Africa e Europa, schiavitù, colonizzazione e migrazione

Africa e Europa, schiavitù, colonizzazione e migrazione

Messaggioda Berto » sab ott 09, 2021 7:43 am

Nobel a Gurnah contro il colonialismo. Quello europeo, non quello arabo
Anna Bono
9 ottobre 2021

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Il premio Nobel per la letteratura è stato conferito allo scrittore tanzaniano Abdulrazak Gurnah. Nelle motivazioni c'è la sua "intransigente e compassionevole analisi" degli effetti del colonialismo. Di quale colonialismo si parla? Di quello europeo. Eppure il colonialismo arabo a Zanzibar, in 13 secoli, deportò 12 milioni di schiavi.

Mercato degli schiavi a Zanzibar

Il premio Nobel 2021 per la letteratura è stato conferito allo scrittore tanzaniano Abdulrazak Gurnah, residente dal 1967 in Gran Bretagna dove ha insegnato inglese e letterature post coloniali presso l’università del Kent fino alla pensione. Gurnah è autore di dieci romanzi e di diversi racconti e saggi. I suoi personaggi, spiega la fondazione Nobel “si trovano in uno iato tra culture e continenti, tra una vita che era e una vita emergente” con il merito di “rifuggire dalle descrizioni stereotipate” e di “aprire il nostro sguardo su un’Africa orientale culturalmente diversificata, sconosciuta a molti in altre parti del mondo”.

La fondazione Nobel ha ragione. Le coste e le isole dell’Africa orientale sono state nei secoli uno straordinario luogo di incontro di etnie, culture e religioni. In quelle del Kenya e del Tanzania è nata e si è sviluppata la società swahili, urbana, una delle poche realtà africane proiettate verso l’esterno, con regolari rapporti commerciali lungo l’Oceano Indiano, fino in Cina, già a partire dall’VIII Secolo, con una lingua antica come quella italiana. Che sia un “melting pot”, un crogiuolo di culture ed etnie, come sostengono alcuni antropologi è opinabile. L’evidenza, lì come in altri contesti, è piuttosto di una supremazia della componente più forte: in questo caso, imposta dalla popolazione arabo-islamica – i Waswahili – e subita dalle tribù bantu originarie e da ogni altra componente via via aggiuntasi, almeno finché la regione non è stata colonizzata da Gran Bretagna e Germania alla fine del XIX Secolo.

Abdulrazak Gurnah è nato nel 1948 a Zanzibar, l’isola da cui per secoli gli arabi, la cui colonizzazione del continente africano è iniziata subito dopo la morte di Maometto nel 632, hanno controllato le coste africane e gestito il commercio sia con l’interno del continente sia con i Paesi asiatici. Gli schiavi erano una delle merci: uomini, donne e bambini comprati o catturati, più di dodici milioni di persone nell’arco di 13 secoli. La tratta degli schiavi è stata proibita sulla costa swahili dalla Gran Bretagna all’inizio del XX Secolo, ma il risentimento, il desiderio di rivalsa delle popolazioni bantù è rimasto vivo. Non si spiega diversamente la feroce rivolta delle popolazioni bantu di Zanzibar che nel 1964, istigate da due partiti di ispirazione comunista (Che Guevara all’epoca si stava illudendo di fare dell’Africa il centro da cui iniziare la rivoluzione comunista mondiale), hanno ucciso da 5mila a 12mila Waswahili su un totale di 22mila. Abdulrazak Gurnah e i suoi famigliari sono tra i sopravvissuti che hanno lasciato l’isola non appena hanno potuto, finendo per ottenere asilo in Gran Bretagna.

Il protagonista di Paradise, il romanzo che lo ha fatto conoscere al grande pubblico anglofono nel 1994, è un ragazzino venduto dal padre per pagare un debito. Descrive una situazione comune un tempo. Di solito erano le famiglie bantu dell’entroterra swahili a vendere i figli, preferibilmente le femmine, in caso di necessità. Oppure, durante una carestia, scambiavano un figlio con del mais che ai Waswahili della costa non mancava mai. Forse è questo mondo che Gurnah racconta nei suoi libri, insieme alla sua personale esperienza di profugo. La fondazione del Nobel ha deciso di conferirgli il premio “per la sua intransigente e compassionevole analisi degli effetti del colonialismo e del destino del rifugiato nel divario tra culture e continenti”.

