I clandestini e gli irregolari che raccolgono pomodori in nero non pagano tasse e non versano contributi per le pensioniRaccolta dei pomodori, anche quest’anno migliaia di schiavi dimenticatiLidia Baratta
2015/07/23
https://www.linkiesta.it/it/article/201 ... cati/26797 Mohamed, 47 anni, sudanese, il 20 luglio è morto stroncato da un infarto sotto il sole del Salento mentre raccoglieva i pomodori in un campo di Nardò, in provincia di Lecce. Aveva chiesto l’asilo in Italia. E intanto era partito verso questo angolo della costa ionica, facendo lo stesso percorso dei vacanzieri diretti verso il mare cristallino di Puglia. Era senza regolare contratto di lavoro, come i due braccianti africani che lo hanno soccorso. La procura di Lecce ha ipotizzato il reato di omicidio colposo, e ha iscritto nel registro degli indagati tre persone: i titolari dell’azienda agricola Mariano, dove il fatto è accaduto, e il presunto caporale sudanese, che avrebbe fatto da intermediario tra i lavoratori stagionali e gli imprenditori.
Funziona così qui, nel quadrato dell’“oro rosso”, tra Foggia, Taranto, Lecce e Brindisi. Ogni estate, tra luglio e settembre, migliaia di stranieri arrivano da tutta Italia per raccogliere i pomodori destinati per lo più alle aziende campane, che li trasformano a loro volta nella polpa, pelati e passate che troviamo al supermercato. Molti hanno i documenti in regola per stare in Italia, come Mohamed; tanti altri no. Vivono nei cosiddetti ghetti, baraccopoli senza acqua e in condizioni igienico sanitarie terribili, dove i caporali li vanno a prelevare. Ce ne sono tanti di ghetti in Puglia. Il più noto è quello di Rignano Garganico, in provincia di Foggia, da dove trasmette anche una radio (Radio Ghetto) che racconta le voci dei circa 1.500 braccianti che d’estate vivono nei container. Ma ci sono anche il “ghetto del Ghana” e quello “dei bulgari”, divisi per nazionalità di provenienza.
Vivono nei cosiddetti ghetti, senza acqua e in condizioni igienico sanitarie terribili, dove i caporali li vanno a prelevare. Da qui gli immigrati partono per lavorare per giornate intere per due o tre euro all’ora
Da qui gli immigrati partono per lavorare per giornate intere, chinati sotto il sole rovente, per due o tre euro all’ora. Il più delle volte in nero. «Il resto dei soldi se lo mettono in tasca i caporali», spiega Ettore Ronconi della Flai Cgil, il sindacato dei lavoratori dell’agroindustria. «Ci sono cosiddetti “caporali neri”, che spesso hanno la stessa provenienza dei lavoratori sfruttati, ma dietro di loro ci sono i “caporali bianchi”, che coordinano le attività».
Tra il quadrato pugliese e l’area di Potenza, al confine tra Puglia e Basilicata, ogni anno sono impiegati nella raccolta dei pomodori tra i 18mila e i 19mila braccianti. «Nonostante gli imprenditori sostengano che la raccolta manuale sia diventata ormai marginale rispetto alla raccolta meccanizzata, sappiamo che non è così», dice Ronconi. «La raccolta manuale impiega ancora molte persone, e sono soprattutto immigrati».
Lo scorso anno sindacati e associazioni imprenditoriali avevano anche firmato un protocollo per la responsabilità sociale ed etica nella filiera delle conserve di pomodoro. «Ma a quanto pare in un anno nulla è cambiato», dice Ronconi. «Siamo ancora alla vigilia dell’apertura della vera e propria stagione di raccolta e c’è già un morto». L’azienda in cui è avvenuto l’incidente, del resto, già nel 2012 era finita nel mirino della Procura con l’arresto del titolare Giuseppe Mariano, coinvolto nell’operazione “Sabr” (dal nome di uno dei caporali) sullo sfruttamento dei braccianti nei campi, insieme a tutti i più grossi imprenditori della zona. Dalle indagini era emersa una organizzazione piramidale transnazionale, dedita proprio all’ingresso irregolare di migranti sul territorio italiano, destinati a essere sfruttati nella raccolta di angurie e pomodori.
