Kurdistan e dintorni

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Messaggioda Berto » mar ott 07, 2014 9:19 pm

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Berto
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Re: Kurdistan e de torno

Messaggioda Berto » mar ott 14, 2014 5:53 am

http://www.maristellatagliaferro.blogsp ... i.html?m=1


Mai scordare però che i Kurdi sono prevalentemente mussulmani e perciò nazisti maomettani e che furono responsabili assieme ai Turchi dello sterminio dei cristiani armeni.


Deportazione:altri Olocausti, lo sterminio degli Armeni
Lo sterminio degli Armeni 1915-1918
di Alberto Rosselli

http://www.storiaxxisecolo.it/deportazi ... altri1.htm

La persecuzione scatenata, tra il 1914 e il 1918, dai turchi nei confronti del popolo armeno residente in Anatolia e nel resto dell’Impero Ottomano rappresenta forse il primo esempio dell’epoca moderna di sistematica soppressione di una minoranza etnico-religiosa. Una campagna di eliminazione che non scaturì soltanto dall’ideologia, scopertamente razzista, del sedicente Partito "progressista" dei Giovani Turchi, ma che trasse le sue origini più profonde dalle antiche e mai sopite contrapposizioni religiose tra i mussulmani ottomani e curdi e la minoranza cristiana armena.

Ma ripercorriamo, in sintesi, le tappe fondamentali del lungo calvario armeno iniziato in sordina nella seconda metà dell’Ottocento all’interno dei confini del decadente Impero Ottomano. Tra il 1894 e il 1896, il sultano ‘Abd ul-Hamid avviò un primo vero e proprio programma di emarginazione nei confronti degli armeni scaricando su questa comunità la responsabilità dei fallimenti economici del suo governo assolutamente incapace ad affrontare le sfide della modernità e a resistere alla pressione esercitata sull’Impero da parte delle nuove realtà nazionali balcaniche e delle grandi Potenze occidentali. Dopo avere dovuto rinunciare, in seguito alla guerra con l’Italia del 1911/12 e alla Prima Guerra Balcanica del 1913, a gran parte dei suoi territori (Libia, Albania, Macedonia e numerose isole dell’Egeo), il governo di Costantinopoli, era entrato in una crisi molto acuta. Temendo la completa dissoluzione dell’Impero, prima la Sacra Porta e poi il Partito dei Giovani Turchi, avevano quindi assunto un atteggiamento sempre più sospettoso e rigido nei confronti delle minoranze armene, ebraica e araba, colpevoli - secondo i vertici di Costantinopoli - di tramare contro l’Impero. Il motivo della diffidenza turca nel confronti degli armeni scaturiva soprattutto da precise considerazioni di carattere politico e religioso. La Sacra Porta vedeva in questa minoranza cristiana una possibile alleata dell’Impero Russo cristiano ortodosso, suo tradizionale avversario. Nel 1876, gli eserciti russi, intervenuti a sostegno della Bulgaria impegnata contro gli Ottomani, avevano costretto la Sacra Porta ad accettare l’umiliante trattato di Santo Stefano: documento che sanciva, tra l’altro, la tutela della minoranza armena e la cessione alla Russia di alcune aree dell’Anatolia nord orientale. Tuttavia il trattato non divenne mai del tutto operativo, anche a causa delle pressioni esercitate dall’Inghilterra ostile ad una eccessiva espansione russa verso il Mediterraneo e l’Egeo. E fu così che la clausola relativa alla minoranza armena venne stralciata in nome della real politik. Anche se nel 1878 l’articolo 61 del trattato di Berlino sancì, almeno sulla carta, il diritto alla sopravvivenza di questa comunità. Il sostanziale disimpegno delle nazioni europee permise quindi al sultano Abdul Hamid di abolire la fragile costituzione concessa nel 1876, e di varare nuove, severe leggi contro le minoranze religiose dell’Impero. Dopo avere costituito un’efficiente polizia segreta incaricata di schiacciare il neonato Movimento Indipendentista Armeno, il sultano incoraggiò le tribù curde mussulmane ad emigrare verso le "regioni" armene della Turchia orientale. Forti dell’appoggio del governo, i curdi si insediarono così in territorio armeno, scacciandone con la forza l’intera popolazione. Costretti alla fuga, gli armeni furono quindi obbligati a fuggire verso le regioni caucasiche russe: manovra che la Sacra Porta volle interpretare come un atto di connivenza con il nemico zarista. Fu a quel punto che il Movimento Indipendentista Armeno, attraverso le sue organizzazioni politiche (l’Armenakan, fondato nel 1885; il partito socialdemocratico Hunchak, 1887; e il più radicale "movimento" Dashnak, fondato nel 1890), tentarono di reagire con la forza al potere centrale. Ovviamente, la risposta del sultano non si fece attendere. Questi organizzò le tribù curde in veri e propri organismi paramilitari (i reggimenti Hamidye) dando ad essi mano libera nel perseguitare ed eliminare tutte le comunità armene "ribelli". Ma se i cristiani rimasti incapsulati in territorio ottomano se la passavano male, anche quelli che erano riusciti a rifugiarsi nelle zone caucasiche controllate dai russi non poterono certo considerarsi tranquilli. Nel 1881, in seguito all’assassinio dello zar Alessandro II, il primo ministro liberale, l’armeno Loris Melikov, dovette rassegnare le dimissioni in quanto ritenuto incapace di gestire il crescente malcontento delle popolazioni georgiane e armeni del Caucaso. E dopo l’uscita di Melikov, il nuovo governo di San Pietroburgo abbandonò qualsiasi simpatia nei confronti dell’etnia armena considerata inaffidabile. Nel 1903, lo zar Nicola II tentò addirittura di confiscare le proprietà della Chiesa Nazionale Armena, ordinando la chiusura di scuole e di altre istituzioni della Transcaucasia russa. Il nuovo atteggiamento russo consentì al sultano Abd ul-Hamid di accelerare il processo di annientamento delle comunità armene accusate, tra l’altro, di sostenere quelle frange estremiste del Movimento Indipendentista che, tra il 1890 e il 1894, in Turchia avevano effettuato una serie di gravi attentati terroristici. Nel 1894, un affiliato del Hunchak, un certo Murat, convinse le popolazioni di montagna armene del distretto di Sassun a non pagare ai capi curdi locali l’"hafir" o contributo per la protezione. L’"hafir" era una forma di estorsione legalizzata a beneficio dei curdi che in questo modo potevano arricchirsi alle spalle dei contadini e dei montanari armeni. L’11 marzo 1895, Gran Bretagna, Francia e Russia, scandalizzate dall’inasprirsi delle misure anti-armene, intimarono al sultano di fermare la repressione. Ma la richiesta venne respinta da Hamid che per contro intensificò ulteriormente la sua politica. Le truppe turche e curde proseguirono così il saccheggio sistematico di centinaia di villaggi armeni. E tra il 1894 e il 1896, le forze ottomane e curde eliminarono dai 200 ai 250.000 armeni. Questa ondata di violenza raggiunse livelli tali da indurre l’Inghilterra, la Francia e gli Stati Uniti, ad invocare la destituzione del sultano. Dal canto suo il kaiser Guglielmo II optò invece per un atteggiamento più distaccato e dettato da precisi calcoli politici ed economici. Il Kaiser era infatti desideroso di portare a termine la costruzione della linea ferroviaria Berlino-Baghdad: un’arteria che avrebbe consentito alla Germania di intensificare i suoi scambi commerciali con la Turchia e, soprattutto, di allargare la sua sfera di influenza tedesca in Medio Oriente e Mesopotamia.

Nel frattempo, però, la perdurante crisi politica, economica e sociale dell’Impero Ottomano si stava facendo sempre più acuta, sfociando in gravi sommosse. Verso la fine dell’Ottocento a Salonicco un gruppo di ufficiali dell’esercito in combutta con alcuni esiliati politici turchi confluiti nella società segreta di Unione e Progresso, iniziarono a tramare contro lo sclerotico governo centrale. Nella fattispecie, il cosiddetto Movimento dei Giovani Turchi auspicava addirittura l’eliminazione del sultano per poi avviare un ambizioso e rivoluzionario processo di modernizzazione dell’Impero. La rivolta scoppiò nel 1908, a Monastir. Il 23 luglio dello stesso anno, il Comitato Centrale di Unione e Progresso intimò al sultano di ripristinare la costituzione del 1876. Avendo perso il controllo di buona parte dell’esercito, il sultano cedette e la costituzione venne ripristinata il 24 luglio 1908. Seguì un breve periodo di euforia da parte delle minoranze etniche e religiose dell’Impero che confidavano nell’inizio di un nuovo periodo caratterizzato da maggiori libertà. Effettivamente, in un primo tempo, gli ufficiali ribelli dettero a tutte le minoranze ampie garanzie di tolleranza. Nel 1909, dopo un fallito tentativo controrivoluzionario ordito da Hamid, i Giovani Turchi, guidati da Taalat Pascià, deposero definitivamente Hamid, sostituendolo con il più innocuo fratello Muhammad. Questi accettò infatti di buon grado le direttive degli ufficiali rivoluzionari che, nel frattempo, avevano però cominciato a cambiare strategia politica. Abbandonati i proclami inneggianti l’"armonia tra le varie componenti etniche e religiose dell’Impero", essi abrogarono tutti i diritti civili da poco concessi ad armeni, ebrei e arabi. All’indomani della sconfitta subita ad opera dell’Italia nel 1912 e i rovesci subiti dai turchi nella Prima Guerra Balcanica, il 26 gennaio 1913, un triumvirato formato da Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Jemal prese il potere. E nel timore di un dissolvimento dell’Impero, proclamò la "turchizzazione" dell’Impero e la "ghettizzazione" di tutte le minoranze, prima fra tutte quella cristiana armena. Dopo l’entrata in guerra dell’Impero Ottomano (29 ottobre 1914) a fianco degli Imperi Centrali, la comunità armena - ignorando le manovre dei Giovani Turchi - volle dimostrare al governo la sua assoluta fedeltà. E nell’estate del 1914, ad Erzerum, in occasione dell’ottavo congresso del partito Dashnak, i leader del movimento indipendentista armeno invitarono tutti gli iscritti ad assolvere ai loro doveri di soldati dell’Impero. Nel giro di poche settimane ben 250.000 armeni si arruolarono nelle forze armate turche, dimostrando, già a partire dalla sfortunata campagna caucasica dell’inverno 1914-1915 contro i russi, grande valore e affidabilità. All’inizio del 1915, nel corso di una riunione segreta del Comitato di Unione e Progresso, indetta per pianificare lo sterminio degli armeni, il segretario esecutivo Nazim concluse con queste parole i lavori dell’assemblea: "Siamo in guerra; e non potrebbe verificarsi un’occasione migliore per eliminare tutta la popolazione armeno. In un momento come questo è estremamente improbabile che vi siano interventi da parte delle grandi potenze e proteste da parte della stampa". Un altro dei presenti, Hassan Fehmin, aggiunse poi. "Siamo nelle condizioni ideali per spedire sul fronte caucasico tutti i giovani armeni ancora in grado di imbracciare un fucile. E una volta là, possiamo intrappolarli e annientarli con facilità, chiusi come saranno tra le forze russe che si troveranno davanti e le forze speciali che piazzeremo alle loro spalle". Sempre nel corso della seduta il Comitato aveva deciso che la gestione della "pratica armena" sarebbe stata affidata ad una speciale commissione formata dal segretario esecutivo Nazim, da Behaettin Shakir e dal ministro della Pubblica Istruzione, Shoukri, sotto il diretto controllo di Taalat Pascià. La commissione istituì a sua volta la cosiddetta "Organizzazione Speciale" (la Teshkilate Makhsusa), una specie di milizia formata in buona parte da ex detenuti ai quali venne promessa la libertà in cambio di criminali servigi. All’inizio della primavera 1915, i turchi scatenarono l’esercito e le bande curde contro gli indifesi villaggi armeni. Successivamente, le forze turco-curde incominciarono ad arrestare - accusandoli di connivenza con il nemico russo - tutti gli esponenti dei vari partiti armeni. Nel giro di poche settimane, decine di migliaia di cristiani vennero imprigionati e sottoposti a torture. I curdi mussulmani si accanirono in modo particolare contro i sacerdoti a molti dei quali, prima dell’esecuzione, vennero strappati gli occhi, le unghie e i denti. Gevdet Bey, vali della città di Van e cognato del Ministro della Difesa Enver Pascià, pare si divertisse a fare inchiodare ferri di cavallo ai piedi dei prelati. Il 24 aprile 1915, a Costantinopoli, nel corso di una gigantesca retata, circa 600 armeni vennero incarcerati e poi strangolati con filo di ferro. Stando ad un rapporto ufficiale del console statunitense ad Ankara, nel luglio 1915 circa 2.000 soldati armeni reduci dalla campagna del Caucaso vennero disarmati dai turchi e spediti nella zona di Kharput con il pretesto di utilizzarli nella costruzione di una strada. Giunti sul posto, gli armeni vennero fatti ammassare in una piccola valle e massacrati a colpi di mitragliatrice. Identico destino toccò ad altri 2.500 militari armeni condotti in località Diyarbakir e lì trucidati dai miliziani curdi. Nel giugno 1916, dopo avere trucidato circa 150.000 militari armeni, i turchi decisero di eliminare anche un terzo degli operai cristiani impiegati nella manutenzione della ferrovia Costantinopoli-Baghdad. Ma a questo punto, gli alleati tedeschi, scioccati dalle orrende carneficine, dissero basta. L’ambasciatore tedesco a Costantinopoli, il conte von Wolff-Metternich accusò Taalat Pascià e il Ministro degli Esteri Halil Pascià "di inutili crudeltà" e persino "di sabotaggio": denunce che lasciarono impassibili i capi ottomani decisi a proseguire con pulizia etnico-religiosa.

