Kurdistan e dintorni

Re: Kurdistan e de torno

Messaggioda Berto » gio mar 02, 2017 12:12 pm

Anche i Curdi perseguitano e maltrattano i cristiani
Siria. Mons. Hindo: violenze dei miliziani curdi sui cristiani
2016/09/20

http://it.radiovaticana.va/news/2016/09 ... ni/1259391

Nella città siriana nord-orientale di Hassakè, e nella circostante regione di Jazira, le milizie curde che si contendono il controllo del territorio con l'esercito governativo stanno moltiplicando gli atti di violenza e intimidazione nei confronti dei cristiani: lo riferisce all'agenzia Fides l'arcivescovo siro cattolico Jacques Behnan Hindo, raccontando una lunga lista di incidenti e soprusi che a suo giudizio configurano una vera e propria strategia mirante ad espellere dal centro abitato, la residua popolazione di fede cristiana.

I miliziani saccheggiano le case dei cristiani
“Ogni volta che i miliziani curdi entrano in azione per riaffermare la propria egemonia militare sulla città” spiega l'arcivescovo, alla guida dell'arcieparchia siro-cattolica di Hassakè Nisibi, “l'epicentro delle loro scorribande e azioni di forza è sempre il quartiere delle sei chiese, dove vivono la gran parte dei cristiani. In molti casi hanno cacciato i cristiani dalle proprie case sotto la minaccia dei kalashnikov. E dove entrano, saccheggiano tutto”.

Anche mons. Hindo vittime di un atto intimidatorio
L'arcivescovo Hindo confida di essere stato lui stesso vittima di un atto intimidatorio avvenuto nelle scorse settimane, quando alcuni colpi di arma da fuoco sono stati esplosi contro la finestra della sua abitazione, e un proiettile ha sfiorato la sua testa. “In quel momento” aggiunge l'arcivescovo, “la zona era presidiata da miliziani curdi, e non c'erano nei dintorni altre persone armate”.

Colpi di artiglieria contro una spedizione umanitaria dell'arcidiocesi
Anche una spedizione umanitaria realizzata alcuni giorni fa dai volontari dell'arcidiocesi per distribuire cibo agli abitanti musulmani di Haddadi e di sedici villaggi circostanti, un tempo sotto il controllo dei jihadisti del sedicente Stato Islamico (Daesh), è stata fatta oggetto del lancio di alcuni colpi d'artiglieria. “E certo” fa notare anche in questo caso l'arcivescovo Hindo “non si trattava di colpi sparati dai jihadisti, le cui basi più vicine si trovavano a più di venti chilometri di distanza”.

La situazione sul campo è confusa e discorde
A giudizio dell'arcivescovo, le iniziative dei miliziani curdi perseguono il disegno di affermare il proprio controllo su tutta la città di Hassakè, per poi consolidare la propria supremazia su tutta la regione, a scapito delle forze armate governative. Ma un dettaglio aggiunto dall'arcivescovo lascia intendere quanto la situazione sul campo sia confusa e discorde rispetto a certi stereotipi sul conflitto siriano che circolano in Occidente: “A Shaddadi, che un tempo era una roccaforte dei jihadisti” riferisce mons. Hindo “adesso la situazione è in mano ai miliziani curdi. Ma sotto il loro comando si sono inquadrati anche molti degli abitanti locali che prima si erano arruolati con le milizie jihadiste di Daesh”. (G.V.)
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Re: Kurdistan e de torno

Messaggioda Berto » sab set 16, 2017 3:16 am

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Re: Kurdistan e de torno

Messaggioda Berto » sab set 16, 2017 3:17 am

Informazione Corretta

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 15/09/2017, a pag.15 con il titolo "Il Kurdistan iracheno sogna l’indipendenza. Il governo fa stampare monete e passaporti" il commento di Giordano Stabile.

http://www.informazionecorretta.com/mai ... 0&id=67618

Israele è l'unico Paese occidentale che si è schierato esplicitamente per la nascita di uno Stato curdo. Una scelta di grande importanza e valore, in attesa del referendum che dovrebbe sancire l'indipendenza del Kurdistan iracheno il 25 settembre prossimo.

Ecco l'articolo:

Si chiamerà «draw», in lingua curda semplicemente «denaro», la moneta del Kurdistan indipendente. Le zecche hanno già preparato le banconote, taglio massimo da 100 draws, un lato con le scritte in inglese e l’altro in curdo, e il ritratto stilizzato di Mustafa Barzani, padre dell’attuale presidente e l’uomo che ha posto la prima pietra dell’edificio che ora il figlio Massoud si appresta a completare.
La scelta è caduta sul «draw» dopo un lungo dibattito. Parte della leadership preferiva il nome Kuro, che significa invece «curdo» e ha un’assonanza, a Erbil vista positivamente, con l’euro. In ogni caso la nuova valuta sarà introdotta «in tempi stretti» dopo il referendum di lunedì 25 settembre. Il risultato è dato per scontato e la nascente nazione prepara tutti i simboli della sovranità: le bandiere curde sventolano su tutti gli edifici pubblici, sempre più spesso senza accanto quelle irachene, e sono già pronti anche i passaporti della «Repubblica del Kurdistan».

È questo il nome del nuovo Stato che campeggia in curdo e in inglese sulla copertina dei passaporti diplomatici, i primi a essere stati stampati e che «La Stampa» ha potuto visionare. Un aquila che regge con le punte delle ali la stella dei curdi è il simbolo impresso sui nuovi documenti. La «Repubblica del Kurdistan» è senza aggettivi. Il Kurdistan non è più né «iracheno», né «siriano», né altro. E soprattutto non è più «arabo», una lingua scomparsa dai simboli statuali e sostituita dall’inglese, idioma internazionale e riferimento all’Occidente, agli Stati Uniti, i grandi protettori dei curdi iracheni.