“La Doria spa, Princes Industrie alimentari, Franzese spa, Giaguaro spa, La Rosina, Pancrazio spa, Conserve Italia, Mutti ecc. sono consapevoli di quanto sta avvenendo nei luoghi della raccolta del pomodoro?”
Il protocollo, firmato il 24 luglio 2014 dalle parti sociali, metteva in evidenza come nella coltivazione e raccolta del pomodoro emergessero fenomeni di caporalato e utilizzo illegale di manodopera, chiedendo di applicare salari giusti, diritti e tutele. I firmatari, compresa la Anicav, Associazione nazionale industriali conserve alimentari vegetali della Confindustria, si erano impegnati ad avviare una serie di incontri nelle prefetture dei bacini di riferimento delle coltivazioni per intensificare i controlli e garantire la legalità lungo l’intera filiera. Ma tutto sembra rimasto sulla carta. «La Doria spa, Princes Industrie alimentari, Franzese spa, Giaguaro spa, La Rosina, Pancrazio spa, Conserve Italia, Mutti ecc. sono consapevoli di quanto sta avvenendo nei luoghi della raccolta del pomodoro?», si chiedono dal sindacato. «Il problema si risolve in maniera semplice, non accettate pomodoro raccolto con lo sfruttamento dei lavoratori, negate il mercato alle imprese agricole irregolari».
Ma un ruolo importante ce l’hanno anche le organizzazioni dei produttori (Op) che fanno da intermediari tra le aziende agricole e le industrie della trasformazione. «Agriverde, OP Mediterraneo, Apo Foggia, Assofruit, ecc. che fanno per debellare il fenomeno?», scrivono dalla Flai. «Nulla, tacciono, prendono ingenti finanziamenti dell’Europa, dallo Stato e dalle Regioni. Forse è arrivato il momento di affermare un principio: prendi i finanziamenti che competono se attui norme rigorose sul conferimento dei prodotti agricoli e del pomodoro da parte dei soci e se gli stessi dimostrano che la raccolta l’hanno effettuata con manodopera regolare e con tariffe salariali contrattuali».
La filiera, dice Ronconi, «si potrebbe controllare facilmente». Questa la sua soluzione: «Basta che le Op stabiliscano che per fare un tot di tonnellate di pomodoro serve un certo numero di lavoratori. E di questi lavoratori devono pretendere contratti e versamenti previdenziali, altrimenti non accettano il prodotto». In modo da sancire che i pomodori sono prodotti nel rispetto delle regole. «Se no tutti gli anni è la stessa storia». E la prospettiva, anche quest’anno, è che «la campagna del pomodoro sarà la campagna dello sfruttamento, dei rapporti irregolari, dello schiavismo». Soprattutto considerando che dall’inizio dell’anno abbiamo già superato oltre 55mila sbarchi di immigrati, un ulteriore bacino per la raccolta di manodopera irregolare.
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Il caporalato e l’agromafia, un’economia illegale da 17 miliardi di eurodi Michele Sasso
2016/05/12
http://espresso.repubblica.it/attualita ... o-1.265135Rosarno
Lavorano dodici ore al giorno sotto il sole
. Fino a morire di fatica. Accampati in tendopoli o stipati in ghetti fatiscenti. Ai margini dei campi dove vengono prodotte le primizie made in Italy. Senza regole, senza leggi. Dove l’unica parola che conta è quella del caporale. Una pratica che mette in moto due business: le agromafie e la gestione del mercato della braccia, che insieme muovono un’economia illegale e sommersa con un volume d’affari tra i 14 e i 17 miliardi di euro.
È quanto emerge dal terzo rapporto “Agromafie e caporalato” realizzato dall’osservatorio “Placido Rizzotto” della Flai Cgil , ricostruendo un quadro approfondito sulla condizione di braccianti e raccoglitori, delle variegate forme di illegalità e infiltrazione mafiosa nell’intera filiera.
Anticipiamo l'analisi che Sagnet farà al festival 'èStoria2016'. Fu lui a organizzare nel 2011 il primo sciopero dei braccianti nelle campagne della Puglia. Qui riflette sulle dinamiche tradizionali del fenomeno e su quelle legalizzate, che colpiscono sia i lavoratori italiani sia quelli stranieri
Nelle campagne ci sono soprattutto i lavoratori stagionali stranieri. Perché lo sfruttamento viaggia di pari passo con il fenomeno della tratta degli esseri umani. Ma ci sono anche i braccianti italiani come Paola Clemente, 49enne di San Giorgio Jonico, nel Tarantino, caduta in un campo pugliese la scorsa estate, stroncata dalla fatica mentre lavorava all'acinellatura dell’uva. Per due euro all’ora.