Nell’aprile 1915, nella città di Van, alcune migliaia di civili armeni riuscirono a disarmare la locale guarnigione turca barricandosi nel nucleo urbano e resistendo alla controffensiva ottomana e curda fino al sopraggiungere di una divisione di cavalleria russa che nel mese maggio li liberò dall’assedio. Eguale successo ebbe poi la ormai famosa resistenza del massiccio montuoso del Musa Dagh, nei pressi di Antiochia (Golfo di Alessandretta). Su questo acrocoro si rifugiarono circa 4.000 armeni decisi a vendere cara la pelle. Resistettero per ben quaranta giorni agli attacchi dei reparti regolari dell’esercito ottomano e alla fine vennero salvati dal provvidenziale arrivo nel Golfo di Alessandretta di una squadra navale francese.

Purtroppo, altri tentativi di resistenza non ebbero la medesima fortuna. Come accadde alla comunità di Urfa che venne annientata. Verso l’autunno del 1915, una volta eliminata la parte più giovane e combattiva della nazione armena, il ministero degli Interni ottomano passò alla seconda fase dell’"olocausto": l’eliminazione di tutti gli adulti di età superiore ai 45 anni, che fino ad allora erano stati risparmiati poiché ritenuti necessari al lavoro nelle campagne. Come testimonia questo brano tratto da un dispaccio inviato dal Ministro Taalat Pascià al governatore turco di Aleppo il 15 settembre 1915. "Siete già stato informato del fatto che il Governo ha deciso di sterminare l’intera popolazione armena…Occorre la vostra massima collaborazione…Non sia usata pietà per nessuno, tanto meno per le donne, i bambini, gli invalidi…Per quanto tragici possano sembrare i metodi di questo sterminio, occorre agire senza alcuno scrupolo di coscienza e con la massima celerità ed efficienza". I turchi organizzarono deportazioni di massa (risparmiando soltanto i medici e qualche tecnico) in località isolate. Una delle destinazioni prescelte fu la desolata regione siriana di Deir al-Zor, dove centinaia di intere famiglie armene vennero ammassate e trucidate nei modi più raccapriccianti. Nell’inverno del ’15 il conte Wolff-Metternich riferì a Berlino del protrarsi di questi "inutili e crudeli eccidi". Venuti al corrente della protesta, Enver Pascià e Taalat Pascià chiesero a Berlino la sostituzione di Wolff-Metternich. E nel 1916 il diplomatico dovette rientrare in Germania. A testimonianza dei risvolti economici della strage in corso (la totalità dei conti correnti e dei beni mobili ed immobili della popolazione armena furono confiscati dal governo turco), basti pensare che "i profitti derivati all’oligarchia dei Giovani Turchi e ai suoi lacché dai beni rapinati agli armeni arrivarono a toccare la cifra astronomica di un miliardo di marchi".

Va comunque detto che alcuni, anche se pochi, governatori (i vali) turchi si rifiutarono di eseguire tutti gli ordini impartiti da Costantinopoli. Nel luglio 1915, ad esempio, il governatore di Ankara - che si era opposto agli stermini indiscriminati - venne rimosso e sostituito da un funzionario più zelante, come, ad esempio, il vali Gevdet che nell’estate del ’15 a Siirt non si fece scrupolo ad eliminare 10.000 tra armeni, cristiani nestoriani e giacobiti. Resoconti sui molteplici eccidi sono registrati nelle memorie di numerosi addetti diplomatici tedeschi, americani, svedesi e italiani presenti all’epoca in Turchia. Il 25 agosto 1915, Il Messaggero di Roma pubblicò la denuncia del console generale a Trebisonda, Giovanni Gorrini. Il plenipotenziario affermò che "degli oltre 14.000 armeni legalmente residenti a Trebisonda all’inizio del 1915. il 23 luglio dello stesso anno non ne rimanevano in vita che 90. Tutti gli altri, dopo essere stati spogliati di ogni avere, erano stati deportati dalla polizia e dall’esercito ottomani in lande desolate o in vallate dell’entroterra e massacrati". Intanto proseguiva senza soste la deportazione degli armeni destinati ai campi delle città di Deir al-Azor. Questi primordiali "lager", privi di baracche, servizi igienici, accolsero all’interno dei loro perimetri cintati da filo spinato, decine di migliaia di profughi. "Ben presto - come narra David Marshall Lang nel suo ben documentato "Armeni, un popolo in esilio" - in questi recinti, rigurgitanti in gran parte di vecchi, donne e bambini, scoppiarono terribili epidemie di tifo e vaiolo che si allargarono a gran parte della popolazione siriana…Solo ad Aleppo, tra l’agosto 1916 e l’agosto 1917, circa 35.000 persone morirono di tifo". Epidemie che si rivelarono talmente devastanti da allarmare il generale Otto Liman von Sanders, comandante delle forze turco-tedesche in Medio Oriente. Questi, nel 1916, cercò di attivare una qualche forma di assistenza, seppure contrastato dalle autorità ottomane. In terra siriana, qualche centinaio di ragazzine e di bambini armeni riuscì però a scampare alla morte. Le ragazze, soprattutto le più giovani e graziose, vennero infatti vendute per poche piastre ad alcuni possidenti arabi che le rinchiusero nei bordelli, non prima di averle fatte convertire forzatamente all’Islam. Nell’autunno del 1918, quando le forze inglesi del generale Edmund Allenby provenienti dalla Palestina occuparono entrarono in Siria trovarono in alcune baracche di un campo militare turco abbandonato diverse decine di giovani donne, tutte marchiate dagli stenti e dalle malattie veneree. Sorte ancora peggiore toccò ai bambini armeni rinchiusi nei campi siriani. Gran parte di questi disgraziati vennero inviati anch’essi in bordelli per omosessuali o in speciali orfanotrofi per essere rieducati come "veri mussulmani" dalla "signora" Halidé Edib Adivart, una mostruosa virago alla quale il governatore della Siria aveva affidato il compito di "raddrizzare la schiena alla ribelle gioventù armena". Nonostante tutto, il governo ottomano non si reputava ancora soddisfatto della risoluzione del "problema armeno". Nei campi, "i cristiani infedeli morivano troppo lentamente". Nel 1916, Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Gemal diedero quindi un ulteriore giro di vite alla prassi dello sterminio, intimando ai loro governatori e capi di polizia di "eliminare con le armi, ma se possibile, con mezzi più economici, tutti i sopravvissuti dei campi siriani e anatolici". In questa fase del massacro ebbe modo di distinguersi per efficienza il governatore del distretto di Deir al-Azor, Zekki che - secondo quanto scrive J. Bryce (autore di "The Treatment of Armenians") - "rinchiuse 500 armeni all’interno di una stretta palizzata, costruita su una piana desertica, e li fece morire di fame e di sete". Durante l’estate del 1916, gli sgherri di Zekki eliminarono oltre 20.000 armeni.

A dimostrazione della criminale sfacciataggine dei leader turchi, basti pensare Taalat Pascià arrivò a vantarsi dell’efficienza del suo governatore con l’ambasciatore americano Morgenthau, al quale egli ebbe anche l’ardire di chiedere "l’elenco delle assicurazioni sulla vita che gli armeni più ricchi (deceduti nei campi di sterminio) avevano precedentemente stipulato con compagnie americane, in modo da consentire al Governo di incassare gli utili delle polizze". Intanto, nelle regioni orientali e settentrionali dell’Impero Ottomano, per le comunità armene che erano riuscite a trovare rifugio nelle valli del Caucaso il destino stava per compiersi. In seguito alla rivoluzione bolscevica del 1917, l’esercito russo si era infatti ritirato dall’Anatolia orientale e dalla Ciscaucasia, abbandonando gli armeni al loro destino. Rioccupata l’importante città-fortezza di Kars, le forze ottomane avevano iniziato una vera e propria caccia all’uomo, arrivando a sopprimere circa 19.000 armeni. Identica sorte che toccò a quei profughi cristiani che, rifugiatisi in Georgia e nella regione di Baku, vennero massacrati dalle locali minoranze mussulmane tartare e cecene. Nel settembre 1918, nella sola regione di Baku furono eliminati 30.000 armeni. Ma la guerra stava ormai volgendo al termine e nell’imminenza del crollo della Sublime Porta, i responsabili turchi delle stragi sparirono nell’ombra. Quando, nell’ottobre 1918 la Turchia si arrese alle forze dell’Intesa, i principali dirigenti del partito dei Giovani Turchi vennero arrestati dagli inglesi ed internati per un breve periodo a Malta. Successivamente, un tribunale militare turco condannò a morte in contumacia Enver Pascià, Ahmed Gemal e Nazim. Ormai espatriati, nessuno dei condannati finì però nelle mani della giustizia. Tuttavia, il 15 marzo 1921, a Berlino, Taalat Pascià venne assassinato dallo studente armeno Soghomon Tehlirian. E sorte analoga toccò il 21 luglio 1922 anche ad Ahmed Gemal, ucciso a Tbilisi, in Georgia, da un altro giovane armeno. Curiosa, ma in linea con il personaggio fu invece la fine di Enver Pascià, il più capace e "idealista" dei triumviri. Rifugiatosi tra le tribù turche della remota regione asiatica di Bukhara, dove pensava di realizzare il suo antico sogno, cioè la creazione di una Grande Nazione Turca, agli inizi degli anni Venti Enver si mise a capo di una rivolta turco-mussulmana contro il potere sovietico. Ma il 4 luglio 1922, egli venne sconfitto e ucciso dai bolscevichi.