L’Occidente ora è tiepido con il passo di Barzani, gli ha consigliato di prendere tempo, aspettare la sconfitta definitiva dell’Isis e il risultato delle prossime elezioni legislative in Iraq. Ma i curdi hanno già visto sfuggire l’indipendenza nei tre anni trascorsi fra il Trattato di Sèvres, che gliela concedeva, e quello di Losanna, che nel 1923 ha seppellito il sogno del «popolo senza patria». Ma Barzani è nato su suolo curdo sotto sovranità curda, nell’effimera Repubblica di Mahabad, sopravvissuta un anno, dal 1946 al 1947, prima che lo Scià dell’Iran se la riprendesse.
Nella repubblica di Mahabad il padre di Barzani ha combattuto per tenere in vita il sogno di indipendenza, ora Massoud non vuole lasciarselo sfuggire di mano. Tutto è pronto. I seggi, le schede, le nuove banconote e i passaporti. Migliaia e migliaia di bandiere curde hanno sventolato ieri a Erbil, prossima capitale della nazione curda, quando la gente è scesa in massa per festeggiare, in anticipo. Per ora all’orizzonte non si vedono eserciti iracheni - il premier Haider al-Abadi ha detto che non interverrà con la forza anche se non accetta la secessione - né turchi, come nel 1923. Per ora.



“Io sto col Kurdistan” Israele schierata per l’indipendenza
Italia Israele Today
13 settembre 2017
Giordano Stabile

http://www.italiaisraeletoday.it/i-sto- ... dipendenza

A 12 giorni al referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno, Israele si schiera senza remore a fianco del «popolo senza patria» e chiede a Stati Uniti ed Europa di fare altrettanto. La nascente nazione curda è un alleato affidabile dell’Occidente ma finora Washington e Bruxelles sono state molto prudenti, e hanno suggerito al presidente Massoud Barzani di rinviare la consultazione, perché i tempi non «sono adatti».

L’unico governo nel campo occidentale che ha espresso una posizione così netta è lo Stato ebraico. Ieri il ministro della Giustizia Ayelet Shaked ha ribadito l’appoggio a Erbil e ha invitato America e Ue a sostenere il processo per l’indipendenza, perché i curdi «se lo meritano» ed è nell’interesse dell’Occidente.

La scommessa è che un Kurdistan democratico, laico e rispettoso delle minoranze, incuneato fra le potenze arabe, l’Iran e la Turchia, potrebbe essere un fattore di cambiamento positivo per tutto il Medio Oriente. Ma la strada si sta facendo più ripida. Ieri il Parlamento di Baghdad ha approvato una legge che definisce la consultazione «incostituzionale».

È un primo passo per stoppare la marcia dei curdi, anche se il governo centrale iracheno non ha i mezzi per impedire fisicamente il voto. I seggi apriranno e le urne si riempiranno di sì.

Non è questo che preoccupa i leader curdi a Erbil. Ci sono altre nubi: la battaglia politica potrebbe diventare militare attorno a Kirkuk, la provincia conquistata nel 2014 dai Peshmerga e unita al Kurdistan assieme ad alcuni distretti di quella di Ninive.

Kirkuk, il secondo centro petrolifero dell’Iraq, è la vera cassaforte del Kurdistan, la base economica per rendere la nuova nazione autosufficiente. Dopo il voto del Parlamento, disertato dai deputati curdi, i Peshmerga hanno rafforzato le difese a Sud della città. In zona si stanno ammassando le truppe regolari e i miliziani sciiti delle Hashd al-Shaabi, per lanciare un’offensiva contro un distretto confinante controllato ancora dall’Isis, quello di Hawija.

Anche i Peshmerga vogliono partecipare, come a Mosul, ma presto le due forze potrebbero scontrarsi fra loro. Il premier Haider al-Abadi ha detto chiaro e tondo che Kirkuk appartiene all’Iraq, Barzani è andato ieri in città a ribadire la legittimità del referendum. È pronto a difendere con le armi l’indipendenza, e il petrolio di Kirkuk, ma ha bisogno di appoggi internazionali. Possibilmente netti come quello di Israele.
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Re: Kurdistan e de torno

Messaggioda Berto » dom set 24, 2017 9:37 am

Tra i curdi che sognano l’indipendenza: “Basta trattare, è un nostro diritto”
francesca sforza
2017/09/23

http://www.lastampa.it/2017/09/23/ester ... agina.html

Lo stadio di Erbil è così pieno che la gente si è assiepata fin sulla terrazza del grande magazzino Carrefour alla sue spalle. Settanta, ottantamila persone sugli spalti e nel prato, che premono come forsennati sulle transenne. È come una finale di calcio e gli slogan sono quelli degli ultrà. «Gubukhé, Abadì», Al-Abadi vai a cagare. Il premier iracheno è il primo bersaglio, ma ce n’è anche per Trump che ora non vuole riconoscere il Kurdistan indipendente, anche se l’America, comunque, resta la grande amica. «Amrika, Amrika». E poi «Israil, Israil». Sventola una bandiera con la Stella di David: Israele è l’unico Stato ad aver riconosciuto l’indipendenza, prima ancora che venga proclamata.

Un boato sottolinea l’ingresso di Massoud Barzani. Il presidente. Ora più che mai. Sulla tribuna d’onore ci sono tutti i pezzi grossi del suo Kurdish democratic party. E poi leader religiosi, sceicchi delle tribù arabe, il vescovo caldeo Bashar Warda. Lo abbracciano. Il Kurdistan sarà multietnico e plurireligioso, è il messaggio. In maniche di camicia, il governatore di Erbil, «città capitale del Kurdistan», introduce il discorso più atteso, quello del «dado è tratto».