Non è solo Puglia e la raccolta dei maledetti pomodori. Dal rapporto emergono 80 distretti agricoli con le stesse pratiche di sfruttamento e regole non scritte: cinquemila donne che lavorano nelle serre di Vittoria (Ragusa) dove vivono segregate e nel totale isolamento subiscono ogni genere di violenza sessuale, e poi gli schiavi della vendemmia dal Monferrato alla Sicilia per produrre spumanti e vini doc e sempre più giù nella scala sociale, fino ai 13 mila indiani che vivono nell’Agropontino , raccogliendo frutta per 400 euro al mese.
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I settori a rischio, le attività illecite, le aziende coinvolte e i beni sequestrati. Ecco come lo sfruttamento dei braccianti alimenta un giro d’affari miliardario
Non c’è settore di produzione immune al fenomeno: è appena stato scoperto un traffico di profughi reclutati per lavorare nei campi del Chianti fiorentino . Sottopagati e picchiati per sottostare alle regole di cinque aziende vitivinicole, nel cuore di un territorio diventato in trecento anni e milioni di bottiglie prodotte, un tutt’uno con il brand della Toscana.
Ad essere vittime del caporalato (e delle sue diverse forme) sono indistintamente italiani e migranti, un esercito di braccia anonime di 430 mila persone. Un esercito che ha ingrossato le sua fila di altri 40 mila lavoratori rispetto all’anno precedente.
Per tutti le regole non scritte dello sfruttamento rimangono più o meno le stesse: nessun contratto, un salario tra i 22 e i 30 euro al giorno (inferiore del 50 per cento rispetto a quelli ufficiali) e poi tantissimo lavoro a cottimo.
Unito a un corollario di violenza, ricatti, abusi (come la sottrazione dei documenti), l’imposizione di un alloggio, i guanti venduti peso d’oro e il trasporto effettuato dagli aguzzini stessi.
«Il nostro rapporto esce dopo i fatti della drammatica estate 2015, nella quale troppi sono stati i morti sui nostri campi. Abbiamo voluto non solo fotografare ma anche indagare il fenomeno del caporalato, dello sfruttamento, della condizione dei lavoratori migranti, delle infiltrazioni mafiose nell’agroalimentare perché nessuno possa dire che non si conosceva il fenomeno», sottolinea Ivana Galli, segretario generale della Flai Cgil.
IL CAPORALE RILUTTANTE
Questo è il racconto di un migrante del Burkina Faso che per quattro anni è stato uno dei tanti caporali che comandano nella campagne italiane. Trent’anni, dopo la fuga dall’Africa, ha vissuto in un casolare a Boreano, la città fantasma dei raccoglitori di pomodoro in Basilicata, a cavallo con il confine della Puglia.
«Sono arrivato in Italia nel 2009 dopo una tappa in Francia», racconta Francis (il nome è di fantasia): «Finisco a Foggia per la raccolta del pomodoro. Dopo un anno da bracciante, un caporale mi propone di aiutarlo, io ho la patente e lui no. Ha paura di imbattersi nella polizia e il sequestro del furgone per questo io gli posso servire».
Francis accetta e diventa un “reclutatore” di braccianti: dapprima con il suo boss e poi piano piano autonomamente. Si sveglia alle 5 del mattino, va nei diversi casolari e sceglie la squadra che porterà nell’azienda da cui è partita la richiesta.
Ogni mattina accompagna circa 15 persone al lavoro, ma a bordo del furgone ne possono stare all’occorrenza anche venti, uno in braccio all’altro. I braccianti pagano cinque euro al giorno, sia per l’andata che per il ritorno, a prescindere dai chilometri da percorrere. È un costo forfettario, poiché a volte il tragitto da fare è lungo (anche 50 km) mentre a volte è breve (appena qualche chilometro). Il reclutatore non solo porta i braccianti nel campo, ma resta con loro a lavorare per tutto il tempo.