BIBLIOGRAFIA

David Marshall Lang, "Armeni, un popolo in esilio", Edizioni Calderini, Bologna 1989.

E. Bauer, "Arménie. Son histoire et son présent", Lausanne and Paris, 1977.

M.S. Anderson, "The Eastern Question, 1774-1923", London, 1966.

Henry Morgenthau, "Ambassador Morgenthau’s Story", New York, 1919.

Rafael de Nogales, "Four Years beneath the Crescent", London, 1926.

Ulrich Trumpener, "Germany and the Ottoman Empire, 1914-1918", Princeton, 1968.

Franz Werfel, "The Forty days of Musa Dagh", trans. G.Dunlop, London, 1934.





La verità sul genocidio degli armeni
Gwynne Dyer
2015/04/14

https://www.internazionale.it/opinione/ ... eni-verita


È con grande riluttanza che mi occupo del genocidio armeno, poiché so per esperienza che ciò che scrivo farà infuriare entrambi le parti. Ma questo mese ricorre il centesimo anniversario della tragedia e papa Francesco ha dichiarato che lo sterminio degli armeni commesso dall’impero ottomano nel 1915 fu in effetti un genocidio. La Turchia, come era prevedibile, ha risposto richiamando il proprio ambasciatore dal Vaticano.

Sono ormai diverse generazioni che assistiamo a questa diatriba, che di solito si limita a scambi del tipo “Sì, lo hai fatto” – “No, non l’ho fatto”. Sfortunatamente, di questa faccenda io conosco molte altre cose. Molti anni fa, quando ero un dottorando in storia e stavo facendo alcune ricerche sul ruolo della Turchia nella prima guerra mondiale, andai negli archivi dello stato maggiore turco ad Ankara e trovai i telegrammi originali (scritti nell’antico stile calligrafico riq’a) scambiati tra Istanbul e l’Anatolia orientale nella primavera del 1915.

In seguito ho esaminato i documenti britannici e russi relativi ai piani di azione congiunta con i rivoluzionari armeni nella primavera del 1915, e posso quindi dire di conoscere anche il contesto nel quale turchi e armeni si muovevano. E posso dire con una certa sicurezza che entrambe le parti si sbagliano.

C’è stato un genocidio armeno. Certo che c’è stato. Quando quasi ottocentomila membri di una singola comunità etnica e religiosa muoiono di morte violenta, di fame o di assideramento in un breve periodo, mentre sono scortati da uomini armati di etnia e religione diversa, la questione è presto chiarita. Oggi gli armeni sostengono che le vittime furono un milione e mezzo, ma è una cifra troppo alta. Quella corretta potrebbe essere anche di mezzo milione, ma ottocentomila è una stima plausibile.

D’altra parte, gli armeni vogliono assolutamente che la loro tragedia sia messa sullo stesso piano del tentativo dei nazisti di sterminare gli ebrei europei, e non si accontenteranno di niente di meno. Ma ciò che è accaduto agli armeni non è stato pianificato dal governo turco, e da parte armena effettivamente c’era stata una provocazione. Ciò non significa neanche lontanamente che sia possibile giustificare cosa è accaduto, ma mette i turchi in una posizione un po’ differente.

Nel 1908 un gruppo di ufficiali di grado inferiore chiamati giovani turchi aveva preso il controllo dell’impero ottomano, e nel novembre del 1914 il loro leader Ismail Enver era incautamente entrato nella prima guerra mondiale a fianco della Germania. L’esercito turco aveva marciato verso est per attaccare la Russia, allora alleata di Regno Unito e Francia.

Quell’armata fu annientata in mezzo alla neve vicino alla città di Kars (solo il 10 per cento dei soldati riuscì a sfuggire) e i turchi furono presi dal panico. Per un errore strategico i russi non contrattaccarono subito, ma se avessero deciso di farlo ai turchi non sarebbe rimasto quasi niente per fermarli. I turchi si sforzarono di mettere insieme una qualche forma di linea difensiva, ma alle loro spalle, nell’Anatolia orientale, c’erano dei cristiani armeni che da qualche decennio stavano lottando per l’indipendenza dall’impero ottomano.

Vari gruppi di rivoluzionari armeni avevano preso contatto con Mosca, offrendosi di provocare delle rivolte alle spalle dell’esercito turco nel momento in cui le truppe russe fossero arrivate in Anatolia. Quando ricevettero la notizia che l’esercito turco era in rotta, alcuni di loro pensarono che i russi stessero arrivando e agirono prima del tempo.

Analogamente i rivoluzionari armeni del sud, vicino alla costa mediterranea, erano in contatto con il comando britannico in Egitto e avevano promesso di scatenare un’insurrezione in coincidenza con gli sbarchi britannici previsti nella costa meridionale della Turchia, vicino ad Adana. All’ultimo momento Londra decise di spostare l’invasione molto più a ovest, a Gallipoli, ma anche in questo caso alcuni rivoluzionari armeni non ricevettero il messaggio e scatenarono comunque la ribellione.

Enver e il governo turco andarono nel panico. Se i russi fossero penetrati nell’Anatolia orientale, tutti i territori arabi dell’impero sarebbero stati tagliati fuori. Per questo ordinarono la deportazione di tutti gli armeni nell’est della Siria, attraverso le montagne, d’inverno e a piedi, dato che non c’era ancora una ferrovia. E poiché non c’erano soldati regolari disponibili, furono soprattuto le milizie curde a scortare gli armeni verso sud.

I curdi condividevano l’Anatolia orientale con gli armeni, ma i rapporti tra le due comunità non erano mai stati buoni. Molti miliziani curdi approfittarono dell’occasione per violentare, rapinare e uccidere. La mancanza di cibo e il clima fecero il resto, provocando la morte di quasi la metà dei deportati. Per quanto non sia chiaro fino a che punto il governo turco fosse informato di questa tragedia, di certo non fece nulla per fermarla.

Altri armeni morirono a causa del clima torrido e delle malattie nei campi in cui furono ammassati in Siria. Fu un genocidio commesso attraverso il panico, l’incompetenza e l’incuria deliberata, ma non può essere paragonato a quanto successe agli ebrei europei. La numerosa comunità armena di Istanbul, lontana dalle operazioni militari in Anatolia orientale, uscì dalla guerra quasi indenne.

Se solo i turchi avessero avuto il buon senso di ammettere, cinquanta o settantacinque anni fa, cosa è successo in realtà, oggi non ci sarebbero polemiche. L’unico dovere della nostra generazione è riconoscere il passato, non correggerlo. Invece abbiamo assistito a cento anni di totale negazione, ed è per questo che la questione è ancora d’attualità. E continuerà a esserlo finché i turchi non faranno finalmente i conti con il loro passato.

(Traduzione di Federico Ferrone)
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Re: Kurdistan e de torno

Messaggioda Berto » mar ott 14, 2014 10:42 pm

http://www.actukurde.fr/actualites/694/ ... daesh.html

La résistance de Kobané, assiégée par les barbares de Daesh, a gagné toute la Turquie après les promesses non tenues du gouvernement turc et la poursuite de sa complicité avec Daesh. Au moins 15 personnes ont été tuées, tandis que le couvre-feu a été instauré dans onze ville. Des tanks ont été déployés dans des villes kurdes.

Quand les barbares de Daesh sont entré pour la première fois dans la ville de Kobané, dans la nuit de 6 octobre, les Kurdes de Turquie et d'Europe se sont mobilisés, descendant dans les rues et affrontant les forces de l'ordre.

KOBANE N'EST PAS TOMBE ET NE TOMBERA PAS

Alors que de nombreux gouvernements occidentaux et le gouvernement AKP attendaient avec impatience la chute de Kobané, la résistance a gagné toute la Turquie. En une nuit, le cours de l'histoire et de la guerre à Kobané a peut-être changé. Rien ne sera comme avant.

La colère grandissante contre la complicité du gouvernement AKP qui humiliait et accusait les Kurdes d'être responsables de ce qui se passe en Syrie a explosé, enflammant toutes les rues.

Déjà depuis plus de deux semaines, les Kurdes étaient dans les rues des villes européennes, appelant la communauté internationale à agir immédiatement pour intensifier des raides aériens et donner des armes aux forces kurdes syriens qui combattent farouchement les barbares disposant des tanks, des obus et des missiles.

La ville de Kobané n'est pas tombée comme prévue. On n'attendait pas que les Kurdes résisteraient aussi longtemps. Il s'agissait pour les Kurdes d'une question de vie ou de mort. C'est pourquoi, les Kurdes ont qualifié Kobané de "Stalingrad kurde".

Face au silence international et l'entrée des barbares dans la ville de Kobané avec des tanks et des armes lourdes, les Kurdes n'ont eu d'autre choix que d'étendre la résistance partout.

Parallèlement aux manifestations, les combattants des Unités de défense du peuple (YPG) ont passé le 7 octobre à l'offensive pour repousser et puis vaincre.

La coalition internationale a également intensifié ses raides après la vague de manifestations en coordination avec les forces sur place, a-t-on appris des sources sur place.

LA TURQUIE N'A PAS TENU SA PROMESSE

Dans les deux dernières semaines, la Turquie avait promis d'ouvrir un corridor pour les combattants kurdes qui voulaient envoyer des renforts à Kobané, car la Turquie est le seul accès de cette ville assiégé complètement depuis 15 septembre. Cette promesse a été donné à Saleh Moslim, le co-président du PYD, lors d'une rencontre avec des services secrets turcs.

Le PKK et Saleh Moslim ont confirmé cette rencontre et les promesses qui n'ont pas été tenues. Les Kurdes ne demandent pas l'intervention de la Turquie comme disent certaines medias occidentaux. Non, ils demandaient seulement un laissez-passer les combattants kurdes depuis la région kurde de Jazira, au Kurdistan syrien. "Nous ne demandons à personne de venir combattre à notre place, mais des armes que nous voulons acheter pour nous défendre. Nous avons dit, 'ouvrez les portes et vendez-nous des armes antitanks et des missiles', mais ils ne font rien. C'est incompréhensible" a déclaré Saleh Moslim.

Le président turc Recep Tayyip Erdogan et le premier ministre Ahmet Davutoglu ont même voulu imposé une seule choix aux Kurdes; l'aide des turcs en contre parti de la dissolution de l'autonomie démocratique mise en œuvre au Kurdistan syrien. Erdogan n'a pas hésité de comparer le PKK au Daesh, alors qu'en même temps il mène des négociations direct avec le mouvement kurde. Tout a été mis en ouvre pour que Kobané tombe et que les oppresseurs deviennent des "sauveurs".

