sono diffuse in tutta la Polonia. In realtà, la mossa di Duda – che è sempre stato una “pedina” di Diritto e Giustizia – è stata dettata dalla paura che la Commissione Europea inneschi l’articolo 7 del Trattato di Lisbona, ossia la sanzione che priverebbe Varsavia del suo diritto di voto. Sinora non è mai stato applicato. Gli eurocrati la chiamano “bomba nucleare istituzionale” perché di fatto conduce al bando dall’Unione.

E qui arriviamo al dunque: la Polonia ha ancora tanto da guadagnare, a star dentro l’Ue, da cui ha avuto e vuole tutti i vantaggi e gli aiuti strutturali possibili. A tal punto che la scommessa di Bruxelles pareva vinta, perché la Polonia aveva assunto il passo di una “tigre” europea, con tassi di crescita da rendere gelosi tutti, e con pretese politiche – più influenza sui processi direttivi dell’Unione – che l’hanno affiancata sovente alla Francia e alla Germania. Però, in cambio, Varsavia si è fatta arrogante: non è disposta a concedere nulla. Dunque, un’ingrata. Il problema è che non è sola. Come lei, si stanno comportando altri Paesi riemersi dal blocco comunista centrale ed orientale. Un’anomalia tollerata da Bruxelles, giacché il Trattato di Lisbona sancisce – sarebbe più corretto dire: recepisce – il principio internazionalistico della sovranità statale, se ce ne fossero ragioni di sicurezza nazionale e di ordine pubblico interno. Un’anomalia, tuttavia, forzata. Al punto che due anni fa Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia – il nucleo mitteleuropeo del Comecon sovietico – hanno creato il Gruppo dei Quattro di Visegrad. La contro Europa dei populisti e dei regimi autoritari. ???

I governi di questi quattro Paesi si riuniscono regolarmente per dettare agende di lavoro in comune, per difendere i propri interessi (alla faccia di Bruxelles), ma soprattutto per dare sostanza a progetti sovversivi nei confronti dei valori su cui si basa l’Europa. Mettendo a tacere l’opposizione. Monopolizzando l’informazione. Distruggendo l’indipendenza della magistratura e dello Stato di diritto: insomma, tutto nelle mani del potere politico. Che si garantisce la perpetuità. In barba alla democrazia.

Violazioni inammissibili del Trattato istitutivo dell’Unione. A Bruxelles, per troppo colpevole tempo si è finto di non vedere. Una tolleranza intollerabile: ci si è accontentati di definire i regimi di questi Paesi come “democrazie illiberali”, che è poi l’autodefinizione che ha coniato uno dei leader più sulfurei dell’Est, l’ineffabile premier magiaro Viktor Orban. L’impunità a lui concessa da Bruxelles gli ha gonfiato i muscoli e la lingua. Per lui, e gli altri tre soci di Varsavia, Praga e Bratislava, l’afflusso dei migranti è da respingere con ogni mezzo. Perché scuoterebbe gli equilibri sociali interni. Perché portatore di sconquassi economici. E di terrorismo. Ossia minano gli spazi “comuni” della sicurezza, della giustizia, della libertà, è la loro conclusione. Quindi, i Quattro di Visegrad (con il tacito assenso dell’Austria) non accettano alcun ricollocamento, anche se questa è stata la decisione di Bruxelles.

Come ben sappiamo noialtri. Sabato 22 luglio Orban ha sproloquiato contro l’Italia, saltando sul cavallo di battaglia dei migranti – con il plauso vergognoso ed irresponsabile dei nostri Salvini e Meloni, grandi agit-melmatori – ed accusando Roma di inanità. Come se il flusso dei migranti verso la Penisola fosse una manovra orchestrata dagli italiani per destabilizzare l’Europa: “Una nazione che non è capace di difendere i suoi interessi non è una nazione, nemmeno esiste, e scomparirà”, ha tuonato Orban. Dichiarazione che in altri tempi avrebbe scatenato una guerra. O, perlomeno, avrebbe fatto richiamare gli ambasciatori. Budapest dimentica il suo vergognoso ruolo accanto ai nazisti, dimentica i bagni di sangue per reprimere i democratici, dimentica i governi comunisti fantocci di Mosca, la repressione del 1956 coi carri armati che sparavano contro chi voleva la libertà e uno Stato di diritto.

Ecco, questa Europa che simula un europeismo basato sull’esasperazione del sovranismo e dell’identitarismo è perniciosa. Dicono che lo scopo del polacco Kaczynski – personaggio assai misterioso che comanda a bacchetta governo e Parlamento – sia quello di far uscire la Polonia da “l’occidentalismo decadente” imposto dall’Ue e che vorrebbe ricondurre il suo Paese all’identità cattolica più retriva e fondamentalista. In verità, stanno emergendo due Polonie, ostili l’una all’altra. Quella urbana, aperta, europeista e prospera. E quella rurale, cattolica, conservatrice e emarginata dal boom economico.

Un divario che enfatizza le debolezze della transizione dal comunismo alla democrazia, pilotata da Bruxelles, ed aggravata dalla globalizzazione. Le ineguaglianze hanno favorito il populismo, la rabbia, la frustrazione sociale. Il meccanismo è noto. Trump insegna. L’inganno populista sfrutta tutto ciò, soprattutto l’odio nei confronti di una classe politica incapace di soddisfare le esigenze e le aspettative. La colpa si scarica anche sullo stato di diritto e sulle garanzie costituzionali, incapaci di dare a tutti un po’ di tutto. Liberalismo e socialdemocrazia vengono visti e additati come “nemici” del popolo. A demonizzare la “società civile”.

