Migranti, Isis e petrolio, la crisi libica è soprattutto un nostro problemaL’Italia è pronta a guidare una forza Onu, dobbiamo controllare le frontiere e tutelare le nostre aziende. Ma c’è il rischio di un’altra Somalia
Davide Vannucci21/08/2015
http://www.linkiesta.it/intervento-italia-libiaIl parallelo, ricorrente, l’ha tracciato lo stesso ministro degli Esteri Gentiloni, in un’intervista uscita lunedì sulla Stampa: la Libia rischia di diventare una nuova Somalia, ossia uno Stato fallito, incapace di imporre l’ordine, garantire la sicurezza delle città e delle attività economiche, tutelare i confini, fare rispettare le leggi. In buona parte la Libia è già uno Stato fallito, ma probabilmente il riferimento somalo serve ad evocare un contesto in cui anche un intervento esterno, date le condizioni di partenza, si trasforma in un disastro. Nel 1993 l’Italia, ex potenza coloniale, partecipò alla missione Onu a Mogadiscio, in preda ai "signori della guerra", tra cui il generale Aidid, e rimase coinvolta negli scontri armati. Gli stessi Stati Uniti furono intrappolati nel caos somalo, a tal punto che l’abbattimento di due elicotteri Black Hawk portò Washington ad una fuga repentina (l’episodio ispirò anche un film di Ridley Scott, "Black Hawk Down").
Anche in Libia l’Italia, ex madrepatria, è ovviamente in prima linea. Gli americani, dopo avere guidato la coalizione internazionale che, sotto l’egida della Nato, sostenne con i bombardamenti aerei la campagna dei ribelli contro Gheddafi, intendono restare dietro le quinte (poco tempo fa un bel pezzo del Washington Post raccontava l’approccio sbagliato dell’amministrazione Obama al dopoguerra in Libia: la sottovalutazione dei problemi di sicurezza, culminata con l’assalto al consolato di Bengasi, nel 2012, e il disastroso tentativo di addestrare un presunto esercito libico). Il Paese è frammentato, il potere è parcellizzato, il concetto di autorità relativo: due governi (coi rispettivi parlamenti), due amministratori del fondo sovrano, due governatori della banca centrale, una miriade di milizie, oltre alla presenza dello Stato Islamico, la cui roccaforte, adesso, è proprio la città natale di Gheddafi, Sirte, come hanno mostrato gli scontri degli ultimi dieci giorni.
La Libia rischia di diventare una nuova Somalia, ossia uno Stato fallito, incapace di imporre l’ordine, garantire la sicurezza delle città e delle attività economiche, tutelare i confini, fare rispettare le leggi
L’Isis ha ucciso un religioso estremista che si era rifiutato di giurare fedeltà al gruppo. Per rappresaglia i suoi seguaci, con l’appoggio di alcuni abitanti di Sirte, hanno attaccato le milizie del Califfato. L’Isis ha stroncato la rivolta, bombardando interi quartieri e facendo un centinaio di vittime (il capo della diplomazia europea, Federica Mogherini, ha parlato di "atti di barbarie"). La città è uno snodo fondamentale, a metà strada tra la capitale, Tripoli, e il principale centro della Cirenaica, Bengasi. A giugno i combattenti delle milizie di Misurata, vicini al governo tripolino, si sono ritirati da Sirte, l’Isis ha potuto estendere il proprio dominio (oggi controlla una fascia di costa lunga quasi cento chilometri) e la città è diventata il magnete libico per i combattenti, anche stranieri, del Califfato.
Alcuni analisti (e lo stesso presidente della Camera di Commercio italo-libica, Gian Franco Damiano, intervistato proprio da Linkiesta) accusano l’Italia di essere troppo vicina alle posizioni dell’Egitto di al Sisi, padrino di uno dei due governi (quello di Tobruk, che gode del riconoscimento formale della comunità internazionale). La linea ufficiale di Roma, però, è sempre la stessa: occorre un’intesa che sia la più ampia possibile - e che comprenda, auspicabilmente, i due parlamenti - perché solo in questo caso si può pensare a una forza internazionale di "stabilizzazione" che, dietro mandato Onu, consolidi l’accordo presidiando i luoghi chiave: sedi istituzionali, porti, aeroporti, installazioni petrolifere.
L’11 luglio l’inviato delle Nazioni Unite, il diplomatico spagnolo Bernardino Leon, è riuscito a raggiungere una prima intesa tra i due fronti a Skhirat, in Marocco, coinvolgendo un buon numero di città e di milizie, ma non il Congresso di Tripoli, che ha ritenuto la bozza troppo sbilanciata a favore di Tobruk. Le trattative sono ancora in corso. Bisogna definire i dettagli più importanti (i nomi del premier, dei vicepremier e dei ministri, la leadership della banca centrale, gli emendamenti alla dichiarazione costituzionale, la gestione delle risorse petrolifere) e si vuole cercare di coinvolgere anche il Parlamento della capitale.