Barzani è nel tradizionale abito curdo con in testa il turbante a strisce bianche e rosse. L’inizio è esitante, il clamore della folla si calma, c’è tensione perché le voci si stanno accavallando e il timore è che il raiss curdo abbia ceduto alle pressioni internazionali, l’ultima quella del Consiglio di sicurezza dell’Onu che nella notte gli ha chiesto di posticipare il referendum sull’indipendenza. Mancano ancora tre giorni a lunedì, tutto può succedere. Ma poi il vecchio condottiero comincia a scaldarsi, la voce si fa più sicura, potente: «Che cosa possiamo ancora trattare? Baghdad ci ha sempre promesso tutto e non ci ha mai dato nulla. Ora non è più tempo di discussioni. L’indipendenza è un nostro diritto. Andiamo avanti».

Avanti, quello che la folla vuole sentirsi dire, avvolta nelle bandiere, con il Sole giallo del Kurdistan ancora più caldo alla luce del tramonto. La marcia per l’indipendenza è un fiume in piena. Non saranno gli ultimatum della Corte Suprema irachena a fermarla. E non saranno neanche le armi. «Abbiamo dato il sangue, nessuno può spezzare la nostra dignità e la nostra volontà. Abbiamo sconfitto lo Stato islamico, ci siamo sacrificati per il mondo». E poi l’affondo definitivo contro Baghdad: «Governi precedenti ci hanno gasato, i curdi sono passati attraverso il genocidio. E ora dicono “siamo fratelli”. Come possiamo essere ancora fratelli?».

Il riferimento è alla strage con il gas Sarin di Halabaja, 16 marzo 1988, cinquemila morti, e alla campagna Al-Anfal lanciata da Saddam Hussein, centomila vittime curde. Su quei morti si basa la legittimità, il diritto all’autodeterminazione. Dalle persecuzioni di Saddam è nato anche il sostegno internazionale che dalla Prima guerra del Golfo in poi, 1991, ha fatto del Kurdistan uno Stato indipendente di fatto ma non di nome. La costituzione del dopo Saddam ha puntato a un federalismo spinto. Ma ora non basta più, anche perché Baghdad non ha mai versato a Erbil il 17 per cento degli introiti petroliferi, come stabilito.

La Russia di Putin sembra essersi adeguata. Lo Zar ha detto di non voler «interferire» e avrebbe già strappato un contratto da 4 miliardi per la costruzione di un gasdotto. Washington, Bruxelles invece premono, ogni giorno, perché Barzani rinunci al passo formale verso l’indipendenza e accetti un federalismo ancora più spinto. Il leader curdo non può fermarsi, vede una finestra d’opportunità che può chiudersi in pochi anni, se non mesi. Gliela ha data il califfato. Il regno di Abu Bakr al-Baghdadi è quasi finito ma ha squassato le fondamenta dell’Iraq. L’esercito iracheno è ancora debole, esausto dopo la battaglia di Mosul. I Peshmerga curdi sono più forti che mai, con le armi ricevute per combattere la minaccia jihadista.

L’avventura del califfo ha consegnato al Kurdistan anche nuovi pezzi di territori e soprattutto Kirkuk che nel 2014 l’esercito iracheno ha abbandonato e i Peshmerga hanno salvato. Kirkuk è una città dalle mille etnie e religioni, curdi, turkmeni, arabi sunniti e sciiti, cristiani siriaci. I curdi non sono più maggioranza da decenni ma se la vogliono tenere con tutti i pozzi di petrolio. Potrebbe essere la scintilla per una nuova guerra civile. Ma non è il momento di pensarci. Finito il discorso la gente, ubriaca di entusiasmo, balla e canta sulle note della star nazionale Zakaria. Kurdistan, Kurdistan.
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Re: Kurdistan e de torno

Messaggioda Berto » gio set 28, 2017 8:46 pm

Referendum Kurdistan, l'indipendenza resta un'utopia ma il risultato lancia Barzani alle elezioni del Parlamento
di Laura Cappon | 27 settembre 2017

http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/09 ... li/3880398

L’annuncio è arrivato ieri sera mentre il Kurdistan iracheno si riprendeva a rilento dall’ebbrezza del voto per l’indipendenza. Il presidente del governo regionale curdo Masoud Barzani non ha voluto aspettare la comunicazione ufficiale della commissione elettorale. Ha tenuto un discorso in diretta televisiva e ha proclamato la vittoria del sì.

Anche se i dati non sono ancora definitivi – ma nel conteggio i voti favorevoli all’indipendenza stanno superando il 90% – la vittoria apre diverse questioni sul futuro delle relazioni del governo regionale con l’Iraq e i paesi vicini.

A Erbil, roccaforte politica del presidente Barzani, campeggiano ancora le bandiere curde per le strade e i cartelli che invitano le persone al voto sono presenti in ogni vetrina, persino nei negozi di paramenti sacri del quartiere cristiano. L’entusiasmo per il voto ancora non accenna a svanire e i clacson suonano senza tregua nelle auto addobbate con il tricolore curdo.

“Tutto si sistemerà anche se i governi vicini stanno facendo pressione su di noi. Altri paesi che hanno lottato per l’indipendenza come per esempio la Slovenia, ce l’hanno fatta”, dice Zyar che a Erbil fa l’impiegato statale. E’ sceso a festeggiare vestendo gli abiti curdi tradizionali e tiene per mano sua figlia, anche lei agghindata per l’occasione, con una tunica gialla e delle piccole bandiere curde stampate sulla stoffa. “Anche noi sistemeremo la nostra economia e metteremo a posto i rapporti con il governo iracheno e i Paesi confinanti. Sono sicuro che passo dopo passo ce la faremo e raggiungeremo il nostro obiettivo”.

Gli occhi ora sono tutti puntati sulle prossime mosse del presidente Barzani. “Non c’è nessun motivo valido per minacciare il Kurdistan”, ha detto ieri in TV. “E’ necessario iniziare un dialogo costruttivo con Baghdad e la comunità internazionale”.