Un revisionismo politico che ha portato Varsavia ad abbracciare Budapest, in una sorta di “fronte del rifiuto”, come hanno scritto parecchi analisti. In fondo, Orban è stato il primo ad erigere il filo spinato per arginare i migranti, scatenando l’emulazione e contestando così lo spazio Schengen. E’ una battaglia aperta, non occulta, culturale ed ideologica, contro il sistema democratico, così come lo abbiamo concepito in Occidente. Il risultato è che il malessere sociale e la protesta degli “esclusi” è stato abilmente strumentalizzato dai leader populisti che appena insediati si sono subito rivelati autoritari più che autorevoli e si sono guardati bene dal trasferire al popolo il potere. Hanno solo sostituito un’élite con altre élite: bramosa di regime e di privilegi, di soldi e di muri. Ha dunque senso tenere in Europa questa non-Europa? Intanto, chi si strofina le mani per compiacersi della situazione è Putin…
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Re: Migrare e non, accogliere e non, diritti e doveri

Messaggioda Berto » lun nov 06, 2017 7:46 am

Antonio Socci, il Papa e gli immigrati: il durissimo attacco che ha "convertito" Bergoglio
12 Settembre 2017

http://www.liberoquotidiano.it/news/opi ... deli-.html

La continua, insistente, ossessiva predicazione di papa Bergoglio a favore dell' emigrazione che esige dall' Italia e dall' Europa di spalancare le frontiere a milioni di migranti, gli ha fatto perdere le simpatie di una grossa fetta di opinione pubblica. Non solo quella più popolare che soffre maggiormente l' irrompere di tante comunità straniere.
Già da tempo sono intervenuti alcuni studiosi laici come Paul Collier, docente di Economia e Politiche pubbliche a Oxford e autore di «Exodus», lo studio fondamentale sul fenomeno migratorio.

Collier, su Catholic Herald, scrive, con riferimento a Bergoglio, che «le reazioni cristiane di fronte ai rifugiati e alle migrazioni sono caratterizzate da una certa confusione morale, e tutto ciò mentre non riescono ad affrontare le necessità reali».
Insieme al "cuore" occorre "la ragionevolezza", altrimenti si fanno danni. Infatti lo studioso ha mostrato che la politica delle porte aperte ha danneggiato proprio i Paesi di provenienza dei migranti, perché li ha privati delle energie migliori per la ricostruzione.
Inoltre danneggia i poveri e i lavoratori dei paesi europei perché lo "Stato sociale" non può provvedere a loro e a milioni di stranieri bisognosi che arrivano. Non ci sono le risorse. E Collier afferma che non si ha diritto di definire "razzismo" le preoccupazioni dei nostri poveri.
Le frontiere degli Stati nazionali - ha aggiunto Collier in polemica con certi strali bergogliani - «non sono abomini morali». Sono, come i muri di ogni abitazione per le nostre famiglie, la protezione della vita pacifica di una comunità. E il diritto di emigrare dal proprio Paese non significa che si ha automaticamente diritto di immigrare dove si vuole.

Più sbrigativo e drastico è stato l' economista e scrittore Geminello Alvi secondo cui Bergoglio promuove una immigrazione «scriteriata» per l' abitudine dei gesuiti di fare i «filantropi coi soldi altrui». Alvi aggiunge che la predicazione bergogliana è una «disgrazia quotidiana» che ha messo «il cattolicesimo ormai in liquidazione».
Ma ormai sempre più spesso sono i cattolici a contestare la fissazione politico-teologica di Bergoglio sull' emigrazione.
L' altroieri è stata pubblicata da uno scrittore cattolico francese, Henri de Saint-Bon, esperto di Islam e di Chiese orientali, autore di vari libri, una Lettera aperta a papa Francesco che merita di essere considerata attentamente.
Saint-Bon, con un tono molto rispettoso, esprime il suo «smarrimento» di fronte alle «recenti dichiarazioni» del papa «sull' immigrazione e l' Europa». Perché hanno «urtato» la sua sensibilità di cattolico e hanno «ferito molto profondamente i francesi fieri della loro nazione» che essi sentono il dovere di «difendere e proteggere».
L' autore afferma che le dichiarazioni bergogliane «ignorano il concetto di nazione costitutivo naturale di ogni società». Inoltre «mostrano un certo disprezzo dell' Europa, che in duemila anni di storia ha donato tanti santi» e «incoraggiano le popolazioni africane e altre ancora a sradicarsi, con tutti i drammi umani che ne derivano», per «inserirsi con forza nel midollo dei paesi da loro scelti».

Saint-Bon riconosce, come ogni buon cattolico, che i credenti hanno il dovere della carità: «Essa è dovuta, mi pare, allo straniero di passaggio o temporaneo. Ma non sapevo che consistesse nel dar da mangiare e da bere in modo duraturo a colui che irrompe a casa vostra e che vi impone le sue leggi. Che cosa farà Vostra Santità quando dei migranti verranno ad installarsi, contro il Suo volere, anche all' interno del Vaticano, o all' interno di Casa Santa Marta, e Le imporranno la costruzione di una moschea e l' osservanza del Ramadan? Certo, non tutti i migranti sono musulmani, ma molti lo sono, con la volontà, alla lunga, di imporre l' islam in Europa».
Lo scrittore fa presente che in nessun passo delle Sacre Scritture si incoraggia una cosa simile: «Giova forse ricordare che l' enciclica Rerum Novarum qualificava come nocivi i trasferimenti di popolazioni?