Ma quando, riferendosi all’Africa, si dice “colonialismo”, senza specificare, si intende sempre unicamente il colonialismo europeo, non altri, di cui si dimentica o si rifiuta di ammettere l’esistenza. Forse quindi alla fondazione Nobel, di Gurnah, è piaciuto che nei suoi libri descriva i traumi culturali e sociali prodotti dall’impatto con la società occidentale, non quelli patiti a causa della colonizzazione arabo-islamica che pure tante sofferenze ha inflitto e continua a infliggere in Africa, dove l’intolleranza islamica, combinata con il tribalismo, fa vittime e danni anche quando non assume i caratteri estremi del jihad.

Quanto ai rifugiati e al loro destino, l’ammirazione per l’analisi “intransigente e compassionevole” contenuta nei libri di Gurnah sarebbe condivisibile se non fosse che, come ormai fanno in tanti, lui confonde rifugiati ed emigranti illegali. “L’Europa dovrebbe accogliere gli emigranti con compassione invece che fermarli con il filo spinato – ha detto all’agenzia di stampa Reuters che lo ha intervistato il giorno in cui ha vinto il Nobel – e attualmente il governo britannico si comporta in modo davvero molto brutto con i richiedenti asilo e con chi chiede di entrare nel paese”. Non è che Gurnah non capisca la differenza. Come tutti i sostenitori dei “porti aperti”, delle frontiere aperte la conosce e semplicemente non la accetta. “Sembra così sorprendente al governo britannico – dice – che della gente che arriva da luoghi difficili voglia venire in un paese ricco? Perché si meraviglia tanto? Chi non vorrebbe venire in un paese più prospero? C’è della cattiveria nella sua risposta”.

E, seduto nel suo giardino di Canterbury, all’ombra di un acero – così lo descrive Reuters – parla in toni lirici dell’esperienza di emigrare, di lasciarsi alle spalle la famiglia e una parte della propria vita per vivere in una nuova società in cui si sentirà sempre in parte un estraneo.



Gli schiavi dei mussulmani, degli arabi, dei turchi, dei nazi maomettani
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Le demenziali menzogne sull'Africa del vittimismo africano
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Re: Africa e Europa, schiavitù, colonizzazione e migrazione

Messaggioda Berto » ven mar 25, 2022 8:48 am

Il Ricordo della tratta degli schiavi. Solo quella atlantica
Anna Bono
25-03-2022

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Le Nazioni Unite, per il 25 marzo, hanno indetto la Giornata Internazionale del Ricordo delle vittime della tratta degli schiavi. In ricordo di tutti gli africani che sono stati deportati nelle Americhe. Quattro secoli di orrori che è giusto commemorare. Ma nel totale oblio della tratta araba degli schiavi.

Biard, "il mercato degli schiavi"

L’Onu ogni anno dedica un giorno, il 25 marzo, agli africani vittime della tratta transatlantica degli schiavi. Tra il XVI e il XIX secolo da 10 a 12 milioni di africani, quasi tutti originari dell’Africa occidentale e centrale, sono stati deportati nelle Americhe da mercanti di schiavi europei che li acquistavano da mercanti e capitribù locali e in qualche caso li catturavano compiendo incursioni lungo le coste. A iniziare il traffico sono stati i portoghesi che hanno portato il primo carico di schiavi in Brasile nel 1526. All’inizio del XIX secolo vari governi, per primo quello britannico, hanno incominciato a bandire la tratta. L’ultima nave con schiavi a bordo di cui si ha notizia è arrivata nel 1859 in Alabama e nel 1865 gli Stati Uniti hanno abolito la schiavitù.

La Giornata internazionale del ricordo delle vittime della schiavitù e della tratta transatlantica degli schiavi è stata istituita dall’Assemblea Generale nel 2007 per rimediare a “quanto poco si sa sulla tratta transatlantica durata 400 anni e sulle sue persistenti conseguenze nel tempo”. La giornata viene celebrata con cerimonie culminanti quest’anno con un evento culturale intitolato “Ritmi di resistenza” che “illustrerà la storia della tratta, il suo persistente lascito di razzismo e l’impronta che le culture africane hanno impresso sul continente americano”. Come sempre, per l’occasione il Segretario Generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha diffuso un messaggio per spiegare il significato della ricorrenza, intesa – ha scritto – a ricordare che cosa è stata la tratta transatlantica: “il crimine contro l’umanità, la deportazione di un numero di persone senza precedenti, le degradanti transazioni economiche e le indicibili violazioni dei diritti umani”.