Ma l’avvio di una road map con il governo centrale iracheno – così come immaginata dalla presidenza regionale curda – sembra un lontano miraggio. Così come sembra difficile l’obiettivo annunciato prima del referendum di usare questo voto consultivo per fare pressione su Baghdad sui pagamenti statali che nelle casse regionali curde non arrivano ormai da più di tre anni.

Il governo iracheno continua, infatti, a tacciare il referendum di incostituzionalità e minaccia Erbil. L’ultima richiesta è quella di cedere il controllo degli aeroporti gestiti dal governo regionale curdo mentre ieri mattina l’esercito iracheno e quello turco hanno compiuto un’esercitazione militare congiunta al confine tra la Turchia e la regione federale.

“I leader politici che hanno promosso l’indipendenza hanno rassicurato diverse volte che questa consultazione non è una dichiarazione di guerra”, dice Mahamad Zangana, editorialista di politica curda per Khabat, il giornale del Partito democratico del Kurdistan del presidente Barzani. “In qualsiasi momento se una delegazione irachena vuole venire a negoziare con il nostro governo nessuno li fermerà. Non penso, invece, sia sicuro che una delegazione vada da Erbil nella capitale. Nella storia di questo paese è già successo che un leader curdo venisse assassinato”.

Tra i punti che potrebbero compromettere un futuro accordo c’è Kirkuk, regione ricca di petrolio e i cui territori vengono rivendicati, per storia e tradizione, dal governo curdo. I peshmerga, l’esercito del governo curdo l’hanno liberata dallo Stato Islamico e lo scorso agosto il consiglio provinciale della città ha deciso di prendere parte al referendum. Baghdad ha risposto rimuovendo il governatore che però è rimasto nel suo ufficio e ha permesso le operazioni di voto incurante delle ire del premier iracheno.

Due giorni fa a Baghdad, il parlamento ha approvato l’invio di truppe nei territori contesi. La probabilità di scontri tra i due eserciti è sempre più alta a complicare la situazione ci sono anche le operazioni militari contro lo Stato Islamico che sono in corso ad Hawija, proprio nella provincia di Kirkuk .

Per Barzani, dunque c’è molto da fare, ma le beghe con Baghdad non sono l’unico problema. Perché a nord, in Turchia, il presidente Recep Tayyip Erdogan teme le rivendicazioni indipendentiste dei curdi turchi, la parte più numerosa di questo popolo senza stato diviso tra Iran, Iraq, Turchia e Siria.

Erdogan ha minacciato di chiudere il confine, lo spazio aereo e l’oleodotto di Ceyhan, canale fondamentale per il trasporto del petrolio curdo. Ha persino intimato a Israele di rivedere la sua posizione di sostegno all’indipendentismo curdo (uno stato indipendente sarebbe un’ottima zona cuscinetto tra diversi paesi “nemici” delle autorità israeliane).

“La Turchia non è pronta a interrompere le relazioni economiche e gli scambi commerciali con il nostro paese. Ci sono più di 1300 compagnie turche qui in Kurdistan. Ci sono poi scambi commerciali con Ankara per 90 miliardi di dollari e c’è un consolato turco molto attivo a Erbil. Il 4% dell’economia turca si deve al Kurdistan. Non credo che Ankara voglia rinunciare a tutto questo”.

Intanto anche l’Iran, che ha sempre avuto un rapporto complesso con la propria minoranza, ha rafforzato la presenza militare al confine e ha chiuso lo spazio aereo.

Ma il successo rappresenta per il presidente Barzani un’occasione politica senza precedenti anche per mettere in ombra i suoi avversari politici interni. L’Unione Patriottica Curda (UPK) e il Gorran – che hanno la loro roccaforte nel governatorato di Sulemanya – si sono, infatti, opposti alle sue spinte autoritarie e hanno storto il naso di fronte al rinnovo a interim della presidenza.

Ma i bagni di folla delle ultime settimane lanciano il Partito democratico del Kurdistan verso la vittoria alle elezioni parlamentari previste per il prossimo novembre. Barzani viene considerato ormai un “padre della patria”, anche se al momento la creazione di uno Stato indipendente resta un’utopia.
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Re: Kurdistan e de torno

Messaggioda Berto » gio set 28, 2017 8:48 pm

Dove c’è libertà c’è Israele La “creazione” dello Stato curdo

27 settembre 2017

http://www.italiaisraeletoday.it/dove-c ... tato-curdo

Il referendum che le autorità curde irachene hanno programmato per il 25 settembre ha suscitato ostilità e timore da parte di molti paesi della regione (e degli Stati Uniti).

Soltanto un paese ha apertamente espresso il proprio sostegno al referendum e al diritto dei curdi di determinare la creazione di uno stato curdo: Israele. Per lo stato ebraico non si tratta soltanto di politica (indebolire l’Iran, la Turchia e le forze dell’islam nella regione), si tratta essenzialmente della sfida di creare un’autentica coesistenza in questa regione.

E c’è in gioco una grande amicizia. Hanno combattuto molto assieme, israeliani e curdi, e sofferto assieme a causa del mondo araboislamico.

La bandiera israeliana sventola spesso a Erbil, nel Kurdistan iracheno. Il Mossad, il servizio segreto israeliano, ha addestrato i peshmerga curdi. E questi hanno aiutato gli ebrei iracheni quando Saddam Hussein li impiccava sulla pubblica piazza e li scacciò coi pogrom da Baghdad. Tutti a straparlare della “questione curda”, ma al momento della verità soltanto uno stato si è fatto avanti. Il piccolo stato ebraico.

E’ a Israele che guardano i curdi. Anche per trarre una lezione. I leader curdi sono consapevoli che la strada verso l’autodeterminazione e la creazione di uno stato non arabo in quella regione è e sarà sempre una grande sfida.