LA RESISTANCE GAGNE TOUTE LA TURQUIE: COUVRE-FEU INSTAURE

Le gouvernement turc a de nouveau fait son choix en faveur des barbares. Depuis le 6 octobre, les Kurdes sont dans les rues à travers la Turquie, visant tous les bâtiments de l'Etat, les extensions de Daesh en Turquie et les bâtiment du parti au pouvoir AKP.

Au moins onze manifestants et cinq "collaborateurs" d'Etat ont été tués entre les 6 et 8 octobre lors des manifestations par des policiers, gardians de village et le groupe paramilitaire Hezbollah en Turquie. Huit personnes tuées à Diyarbakir, deux à Kurtalan, deux à Dargecit, un à Van, un Kiziltepe, un à Batman et un à Varto. Le bilan serait en fait plus lourd, selon des informations obtenues.

Le couvre-feu a été déclaré dans onze villes jusqu'à nouvel ordre. Les villes concernées sont: Diyarbakir, Batman, Dargeçit, Derik, Kiziltepe, Nusaybin, Mazidagi, Omerli, Savur, Ercis, Kurtalan et Varto.

Des tanks ont été déployé dans ces villes. Mais l'initiative du peuple du Kurdistan a défié le régime d'Ankara: "Le couvre-feu instaurée n'est pas valable pour nous (...) Ce ne sont pas les kurdes qui devraient rester chez eux et ne pas sortir, mais ce régime dictatorial. Les rues et les universités sont à nous, mais les prisons, les commissariats et les bâtiments gouvernementaux sont à eux."

LES KURDES N'ABBANDONNENT PAS LES RUES

Le PKK a appelé les Kurdes à ne pas abandonner les rues: "Notre peuple doit poursuivre avec détermination cette lutte légitime et juste jusqu'à la victoire."

Dans la nuit de mardi à mercredi, les jeunes kurdes disaient avoir pris le contrôle de la ville de Kiziltepe, dans la province de Mardin. Toutes les banques ont été incendiées dans cette ville, comme dans d'autres villes.

A Ercis, dans la province de Van, les locaux de l'AKP, une banque, les locaux du parti Saadet ont été incendiés par des manifestants. Un magasin d'armes a également été occupé. La police a de son coté incendié les locaux du parti kurde.

Le 7 octobre, un policier turc qui a été filmé par l'agence de presse kurde DIHA criait le slogan "Vive Daish" (Yaşasın İŞİD) lors d'une manifestation de kurdes à Baskale, dans la province de Van.

Dans toutes les villes, de nombreux bâtiments étatiques, des banques, des véhicules, des locaux du parti au pouvoir, ainsi que des partis et associations qui ont dans une complicité ouverte avec Daesh ont été visés et incendiés. Des actes de lynchages racistes contre les manifestants ont également eu lieu dans certaines villes comme Istanbul, par des nationalistes.

- See more at: http://www.actukurde.fr/actualites/694/ ... Y79cv.dpuf
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Re: Kurdistan e de torno

Messaggioda Berto » sab ott 25, 2014 10:04 am

I Kurdi: storia di una nazione senza Stato di Gianni Sartori - 11/03/2014

http://www.ariannaeditrice.it/articolo. ... colo=47795


Il popolo curdo, tra i più antichi del vicino oriente e con più di tremila anni di storia, non ha mai avuto un'entità statale duratura e stabile.

Nel 612 a.C., insieme ai Persiani, sconfisse gli Assiri, leggendari per la loro ferocia. Leader della rivolta fu un fabbro curdo di nome Kawa.

Il carattere nomade e feudale della società curda, con il potere esercitato nelle diverse regioni dai rispettivi capitribù, non ha favorito una mentalità disponibile a riconoscersi in un'autorità centrale: volontà egemoniche, estranee agli interessi del popolo curdo, hanno cercato in ogni modo di spezzare e cancellarne unità e identità.
 Nel 1639 (accordo di Kasiri-Sirin) si è avuta la prima divisione del Kurdistan, tra l'impero ottomano e quello persiano. La seconda divisione, dopo alcuni secoli, venne decisa dal trattato di Losanna del 24 luglio 1923 -con l'influenza decisiva dei paesi europei- ed è quella che ha sancito la divisione del Kurdistan tra la Turchia, l'Iran, l'Iraq, la Siria.
 Per capire come ciò sia stato possibile, occorre considerare che i curdi hanno combattuto durante la 1ª guerra mondiale per la Repubblica Turca contro francesi e inglesi -stati europei che, come la Germania, avevano occupato il Kurdistan- in cambio della promessa di veder riconosciuta la propria identità. Ma alla fine della guerra, nonostante nel 1920 il Trattato di Sevres, avesse posto le condizioni per la creazione di uno stato curdo indipendente (progetto a cui era favorevole il presidente statunitense Wilson), i kemalisti, fautori dell'ideologia che afferma l'esistenza della sola identità turca all'interno dei confini dello stato, non rispettarono gli accordi e imposero una politica di assimilazione e di fortissima repressione.
 Tenendo conto della non omogeneità della popolazione curda -un sistema feudale all'interno del quale si parlavano diversi dialetti e venivano praticate le più diverse religioni- si mirava ad occupare una alla volta le diverse regioni, in vista di un controllo di massa nel territorio curdo. Inevitabilmente scoppiarono molte rivolte (1925, 1930, 1937), soffocate nel sangue: i kemalisti trucidarono milioni di curdi che si erano rifiutati di rinnegare la propria identità per confondersi con quella turca. Fu il periodo denominato dello “sterminio rosso”.
 Dopo il 1940 i turchi usarono una strategia diversa per raggiungere il medesimo obiettivo, attraverso l'assimilazione, con l'insediamento di scuole turche in ogni paese e villaggio. I bambini, sottratti alle famiglie, erano obbligati a frequentare le scuole fino all'età di 16-17 anni con il divieto assoluto di parlare curdo (una lingua di origine iranica) e la possibilità di incontrare i genitori solo una o due volte l'anno. Gran parte dei familiari di quelli che avevano partecipato alle rivolte, intanto, erano costretti all'esilio. Questo periodo è passato alla storia (la storia curda, naturalmente) come quello dello “sterminio bianco”. 
Va sottolineata la doppiezza della diplomazia turca che riuscì, durante tutto il periodo della guerra fredda, ad avere l'appoggio sia degli Stati Uniti che dell'Unione Sovietica. Va ricordato che durante l'impero ottomano, benché si tendesse ad assimilare i popoli dell'impero alla cultura turca -lo stesso generale Kenan Evren, ad esempio, responsabile del colpo di stato negli anni Ottanta (quando i colpi di stato in Turchia si susseguivano con scadenza decennale) era di origine balcanica- al Kurdistan era tuttavia concessa una certa autonomia. Veniva anche consentita l'istituzione di scuole locali nelle quali trovavano spazio la lingua e la cultura curda.
 Lo stato secolare turco, invece, portò alle estreme conseguenze la politica nazional- assimilazionista.
Tra il gennaio e il dicembre 1946 si realizza la breve esperienza di autogoverno curdo della “Repubblica curda di Mohabad”. Fondata in Iran da Mustafa Barzani approfittando delle presenza delle truppe sovietiche, finì in un bagno di sangue. Il presidente del governo curdo, il religioso Qazi Muhammad, venne catturato e poi impiccato dagli iraniani. Per alcuni storici curdi si sarebbe trattato di “un vero tradimento da parte di Stalin che preferì richiamare i suoi soldati e abbandonare i curdi al loro destino”. Per sfuggire alla forca Mustafa Barzani si rifugiò in Unione sovietica per 11 anni. Sarebbe rientrato nel Kurdistan “iracheno” (da dove nel 1946 aveva raggiunto Mahabad) con l'avvento al potere del regime repubblicano di Kassem. Dopo in breve periodo di riconciliazione e convivenza, Barzani e il suo movimento, il Partito democratico curdo (PDK), ripresero le armi per combattere contro il governo centrale di Bagdad (1962-1963). L'11 marzo 1970 il nuovo regime baasista iracheno firmava un accordo con il PDK che accoglieva in parte le richieste dei curdi riconoscendoli come la seconda nazione (insieme agli arabi) del paese. In seguito Barzani, ormai apertamente schierato con gli Usa, ritornerà in Iran per poi, fino alla morte nel marzo 1979, andare a vivere negli Stati Uniti. Una parte del PDK, quella diretta dal figlio di Barzani, entrerà a far parte del Fronte nazionale progressista iracheno. L'11 marzo 1974 nell'area curda dell'Irak si era costituita una regione autonoma con capitale Erbil (ma con l'esclusione dell'area petrolifera di Kirkuk). Il conflitto tra curdi e Bagdad riprenderà comunque nella seconda metà degli anni settanta.
In Turchia per qualche anno l'identità curda era sembrata rimanere “in letargo” e il popolo sembrava avviato a perderne la piena coscienza. Con una legge discriminatoria la lingua curda era stata messa fuori legge dal governo di Ankara (assolutamente proibito parlare curdo): un tentativo per estirpare il "problema curdo" alle radici ed impedire che altre rivolte potessero mettere in crisi l'autorità egemonica dello stato turco. Ma il vento rivoluzionario che all'epoca spirava in tutto il mondo (l'esempio di Che Guevara e del Vietnam, il divampare delle lotte di liberazione in Africa, Asia e America latina...) portò nuova linfa anche alla resistenza curda.
 A riprendere la lotta, insieme ad alcuni compagni, sarà uno studente in scienze politiche all'università di Ankara, il curdo Abdullah Ocalan, futuro leader del PKK. Dopo gli anni di dura repressione di ogni dissenso seguiti al golpe del 1980, il governo di Turgut Opzal (Partito della Madre Patria) cercò di promuovere alcuni progetti di rinnovamento sociale, politico ed economico (tra cui la liberalizzazione del commercio estero, la riforma dell'amministrazione pubblica e il ripristino di un sistema democratico). Mentre la Turchia chiedeva di aprirsi all'Europa, la Ue decideva di bloccare un assegno di 600 milioni di dollari per le evidenti carenze di Ankara in materia di diritti umani. Poco male: l'ospitalità offerta agli Usa (sei basi militari Nato) consentiva al governo turco di incassare oltre un miliardo di dollari. E intanto per i curdi la situazione rimaneva sostanzialmente la medesima. Dal 1988 al 1993 si contano più di 40 azioni militari di ampia portata nelle zone curde. L'esercito turco fece anche uso di armi chimiche - gas nervino - in particolare nel villaggio di Hani (nei pressi di Dijarbakir), sulle aree forestali (Ovarcik, Pertek...) e sul monte Gabar dove si nascondevano i guerriglieri del PKK. Interi distretti (Yayladere, Perwari, Silvan, Siirt...) vennero bombardati dai turchi con armi chimiche tra il 1991 e il 1992. Duramente colpite le località di Palamut, Umurlu, Eskicek, Bassine, Emte, Erzurum. Nel 1993 è la volta dell'area del monte Nurhak (Musabag, Tilkiler...) con molti villaggi rasi al suolo per costringere i curdi ad abbandonare i loro territori. Quanto al PKK, nel 1993 compie decine di spettacolari azioni dimostrative in territorio europeo contro consolati turchi, uffici turistici e banche che hanno rapporti con la Turchia.
Nel frattempo il regime iracheno non era rimasto a guardare. Il 18 marzo 1988 nel villaggio di Halabja (Kurdistan “iracheno”) almeno 5mila persone avevano perso la vita a causa del gas nervino (ma anche napalm, fosforo bianco, cianuro...) sganciato dalle truppe di Saddam Hussein, in quel momento “baluardo” e alleato dell'occidente.