Il messaggio prosegue esortando a rendere omaggio ai milioni di africani strappati alle loro comunità e alla loro terra e a schierarsi contro il razzismo perché “tuttora le persone di origine africana continuano a subire discriminazioni razziali, marginalizzazione ed esclusione. Le disparità politiche, economiche e strutturali che affondano le radici nel dominio coloniale, nello schiavismo e nello sfruttamento ancora negano pari opportunità e giustizia”. “Uniamoci contro il razzismo in questa giornata internazionale – conclude il messaggio – e costruiamo insieme delle società fondate su dignità, uguaglianza e solidarietà”.

La tratta atlantica degli schiavi è stata una tragedia umana di proporzioni spaventose. Per non perderne memoria l’Unesco, l’agenzia Onu per l’educazione, la scienza e la cultura, nel 1998 aveva già istituito a sua volta una giornata commemorativa, la Giornata internazionale del ricordo della tratta degli schiavi e della sua abolizione, per celebrare la quale è stato scelto il 23 agosto perché nella notte tra il 22 e il 23 agosto del 1791 a Santo Domingo (oggi isola di Haiti e Repubblica Dominicana) tra gli oltre 450mila schiavi che vivevano sull’isola scoppiò una rivolta che ebbe un ruolo importante nella decisione di mettere fine alla tratta transatlantica. Tutti i paesi membri dell’Onu sono invitati a organizzare il 23 agosto degli eventi che coinvolgano tutta la popolazione, intesi, come si legge sul sito web dell’Unesco, a “imprimere la tragedia della tratta degli schiavi nella memoria di tutti i popoli”: occasioni collettive “per riflettere sulle sue cause storiche, sui metodi e sulle conseguenze di questa tragedia, per analizzare le interazioni che essa ha prodotto tra Africa, Europa, le Americhe e i Caraibi”.

Nel messaggio del direttore generale dell’Unesco Audrey Azoulay per la Giornata del 2021 si legge: “ogni giorno nel mondo uomini e donne africane continuano a patire gli effetti terribili dell’eredità che la schiavitù ha lasciato. Questa eredità persiste nella retorica, nella violenza e in azioni che non sono casi isolati e costituiscono la base di discriminazioni che talvolta costano vite umane. È tempo di abolire una volta per tutte lo sfruttamento umano e riconoscere la pari e incondizionata dignità di ogni individuo. Ricordiamo oggi le vittime e i combattenti per la libertà del passato affinché possano ispirare le generazioni future a edificare società giuste”.

Non si può non concordare con le Nazioni Unite che chiedono di non dimenticare i drammi, le ingiustizie del passato, chi ne è stato responsabile e chi le ha subite. Black lives matter, le vite dei neri contano, rivendica il movimento nato negli Stati Uniti nel 2013 proprio per denunciare e combattere l’eredità della schiavitù, “il suo persistente lascito di razzismo” ogniqualvolta si manifesti. Ma allora va detto che invece, per le Nazioni Unite, non tutte le vite dei neri contano allo stesso modo, non quando si tratta delle vittime africane del commercio internazionale degli schiavi. Questo va detto perché la tratta transatlantica è stata un crimine, ma non senza precedenti per dimensioni e atrocità. Un’altra tratta di schiavi africani era iniziata molti secoli prima, quella arabo-islamica, sulle coste swahili dell’oceano Indiano e lungo le rotte sahariane. Nel corso di oltre tredici secoli, dal VII al XIX, ha deportato 17 milioni di africani, secondo le stime di alcuni storici, “solo” 14 milioni secondo altri.

Per loro non ci sono giornate del ricordo né d’altra parte all’Onu si parla volentieri della colonizzazione arabo-islamica del continente africano incominciata nel VII secolo che ha dato origine alla tratta, eppure così evidente nelle sue conseguenze. Per l’Onu si direbbe che in Africa sia esistita solo una colonizzazione, quella europea, tant’è che non ritiene necessario specificare a che cosa si riferisce quando parla di “dominio coloniale”.



Alberto Pento
ln Africa la riduzione in schiavitù mi pare che fosse una pratica antica e comune nei conflitti e nelle consuetudini tribali degli africani e che furono gli stessi africani a vendere/cedere i loro schiavi neri prima agli arabi e poi ai mercanti di schiavi bianchi che li poi portarono nelle Americhe.
Africani che divenuti nazi maomettani divennero complici dello schiavismo arabo-africano islamico che ancora oggi imperversa in Africa.
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