Avanti e indietro dai casolari abbandonati e diventati ghetti senza acqua e corrente elettrica e i campi arsi dal sole. Casa e lavoro sono lo stesso inferno. Sul furgone si trasportano anche acqua, pane, medicine (aspirine, antidolorifici, cerotti) che in caso di necessità vengono vendute ai membri della squadra o ad altri lavoranti. Tutto qui ha un costo.
«Tra i soldi del “biglietto” e la vendita di questi prodotti ogni settimana incassavo circa 1.400 euro. Di questi 500 erano per me e il resto lo versavo al mio capo. Sommando altri 40/50 euro dalla raccolta mi rimanevano tremila, tremilacinquecento euro al mese. Un cifra enorme per uno straniero come me. Io appartenevo al gruppo di caporali e lavoratori, nel senso che stavo con la squadra, ma ci sono caporali che trasportano solo le persone e poi svolgono altre attività illegali. Questo è il motivo che mi ha spinto ad uscire dal giro. È un giro sporco con uomini violenti e aggressivi, che usano il loro potere per arricchirsi».
Come? «Vendendo anche droghe, portando a prostituirsi le donne sulle strade. Hanno rapporti con la criminalità locale e per ogni cosa chiedono soldi ai lavoratori dicendogli che non lavoreranno più se non accettano le loro condizioni». Ecco il mondo nascosto delle baracche e strade assolate del Tavoliere.
La «piramide dello sfruttamento» ha in genere un italiano all’apice e intorno una selva di figure: il “tassista” che si limita a gestire il trasporto, il “venditore” che organizza le squadre e impone la vendita di beni di prima necessità. C’è poi “l’aguzzino”, quello che utilizza e impone sistematicamente violenza, sottrazione dei documenti e impone condizioni di vita indegne.
I più scafati diventano “caporale amministratore delegato”: l’uomo fidato che gestisce per conto dell’imprenditore l’intera campagna di raccolta con l’obiettivo di massimizzare i profitti. Ci sono poi forme nuove di caporalato. A gestire il business sono le cooperative senza terra, che garantiscono la raccolta chiavi in mano. Assumono per la vendemmia o la raccolta con un contratto a chiamata truffaldino perché i braccianti si ritrovano sulla busta paga appena due giorni, anche se ne hanno fatti venti o più.
Il più pericoloso è quello mafioso: colluso con la criminalità organizzata, il caporalato è solo una delle sue attività (oltre alla tratta di esseri umani, truffa per documenti falsi e all’Inps, estorsioni, riciclaggio). Gestiscono migliaia di persone, e decine di furgoni. I proprietari dei campi da una parte danno l’incarico a questi personaggi per trovare lavoratori, dall’altra ne hanno anche paura poiché sono delinquenti. Ma gli imprenditori comunque ci guadagnano sempre. E sempre fanno guadagnare il boss annullando ogni forma di diritto.
«I caporali italiani – insieme al loro boss – possono imporre le loro regole anche agli imprenditori, ma quelli stranieri devono sempre aspettare l’ingaggio da parte delle aziende. Non sono in grado di imporre i loro braccianti. Questa è la differenza, in termini di potere e di intimidazione, tra gli uni e gli altri. E se gli stranieri, non rispettano ciò che gli italiani gli dicono di fare diventa molto difficile anche per loro operare in questo settore» svela Francis.
La differenza di potere e di prestigio sta anche nei guadagni. «Il caporale italiano guadagna molto di più di quello straniero, poiché è in grado di negoziare con l’imprenditore il prezzo della raccolta e al contempo pagherà i braccianti di meno. Chi sta al vertice di questo sistema può arrivare a guadagnare anche 200 mila euro al mese. E non è un’esagerazione. E i suoi aiutanti altri 70mila. Chi li può fermare?».
Nemmeno le badanti in nero pagano tasse e contributi per le pensioniLavoro, allarme badanti in nero: sono un milione2018-06-05
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/ ... d=AEXyTe0E L'Italia è un Paese destinato ad invecchiare sempre di più, con una richiesta di servizi inarrestabile e spesso non al passo di quanto investe la pubblica amministrazione. Ma non solo. Solo una famiglia su cinque che ha in casa una persona con limitazioni funzionali usufruisce di servizi pubblici a domicilio. Oltre il 70% non fa affidamento ad alcun aiuto, né pubblico né privato. È allarmante, a tal proposito, il dato dei lavoratori fantasma, con un milione di badanti a nero. È il quadro che emerge dall'analisi dei dati diffusi da Confcooperative Federsolidarietà durante l'assemblea di oggi a Roma. «Siamo pronti al dialogo con il nuovo governo», spiega il neopresidente dell'associazione, Stefano Granata.