L’esempio più importante è proprio Israele. Settant’anni dopo la sua nascita nel 1948, ancora tutto il mondo a dargli addosso.
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Re: Kurdistan e de torno

Messaggioda Berto » mar ott 17, 2017 9:53 pm

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Re: Kurdistan e de torno

Messaggioda Berto » mar ott 17, 2017 9:54 pm

Gli alleati dimenticati di Israele
Rauf Baker

http://www.linformale.eu/i-curdi-sirian ... di-israele

In Siria, dove regna il caos e non ci sono moderati tra l’opposizione araba sunnita, può applicarsi il principio il “nemico del mio nemico” – soprattutto alla luce del crescente vantaggio di Assad, del peso sempre maggiore dell’Iran, della crescente influenza iraniana sui confini di Israele, dei forti legami tra la Turchia e Hamas e del recente avvicinamento a Teheran. Pertanto, è nell’interesse di Israele agire rapidamente per aiutare la nascente regione politica curda in Siria.

Le relazioni tra i curdi siriani e Israele sono cambiate radicalmente negli ultimi diciotto anni. Nel 1999, il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), il partito più influente tra i curdi tanto in Siria quanto in Turchia, accusò il Mossad di aver contribuito al rapimento del suo leader e fondatore, Abdullah Öcalan, e di averlo consegnato ad Ankara dopo anni di esilio in Siria. A quel tempo, il regime siriano aveva il controllo del Paese ed era impegnato negli Stati Uniti in delicati negoziati con Israele per la sovranità sulle alture del Golan.

Oggi, lo scenario è completamente diverso. La Siria dilaniata dalla guerra è divisa e i colloqui sul Golan appartengono al passato. Benjamin Netanyahu, che all’epoca della cattura di Öcalan era premier, è ritornato in carica ed è il più longevo premier della storia di Israele dopo David Ben Gurion. Il Pkk si è liberato della sua pelle marxista, trasformandosi in un partito pragmatico che governa un vasto territorio.

Dopo l’istituzione nel 2013 del “Rojava”, nel nord e nel nord-est della Siria, il Partito dell’unione democratica (Pyd nell’acronimo curdo) e la sua ala militare, le Unità di protezione popolare (Ypg), entrambi collegati al Pkk, hanno costruito un’entità univocamente efficiente in mezzo alla baraonda circostante. Il Contratto sociale del Rojava promette una nuova era, un’era avulsa dall’odio che domina il resto della Siria.

La città di Idlib, vicino al confine con la Turchia, è governata da fazioni ispirate all’ideologia di al-Qaeda e si sta trasformando in una versione siriana di Kandahar. Le aree controllate da Ankara nel nord della Siria, nell’ambito dell’operazione militare denominata “Scudo dell’Eufrate”, collasseranno se l’aiuto della Turchia dovesse venire meno, ma ad ogni modo le fazioni appoggiate da Ankara si combattono a vicenda. I territori sotto il controllo del regime subiscono le conseguenze di un deterioramento nella fornitura dei servizi essenziali, risentono della repressione in corso, del caos nella sicurezza e anche delle sporadiche battaglie; le aree controllate dall’Isis vanno incontro a una catastrofe.

L’antico proverbio “il nemico del mio nemico è mio amico” potrebbe essere utile a Israele in questo scenario fosco. Il regime siriano continua a sostenere la sua tradizionale posizione anti-Israele e in ogni caso dipende in larga misura dall’Iran, da Hezbollah e dalle altre milizie sciite, ciascuno dei quali vuole che Israele venga distrutto. Le fazioni arabe sunnite si orientano verso il fondamentalismo religioso quando le circostanze lo permettono, mentre gli alawiti, i drusi e i cristiani si stanno avvicinando all’asse russo-iraniano e operano alle dipendenze di Hezbollah.

I partiti curdi siriani contrari al Pyd sono apertamente collegati alla Turchia, che è governata da un presidente, Recep Tayyip Erdogan, ossessionato dal potere e la cui ideologia ritiene che lo Stato di Israele sia illegittimamente occupato dagli ebrei. Peraltro, Erdogan si è di recente avvicinato a Teheran – uno sviluppo preoccupante. Il capo di Stato maggiore delle forze armate iraniane, il generale Mohammed Baqeri, che è stato il primo ufficiale iraniano di quel rango a visitare la Turchia dal 1979, ha confermato la firma di memorandum d’intesa bilaterali in materia di sicurezza con Ankara.

L’Iran è ora più vicino che mai a garantirsi un corridoio terrestre che lo collegherà al Mar Mediterraneo attraverso l’Iraq, la Siria e il Libano. Questo corridoio amplierà la sua sfera d’influenza dallo Stretto di Hormuz a est al Mar Mediterraneo a ovest, in modo che Israele sia accerchiato via terra e via mare.

Israele farebbe bene a guardare con interesse il Rojava e non solo per far fronte alla penetrazione strategica dell’Iran. Il Rojava e il Kurdistan iracheno sono le uniche entità in Medio Oriente, a parte Israele, a godere di norme aperte, laiciste e liberali che concedono diritti considerevoli all’opposizione, alle donne e alle minoranze. Ciò è particolarmente importante in una regione dove prevalgono ideologie radicali e totalitarie.

Se Israele rafforzasse le sue relazioni con i curdi siriani, i benefici andrebbero ben oltre ai vantaggi strategici, politici e legati alla sicurezza. Le risorse naturali del Rojava, soprattutto il suo petrolio, possono contribuire all’approvvigionamento energetico di Israele ed essere investite in progetti come un oleodotto che attraverso la Giordania raggiunga Israele. Le truppe americane sono di stanza in molte basi militari in Rojava, il che potrebbe offrire un’alternativa alla base aerea di Incirlik in Turchia. I leader curdi ribadiscono costantemente che le forze americane rimarranno nelle loro aree per molto tempo, rivelando che questa non è “un’intesa fondata sulla necessità”, dettata da circostanze provvisorie.