L’Isis ha potuto estendere il proprio dominio, oggi controlla una fascia di costa lunga quasi cento chilometri. E la città di Sirte è diventata il magnete libico per i combattenti del Califfato
Quando i governi di sei grandi Paesi occidentali - Italia, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Spagna e Germania - dicono in una nota ufficiale, assieme alla Ue, che non “esiste una soluzione militare per la Libia”, significa che la premessa di qualsiasi azione è la realizzazione completa dell’accordo diplomatico negoziato da Leon, la cui deadline viene costantemente spostata (adesso si parla di settembre, prima della riunione annuale dell’assemblea generale delle Nazioni Unite). I militari, però, serviranno, perché l’intesa possa resistere alle prevedibile spinte eversive, dello Stato Islamico, ma non solo.
Alla guida di questa forza Onu ci potrebbe essere l’Italia, che non è nuova ad incarichi di questo tipo (si fa spesso l’esempio del Libano). Quale interesse ha il nostro Paese nella stabilizzare la Libia? Sostanzialmente, ci sono due aspetti. Da una parte, c’è l’emergenza, drammaticamente cresciuta dopo la caduta di Gheddafi, degli sbarchi dei migranti, provenienti dall’Africa subsahariana e dal Medio Oriente, che scelgono l’ex colonia italiana come base di partenza per l’ultima tappa del loro viaggio, destinazione Sicilia. I governi libici non controllano la frontiera marittima e il traffico di esseri umani è in mano ad alcune milizie, sulle quali non viene esercitata alcuna autorità (quando non c’è una vera e propria connivenza). Solo nel periodo che va da gennaio a luglio 2015 sono sbarcati in Italia 90.000 migranti (dati Frontex), per cui il controllo delle coste servirebbe a disinnescare questa "bomba demografica". Tutte le ipotesi fatte dall’Unione Europea negli ultimi mesi, compresa la possibilità di distruggere i barconi, si sono arenate contro la mancanza di una controparte in Libia con la quale accordarsi (e senza la cui partecipazione un intervento di questo tipo si configurerebbe come un atto di guerra).
E poi c’è l’economia. L’Italia è ancora presente in Libia, in tanti settori, a partire dall’energia fino alle infrastrutture, con grandi aziende, come l’Eni, e piccole e medie imprese. Malgrado la grande fuga seguita alla chiusura dell’ambasciata italiana, a febbraio, non c’è stato un abbandono totale e negli ultimi mesi, nonostante le condizioni di sicurezza siano ancora precarie, i nostri connazionali (soprattutto i tecnici) hanno ripreso la via del Nordafrica. Sarebbe essenziale, per Roma, assicurarsi le forniture energetiche, attraverso il presidio degli impianti di gas e petrolio, e costruire un ambiente economico in cui tornare ad investire e a produrre.
E poi c’è l’economia. L’Italia è ancora presente in Libia, in tanti settori, a partire dall’energia fino alle infrastrutture, con grandi aziende, come l’Eni, e piccole e medie imprese
I rischi, però, non mancano. I soldati di un’ex potenza coloniale, seppure con funzioni di peacekeeping, sarebbero il mirino ideale per i gruppi terroristi, a partire dallo Stato Islamico. Inoltre, ci si chiede come possa funzionare un accordo che non includa il Parlamento di Tripoli, ma solo la maggior parte delle città e delle milizie di quel fronte (tutti i diplomatici europei, a partire da Gentiloni, ripetono che bisogna coinvolgere il Congresso, ma non è esclude che l’intesa si faccia, per necessità, in sua assenza).
Altra questione: questa forza internazionale dovrà limitarsi a difendere alcuni punti cardine o avrà anche compiti offensivi, contro lo Stato Islamico? Martedì il ministro degli Esteri del governo di Tobruk, Mohamed el-Dayri, ha chiesto formalmente alla Lega Araba un intervento aereo contro l’Isis a Sirte (la richiesta di una no fly zone, da parte della Lega, nel 2011 fu la premessa dell’intervento della Nato). Il premier Al Thinni, dal canto suo, ribadisce la sua richiesta alla comunità internazionale: togliete l’embargo per la fornitura di armi, e sarà nostro compito estirpare lo Stato Islamico.
L’accordo di governo è quindi condizione necessaria, ma non sufficiente. In un interessante paper scritto per l’European Council on Foreign Relations, Mattia Toaldo e Tarek Megerisi hanno evidenziato gli ostacoli dell’intesa (come il ruolo dell’ambizioso generale Haftar), i rischi (un conflitto per conquistare Tripoli, nel caso in cui il Congresso, con le sue milizie, continuasse a dire no), i compiti dell’Europa (rafforzare le tregue siglate a livello locale, ad esempio). L’Italia, che è parte attivissima delle trattative, ha tutto da guadagnare da un accordo inclusivo e duraturo.