Colf e badanti, un business da 7 miliardi (ma c’è ancora troppo nero)
La spesa dei Comuni per il welfare è aumentata del 20,7% in 10 anni «ma non basta», spiega Confcooperative. Nel 2015 la spesa dei Comuni per il welfare è stata di circa 7 miliardi di euro, lo 0,42% del Pil nazionale. Dal 2013 al 2015 la spesa media annuale nazionale procapite è rimasta invariata a 114 euro.
Occupati in crescita del 480% in 20 anni
Gli occupati nelle imprese aderenti a Confcooperative Federsolidarietà sono 229mila, il 56% del totale dei lavoratori nelle cooperative sociali italiane: 7 su 10 sono donne. In 20 anni l’incremento è stato del 480%. Nelle cooperative sociali di tipo B (finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate) i lavoratori che rientrano in una delle categorie svantaggiate sono 18mila. Tra gli occupati 8 su 100 provengono da un Paese extra Ue.
7 occupati su 10 sono donne
È rosa il motore della cooperazione sociale. Nel 60% delle cooperative sociali aderenti la maggioranza assoluta dei soci è al femminile. Le cooperative sociali rosa realizzano il 73% del fatturato complessivo generando il 76% degli occupati. Più la cooperative sociale è grande e più è rosa, nelle aderenti di grandi dimensioni 9 occupati su 10 lavorano in imprese a maggioranza femminile.
Il fatturato aggregato delle aderenti nel 2017 è stato di 7,2 mld, più della metà, il 51% di tutta la cooperazione sociale italiana.
Giro di affari maggiore nelle cooperative medie
Le micro e piccole cooperative sono di più, ma a fare i numeri maggiori sono quelle medie. Tra le aderenti a Federsolidarietà il 44% sono micro, il 38% piccole, solo il 2,4% è di grandi dimensioni. Nelle medie rientra il 16%, ma è da queste che viene il 40% del fatturato e il 42% occupati.
Primato al Nord, ma a crescere di più è il Sud
Con 1.160 imprese aderenti la Lombardia consolida il suo primato tra le regioni. Seguono la Sicilia (769), l'Emilia Romagna (502), il Veneto (480) e la Puglia (462). Oltre la metà delle cooperative sociali aderenti è attiva nelle regioni settentrionali, in particolare il 30% nel Nord Ovest e il 22% nel Nord Est. Se lo stock è a Nord l'analisi dei flussi mostra invece, nel periodo 2007-2017, una maggiore vitalità nelle regioni meridionali. Nel decennio in Sicilia sono cresciute del 73%, in Puglia del 54%. Le regioni con il segno meno sono tutte al centro: Lazio -19%, Abruzzo -12%, Toscana -11 e Marche -8%.
Anche i cinesi che lavorano in nero non pagano tasse e non versano contributiLavoro in nero a 2,77 euro l'ora: 4 cinesi denunciati a Catania2018/02/19
http://catania.gds.it/2018/02/19/lavoro ... nia_805868 CATANIA. Quattro cinesi, tra cui una minorenne, sono stati denunciati dalla Polizia di Stato per reati legati alla sicurezza e salubrità sui luoghi di lavoro e per sfruttamento del lavoro mediante l’approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore: una delle due dipendenti in nero, italiana, scoperte in un centro commerciale gestito da cinesi, ha ammesso di lavorarvi da circa 6 mesi e che, spinta dal bisogno si accontentava di percepire in nero 2,77 euro l'ora.
Un’altra dipendente in nero, cinese, è stata denunciata per resistenza a pubblico ufficiale dopo che ha tentato di fuggire da una porta secondaria. I controlli sono stati effettuati insieme con agenti della Polizia Locale. A gestire il negozio, senza aver dato comunicazione all’autorità competete, era la figlia dei titolari che si trovano temporaneamente in Cina e un fratello di questi ultimi. Ad essere stati denunciati sono stati la minorenne e tre suoi parenti.
