Islam come maomettismo o nazi maomettismo è il male assoluto
Amis: "Sono anti-islamista". Ecco il coraggio della paura
Massimiliano Parente - Gio, 25/04/2019
http://www.ilgiornale.it/news/spettacol ... 84402.html
"Non è irrazionale temere chi ti vuole uccidere", scrive l'autore. Fra amore e odio per l'America e per i critici
Immaginate se chiedessero a uno scrittore italiano se è contrario all'islamismo, subito farebbe no no con la testolina, per carità. Uno come Martin Amis invece non ha nessun problema a dirlo: «Sono un islamismo-fobo, nel senso di anti-islamista, perché il termine fobia indica una paura irrazionale, e non c'è niente di irrazionale nell'avere paura di gente che dichiara di volerti uccidere».
Il bello degli americani (sebbene Amis sia inglese, ma vive negli Stati Uniti da molti anni), è che esistono intellettuali non catalogabili, come da noi, nelle categorie di destra e sinistra. E non prevedibili. Non essendovi dubbio che Amis sia decisamente di sinistra. Ma non della nostra sinistra ammuffita e perbenista.
Se già amate i suoi romanzi, potete farvi un'idea del suo pensiero nella raccolta di saggi e interventi scritti nell'arco di un trentennio appena uscita per Einaudi, intitolata L'attrito del tempo. Dentro c'è di tutto e di più, aneddoti personali, riflessioni letterarie, incontri, reportage, pubblicati sulle più importanti riviste degli Stati Uniti. Dove, come afferma Amis, gli scrittori contano ancora qualcosa, in quanto si tratta di «una società di immigrati, sterminata, senza una forma ben precisa, nella quale gli scrittori da sempre occupano una posizione indiscussa perché tutti fin dall'inizio hanno intuito che avrebbero avuto un ruolo importante nella costruzione della proteiforme immensità del paese».
Magnifici i suoi articoli su Nabokov, un grande scrittore che oggi in epoca di #metoo rischia di essere messo al bando, basti pensare al suo capolavoro Lolita. Nabokov «si spinge fino ai limiti estremi dell'universo morale» e senza mai tentare una spiegazione, una giustificazione. Che è quello che dovrebbe fare uno scrittore. D'altra parte Humbert bramava «un mondo dove più nulla avrebbe avuto importanza e tutto sarebbe stato permesso», e in Ada o ardore l'amante del sessantenne Van ha addirittura dieci anni. «Bisogna spingersi fino alle frange estreme della letteratura - Lewis Carroll, William Burroughs, il marchese De Sade - per trovare un'attenzione altrettanto morbosa per attività che giustamente consideriamo sempre e comunque imperdonabili».
Comunque anche l'America ha le sue pecche nei riconoscimenti tardivi. Basti pensare a uno dei capolavori di tutti i tempi, Moby Dick di Herman Melville: comparve, e scomparve, nel 1851, e già all'età di quarant'anni l'autore era dimenticato e non più pubblicato, ridotto a lavorare in un ufficio della dogana di New York, e «il revival melvilliano è cominciato esattamente cento anni dopo la sua nascita». I classici, insomma, critici e lettori se li sono spesso trovati sotto gli occhi senza accorgersene se non decenni o talvolta secoli dopo.
Martin Amis infilza in una lunga invettiva Donald Trump e i suoi elettori, «perché ogni tanto gli americani sentono il bisogno di elevare al rango di eroe uno zotico qualsiasi» (aggiungerei non solo gli americani), elogia lady Diana, «portatrice di una bellezza che faceva apparire brutti i Windsor» e incontra estasiato John Travolta, nel momento in cui tutti se lo erano dimenticato, quando fu riscoperto da Quentin Tarantino, che per Pulp Fiction mise un aut aut ai produttori: «O con Travolta o niente».
Ma non solo letteratura e star del cinema, Amis non disdegna di dedicarsi al porno, vedendosi con varie pornostar e con il regista John Stagliano, in un reportage il cui titolo dice tutto, La fica è una presa per il culo, riferendosi alla prevalenza del genere anal. Con tanto di statistiche per tutti i moralisti, da far cascare i capelli a piccole autrici predicatrici femministe nostrane come Michela Murgia o Elena Stancanelli, perché «il porno rappresenta una fetta di mercato più ampia di quella della musica rock e molto più ampia di quella di Hollywood». Tanto per farci un'idea, nel 1975 il valore di mercato totale della pornografia hardcore solo negli Stati Uniti era tra i cinque e gli otto milioni di dollari, oggi supera gli otto miliardi di dollari all'anno. «Qualunque cosa sia la pornografia, qualunque cosa faccia, può non piacere, ma non possiamo cancellarla. Parafrasando Falstaff: chi mette al bando la pornografia, mette al bando il mondo intero».