Probabilmente il PKK è la più nota tra le organizzazioni curde. La sua storia richiede un ulteriore approfondimento.
Verso la fine degli anni sessanta, complice il clima di rivolta che si aggirava per l'intero pianeta, l'allora studente in scienze politiche all'università di Ankara, il curdo Abdullah Ocalan ed alcuni studenti turchi decisero di prepararsi alla lotta armata, con un programma politico di sinistra che però non contemplava la questione curda. Un colpo di Stato nel 1971 stroncò sul nascere le loro velleità: arresti quotidiani ed uccisioni in massa (molti saranno impiccati) ridussero ai minimi termini l'area legata alla sinistra radicale turca. Anche Abdullah Ocalan viene arrestato; trascorre in carcere sette mesi durante i quali valorizza la sua identità curda approfondendo la storia della sua nazione. Quando esce, insieme a due turchi, Haki Karer e Kemal Pir, promuove una conferenza ad Ankara, propedeutica ad un successivo seminario ed esordisce affermando che, all'interno dello Stato nazione turco, sono presenti due nazionalità: quella turca e quella curda.
 I tre danno vita ad un movimento che fino al '75 si impegna nello studio della storia curda, nella formazione politica dei militanti e del loro inquadramento nell'organizzazione. Le autorità turche seguono con attenzione il movimento; di contro, le organizzazioni di sinistra turche negano ogni sostegno politico e finanziario al nuovo movimento, nell'errata convinzione che i curdi avessero ormai perso coscienza della loro specificità etno-culturale. Così, nel 1975, tra i 40 e i 50 studenti decidono di rientrare in Kurdistan sparpagliandosi in 2-3 per città e paesi. I risultati non si fanno attendere e dopo circa tre anni, nel '78, la popolazione già li sosteneva apertamente. Nel '77, preoccupato per quello che stava avvenendo, il governo turco fa assassinare dai servizi segreti un esponente turco del movimento. Il messaggio è evidente: tutti i militanti sono in pericolo di morte. Il '78 vede la nascita del PKK e la repressione si fa più brutale e molti civili vengono massacrati dagli squadroni della morte. E' storicamente confermato che colpo di Stato del 1980 venne attuato per colpire innanzitutto i curdi e, tangenzialmente, le organizzazioni della sinistra turca. Le autorità sono a conoscenza del fatto che il PKK sta allestendo basi per praticare la guerriglia e migliaia di militanti del PKK vengono arrestati.
 Nel 1982 la lotta si estende nelle carceri, condotta da 7-8mila prigionieri politici. Solo 200 militanti, tra cui Ocalan, sfuggono alla repressione spostandosi in Libano per addestrarsi ed organizzare la lotta armata. Intanto nel Kurdistan la repressione prosegue ad alti livelli di intensità. Libri scritti in curdo vengono bruciati, la popolazione è sottoposta quotidianamente a minacce e vessazioni; ma è sui numerosi prigionieri che si concentra la brutalità del governo che cerca, invano, di innescare dinamiche di “pentimento” e delazione.
 Alcuni fondatori del partito vengono rinchiusi nel famigerato carcere di Diyarbakir. Durante il capodanno curdo -Newroz- che cade il 21 marzo e che è stato vietato negli anni Venti dalla repubblica turca, Haki Karer, si dà fuoco per lanciare un segnale alla popolazione. Il medesimo gesto estremo verrà compiuto, in maggio, da altri quattro dirigenti. Un mese dopo, sempre nel carcere di Diyarbakir, Kemal Pir muore dopo 65 giorni di sciopero della fame, seguito da altri quattro militanti.
 Per tutto l'82 continua la preparazione alla guerriglia presso i campi palestinesi che offrono ai 200 militanti del PKK la possibilità di addestrarsi. Il PKK contraccambia partecipando alla guerra contro gli israeliani nella quale rimangono uccisi 20 curdi. Nel 1983 Ocalan indice la prima conferenza con la quale annuncia l'intenzione di tornare nel Kurdistan insieme a 200 guerriglieri per intraprendere la lotta armata, considerata come l'unica possibilità contro la politica etnocida del governo turco.
 Il rientro in patria si accompagna ad un'azione spettacolare: un'intera cittadina viene conquistata e l'esercito turco, sconfitto, è costretto ad abbandonare il campo. Negli anni '84-'85 si avverte la necessità di creare un fronte che organizzi la popolazione e renda politicamente più efficace l'azione del PKK stesso. Nasce così l'ERNK (Eniya Rizgariya Netewa Kurdistan, il Fronte di Liberazione Nazionale del Kurdistan), organizzazione interclassista di intellettuali, studenti, operai, rappresentativa di ogni settore della società curda, un fronte ampio che gode di un notevole sostegno di massa e che opera anche fuori dai confini del Kurdistan per far conoscere la lotta di autodeterminazione del popolo curdo.
 Molti militanti si stabiliscono temporaneamente all'estero dove, imparando la lingua del posto, fanno da cassa di risonanza a quanto avviene in Kurdistan; in questo modo la cortina del silenzio imposta dal governo turco viene contrastata e le notizie date quasi in tempo reale. 
Il 24 giugno 1993 decine di militanti del PKK attaccano e occupano contemporaneamente i consolati turchi in Germania: a Monaco (dove tengono in ostaggio una ventina di persone), Essen, Munster, Stoccarda e Hannover. A Berlino, Colonia, Francoforte e Dortmund colpiscono sedi di banche, uffici turistici e la Turkisch Airlines. La sede della compagnia aerea turca viene attaccata anche a Lione, mentre un gruppo di curdi irrompe nel consolato turco di Marsiglia. Altre azioni del PKK avvengono in Svezia e Danimarca contro uffici turistici. In Svizzera, dopo che l'ambasciata turca di Berna è stata circondata da una folla di curdi, un funzionario apre il fuoco uccidendo un manifestante. Dalle pagine del Corriere della sera, in un'intervista, Abdullah Ocalan minaccia di “colpire in Turchia, nelle località turistiche; colpiremo anche gli obiettivi turchi nel cuore dell'Europa”. Nell'estate del 1993 vengono sequestrati dai guerriglieri alcuni turisti europei (inglesi, francesi, tedeschi, neozelandesi, italiani, svizzeri, austriaci..) trovati in territorio curdo “senza lasciapassare del PKK”. Verranno presto tutti rilasciati, tranne un austriaco di cui non si avranno più notizie. Il 4 novembre 1993, nuova serie di attacchi agli obiettivi turchi in Germania. Viene colpito anche un centro commerciale di Wiesbaden e una persona perde la vita nell'incendio provocato da una molotov. Contemporaneamente, vengono assaliti i consolati turchi di Hannover, Stoccarda, Dusseldorf, Colonia e Karlsruhe. Colpita anche una sede del giornale turco Hurriyet a Neu Isenburg. Altre manifestazioni vengono organizzate a Copenaghen, Londra, Vienna, Zurigo, Ginevra, Francoforte, Strasburgo...

Immediate le ritorsioni del primo ministro turco Tansu Ciller che invia nuovamente l'esercito nelle zone curde. Nel dicembre 1996 l'ERNK poteva affermare senza timore di smentite che “la guerra dura ormai da 12 anni (dall'inizio della lotta armata nel 1984, nda), smentendo tutte le previsioni fatte, di tempo in tempo, dai vari governi turchi che, confondendo il desiderio con la realtà, ci danno regolarmente per spacciati nell'arco di un paio di mesi, quando non di settimane. L'A.R.G.K. (Esercito Popolare di Liberazione del Kurdistan) – continuava il comunicato- può contare su 50mila uomini/donne ed un sostegno enorme tra la popolazione; controlla le montagne ed anche alcune città dove l'esercito turco non può mettere piede ed è riuscito a fermare, con un contrattacco, un'offensiva di 10mila soldati turchi, ai primi di novembre 1996, sul confine turco-irakeno”. 
Sempre secondo l'ERNK “la lotta armata, oltre a svolgere un ruolo insostituibile di autodifesa, serve a mantenere viva la coscienza identitaria ed è uno strumento per aprire il dialogo ed arrivare ad una soluzione negoziata del conflitto. È dovere di ogni popolo combattere, anche con le armi se necessario, per difendere i propri diritti e la democrazia. 
Accanto all'esercito abbiamo creato tutte le strutture di cui uno Stato ha bisogno per rappresentare gli interessi del popolo. Non è stato un lavoro facile, ostacolato dalla repressione turca e dalla società feudale che non ha potuto modernizzarsi, come per altre popolazioni, proprio a causa della mancanza di autodeterminazione che ha caratterizzato gran parte della storia curda. Ora il popolo è pronto; il PKK ha lavorato perché l'obsoleta logica feudale fosse superata anche sul piano -altrettanto fondamentale- della mentalità. Grossi passi avanti sono stati fatti”.

Ma, anche in questi momenti di forza del movimento di liberazione, i curdi non escludono le possibilità di dialogo e soluzione politica, anzi. “E' nostra intenzione –proseguiva il comunicato dell'ERNK del dicembre 1996 - aprire il dialogo con Ankara ed è in questa prospettiva che abbiamo per ben due volte proclamato il cessate il fuoco unilaterale. Il primo è durato 83 giorni a partire dal marzo 1993, il secondo quasi 9 mesi dal dicembre 1995 al 15 agosto '96. In entrambe le occasioni non c'è stato alcun segnale positivo da parte del governo turco, che ha anzi risposto continuando a bruciare villaggi e ad operare massacri tra la popolazione”. All'epoca era convinzione di molti osservatori che all'interno dello stato turco più di un politico fosse favorevole ad una soluzione negoziata del conflitto. Ma poi prevalse la paura di incorrere nella vendetta dei militari.
 Dopo la fine del secondo cessate il fuoco (agosto 1996), un attacco in grande stile della guerriglia curda contro l'esercito turco aveva portato alla liberazione di molte zone poi controllate dall'ARGK. Inoltre la lotta si andava estendendo alle metropoli turche. Con manifestazioni e propaganda politica tra la popolazione, nelle strade e nelle piazze grazie anche alla collaborazione di una parte della sinistra turca e di organizzazioni pro curde.