Durante il sopralluogo sono stati anche accertati diversi reati in materia di sicurezza e salubrità sui luoghi di lavoro. In un deposito nei sotterranei è stato trovato uno spazio allestito a cucina, con relativi alimenti e utensili vari.
Durante le operazioni i poliziotti hanno inoltre sequestrato 2.140 prodotti privi di marchio CE tra cui materiale elettrico, giocattoli, prodotti per cani e casalinghi, ed è stata accertata la presenza di cartellonistica pubblicitaria e tabelle luminose installate senza autorizzazioni e senza aver pagato le imposte dovute, circostanza che ha portato all’erogazione da parte della Polizia Locale di sanzioni sino 29.272 euro.
Dormivano e lavoravano in mezzo alla sporcizia, scovati 12 lavoratori in nero cinesiRedazione 17 aprile 2018
http://www.forlitoday.it/cronaca/lavoro ... cizia.html Ancora lavoro nero nelle imprese cinesi che lavorano nell'indotto del 'mobile imbottito' forlivese e nel settore calzaturiero del Rubicone. I carabinieri del nucleo Ispettorato del Lavoro di Forlì-Cesena nelle ultime due settimane hanno controllato ben 4 aziende cinesi, due a Forlì che operano nella subfornitura per la realizzazione di divani e poltrone, settore che a Forlì vede un suo distretto produttivo a livello nazionale, e altre due nel settore calzaturiero, nel comune di Longiano.
La situazione più drammatica è emersa a Forlì. Sono stati scovati 4 lavoratori in nero sconosciuti agli enti pubblici e quindi alla previdenza e al fisco. Ma oltre alle irregolarità sui lavoratori all'ispezione è emersa una situazione igienica pessima, con sporcizia, umidità e ambienti angusti in cui in modo promiscuo si lavora, si mangia e si dorme. Per questo si è resa necessario anche un intervento aggiuntivo dell'Ausl di Forlì per verificare la salubrità degli ambienti. In totale sono state staccate multe per 10.500 euro.
Nel Rubicone, invece, i controlli si sono focalizzati in un tomaificio e in un'azienda di fornitura calzaturiera, entrambi nel comune di Longiano. Anche qui sono state trovati un totale di 8 lavoratori in nero ed altri non correttamente segnalati al Centro per l'Impiego. Qui in totale le sanzioni ammontano a 21.000 euro mentre è stato calcolato un recupero contributivo pari a 99mila euro.
Imprese cinesi e lavoro nero, il caso toscano: come sconfiggere l'illegalità che genera insicurezza04 lug 2017
http://www.ambientelavoro.it/imprese-ci ... nsicurezzaLa Regione Toscana fa scuola in fatto di lavoro sicuro. Il suo Piano straordinario varato nel 2014, infatti, per contrastare le sacche di illegalità createsi per la presenza massiccia di imprese a conduzione cinese soprattutto a Prato, sarà protagonista di un convegno ad hoc ad Ambiente Lavoro, la Convention nazionale più importante dedicata alla sicurezza sui luoghi di lavoro, in programma alla Fiera di Modena il 13 e 14 settembre 2017.
Per capire l’entità del fenomeno, basti pensare che delle 7.700 imprese iscritte alla Camera di commercio di Prato, ben 5.500 sono costituite da cittadini di nazionalità cinese. Il fenomeno nasce all’inizio degli anni ’90 e troppo spesso è connotato da sfruttamento dei lavoratori, in capannoni usati sia per lavorare sia per dormire.
La Regione Toscana ha deciso di scendere con decisione in campo dopo quello che successe il primo dicembre 2013, quando sette operai cinesi morirono nel rogo di un capannone dove lavoravano e vivevano. Una sfida senza precedenti, sia per le risorse messe in campo che per gli obiettivi: effettuare nel triennio 2014/2016 il controllo capillare delle circa 8.000 aziende di etnia cinese operanti nell’Area Vasta del centro Toscana corrispondente al territorio delle Ausl di Firenze, Prato, Empoli e Pistoia. Un intervento che, dati alla mano, è stato portato a compimento in leggero anticipo sui tempi prefissati ed ha consentito di sottoporre ad un controllo capillare pressoché la totalità delle imprese cinesi operanti nel territorio: 8.257 al 31 marzo di quest’anno. Gli interventi sono stati preceduti da un’intesa con le Procure della Repubblica e le Prefetture del territorio e da una intensa campagna di relazione e comunicazione con la comunità cinese e le sue rappresentanze, considerata la rilevanza delle barriere linguistiche e culturali esistenti.