Infine il Catechismo della Chiesa Cattolica, precisa nel suo paragrafo 2241, che: "L' immigrato è tenuto a rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del Paese che lo accoglie, a obbedire alle sue leggi, e a contribuire ai suoi oneri". Dispiace che Vostra Santità non l' abbia ricordato».
Peraltro sia Giovanni Paolo II che Benedetto XVI hanno sempre affermato che il primo valore da difendere è «il diritto di non emigrare» perché dover lasciare la propria terra è un' ingiustizia, non è un bene come fa credere Bergoglio.
Nei giorni scorsi c' è stata anche una gaffe del papa argentino che ha evidenziato la sua rottura rispetto al magistero di Benedetto XVI che è quello di sempre della Chiesa.
Egli infatti - nel suo recente Messaggio per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2018, che è passato sui media come una sponsorizzazione dello «Ius soli» - ha cercato di legittimarsi con l' autorità di Benedetto XVI, sostenendo che il suo predecessore, nell' enciclica Caritas in Veritate, avrebbe detto che «la sicurezza personale» è da «anteporre sempre» alla «sicurezza nazionale».
Ecco le sue parole: «Il principio della centralità della persona umana, fermamente affermato dal mio amato predecessore Benedetto XVI, ci obbliga ad anteporre sempre la sicurezza personale a quella nazionale». È stato un cattolico ortodosso come Luigi Amicone a eccepire che l' enciclica di Benedetto XVI non afferma questo.
Anzi, Ratzinger, nel passo evocato da Bergoglio, dice una cosa del tutto diversa: «Possiamo dire che siamo di fronte a un fenomeno sociale di natura epocale, che richiede una forte e lungimirante politica di cooperazione internazionale per essere adeguatamente affrontato. Tale politica va sviluppata a partire da una stretta collaborazione tra i Paesi da cui partono i migranti e i Paesi in cui arrivano; va accompagnata da adeguate normative internazionali in grado di armonizzare i diversi assetti legislativi, nella prospettiva di salvaguardare le esigenze e i diritti delle persone e delle famiglie emigrate e, al tempo stesso, quelli delle società di approdo degli stessi emigrati».
Amicone commenta: «Si capisce chiaramente che in Benedetto XVI non vi è alcuna contrapposizione tra persone migranti e "società di approdo degli stessi emigrati".
Al contrario. Egli richiama la aprospettiva di salvaguardare sia le esigenze e i diritti delle persone e delle famiglie emigrate", sia "al tempo stesso, quelli delle società di approdo degli stessi emigrati"».

Ma il magistero di Benedetto XVI è stato anche più chiaro.
Nel discorso ai Sindaci dell' Anci, all' udienza del 12 marzo 2011, disse: «Oggi la cittadinanza si colloca, appunto, nel contesto della globalizzazione, che si caratterizza, tra l' altro, per i grandi flussi migratori. Di fronte a questa realtà bisogna saper coniugare solidarietà e rispetto delle leggi, affinché non venga stravolta la convivenza sociale e si tenga conto dei principi di diritto e della tradizione culturale e anche religiosa da cui trae origine la Nazione italiana».
Questa necessità di difendere «la tradizione culturale e anche religiosa da cui trae origine la Nazione italiana» è centrale nell' insegnamento di Benedetto XVI. Ed è pressoché inesistente nei continui interventi di Bergoglio sull' emigrazione.
Infine è inesistente, in Bergoglio, il riconoscimento della laicità dello Stato che ha compiti e doveri (di difesa del territorio, della sicurezza e del benessere popolo italiano), diversi rispetto alla Chiesa che deve insegnare l' amore al singolo cristiano.
La Chiesa fa il suo mestiere annunciando il Vangelo a ogni persona, ma - diceva il cardinal Giacomo Biffi - lo Stato deve fare lo Stato, cioè provvedere al bene collettivo dei suoi cittadini, all' ordine civile e alla prosperità.
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Re: Migrare e non, accogliere e non, diritti e doveri

Messaggioda Berto » gio feb 22, 2018 9:47 pm

Rifugianti, asilanti, migranti, clandestini, diritti umani, obblighi e realismo
viewtopic.php?f=194&t=1811

Pensa prima alla tua gente e al tuo paese che ne hanno bisogno, invece che agli africani e all'Africa
viewtopic.php?f=205&t=2681

Accoglienza o ospitalità imposta o forzata è un crimine contro l'umanità
viewtopic.php?f=196&t=2420

Non portarti la morte in casa, non hai colpe né responsabilità
viewtopic.php?f=194&t=2624
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Re: Migrare e non, accogliere e non, diritti e doveri

Messaggioda Berto » gio feb 22, 2018 9:47 pm

Subito espulso chi non ottiene l’asilo. La stretta di Macron sugli immigrati
emiliano guanella
2018/02/21

http://www.lastampa.it/2018/02/21/ester ... agina.html

Sempre disposto alla trattativa e al compromesso, sull’immigrazione Emmanuel Macron non sente storie e segue il vento dell’opinione pubblica, favorevole a una stretta: il progetto di legge presentato oggi dal ministro degli Interni Gérard Collomb, molto vicino al Presidente, corrisponde a un vero giro di vite nel settore. Sta già provocando polemiche, nella società civile e perfino tra i deputati macronisti, che hanno la maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale e che in genere approvano senza fiatare qualsiasi legge venga loro propinata dal Governo. Ma stavolta potrebbero riservare qualche sorpresa.