Negli ultimi sei anni, Israele ha condotto una politica di non intervento in Siria, tranne quando la sicurezza dei suoi confini settentrionali è stata messa in pericolo. I suoi tentativi di colpire le alleanze con gruppi operanti sul territorio sono falliti. Teheran è chiaramente determinata a prendere piede sul confine settentrionale di Israele e costituire basi per Hezbollah, che rappresenterebbe una versione siriana della milizia libanese. Sembra del tutto evidente che i curdi sono il candidato più qualificato, se non l’unico, in Siria, sul cui sostegno Israele può contare.

Anche se Netanyahu sostiene gli sforzi attuati dal popolo curdo per ottenere un proprio Stato in Iraq, è ovvio che il governo israeliano dovrebbe ascoltare attentamente l’ex vice capo di Stato maggiore dell’Idf, il generale Yair Golan, che rifiuta di etichettare il Pkk come organizzazione terroristica. Israele dovrebbe agire rapidamente per sostenere l’emergente regione curda in Siria e distinguere tra le sue relazioni con Ankara da un lato e con i curdi dall’altro – un impegno che si rende necessario alla luce del costante appoggio offerto da Erdogan a Hamas.

È del tutto possibile che gli accordi da predisporre in merito al futuro della Siria non accoglieranno la richiesta di Israele di vietare lo stazionamento di truppe iraniane in Siria. Questi accordi potrebbero anche cementare la presenza di Hezbollah vicino al confine israelo-siriano, il che non escluderebbe la possibilità che si apra un altro fronte contro Israele oltre a quello in Libano.

Pertanto, qualsiasi influenza israeliana nel Rojava potrebbe essere preziosa. L’Iraq è governato dagli alleati di Teheran e la Turchia si sta ingraziando l’Iran. È sicuramente nell’interesse di Israele avere un amico fedele e affidabile nella nuova Siria. Se Gerusalemme spera, insieme al suo alleato a Washington, di impedire a Teheran di creare il suo lungo corridoio terrestre, dovrà rafforzare la sua influenza nella regione curda siriana, in modo che possa fungere da barriera per bloccare le ambizioni iraniane.

Rauf Baker è un giornalista e un ricercatore esperto di Europa e Medio Oriente.

Traduzione in italiano di Angelita La Spada. Qui l’originale in lingua inglese pubblicato sul Besa Center
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Re: Kurdistan e de torno

Messaggioda Berto » mer ott 18, 2017 6:29 am

Siria, i curdi annunciano la liberazione di Raqqa
monica perosino
17/10/2017

http://www.lastampa.it/2017/10/17/ester ... agina.html

Le Syrian democratic forces hanno annunciato la liberazione di Raqqa. Un portavoce dei guerriglieri curdi ha precisato che la città, ex capitale dello Stato islamico in Siria, è «completamente ripulita».

Questa mattina l’alleanza di combattenti curdi e arabi, sostenuta da Washington, ha ripreso il controllo dello stadio di calcio e dell’ospedale, le ultime due roccaforti dove si erano asserragliati i combattenti stranieri dell’Isis in maggioranza maghrebini e francesi di origine maghrebina.

A questo punto potrebbero rimanere gruppi isolati negli ultimi quartieri che hanno resistito per quattro mesi e mezzo all’offensiva dei curdi. Fra sabato e domenica circa trecento combattenti locali era stati evacuati con le loro famiglie e per i foreign fighters, oramai soli, è stata la fine.




Issata la bandiera dei peshmerga curdi
Luca Geronico
martedì 17 ottobre 2017

https://www.avvenire.it/mondo/pagine/raqqa1

Un combattente delle Forze democratiche siriana sventola la bandiera dei peshmerga curdi a Raqqa (Ansa)

Un combattente delle Forze democratiche siriana sventola la bandiera dei peshmerga curdi a Raqqa (Ansa)

Le Forze democratiche siriane (Fsd), alleanza di milizie curde e arabe appoggiate dagli Usa, hanno piantato la bandiera dell'Ypg all'interno dello stadio di Raqqa, una delle ultime aree che rimanevano in mano al Daesh nella sua ex roccaforte. L'Ypg curda è la più forte delle milizie rappresentate nelle Fsd (Sdf la sigla in inglese).

Subito dopo la liberazione della città le milizie curdo-arabe hanno avviato un'operazione di rastrellamento per neutralizzare eventuali combattenti jihadisti isolati e hanno avviato un'azione di sminamento. Gli ultimi combattimenti particolarmente accesi si sono verificati nella zona dell'ospedale e in quella dello stadio, mentre particolare valore simbolico ha avuto l'occupazione del crocevia di Al-Naim, conosciuto come la "Rotanda dell'inferno", dove i jihadisti eseguivano decapitazioni e crocifissioni.

Secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani (Osdh) la battaglia per Raqqa è costata 3.250 morti, dei quali 1.130 civili in poco più di 4 mesi di scontri. Tra le vittime dei combattimenti e dei bombardamenti ci sono stati anche 270 bambini.

Raqqa, strategica ex roccaforte dei jihadisti in Siria

Abitata da popolazione principalmente sunnita, Raqqa è situata nella valle dell'Eufrate ed è snodo delle principali rotte stradali. Si trova a 160 chilometri a est di Aleppo, non dista molto dal confine con la Turchia e meno di 200 chilometri dal confine iracheno. La costruzione di una diga nei pressi della città di Tabqa, più a ovest, ha permesso a Raqqa di svolgere un ruolo importante per l'economia agricola della zona.

Nel marzo del 2013 Raqqa diventa il primo capoluogo di provincia a cadere nelle mani dei combattenti che si oppongono al regime di Bashar Al Assad, due anni dopo la rivolta cominciata con la Primavera araba. Gli insorti catturano l'allora governatore e sequestrano il quartier generale dei servizi segreti militari, una delle peggiori prigioni della provincia.