Il PKK dichiarava di lottare “per costituire una federazione democratica garante dell'unità del popolo curdo e dei diritti delle minoranze presenti sul territorio; fautori di un socialismo democratico e popolare, auspichiamo un modello di democrazia partecipativa dove non sia negata la libertà personale ma tutti abbiano la possibilità di intervenire nelle scelte che più direttamente li riguardano.
 Siamo anticapitalisti, ma anche contrari al socialismo reale così come si è realizzato nell'ex URSS”. Sull'argomento lo stesso Abdullah Ocalan aveva scritto un libro in cui criticava profondamente un sistema che “aveva dimenticato le necessità della popolazione impedendo la realizzazione di un'autentica democrazia popolare”.
 Quanto all'analisi marxista, riteneva che “ può essere efficace in determinate circostanze ma deve essere sempre verificata nella realtà che spesso smentisce perfette analisi ideologiche”. Affermazioni queste che risalgono alla prima metà degli anni novanta. Sempre negli anni novanta, Ocalan aveva mostrato vivo interesse per il pensiero libertario di Murray Bookchin. In seguito, anche se segregato in una cella, il Mandela curdo ha voluto approfondire le teorie dell'autore di “L'ecologia della libertà” e consigliarne la lettura e la messa in pratica ai militanti del PKK. La sua richiesta di un incontro con il pensatore anarchico non si è purtroppo realizzata. Sia per gli ostacoli messi in campo dall'amministrazione carceraria che per le precarie condizioni di salute di Bookchin (deceduto qualche tempo dopo) che aveva espresso pubblicamente la sua ammirazione per il leader curdo imprigionato.

Schierato su decise posizioni anti-imperialiste, il PKK non ha mai fatto mistero della sua ostilità nei confronti della Nato. Anche se “non è questa la nostra preoccupazione principale, visto che l'imperialismo aiuterebbe ugualmente la Turchia per tutelare i propri interessi che in quest'area strategica sono decisamente rilevanti”. Per poter aderire all'Alleanza atlantica, la Turchia aveva dovuto sottostare ad alcune condizioni tra le quali quella di partecipare alla guerra di Corea. Ma in realtà il governo turco inviò solo curdi che in migliaia persero la vita. Con la fine della guerra fredda, la Turchia assumeva una posizione strategica per gli Stati Uniti ed i loro alleati; escludendo Israele, infatti, la presenza statunitense nella regione era osteggiata da vari paesi, anche da quelli nemici tra loro, come l'Iraq e l'Iran.
 Quindi è facilmente intuibile che “se non intervenisse la Nato, interverrebbero direttamente gli Stati Uniti o la Germania”. Appare evidente come negli ultimi anni la Turchia abbia sostituito il ruolo ricoperto in passato da Saddam, quello di “cane da guardia dell'Occidente”. La Nato ha rappresentato un fondamentale sostegno finanziario per la Turchia: nel solo anno 1995 venivano stanziati 7 miliardi di dollari americani per spese militari (poi utilizzati quasi interamente in funzione anti PKK), arrivando nel 1996 a 10 miliardi. Una vera escalation, con gran parte della somma coperta dall'organizzazione atlantica. Ma il fatto che gli Stati Uniti usino la Turchia non significa che la Turchia sia automaticamente più forte per questo. Talvolta l'appartenenza alla Nato ha comportato anche qualche problema per Ankara. Il 17 novembre 1996, a Parigi, i delegati turchi alla riunione annuale della Delegazione interparlamentare della Nato avevano avuto una brutta sorpresa. La delegazione italiana (in particolare il presidente della commissione Esteri del Senato, Giangiacomo Migone) poneva la questione della vicenda curda e imponeva di discuterne nella riunione nonostante le proteste di Cahit Kavak, deputato del partito turco Anap. Alle sue dichiarazioni - “i curdi non esistono, esiste il terrorismo del PKK” - si rispondeva che “il PKK è comunque parte del popolo curdo”. La conclusione è stata che una delegazione della Nato sarebbe partita quanto prima per verificare la situazione della popolazione curda in Turchia. Da parte sua PKK aveva più volte messo in guardia i paesi aderenti alla Nato per la loro politica di sostegno al regime repressivo.

Nel decennio precedente alla cattura di Ocalan (1999), nei territori liberati si realizzarono, pur tra mille difficoltà, forme di autogoverno della popolazione curda. “A partire dal 1990 -ci spiegava AHMET YAMAN - quando abbiamo preso il controllo delle montagne, i tribunali si sono svuotati perché la partecipazione popolare, ampia in ogni settore, riduceva al minimo i contrasti, venendo ogni controversia chiarita all'origine.
 La milizia popolare che abbiamo costituito, sostituendo le vecchie strutture di repressione turche, è composta da milioni di curdi ed opera attivamente sul territorio pronta ad aiutare la popolazione ed a raccoglierne le istanze”.

PARTITI CURDI IN TURCHIA

Per quanto riguarda i partiti politici a base curda (spesso definiti, sbrigativamente, la “vetrina politica” del PKK), nel 1991 era sorto l'HEP (Partito del Lavoro) in breve tempo messo fuori legge. La stessa sorte toccò al DEP (Partito della Democrazia) fondato nel 1994. Ai suoi 22 deputati venne negata l'immunità parlamentare. Costretti a fuggire all'estero, davano vita al Parlamento curdo in esilio. Emblematico il caso della parlamentare Leyla Zana, condannata a 15 anni insieme ad altri deputati per reati di opinione. In seguito, sempre nel 1994, era nato l'HADEP (Partito della Democrazia del Popolo) con l'obiettivo di “aprire il dialogo con proposte di pace”, le stesse che proponeva il PKK. Sicuramente con l'HADEP il governo turco si è lasciato sfuggire una possibilità storica. Quella di un valido interlocutore con cui avviare trattative per una soluzione politica; un'opportunità alternativa al dialogo diretto con il PKK, forse inaccettabile per l'opinione pubblica turca.
 Con le elezioni del dicembre 1995, l'HADEP diventava il primo partito nel Kurdistan turco (53% dei voti). Ma, a causa dello sbarramento del 10% istituito ad hoc, non poteva essere rappresentato in Turchia. Su HADEP, oltre alle accuse di terrorismo, si è pesantemente abbattuta la violenza di Stato: distruzione di sedi, arresti, decine di attivisti assassinati. Calcolando anche quelle di HEP e DEP (i predecessori dell'HADEP) le vittime furono oltre un centinaio tra il 1990 e il 1996. Migliaia i casi di tortura.
 Nel luglio 1996, più di 30mila persone hanno partecipato ad Ankara al congresso del partito, testimoniando un considerevole appoggio popolare. Per ritorsione il governo turco avviava un procedimento per mettere anche questo partito curdo fuori legge. La terza udienza al processo aperto dalla Corte di Sicurezza dello Stato contro l'HADEP si è tenuta il 22 novembre 1996. Mentre due giovani militanti, accusati di aver ammainato la bandiera turca durante il congresso del partito, rischiavano la condanna a morte, per 43 dirigenti dell'HADEP, tra cui il presidente Murat Bozlac, venivano richieste condanne fino a 22 anni di carcere (per “separatismo” e legami con il PKK). Come da manuale, rimanevano invece sconosciuti e in libertà gli assassini di 4 delegati curdi, uccisi mentre facevano ritorno a casa all'indomani della violenta irruzione della polizia nella sede del congresso.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Kurdistan e de torno

Messaggioda Berto » lun gen 26, 2015 6:47 pm

Lingua e religione curde

http://www.azadi-kurdistan.org/linguareligione.htm

Il kurdo è una lingua di origine indoeuropea (se fa par dir, parké l'endoeuropeo lè na categoria etno-lengoestega enventà mai existesta), di ceppo iranico, diverso dal persiano, dall'arabo e dal turco, ha una propria grammatica e una ricchissima letteratura scritta fin dal X secolo.
I due dialetti principali sono il Kurmangi ed il Sorani.
I Kurdi della Turchia usano l'alfabeto latino, quelli dell'URSS il cirillico, i Kurdi iracheni, siriani ed iraniani usano l'alfabeto arabo.
Oggi solo in Iraq la lingua kurda è ufficialmente riconosciuta e parzialmente studiata nella scuola, ma negli uffici pubblici nei territori kurdi la lingua ufficiale è l'arabo. Nell'Armenia sovietica vi sono le scuole elementari kurde. In Turchia è costituzionalmente proibito scrivere e parlare in kurdo. In Siria non vi sono scuole e giornali in kurdo. In Iran la lingua kurda non è studiata nelle scuole, ma alcune stazioni Radio -TV trasmettono in kurdo. I governi turco, iraniano, iracheno e siriano hanno sempre cercato di ostacolare lo sviluppo della lingua kurda, impedendo così lo sviluppo di una lingua comune e di un unico metodo di scrittura per i Kurdi di tutte le parti del Kurdistan. Negli ultimi anni, in numerose università europee sono stati aperti dipartimenti di lingua e letteratura kurda.

Circa il 70% dei Kurdi è musulmano, la maggioranza di essi è Sunnita ed una minoranza (2 -3 milioni) è Sciita.
Il 30% dei kurdi è composto da comunità cristiane, ebraiche e da numerose confraternite e sette autoctone come Naqishibandi, Ahli Haq, Ali-Ilahi, Qadiri, e gli Yezidi.
Questi ultimi hanno una propria religione pre-islamica con un libro sacro chiamato Mass-hafè rash, "il Libro Nero".

Dato che gli stati oppressori tendono a privare della propria identità il popolo kurdo, negandone addirittura l' esistenza, il numero dei Kurdi resta difficile da precisare. Infatti, dall'inizio del 1960 questi stati hanno intensificato la loro politica repressiva, deportando sempre di più la popolazione kurda lontano dai territori d'origine ed insediandovi la popolazione turca, persiana ed araba. Ma gli studiosi affermano che il numero dei Kurdi sia di circa 30 milioni, cosi diviso: 13 milioni in Turchia, 8 milioni e mezzo in Iran, 5 milioni in Iraq, 1 milione e 300 mila in Siria, 1 milione e 200 mila in URSS, 150 mila in Libano. Il resto è emigrato in varie parte del mondo.



Sulla religione curda dalla protostoria

http://www.digionet.com/np/kurdistan/cu ... igione.htm

La religione originaria dei curdi era lo mazdeismo. Zarathustra era contemporaneo ai principali imperatori Medi.
Religione estremamente tollerante con altre fedi e modi di pensare, riuscì a diffondersi in molte altre regioni, ma non poteva impedire la diffusione di altri credi.

Probabilmente ebbe una notevole influenza culturale sulle grandi religioni monoteiste che poi l'avrebbero quasi soppiantata.
Attualmente esistono ancora adepti allo Zoroastrismo sia in Kurdistan che nel mondo della diaspora curda: gli Yezidi.

La maggioranza dei curdi è musulmana sannita; l'indole stessa dei kurdi impedisce però di arrivare a forme estreme di integralismo o di fanatismo. Esiste una componente scita che fuori dall'Iran assume la denominazione di Alevi. Alcune sette estremamente ermetiche con gli estranei, nel sud dell'Iran, hanno elaborato credenze e riti forse di derivazione musulmana.
Esistono anche enclavi cristiane di una certa importanza ed anche residui di una storica presenza ebraica.
Il Kurdistan è stato in sostanza un crogiolo ed un crocevia di religioni: non a caso molte eresie arrivate in Europa nel medioevo (come i Catari) provengono da quella zona.
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Re: Kurdistan e de torno

Messaggioda Berto » lun gen 26, 2015 7:11 pm

Siria: i curdi riconquistano Kobane Le forze anti-Isis hanno conquistato il «90%» della città, mentre i miliziani rimasti si sono asserragliati in due aree nella periferia orientale

Immagine
https://www.filarveneto.eu/wp-content/u ... -curde.jpg

http://www.corriere.it/esteri/15_gennai ... 914a.shtml

I combattenti curdi hanno strappato Kobane all’Isis dopo 4 mesi di scontri. Lo afferma l’osservatorio siriano per i diritti umani, basato a Londra. L’Ong segnala sporadici combattimenti in due sobborghi, dove resiste ancora una residua presenza dei jihadisti.