Si tratta di una legge «per un’immigrazione gestita e un diritto all’asilo politico effettivo», così recita il titolo. «È un progetto equilibrato – ha sottolineato Collomb nei giorni scorsi -. La Francia deve accogliere tutti i rifugiati politici, ma non tutti quelli economici. Ecco, in quest’ottica dobbiamo cambiare la nostra legislazione, che adesso è molto più favorevole rispetto agli altri Paesi europei». Già da ieri si conoscevano le principali novità del provvedimento. Si riducono i termini per ottenere l’asilo a un massimo di sei mesi dalla presentazione della domanda, contro gli undici in media attuali. E il ricorso contro una decisione negativa dell’amministrazione competente (Ofpra) non sarà più sospensivo per tutti coloro che provengono da Paesi giudicati «sicuri» (la stragrande maggioranza): insomma, saranno espulsi prima di sapere cosa si stabilirà in appello. Intanto si allungano i tempi di permanenza nei centri di detenzione amministrativa per i migranti (equivalenti ai Cie, i Centri di identificazione ed espulsione italiani), dove finiscono i clandestini trovati senza regolare permesso di soggiorno: si passa dai 45 giorni attuali a 90, che in certi casi diventano addirittura 135.

Si introduce anche un vero e proprio reato di «superamento illegale della frontiera»: un anno di carcere e 3750 euro di multa per chi, ad esempio, attraversa illegalmente le Alpi tra Italia e Francia e non in corrispondenza di un posto di frontiera.

La legge prevede pure qualche misura «positiva», come la possibilità per i minorenni ai quali è riconosciuto lo status di rifugiato di far venire in Francia gli stretti familiari. Si riconoscono anche più diritti agli studenti stranieri presenti nel Paese, sia per lavorare che per creare un’impresa. E il premier Edouard Philippe ha promesso di incrementare i corsi di francese per coloro che hanno richiesto l’asilo e di sostenerli nella ricerca di un posto di lavoro. Ma tutto questo basterà a convincere i deputati più reticenti sulla legge?

D’altra parte Macron nell’ultimo sondaggio Ifop sulla sua popolarità ha perso sei punti percentuali. E in un’altra inchiesta (dell’istituto Elabe), condotta in parallelo, il 66% degli intervistati lo ha giudicato «troppo lassista» per la sua politica d’immigrazione. La loro scelta i francesi sembrano averla già fatta.
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Re: Migrare e non, accogliere e non, diritti e doveri

Messaggioda Berto » ven mar 09, 2018 10:39 pm

Questi sono due casi di cattiva e buona migrazione e integrazione.
https://www.facebook.com/photo.php?fbid ... 7003387674


Due neri africani entrambi cristiani, un uomo e una donna migrati legalmente e naturalizzati in Italia, lei in Calabria sposata a un calabrese, lui in Lombardia sposato a una lombarda, due persone con due visioni del mondo del tutto opposte.
Lei una persona ignorante, presuntuosa e arrogante, senza alcun rispetto per le genti della terra che l'ha accolta, una persona schifosamente razzista che diffonde e pratica una ideologia politica che persegue la violazione dei diritti umani dei cittadini nativi italici ed europei;
lui invece una persona umile, naturale, semplice anche se laureata, che ha il massimo rispetto per i diritti umani civili e politici dei cittadini nativi italici ed europei della terra che l'ha accolto e nella quale si è felicemente integrato e fuso.



Il leghista Iwobi e la KyengeTriste parabola di due simboli
28 maggio 2015 -

http://bergamo.corriere.it/notizie/opin ... f1d6.shtml

Dopo la presunta querela di Salvini, la polemica su Facebook: «Razzista sarà lei».
L’ex ministro Cécile Kyenge e il leghista Toni Iwobi L’ex ministro Cécile Kyenge e il leghista Toni Iwobi

All’elenco di vicende surreali della politica italiana, si aggiunge quella della presunta querela di Matteo Salvini a Cécile Kyenge. L’ex ministro nei giorni scorsi ha raccontato di essere stata denunciata dal leader del Carroccio, per aver definito «razzista» la Lega; Salvini però nega di aver mosso gli avvocati: uno dei due si sta confondendo, evidentemente. Allo spettacolino si aggiunge un piccolo allegato di origine bergamasca. Toni Iwobi, nigeriano di nascita con un cursus honorum da ex assessore a Spirano e da responsabile immigrazione della Lega, candidato da qualcuno dei suoi persino alla presidenza della Repubblica, lancia una campagna anti-Kyenge sui social network. «Facciamo uno scherzetto alla Kyenge», scrive, e lo scherzetto sarebbe postare sul profilo dell’ex ministro foto dello stesso Iwobi con la scritta «razzista sarà lei».