All'inizio del 2014 l'organizzazione jihadista nota come Isis, Is, Stato islamico o Daesh, prende il pieno controllo della città, cacciando i combattenti delle altre fazioni. Nel giugno del 2015 i combattenti curdi riescono a strappare al Daesh le prime città nella provincia, tra cui Tal Abyad e Ayn Issa. Nel frattempo il Daesh moltiplica esecuzioni, rapimenti e abusi a Raqqa, portando avanti decapitazioni, esecuzioni di massa, stupri, rapimenti e una vera e propria pulizia etnica. La sharia, la legge islamica, viene imposta con atrocità filmate e pubblicate online. Raqqa è regolarmente bersaglio di attacchi aerei da parte del regime siriano, della Russia e della coalizione internazionale guidato dagli Stati Uniti.

Il 5 novembre 2016, le Forze democratiche siriane lanciano l'offensiva "collera dell'Eufrate" per cacciare il Daesh con il supporto aereo della coalizione internazionale e strategico sul terreno. Il 10 maggio 2017 i combattenti siriani prendono Tabqa e la sua diga, a 50 chilometri a ovest di Raqqa. Il 6 giugno entrano nell'ex capitale del Daesh. Il primo settembre l'alleanza prende il controllo della città vecchia. Il 20 settembre riesce a conquistare il novanta per cento del territorio. Oggi la battaglia finale.

La battaglia più dura. I dubbi sulla sorte dei jihadisti

Quella di ieri a Raqqa è stata la «battaglia più dura» contro i jihadisti del Daesh. Lo aveva annunciato Jihan Sheikh Ahmed, portavoce dell'operazione lanciata a inizio giugno dalle Forze democratiche siriane (Fsd) per riconquistare quella che era la capitale del Califfato islamico. Questa battaglia vuole «mettere fine alla presenza del Daesh, questo significa che la scelta è tra arrendersi o morire», ha aggiunto Jihan Sheikh Ahmed. Si stima fossero circa 300 i jihadisti stranieri ancora presenti nella città siriana dopo che domenica l'alleanza arabo-curda ha annunciato che l'offensiva era nella «fase finale».

Non è chiaro quanti fossero i miliziani trincerati in un'area pari al 10 per cento della città: secondo le Forze democratiche siriane 250-300 cercano di ripararsi tra le macerie del centro. O forse sono solo poche decine, secondo altre fonti, quelli che domenica hanno lasciato la città.

Ormai caduto il bastione del Califfato, la priorità, specialmente per i governi europei, è capire chi tra i jihadisti abbia potuto lasciare la città sabato notte insieme a circa 3.000 civili, in base a un accordo tra le Sdf e il Daesh mediato dai capi dei clan tribali locali. Un'intesa velatamente criticata dalla Coalizione internazionale a guida americana, che però non vi si è opposta, per ridurre al minimo possibile le vittime tra la popolazione civile, già decimata nei mesi scorsi dai combattimenti e i bombardamenti massicci della stessa Coalizione.

Le Sdf assicurano che i combattenti evacuati sono solo siriani, e quindi tra loro non vi sarebbero “foreign fighters”, come sosterrebbero in particolare i servizi segreti francesi convinti che tra i jihadisti fino a pochi giorni fa rifugiati a Raqqa ci sia uno degli organizzatori degli attentati di Parigi. Si tratterebbe di un cittadino francese o belga di origini nordafricane. «Gli elementi del Daesh che sono ancora presenti stanno resistendo», ha dichiarato il portavoce delle Sfd, precisando che le aree dove si sono ritirati «sono zone fortificate, dove si trovano tanti campi minati».

Missile di Damasco contro aerei israeliani

Dopo che un missile lanciato ieri mattina dalla Difesa aerea siriana contro aerei israeliani, Gerusalemme ieri ha risposto, colpendo una batteria aerea nei pressi di Damasco. Lo ha dichiarato il portavoce militare israeliano. Poco prima - secondo la Difesa israeliana - un missile del tipo SA5 era stato lanciato contro aerei da ricognizione israeliani che non sono stati colpiti. Il portavoce militare ha detto che Israele ritiene responsabile «il regime siriano per ogni colpo che parte dal suo territorio. Consideriamo questo incidente come una chiara provocazione che non consentiamo». Secondo i media Israele ha informato i russi dell'attacco dopo il lancio del razzo da parte dell'antiaerea siriana.



Urge un monumento (oltre a uno stato) per i curdi.

https://www.facebook.com/giulio.meotti/ ... 7339407464

Dobbiamo intitolare loro delle strade, i nostri poeti (ormai ce ne sono pochi) devono comporre versi in loro onore e i nostri politici devono far loro visita portandogli solidarietà e contratti. I curdi e solo i curdi (con l'aiuto dell'America) hanno appena liberato quel cesso a cielo aperto di Raqqa, la città dove l'Isis impiccava e crocifiggeva e lapidava e pianificava massacri di europei. E prima sempre i curdi hanno aperto le loro città (come Erbil) ai cristiani, sfollati dai fondamentalisti islamici. Solo fra i curdi trovi volontari occidentali andati a combattere non per il Califfo, ma contro di lui. L'unico posto in Medio Oriente dove oggi, a parte Israele ovviamente, un ebreo potrebbe sfoggiare una kippah senza essere sbranato è il Kurdistan iracheno. Se era per Mister Obama e Monsieur Hollande, quello che l'Isis è una "squadra di serie B" e "bombarderemo Raqqa" dopo i 90 morti del Bataclan, a quest'ora il Califfato anziché perdere Raqqa stava a Ratisbona. Grazie, amici curdi!
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Re: Kurdistan e de torno