I combattenti curdi, guidati da Mahmoud Barkhadan, sono avanzati sin nei sobborghi di Kani Erban e Maqtalah. Le forze anti-Isis delle Unità di Protezione del Popolo hanno conquistato il «90%» della città di Kobane, precisa l’Osservatorio, mentre i miliziani residui dell’Isis - tra i quali ci sarebbero molti minorenni - si sono asserragliati in due aree nella periferia orientale. Da metà settembre a oggi si stima che il conflitto abbia causato oltre 1.600 morti, mentre circa l’80% dei raid della coalizione anti-Isis si sono concentrati proprio sull’area di Kobane.



Isis: fonti, liberata Diyala, in Iraq Esercito e milizie hanno conquistato aree a nordest

http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/m ... 8878d.html

(ANSA) - BEIRUT, 26 GEN - Fonti governative irachene affermano oggi che l'esercito di Baghdad e le milizie locali alleate hanno conquistato aree a nord-est della capitale e che hanno di fatto "liberato" la regione di Diyala dalla presenza dei jihadisti dello Stato islamico. Lo riferisce la tv panaraba al Arabiya, citando fonti militari di Baghdad. Le informazioni non possono essere verificate sul terreno. (ANSA).
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Re: Kurdistan e de torno

Messaggioda Berto » lun gen 26, 2015 8:59 pm

Immagine
https://www.filarveneto.eu/wp-content/u ... yazida.jpg

Yaxidixmo

http://it.wikipedia.org/wiki/Yazidismo

Lo Yazidismo (in curdo ئێزیدی, Ēzidī, Īzidī, in in arabo: ﻳﺰﻳﺪﻱ, Yazīdī, in turco Cyrāǵ Sândëren, ossia "spegnitori di lampade", in persiano Shaiōān peresht, "adoratori del diavolo") è una religione monoteista la cui derivazione è discussa, in ragione anche dell'accentuata segretezza ed esoterismo delle sue dottrine, che consentono solo agli iniziati di accedere al suo nucleo più autentico.

Come osservava Alessandro Bausani, uno dei massimi esperti italiani di Islamistica, lo yazidismo "è ancora elencato fra le sette musulmane per motivi pratici e anche, se è vera l'opinione del Guidi, per la sua origine e per qualche nome arabo e persiano che vi si incontra", di fatto sembra che la dottrina yazidi "praticamente nulla abbia di islamico", tanto da poter "ben essere messa assieme a residui di sette gnostiche del Vicino Oriente del tipo dei mandei."

I suoi fedeli venerano Sette Angeli, emanazioni del Dio primordiale, (chiamati anticamente Annunaki), di cui il primo e più importante è l'Angelo Pavone (Tawisi Melek) che, "cadde, ma essenzialmente buono, pianse, e le sue lacrime di pentimento, deposte in settemila anni di pianto ininterrotto in sette anfore, hanno estinto le vampe dell'inferno".".

Erroneo, malgrado un corrivo suo uso giornalistico, è trattare il termine "yazidi" come un etnonimo, mentre esso va riferito a una specifica fede religiosa.

La religione yazidi deriverebbe, secondo vari storici, dagli antichi sistemi religiosi della Mesopotamia. Fanno parte della religione yazidi le abluzioni sacre, il divieto di mangiare certi cibi, la circoncisione, il digiuno, il pellegrinaggio devozionale, l'interpretazione dei sogni e la trasmigrazione delle anime. Il vocabolario religioso, soprattutto nella terminologia della letteratura esoterica, è simile a quello sufi. Gran parte della mitologia e della cosmogonia è preislamica e risente di influenze gnostiche.

La figura centrale dello yazidismo è Melek Ṭāʾūs, un angelo dalle sembianze di un pavone (Melek vuol dire appunto "Angelo" e Ṭāʾūs significa "Pavone"), "essenza attiva di Dio". I suoi seguaci sostengono che esso deriverebbe dall'antico culto preislamico proprio del popolo curdo.

Gli yazidi credono in un Dio primordiale, che ha creato o è divenuto l'universo, manifestandosi nei Sette Grandi Angeli il principale dei quali è Melek Ṭāʾūs.

L'Angelo Pavone, padrone del mondo, è l'origine del bene e del male. Il compito degli uomini è di aiutare il bene a prevalere. Secondo gli yazidi, anche il male è stato creato da Dio, ma ugualmente Dio vuole la vittoria del bene. Gli uomini possono inavvertitamente compiere azioni malvagie, atte a favorire la vittoria del male. Immagini di pavoni, in bronzo o ferro, sono oggetti rituali devozionali.

Le sacre scritture dello Yazidismo sono Kitāb al-Jilwa ("Libro della Manifestazione") e Mishefa Res, o Maṣḥaf rash ("Libro Nero", in curdo), entrambi scritti in kurmanji, un dialetto della lingua curda.
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Re: Kurdistan e de torno

Messaggioda Berto » gio lug 23, 2015 6:39 am

https://www.facebook.com/MagdiCristianoAllam?fref=ts

Cari amici, la notizia del mostruoso attentato terroristico suicida nella città curda di Suruc, in cui sono rimasti uccisi 32 giovani, non ha evidenziato il fatto che la Turchia dopo essere diventata il primo sostenitore dei terroristi dello “Stato islamico” dell’Isis, ora è diventata anche bersaglio dei terroristi islamici.

E non è da escludere che questo crimine possa essere stata perpetrato con la tacita connivenza delle autorità turche. Le vittime erano attivisti del partito filo-curdo Hdp, che ha avuto un buon successo alle recenti elezioni ma che è inviso al regime di Erdogan. Quei giovani, tra cui molte ragazze, purtroppo deflagrati dall’esplosione di un altro giovane imbottito di tritolo e probabilmente camuffato sotto un velo integrale islamico, erano in partenza per Kobane, città simbolo dell’eroica resistenza dei curdi siriani, dove intendevano costruire una biblioteca e un parco.

Quando è che l’Occidente aprirà gli occhi e si renderà conto che dobbiamo prendere le distanze dalla Turchia?



Kamikaze di 18 anni tra i curdi: strage in Turchia
Trenta morti e un centinaio di feriti a Suruc, cittadina sul confine con la Siria che ospita migliaia di persone in fuga dall’Isis. Colpito il centro che stava organizzando aiuti per Kobane

http://www.lastampa.it/2015/07/20/ester ... agina.html

Mancava poco a mezzogiorno quando a Suruc, la cittadina curda vicino al confine con la Siria e di fronte a Kobane, si è scatenato l’inferno. Una forte esplosione, provocata da una kamikaze, ha ucciso 30 persone e ne ha ferite oltre 100, fra cui alcune in modo grave. Ci sono volute meno di due ore per confermare quello che era fin troppo chiaro a molti già dall’inizio: la cittadina, che da mesi ospita migliaia di rifugiati siriani provenienti da Kobane, è stata colpita da un brutale attentato.

INCUBO KAMIKAZE

Il ministero dell’Interno turco per il momento ha confermato solo il bilancio. «Sono preoccupato – ha detto il ministro degli Interni provvisorio, Sebahattin Ozturk -. Il bilancio potrebbe aumentare nelle prossime ore perché molti feriti sono gravi. Troveremo gli autori del gesto e li processeremo». Negli stessi minuti, fonti vicine al governo di Ankara hanno fatto sapere che a compiere il gesto è stata una ragazza di 18 anni, simpatizzante di Isis, che si è fatta esplodere davanti al Centro culturale Amara. La struttura ospitava una delegazione di 300 persone della SGDF, l’Associazione dei giovani socialisti turca. La kamikaze ha aspettato per fare detonare l’ordigno che molti fossero fuori nel giardino a organizzare la logistica e a presentare alla cittadinanza e alla stampa il loro obiettivo, ossia organizzarsi con squadre e mezzi per portare viveri proprio alla cittadina di Kobane, da tempo un vero e proprio simbolo della lotta curda contro Isis e che lo scorso anno ha resistito eroicamente a un assedio durato mesi. Più o meno alla stessa ora, un’esplosione oltre confine ha ucciso cinque membri dello Ypg, l’esercito del Kurdistan siriano.

ACCUSE E POLEMICHE

Il presidente Erdogan non ha cambiato il suo programma e si è diretto a Cipro per celebrare il 41mo anniversario dell’invazione dell’isola. Una scelta che ha fatto discutere. L’Akp, il Partito islamico-moderato per la Giustizia e lo Sviluppo fondato dal Presidente turco Recep Tayyip Erdogan, ha parlato di «attacco alla Turchia». Le vittime della strage, però sono tutti giovani ragazzi curdi. Durissimo il Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, con cui Erdogan stava portando avanti difficili negoziati per la cessazione della lotta armata in cambio di riconoscimenti costituzionali per la minoranza, che in Turchia conta circa 15 milioni di persone. «Ormai – ha scritto l’organizzazione in un comunicato – non distinguiamo più fra militanti dell’Isis e agenti dell’intelligence turca. Questo massacro è stato perpetrato dall’Akp». Polemiche anche sul comportamento della polizia che, secondo testimoni citati dai quotidiani turchi, ha allontanato in modo violento le persone che dopo l’esplosione cercavano di portare aiuto ai loro compagni e avrebbe addirittura impedito ad alcuni feriti di raggiungere l’ospedale.

TURCHIA SEMPRE PIU’ AMBIGUA

Le dichiarazioni del Pkk contrastano con quanto scritto da alcuni media filogovernativi, secondo i quali con questo attentato la Turchia paga il prezzo per la lotta al terrorismo. I rapporti fra Ankara e lo Stato Islamico sono ambigui e al centro di numerose polemiche. I turchi che hanno lasciato le loro case per andare a combattere Isis sono oltre 3000. Lo Stato Islamico è accusato di avere infiltrato pressoché indisturbato quartieri di tutte le più importanti città della Mezzaluna fino a Istanbul. Il confine turco è considerato il punto di passaggio preferito per chi si vuole congiungere da tutta Europa alle truppe di Al-Baghdadi. Non solo.

La Turchia ha sempre tenuto una discussa e netta linea anti Assad nella gestione della crisi siriana, tanto da essere accusata di essere in qualche modo in contatto con Isis per fare cadere il dittatore siriano e indebolire i curdi che premono nel nord del Paese. Proprio durante l’assedio di Kobane ci sono stati momenti di forte tensione interna con la minoranza perché, nonostante l’autorizzazione data dal Parlamento, le armate della Mezzaluna non sono mai intervenute per difendere la popolazione della cittadina. Infine, c’è chi ritiene che l’Akp abbia tutto l’interesse ad appropriarsi di questa strage per avere un casus belli e quindi un motivo per entrare in Siria, puntando però contro Assad.
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Re: Kurdistan e de torno

Messaggioda Berto » sab set 05, 2015 8:13 am

Il padre di Aylan rifiuta l’asilo in Canada: “Riporterò i corpi dei miei figli a Kobane”
Abdullah Kurdi ha perso anche la moglie nel naufragio: «Mi sono scivolati dalle mani»
http://www.lastampa.it/2015/09/03/ester ... agina.html

Con Aylan sono morti annegati anche il fratellino Galip e la mamma Rihan. Ora il papà tornerà per seppellirli a Kobane, la città martire curdo-siriana dalla quale erano fuggiti per cercare la salvezza in Europa e poi in Canada, mentre sul web rimbalzano altre foto, ben diverse da quella del corpo del piccolo profugo sulla spiaggia di Bodrum che ieri ha scioccato e commosso il mondo.