In effetti il suo faccione si ripete più volte nella pagina dell’eurodeputata, accanto a una lunga serie di insulti reciproci tra i sostenitori dei due personaggi. La sensazione è che tanto la Kyenge, quanto Iwobi, si prestino a un ruolo da prestanome su un tema molto delicato, quello dell’accoglienza degli immigrati e del malcontento che attraversa ormai da anni l’Italia di fronte al fenomeno. Il fatto stesso di essere neri, africani, con cittadinanza italiana, dovrebbe - secondo chi li ha portati sulla scena politica - dimostrare una tra due tesi opposte. Quella leghista è che, avendo messo Iwobi in una posizione di visibilità e di responsabilità, né Salvini né il suo partito possono essere accusati di razzismo. Se è un africano a dire che gli africani devono rimanere in Africa con parole come «aiutiamo i miei fratelli a restare a casa loro», declinazione black dello slogan bossiano, perché non dovrebbero pensarlo i bergamaschi?

Il problema è che dietro a questo pragmatismo lumbard, il razzismo trasuda abbondante: basta dare un’occhiata ai commenti sulla bacheca Facebook della Kyenge, alcuni davvero pesanti, fino a riproporre il paragone con l’orango di cui fu responsabile Roberto Calderoli. È però altrettanto chiaro che Cécile Kyenge in questi anni è stata usata come scudo umano dal centrosinistra sul tema dell’immigrazione. Ministro all’Integrazione senza capacità né alcun potere per incidere sulle politiche migratorie, è stata lasciata in balia degli insulti, per poi essere «trasferita» da Renzi (e, per la verità, da oltre 90 mila preferenze) al Parlamento europeo. I risultati politici di Iwobi e Kyenge sono sotto gli occhi di tutti: i costi, in termini personali, dell’essersi prestati a fare da simboli, li conoscono solo loro.




Questo della Kyenge come quello di Balotelli il calciatore so due casi di cattiva immigrazione, razzista e senza rispetto; propria di due persone disumane, ignoranti, presuntuose, arroganti e senza rispetto

Toni Iwobi: Balotelli su Instagram contro il neo senatore della Lega
07/03/2018

http://www.corriere.it/politica/18_marz ... fb97.shtml

Il calciatore del Nizza, Mario Balotelli, se la prende con il primo senatore nero della storia italiana, Toni Iwobi, eletto con la Lega. E in un post su Instagram scrive: «Forse sono cieco io o forse non gliel’hanno detto ancora che è nero. Ma vergogna!».
La replica

Pronta la replica del neo senatore a Radio Capital: «Critiche di Balotelli? Preferisco ignorarlo in questo momento. Non mi interessa quello che scrive, ne ho abbastanza delle polemiche: voglio pensare al mio territorio e al nuovo compito che mi hanno affidato. Lui è un grande giocatore e rimarrà tale, spero che si limiti a fare il suo bel lavoro, visto che è portato a farlo». Poi arriva anche la puntualizzazione del segretario della Lega Matteo Salvini: «Balotelli, non mi piaceva in campo, mi piace ancor meno fuori dal campo».


Le frasi

Nel mirino del goleador italiano le frasi pronunciate dal neo senatore sui migranti: «I clandestini? Vadano a casa. Ma la Lega non è razzista». Mercoledì Iwobi ha anche postato un commento: «Il razzismo in Italia è solo a sinistra». Il neo senatore dopo essere stato eletto a Palazzo Madama, ha spiegato alle agenzie la sua lunga militanza nella Lega: «Sono 24 anni che sostengo la Lega perché da sempre ha un progetto politico che mi sta a cuore: il federalismo fiscale.


Nato in Nigeria

In Italia già dagli anni ‘70, Toni Iwobi, 60 anni, è di Gusau, in Nigeria: abita a Spirano (Bergamo), ed è il primo parlamentare nero eletto dalla Lega, il primo senatore di colore nella storia d’Italia. «Mi ha chiamato Calderoli nella notte, mi ha detto “ciao Senatore Iwobi”. Non posso ancora crederci, ma finalmente sembra che ce l’abbia fatta. Il neo senatore della Lega è un esperto informatico, titolare di un’azienda che fa assistenza su hardware e software sia per privati sia per enti pubblici.


https://www.facebook.com/SomigliLorenzo ... 3453802296



VITTORIO FELTRI E TONI IWOBI, IL “NEGRO BERGAMASCO” DELLA LEGA: “CARI BUGIARDI BUONISTI, VI SVELO CHI È DAVVERO”
08/03/2018


http://www.liberoquotidiano.it/news/per ... ismo-.html


Toni Iwobi è l’unico immigrato che mi mette di buon umore, mi tira su il morale. Dice di sé di essere un italo-nigeriano, ed è senz’altro abbastanza «fattuale», mi farebbe dire Crozza, poiché risulta dalla carta d’identità. Ma in questa formula, burocraticamente corretta, sento l’odore degli uffici dell’anagrafe, un brodo insipido, non dice la verità esistenziale di questa vicenda che incontriamo nel libro. Più fattualmente, alla faccia dell’Ordine dei giornalisti, constato nel ragionier Toni, dirigente della Lega, un caso favoloso di negro bergamasco. La definizione sarà rustica, però è veritiera. Come definire diversamente un africano orgoglioso di esserlo, amante della sua patria antica, ma innamorato di quella dove ha trasferito le proprie radici?
Uno che quando racconta di se stesso e delle sue preferenze spande intorno i profumi domestici della «polenta e coniglio», il suo piatto che più padano non si può, simbolico dello sposalizio tra il grande fiume Niger e i nostri più modesti e selvatici Serio e Brembo.