Messaggioda Berto » mer nov 01, 2017 10:26 pm

Informazione Corretta - La prova del Kurdistan
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli

http://www.informazionecorretta.com/mai ... U.facebook

Cari amici

per una volta sono d’accordo con Bernard-Henri Lévy, ma anche con Adriano Sofri: quel che sta accadendo in Kurdistan è una vergogna. E’ un disastro morale: l’Occidente sta tradendo per la terza volta un popolo cui aveva promesso l’indipendenza un secolo fa, salvo poi lasciarlo in mano all’esercito turco che lo represse nonostante la sua complicità (negli ultimi anni confessata e pubblicamente deplorata dai suoi dirigenti) nel genocidio degli armeni. Poi fu Bush senior a incoraggiare la rivolta dei curdi contro Assad durante la prima guerra del golfo, salvo non alzare un dito quando Saddam li sterminò coi gas chimici (a proposito, lo sapevate che il macellaio iracheno è ancora una star nel mondo palestinista, dove gli hanno nei giorni scorsi dedicato un monumento? https://www.memri.org/reports/palestini ... n-qalqilya). E ora gli americani li hanno usati come fanteria contro l’Isis, ma lasciano che siano invasi da tre lati (Iran, Iraq, Turchia) e allegramente massacrati. Israele è il solo paese davvero solidale, si è molto speso sul piano diplomatico (https://www.reuters.com/article/us-mide ... SKBN1CP181, https://www.timesofisrael.com/netanyahu ... ort-kurds/), ma certamente non è in grado di intervenire militarmente in maniera efficace su un territorio lontano più di 1000 chilometri, occupati tutti da potenze ostili. Solo gli Usa avrebbero potuto dare appoggio al Kurdistan e hanno scelto di non farlo.

Un disastro morale, dunque. Ma anche un disastro strategico, perché l’America ostenta di essere neutrale e dunque in realtà è complice di un attacco che due nemici (l’Iran e l’Iraq, che in realtà è una marionetta degli ayatollah) e un quasi nemico come la Turchia fanno di un alleato, della sola popolazione che appare interessata alla democrazia in quel mondo. E’ una dimostrazione di impotenza e di rifiuto di difendere gli alleati che costerà moltissimo all’America, in termini di prestigio e di credibilità. Come ha scritto Caroline Glick, un grande risultato per l’Iran (http://www.jewishworldreview.com/1017/glick101917.php3).

È verosimile che la scelta sia stata fatta su pressione delle gerarchie del Pentagono e del Dipartimento di Stato, che da molti anni sono influenzati da temi “progressisti” e in particolare sono ancora dominate da personale cresciuto negli anni di Obama. Ma è stato Trump a scegliere in questo ambiente e non fuori e contro di esso come aveva annunciato, il suo ministro degli esteri Rex Tillerson, il suo ministro della difesa James Mattis, il suo consigliere per la sicurezza nazionale Herbert Raymond McMaster: gli ultimi due ex generali, il primo ex manager Exxon. Le prime scelte di Trump erano state diverse, più capaci di rovesciare la disastrosa politica obamiana. Ma poi il presidente sotto attacco continuo dei media e del Congresso (dei repubblicani e non solo dei democratici), ha scelto di arroccarsi dando spazio a figure che rappresentano la continuità. E oggi la continuità in Medio Oriente significa la prosecuzione del disastro, gli spazi aperti per la Russia e l’Iran, vecchi alleati importantissimi come Egitto e Arabia che si rivolgono alla Russia per tutelare la loro sicurezza. E la tragedia dei curdi.

Qualcosa del genere del resto sta avvenendo anche in Europa, dove le élites obamiane (e bergogliane e merkeliane) cercano di contrapporsi alla incerta leadership americana, contando di rovesciarla prima o poi e gli stati che sono contrari come Trump alla politica della snazionalizzazione per via di immigrazione e della distruzione degli stati nazionali ad opera dell’Unione Europea, appoggiati con molte buone parole dall’amministrazione americana non si sentono garantiti e paradossalmente cercano l’amicizia della Russia, pur essendo state vittime del suo imperialismo fino a trent’anni fa. Così l’Ungheria e la Repubblica Ceca, anche se non la Polonia, per una tradizionale diffidenza dello strapotente vicino russo.

In questa situazione c’è poco da fare, se non sperare che Trump non si rassegni a farsi manipolare dai suoi nemici. Per Israele però si ribadisce una lezione essenziale: non è possibile delegare la propria sicurezza a nessuno. Potrebbe succedere, speriamo di no, ma non è improbabile che succeda che lo stato ebraico sia attaccato dalle stesse forze che stanno oggi reprimendo i curdi: l’Iran e i suoi satelliti, con la copertura russa e il benevolo accordo turco. E’ probabile in questo caso che gli stessi responsabili dell’inerzia americana di oggi (i vertici del complesso politico-mediatico-diplomatico-militare) spingeranno per tenere un atteggiamento analogo. Probabilmente non con la stessa compattezza, perché nel Congresso e nelle Forze armate (non al Dipartimento di Stato o nei media che contano) vi sono dei sinceri amici di Israele e Trump stesso è certamente più sensibile.

Ma l’atteggiamento americano è tutt’altro che certo, anche con questo presidente amico. E certo le forze internazionali schierate ai confini con Libano e Siria non si frapporranno. Per carità di patria, non parliamo dell’Europa. Israele dunque deve fare da sé, non può contare sulla “comunità internazionale” o sui suoi alleati. Come accadde nel ‘48, nel ‘56, nel ‘67, nel ‘73, quando gli appoggi esterni furono pochi o nulli. Per capire le mosse di Netanyahu, la ricerca di alleanze non tradizionali, il contatto frequente con la Russia, l’attenta misura di dissuasione e non intervento in Siria, l’investimento tecnologico sulle Forze Armate bisogna capire che Israele sa che potrebbe essere solo ad affrontare un attacco complesso, con missili da Hezbollah, Hamas e Iran, attacchi di terra da Libano, Siria e Gaza, un’ondata terroristica in Giudea e Samaria, la “neutralità” di Russia, America, Europa. Questo è lo scenario da incubo per i pianificatori israeliani, per cui il paese si prepara e flette i muscoli, proprio perché vuole evitarlo. Si vis pacem, para bellum, cosa che purtroppo i curdi non hanno fatto.
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