PHOTOMASI

E c’è il papà, Abdullah Kurdi, in un giardino mentre tiene per mano i due fratellini. Foto di un altro tempo e di un altro mondo. E poi c’è un’istantanea di oggi: l’uomo, ancora un ragazzo, distrutto dal dolore, all’obitorio di Yerkesik, nella provincia turca di Mugla, per l’ultimo saluto. Aveva lottato selvaggiamente, dopo che la barca si era rovesciata, nuotando da un bambino all’altro, per cercare di salvarli.

IL NAUFRAGIO

«Quando la barca si è rovesciata, ho preso mia moglie e i miei bambini tra le braccia ma mi sono accorto che erano morti», racconta parlando piano. «Siamo scesi da una barca e un’ora dopo siamo saliti su un’altra dove c’era un uomo turco - ricorda -. Noi eravamo in 12 e la barca era stracarica. Eravamo in mare da pochissimi minuti ma le onde erano alte, l’uomo che guidava la barca ha sterzato e noi siamo andati a sbattere. Lui è andato nel panico e si è gettato in mare, scappando. Ma le onde erano altissime e la barca si è capovolta».

4.000 EURO PER IL VIAGGIO DELLA MORTE

Aveva pagato 4000 euro per quel viaggio della morte, per quel passaggio di 5 chilometri su un gommone che da Bodrum li avrebbe portati all’isola greca di Kos. Volevano andare in Canada, che ora riesaminerà il caso e che già una volta aveva respinto la richiesta di una zia di Aylan, che vive nella zona di Vancouver da vent’anni. Teema Kurdi fa la parrucchiera. «Stavo cercando di garantire per loro, con amici e vicini avevamo messo insieme i fondi necessari, ma non siamo riusciti a farli uscire, ecco perché sono saliti su quella barca», ha detto Teema al giornale di Ottawa Citizen. Tra le ragioni del no canadese ci sarebbe stata l’assenza di un visto di uscita per agevolare il passaggio dalla Turchia.

«Adesso tutto quello che voglio è stare seduto accanto alla tomba di mia moglie e dei miei figli», dice il papà. Al Canada non ci pensa più. Ma il piccolo che sembrava addormentato sulla riva del mare resta negli occhi di tutti. «L’unica cosa che potevo fare era far sentire l’urlo del suo corpo che giaceva a terra», ha detto Silufer Demir, la fotografa della agenzia turca Dogan che ha scattato una foto difficile da dimenticare.

Immagine
https://www.filarveneto.eu/wp-content/u ... %C3%A0.jpg
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Re: Kurdistan e de torno

Messaggioda Berto » sab set 05, 2015 6:50 pm

Il vero obiettivo della guerra di Erdoğan non è lo Stato Islamico
27/07/2015
http://www.limesonline.com/il-vero-obie ... mico/83887

La Turchia attacca per la prima volta il califfato in Siria e dopo quattro anni riprende i bombardamenti contro i curdi del Pkk nell’Iraq del Nord. Al presidente non interessa la vittoria militare ma quella politica nelle elezioni anticipate, che sta rendendo inevitabili.
di Daniele Santoro

La Turchia ha colpito per la prima volta obiettivi dello Stato Islamico in Siria ed è tornata a bombardare dopo quattro anni le postazioni del Pkk nell’Iraq del Nord a partire da venerdì 24 luglio.

Il primo ministro Ahmet Davutoğlu ha reso noto che gli F16 turchi non hanno violato lo spazio aereo siriano e che la Turchia non ha informato il regime di Bashar al-Asad delle operazioni militari. Ankara avrebbe invece contattato gli alleati della Nato prima di dare il via ai bombardamenti.
In Iraq, le Forze armate turche hanno colpito magazzini, snodi logistici, alloggi e depositi del Pkk in otto differenti regioni.

Nel fine settimana la polizia turca ha lanciato anche una maxi-operazione nell’ambito della quale sono state arrestati 590 persone tra sostenitori dello Stato Islamico, membri del Pkk e dell’organizzazione terroristica marxista-leninista Dhkp/c. Giovedì Ankara aveva concesso agli Stati Uniti l’utilizzo delle sue basi aeree, in particolar modo quella di İncirlik, al termine di un colloquio telefonico tra il presidente della Repubblica turca Recep Tayyip Erdoğan e il presidente americano Barack Obama.

In 48 ore, dunque, la geopolitica mediorientale della Turchia ha subito una trasformazione radicale. Tale trasformazione è stata profondamente influenzata dagli eventi della scorsa settimana, iniziata con l’attentato di Suruç di lunedì 20 luglio. Tre giorni dopo, le milizie dello Stato Islamico hanno aperto il fuoco contro le Forze armate turche uccidendo un soldato nelle provincia di Kilis.

Nel frattempo, in conseguenza della fine del cessate-il-fuoco del Pkk, la regione sud-orientale del paese è precipitata nel caos. L’organizzazione terroristica curda ha rivendicato l’uccisione di due poliziotti nella città di confine di Ceylanpınar come vendetta per l’attentato di Suruç. Negli ultimi giorni, inoltre, il Pkk ha ucciso altri quattro tra poliziotti e militari a Diyarbakır e Adıyaman, dando vita ad attentati contro stazioni di polizia, sequestri di persona e blocchi stradali.

Commentando le prime tre ondate di bombardamenti in Siria e Iraq, Davutoğlu ha sottolineato che le ultime mosse della Turchia possono cambiare radicalmente la partita regionale. Il primo ministro ha più volte ribadito che le operazioni militari degli ultimi giorni non sono una tantum. Si tratta di un “processo” destinato a continuare.

La Turchia è di fatto entrata in guerra. La sua svolta ha già avuto un impatto significativo nelle relazioni con gli Stati Uniti, che sembrano essere entrate in una nuova dimensione. Ankara, infatti, non ha concesso a Washington l’utilizzo della sola base di İncirlik, ma anche dello spazio aereo nazionale e delle basi di Malatya, Diyarbakır e Batman.

In cambio, Obama sembra aver accolto le preoccupazioni turche circa l’espansione territoriale dei curdi siriani e le attività del Pkk. Il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale Alistair Baskey ha condannato apertamente le azioni terroristiche del Pkk e legittimato i bombardamenti turchi nell’Iraq del Nord. A parere di alcune fonti, gli americani sarebbero pronti a chiudere un occhio in caso di future operazioni militari della Turchia contro i curdi siriani. Secondo quanto riporta Serkan Demirtaş, inoltre, Ankara e Washington avrebbero raggiunto un accordo per la creazione di una “zona di sicurezza” che si estenderebbe per 98 km lungo il confine turco-siriano e per 40 km all’interno della Siria.

Tale zona di sicurezza coprirebbe la “linea Mare-Jarablus”. La copertura aerea verrebbe garantita dai jet americani dislocati nella base di İncirlik, mentre le porzioni di territorio siriano sottratte al controllo dello Stato Islamico verrebbero affidate al Free Syrian Army, in modo da prevenire l’espansione a ovest dell’Eufrate dei curdi siriani. Non secondario, in questo contesto, il fatto che secondo alcuni commentatori Obama avrebbe intensificato gli sforzi diplomatici per costringere all’esilio il presidente siriano Asad.

I bombardamenti in Siria e in Iraq e l’ondata di arresti dei giorni scorsi appaiono una conferma delle speculazioni sulla volontà di Erdoğan di portare il paese a elezioni anticipate a novembre.

Il vero obiettivo degli F16 turchi, in altri termini, non sarebbe lo Stato Islamico e neppure il Pkk, ma i voti nazionalisti persi dall’Ak Parti a favore dell’Mhp. Secondo Fuatavni, “gola profonda” che in passato ha anticipato e svelato diversi piani del governo, l’attuale situazione sarebbe addirittura il risultato di un piano elaborato a tavolino da Erdoğan e i suoi fedelissimi per precipitare il paese nel caos e favorire la conquista della maggioranza assoluta da parte dell’Ak Parti nelle elezioni anticipate. Fuatavni sostiene infatti che l’attentato di Suruç sarebbe stato realizzato da una delle cellule dello Stato Islamico controllate dal direttore del servizio segreto turco (Mit) Hakan Fidan, fedelissimo di Erdoğan.

In questo contesto, il “processo di soluzione” della questione curda rimane appeso a un filo. Negli ultimi giorni Davutoğlu ha lasciato più volte intendere che Ankara non sacrificherà la propria sicurezza nazionale sull’altare del processo di pace. “Se qualcuno voleva lanciarci un messaggio uccidendo quei poliziotti – ha tuonato il primo ministro sabato – sappia che il messaggio è stato recepito e che i nostri aerei hanno colpito Kandil. Se qualcun altro volesse lanciare un messaggio analogo sappia che ne pagherà le conseguenze”. La leadership del PKk dal canto suo ha confermato che nelle condizioni attuali il cessate-il-fuoco annunciato il 21 marzo 2013 da Abdullah Öcalan non ha più alcun senso.

La posizione di Erdoğan, la cui psicologia è difficile da decifrare, è naturalmente decisiva. Il presidente della Repubblica attribuisce un’importanza straordinaria al processo di soluzione della questione curda, che considera il pilastro della sua eredità politica. Negli ultimi sei mesi, tuttavia,ha fatto tutto quanto in suo potere per far deragliare i negoziati.

Il dubbio è se Erdoğan intenda costringere il Pkk a far saltare il processo di pace o se, più moderatamente, punti a tenere tale processo sospeso fino a novembre, cioè fino a quando l’Ak Parti non avrà riconquistato (secondo questo piano) la maggioranza assoluta in parlamento. Come fa notare Mümtazer Türköne, d’altra parte, non si può escludere che il Pkk sia caduto nella trappola tesa dallo Stato Islamico, che colpendo obiettivi curdi in Turchia sta sfruttando sapientemente i meccanismi perversi generati dalla diffusa convinzione che l’Ak Parti abbia appoggiato le milizie del “califfo”. È infatti in base a tale convinzione che l’Hdp e il Pkk hanno accusato Erdoğan e Davutoğlu di essere i mandanti, quantomeno “morali”, degli attacchi contro le sedi del partito curdo, dell’attentato di Diyarbakır del 5 giugno e da ultimo del massacro di Suruç. Ed è in base a tale convinzione, come dimostra la rivolta di Kobane dell’ottobre scorso e l’uccisione di due poliziotti a Ceylanpınar alcuni giorni fa, che il Pkk si vendica contro le forze di sicurezza turche per gli attacchi subiti dallo Stato Islamico.

Tale meccanismo perverso ha due principali conseguenze. La prima è che attraverso la reazione scomposta del Pkk il “califfato” sta servendo a Erdoğan su un piatto d’argento le elezioni anticipate. La seconda è che questa guerra intestina sottrae tanto alla Turchia quanto al Pkk energie preziose da dedicare alla lotta contro lo Stato Islamico.
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