Le pagine che seguono sono espressione dell’intreccio riuscito, e offrono una mescolanza di biografia e di buon senso, facendomi orgoglioso delle mie origini orobiche. Qui c’è la prova provata che l’attaccamento alla nostra terra e alle sue tradizioni, tipiche dei nostri paesi e delle nostre valli alpine e prealpine oltre che della «fertile pianura della bassa», come scrive felicemente Toni, non hanno niente a che vedere con il gretto egoismo, ma hanno per caratteristica la difesa tenace di due o tre cose sacre, non di più, neppure di meno. Chi non le rispetta, è fuori. Non è razzismo, ma necessità di sopravvivenza. Chi le rispetta – sempre che ci sia posto – ha quel che si merita, si inserisce senza pregiudizio. L’unico esame del sangue richiesto a chi arriva chiedendo permesso, è la presenza nel plasma di un enzima, gene, bacillo, non so bene scientificamente quale nome abbia, che si chiama «lavorina». Qua – a parte il gozzo – è il nostro timbro intimo. Lavoro sì, ma fatto bene. Lavoro sì, e per uno scopo: la famiglia, farla star bene, e che tutta la comunità stia così in pace. Ecco la storia di Toni Iwobi nella Bergamasca.

Nella legalità – L’avventura umana del presente signore è esattamente così: umana. Padre e madre sono di ceto medio, vestono come i classici abitanti delle colonie inglesi, con decoro, sono cattolici. Così da Gusau, una città del Nord-Ovest della Nigeria, dov’era nato nel 1955, si trasferisce in una bella scuola dedicata alla Madonna di Fatima. Va bene negli studi, diventa ragioniere. Lavora. Sono 11 fratelli. Decide di chiedere l’ammissione all’università dell’Arkansas, Usa. Passa l’esame con successo, ottiene il permesso. Mai clandestino, sempre nella legalità. Questo è il suo motto. Da lì, invece di tornare al Paese, fa domanda di migrare in Italia. Ce la fa. Si mantiene sgobbando come stalliere, in una famiglia dov’è stimato perché si fa i calli e sa trattare coi cavalli (buon segno!). Non ha soldi per iscriversi in Università cattolica, ma si ingegna a perfezionare italiano e conoscenza informatica. Un ragioniere attrezzato per le cose nuove della tecnologia: ha successo. Si sposa con una bella signorina, ne ha figli. Diventa il negro bergamasco che trova il suo luogo naturale nella Lega. Non mi dilungo sulla sua carriera del Carroccio. Non è uno che ci sale su: aiuta a tirarlo.

“Non venite” – Il suo motto è «REALISMO, NON RAZZISMO». Per questo egli dice: migrazione solo se c’è lavoro, e siccome oggi c’è «soprassaturazione dell’occupazione» (usa questa parola accademica, ma va bene lo stesso), vanno bloccati i flussi. Come? Svelando l’inganno a quelli che sono invogliati a partire dai buonisti bugiardi. Un nigeriano che emigra lo fa per ragioni economiche (la Nigeria è una federazione, fatta di 39 stati, di cui solo tre registrano episodi di guerra), e per intraprendere il viaggio mette nelle mani dei mercanti di schiavi se stesso e seimila dollari, che coincidono con i risparmi della famiglia. Vanno «aiutati a casa loro», con investimenti governati da aziende nostre, che possano prosperare loro e far prosperare i locali. Fornisce qui altre ricette, a cui mi inchino, e che so costituiscono il programma di Matteo Salvini su questo tema che non è un’ emergenza ma ci assedierà per decenni (se riusciremo a sopravvivere). Toni sostiene che prima ancora che illegale è immorale e segno di disprezzo verso gli altri popoli, migrare fingendosi profughi e farsi mantenere. Preparano l’inferno per sé e per gli altri. Non ce l’ha con i suoi fratelli nigeriani, ma con chi in Italia li inganna illudendoli che da noi ci sia l’El Dorado, allo scopo di distruggere le sacche di resistenza popolare (chiamata sprezzantemente populista) alla colonizzazione dei poteri internazionali senza volto, che hanno bisogno per questo di devastare il senso d’identità della nostra gente, colpendo la libertà di essere se stessi e minandone la sicurezza economica e fisica.

Vero lombardo – Tiro la morale di questo libro, scritto benissimo, come non sanno fare la maggior parte dei laureati italiani. Il pregio maggiore è che, a cucchiaiate generose, offre, a chi se n’è dimenticato e a chi la ignora, la cultura del lavoro e della famiglia che dà senso alla vita della gente lombarda. Essa oggi resiste con fatica, rischia ogni giorno di più di sciogliersi nella cosiddetta società liquida (più che altro è un liquame). L’invasione di migrantisenza arte né parte, insediati in alberghi e mantenuti dalle tasse di chi fa fatica, funziona come acido disgregatore. È paradossale, ma non tanto, che per difenderci da questa ondata di clandestini, che sono migranti economici, niente affatto profughi se non in misura ridicola (uno su venti), il cavaliere senza macchia e senza paura, sia lui, un meraviglioso negro bergamasco, Toni Iwobi, che ci aiuta a casa nostra.