Visto il successo ottenuto, la Regione Toscana ha deciso di andare avanti per altri due anni. Il Convegno ad Ambiente Lavoro rappresenta pertanto un’importante occasione per poter illustrare e discutere dell’esperienza del Piano Lavoro Sicuro, come possibile modello di attuazione di un’azione repressiva dell’illegalità, ma, allo stesso tempo, in grado di promuovere la cultura della prevenzione, laddove sconosciuta. Nel triennio di attività, come detto, si è infatti registrato un netto miglioramento delle condizioni di sicurezza e l’aumento della percentuale di imprese virtuose.
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Gli immigrati che lavorano senza tutele: un "tesoro sommerso" da 12,7 miliardiA tanto ammonta la ricchezza prodotta dai migranti che operano fuori dalle norme sui campi, nei cantieri e nelle case degli italiani. Sono più di mezzo milione, nel Mezzogiorno è un lavoratore straniero su tre. E lo Stato ci perde 5,5 miliardi di gettito
VLADIMIRO POLCHI
20 ottobre 2016
http://www.repubblica.it/economia/2016/ ... f=HREC1-18ROMA - Un esercito di invisibili lavora ogni giorno sui campi, nei cantieri e nelle case degli italiani. Produce ricchezza, ma in nero. Fa concorrenza sleale a chi lavora alla luce del sole. Sottrae soldi alle casse dello Stato. È l'esercito degli immigrati irregolari: oltre mezzo milione di occupati senza diritti, né tutele. Il loro "tesoro" sommerso vale ben 12,7 miliardi di euro. A fotografarlo è una ricerca della Fondazione Leone Moressa.
I 558mila invisibili. Il legame tra immigrazione ed economia sommersa è un'ampia area oscura. Basti pensare alla recente approvazione del disegno di legge contro il lavoro nero e il caporalato. I ricercatori della Moressa partono da una stima degli occupati stranieri irregolari al 2015: a livello nazionale si tratta di ben 558mila lavoratori, pari al 20% degli occupati stranieri totali. A livello territoriale, in termini assoluti, quasi la metà (249mila) si trova al Nord. L'incidenza maggiore sugli occupati stranieri è invece al Sud, dove gli irregolari rappresentano oltre un terzo (33,9%). E ancora: il 70% degli occupati irregolari lavora nei servizi. Interessante notare, tuttavia, come in agricoltura più di un terzo sia irregolare (36,8%) e anche nelle costruzioni (22,3%) la quota sia di oltre 1 ogni 5.
Caporalato, con la stretta del governo pene più severe. Parola all'esperto
Il tesoro sommerso degli irregolari. Quanto vale il lavoro degli "invisibili"? Ebbene, la ricchezza prodotta dagli occupati stranieri irregolari è di 12,7 miliardi di euro, pari quasi a un punto di Pil. Non solo. Oltre alla mancata tutela dei diritti dei lavoratori e alla distorsione del mercato, lo sfruttamento lavorativo (in questo caso di manodopera immigrata) determina una perdita per le casse dello Stato sotto forma di mancato gettito fiscale, stimato dalla Fondazione Moressa in 5,5 miliardi di euro. "Questo dato - sostengono i ricercatori - testimonia come lo sfruttamento della manodopera immigrata danneggi non solo i lavoratori stessi ma anche il sistema economico nel suo insieme".
Area Valore Aggiunto da lavoro irregolare stranieri
(miliardi di euro) Incidenza sul
V.A. totale
Stima del Valore Aggiunto prodotto dagli stranieri irregolari per area geografica - Elaborazioni Fondazione Leone Moressa su dati Istat Nord 6,1 0,8%
Centro 3,8 1,2%
Sud 2,9 0,9%
Totale 12,7 0,9%
"Meglio metterli in regola". L'idea alla base della ricerca Moressa è che la regolarizzazione dei lavoratori immigrati possa portare un beneficio a tutti gli attori coinvolti: le imprese, attraverso un miglioramento della qualità della produzione, lo Stato, che riceverebbe un gettito fiscale e contributivo finora eluso, e infine gli occupati (compresi quelli già in regola), che vedrebbero innalzarsi gli standard qualitativi di produzione.