Toni Iwobi (cristiano cattolico e non maomettano)
https://it.wikipedia.org/wiki/Toni_Iwobi
Toni Chike Iwobi (Gusau, 26 aprile 1955) è un politico nigeriano naturalizzato italiano, primo eletto afroitaliano al Senato della Repubblica.
Nato a Gusau nel nord della Nigeria, è figlio di una famiglia cattolica di madrelingua inglese.
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Re: Migrare e non, accogliere e non, diritti e doveri

Messaggioda Berto » dom mar 11, 2018 11:48 pm

Clandestini sotto il ponte di Ventimiglia: "No al Centro accoglienza"
1 Marzo 2018

http://www.ilpopulista.it/news/1-Marzo- ... w.facebook

Malgrado il gelo e la neve hanno preferito dormire nelle tende, scaldati da qualche falò acceso sul fiume, pur di non trasferirsi nel più attrezzato centro di accoglienza del parco

Un falò attorno al quale è stato distribuito un po' di cibo è stato organizzato a Ventimiglia da don Rito Alvarez, parroco della Gianchette, che ha aperto il sagrato della chiesa di Sant'Antonio, in via Tenda, ai clandestini accampati sul greto del fiume Roja.


Sono decine gli stranieri, soprattutto centroafricani, che malgrado il gelo e la neve hanno preferito dormire nelle tende, scaldati da qualche falò acceso sul fiume, pur di non trasferirsi nel più attrezzato centro di accoglienza del parco Roja, dove potrebbero beneficiare di vitto e alloggio gratuito, per il timore di essere identificati e schedati, vedendo così compromesso per sempre un loro ingresso in Francia.


Per chi viene identificato nel nostro paese, infatti, viene riconosciuto l'ingresso in Italia e, una volta entrato abusivamente in Francia, lo straniero verrebbe subito respinto alla frontiera di provenienza. Il parroco ha anche aperto le porte della chiesa, per chi volesse entrare e trovare temporaneo riparo dal freddo.
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Re: Migrare e non, accogliere e non, diritti e doveri

Messaggioda Berto » mar mar 13, 2018 5:49 pm

Chiedo di revocare la cittadinanza italiana a Pape Diaw, cittadino italiano di origine senegalese che ha annunciato “guerra totale” contro l’Italia
Magdi Cristiano Allam

https://www.facebook.com/MagdiCristiano ... 1275331120

Buongiorno amici. Pape Diaw è un cittadino italiano di origine senegalese. È stato Consigliere comunale a Firenze ed è stato candidato al Senato di “Sinistra e Libertà” nel 2013. Lo scorso 5 marzo Roberto Pirrone, tipografo di 65 anni in pensione con 30.000 euro di debiti e litigate con la moglie aveva deciso di suicidarsi con un’arma in suo possesso regolarmente denunciata. Ma gli mancò il coraggio di suicidarsi, finendo per sparare e uccidere Idy Diene, 54 anni, ambulante senegalese con regolare permesso di soggiorno. Pape Diaw, nella sua veste di storico portavoce dei senegalesi a Firenze, reagì violentemente proclamando “guerra totale” all’Italia. Ecco le sue dichiarazioni raccolte da Repubblica Tv:
“No, no, no, no, qualcosa non va. Questa volta faremo casino, ve lo dico. Ci sarà casino questa volta. Non sarà nulla di pacifico questa volta. Sarà una guerra totale in questo Paese. Sarà una guerra totale in questo Paese”.
Il 6 marzo un centinaio di senegalesi presero d’assalto il centro storico di Firenze devastando fioriere e impalcature comunali, gettando il panico tra la gente, obbligando una camionetta dell’Esercito a fuggire per evitare di essere aggredita.

Cari amici, se un cittadino italiano dichiara “guerra totale” all’Italia, commette il reato di “alto tradimento” e va sanzionato a norma di legge. Se un cittadino italiano afferma pubblicamente la volontà di usare la violenza contro lo Stato, commette il reato di “istigazione a delinquere” e va sanzionato a norma di legge. Se un cittadino italiano commette il reato di “alto tradimento” e di “istigazione a delinquere”, incitando alla mobilitazione violenta una massa di persone chiaramente identificate tra i suoi connazionali di origine, commette il reato di “insurrezione armata” e “guerra civile”. Nell’attesa che la Magistratura intervenga e valuti con la massima serietà l’insieme di questi reati, chiedo al Governo italiano di revocare la cittadinanza italiana conferita ad uno straniero che ha pubblicamente e concretamente dimostrato di non amare l’Italia, di additare l’Italia come un nemico, di istigare alla violenza contro l’Italia, di promuovere la guerra civile sobillando masse di stranieri contro l’Italia.


La Magistratura e la Politica concedono agli stranieri ciò che non sarebbe consentito agli italiani. Hanno ridotto l’Italia a una terra di nessuno e l’hanno trasformata in una terra di conquista

https://www.facebook.com/MagdiCristiano ... 6968495884

Buongiorno amici. Perché la Magistratura è severa con gli italiani e assente con gli stranieri? Lo scorso 5 marzo a Firenze è stato giustamente arrestato Roberto Pirrone, un pensionato di 65 anni intenzionato a suicidarsi per un debito di 30.000 euro e le continue litigate con la moglie. Ma gli mancò il coraggio. Uscì di casa con un’arma regolarmente denunciata e sparò al primo che capitò, uccidendo Idy Diene, un ambulante senegalese di 54 anni con regolare permesso di soggiorno. La stessa Procura di Firenze ha smentito le motivazioni razziali del gesto: "Ha sparato alla prima persona che ha trovato per strada dopo aver escluso di sparare ad una mamma e il suo bambino. I fini razzisti sono da escludere. Oltretutto il profilo personale dell'uomo non è collegabile a questo. Non sono emersi suoi legami con gruppi politici di destra o razzisti. Era un collezionista di armi e in casa sono stati trovati anche alcuni cimeli dell'ex Unione Sovietica. L'uomo voleva suicidarsi: i problemi economici continuavano ad assillarlo, quei 30mila euro di debiti erano motivo di continui litigi anche con la moglie".

Nonostante che Perrone fosse un comunista e un pacifista, e che la stessa Procura abbia escluso il movente razziale, gli esponenti dei senegalesi residenti a Firenze insorsero gridando al delitto razziale. Pape Diaw, cittadino italiano di origine senegalese, già Consigliere comunale e candidato al Senato nel 2013 con “Sinistra e Libertà”, portavoce storico dei senegalesi a Fireze, capeggiò la rivolta: "Dicono che non c'è un movente razziale? Ma di tutte le persone, come mai ha beccato un nero? Qui un bianco ha preso la pistola e ha ammazzato un nero e mi dicono che non è razzismo. Ditemi voi cos'è". E di fronte alla telecamera di Repubblica ha chiamato a raccolta gli stranieri per fare la “guerra totale” all’Italia: “No, no, no, no, qualcosa non va. Questa volta faremo casino, ve lo dico. Ci sarà casino questa volta. Non sarà nulla di pacifico questa volta. Sarà una guerra totale in questo Paese. Sarà una guerra totale in questo Paese”. Ebbene: perché ad oggi la Magistratura non è intervenuta per sanzionare Pape Diaw per “istigazione a delinquere”, “insurrezione armata”, “guerra civile” e, dal momento che è cittadino italiano, anche per “alto tradimento”?

Il 6 marzo un centinaio di senegalesi presero d’assalto il centro storico di Firenze devastando fioriere e impalcature comunali, gettando il panico tra la gente, obbligando una camionetta dell’Esercito a fuggire per evitare di essere aggredita. Perché la magistratura non è intervenuta per sanzionare i senegalesi per manifestazione non autorizzata, uso della violenza, devastazione di beni pubblici, minaccia e intimidazione dei cittadini, oltraggio e aggressione alle forze dell’ordine. Perché ad oggi la Magistratura non è intervenuta per sanzionare i teppisti senegalesi violenti?

L’8 marzo i senegalesi di Firenze hanno annunciato che si autotasseranno per riacquistare le fioriere spaccate lunedì in via Calzaiuoli. «Ci vergogniamo per ciò che è accaduto. Chi ha commesso quegli atti vandalici non ama questa città e va punito. Il dolore non giustifica la violenza e il nostro è un popolo pacifico (...) Quel modo di fare non ci appartiene. Chi ha commesso quegli atti violenti veniva da fuori, noi non li conosciamo. Qualcuno aveva anche bevuto, altri invece erano stati aizzati dai centri sociali che stanno cercando di distruggere la nostra realtà. Noi siamo per il rispetto delle regole ed è bene che le teste calde sappiano che mettere a ferro e fuoco Firenze non farà ritornare Idy in vita. Per questo diciamo a tutti: fermatevi!». Belle parole. Resta il fatto che in uno stato di diritto che si rispetti è la Magistratura che stabilisce la tipologia e l’entità della sanzione, non ci si fa giustizia da sé, né quando si devasta il centro storico gettando nel panico i cittadini e assaltando le forze dell’ordine, né quando si decide arbitrariamente che il reato perpetrato debba considerarsi estinto versando al Comune la cifra che autonomamente si riterrà essere pari al costo delle fioriere.

Il 10 marzo a Firenze si è svolta una imponente “Manifestazione antirazzista” con circa 10 mila persone, alla presenza del Sindaco di Firenze Nardella, del Presidente della Regione Toscana, l’imam di Firenze Izzedin Elzir, innalzando degli striscioni con le scritte: “Basta razzismo italiano”, “Contro il razzismo. Diritti per tutte/i”, “Difendiamo la vita contro ogni razzismo”. Com’è possibile che le istituzioni politiche locali si siano piegate alla tesi dei senegalesi sulla matrice razziale dell’omicidio di Idy Diene quando è stata inequivocabilmente smentita dalla Procura di Firenze? Si tratta di una chiara sottomissione alla paura della violenza che i senegalesi hanno dimostrato di perpetrare violando le nostre leggi e offendendo le nostre istituzioni.

Cari amici, il quadro complessivo che emerge da questa tragica e incresciosa vicenda che ha riguardato Firenze, è che ormai l’Italia è percepita come una terra di nessuno da parte degli stessi italiani e che viene trattata come una terra di conquista da parte degli stranieri, al punto che sia la Magistratura sia le istituzioni politiche sono severe con gli italiani ma assenti con gli stranieri, concedendo agli stranieri ciò che non sarebbe mai consentito agli italiani.
Cari amici, dobbiamo tornare a riscattare la certezza e l’orgoglio di chi siamo, dobbiamo diventare forti dentro per essere in grado di farci rispettare. Solo così potremo essere pienamente noi stessi dentro casa nostra.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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