E poi si parla di Burgess, di Updike, di Kubrick, ma non poteva mancare un capitolo dedicato a un altro grande intellettuale britannico naturalizzato statunitense, Christopher Hitchens, scritto quando Hitchens era ancora in vita. Anche lui inclassificabile, di sinistra e feroce avversario di ogni religione ma attaccato dai democratici perché favorevole alla guerra in Iraq contro Saddam e contro ogni dittatore islamico. Ricordando la sua totale indipendenza (in Italia uno come Hitchens sarebbe stato messo al bando da qualsiasi giornale), e quando qualcuno gli diceva che non aveva capito un suo pensiero gli rispondeva: «La cosa non mi sorprende affatto». Citando molte frasi di «The Hitch» diventate celebri, tra cui quella sul matrimonio gay, che «è una questione di socializzazione dell'omosessualità, e non di omosessualizzazione della società. Il che dimostra quanto tra i gay sia diffuso un atteggiamento conservatore, anziché estremista». Oppure un pensiero che toglierebbe a medici come Roberto Burioni il gravoso compito di combattere con documenti e studi ogni panzana dei no-vax: «Se qualcosa si può affermare senza prove, si può anche confutare senza prove».
Infine Amis torna a ragionare di letteratura, ma anche qui mettendo in guardia i benpensanti, (le signore mie del nostro Alberto Arbasino) perché «il principio fondamentale della letteratura è il decoro, che è l'esatto contrario della definizione che ne dà il dizionario: comportamento in linea con il buon gusto e la decenza, cioè la sottomissione a un consenso pecoresco».
Orrore, terrore, avversione e odio per il nazismo maomettano o sana e naturale islamofobia
viewtopic.php?f=188&t=2523
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 1751910232
La paura è una emozione universale sana e naturale come lo è il terrore per il male reale e la sua rappresentazione irreale o immaginaria.
Ed è un diritto e un dovere umano avversare e odiare il male che genera paura e terrore.
E tra il male vi è il nazismo razzista e totalitario che può essere hitleriano, maomettano, staliniano, ecc..
Islamofobia è la paura e l'odio per l'orrore ed il terrore del nazismo islamico o Islam.
L'odio e la paura per il nazismo maomettano o Islam non è il frutto di un pregiudizio assurdo, immotivato, illogico, razzista ma la logica conseguenza dell'esperienza storica e odierna e di quanto detto e fatto da Maometto e prescritto nel Corano che è il testo fondante del nazismo mussulmano.
L'islamofobia quindi non è una malsana fobia irrazionale ma è una paura dell'Islam, una sana, naturale e più che motivata e giustificata paura e avversione per l'orrore ed il terrore islamico o maomettano o mussulmano.
"Terrorismo, i cannibali islamici protetti dalla sinistra". La sfida di Vittorio Feltri: "Perché li chiamo figli di..."
23 Aprile 2019
di Vittorio Feltri
https://www.liberoquotidiano.it/news/pe ... sista.html
La notizia dei morti ammazzati in Sri Lanka è risaputa: circa trecento vittime. Le televisioni l' hanno lanciata e rilanciata, ma con garbo. Come se fosse un fatto ordinario, tipo tamponamento sulla Salerno-Reggio Calabria. Niente di eccezionale. Pochi (o nessun giornalista) hanno detto fuori dai denti che gli assassini sono musulmani esaltati, kamikaze, terroristi spietati persino contro se stessi, visto che si annientano goduti allo scopo di sterminare cristiani e occidentali.
Il motivo che induce la mia categoria a essere prudente nell'accusare i maomettani di stragismo è drammaticamente semplice. Il pensiero unico progressista è che i figli di Allah spesso non sono figli di puttana, bensì bravi ragazzi fedeli di una religione nobile che hanno varie ragioni per odiare noi che non adoriamo il loro Dio. Siamo intimiditi dagli islamici e li rispettiamo al punto di non imputare loro crimini orrendi. E la sinistra in particolare, non più dotata di voti sufficienti per governare, però ancora padrona di molte leve di potere, cerca di proteggere gli immigrati dal Medioriente nella speranza di rabbonirli e farseli amici. Il fine è evidente, traspare dalla maniera in cui gli ultrà rossi agiscono. Non hanno neanche il coraggio di ammettere che il monopolio del terrorismo ce l'hanno i cannibali dell'islam.
E se tu cronista racconti le cose come stanno e affermi che la cultura di certa gente è in contrasto con la nostra e sarebbe bene osteggiarla, vieni punito. È vietato dall'Ordine dei giornalisti descriverla in forma corretta, ossia proclamare che faremmo meglio a prenderne le distanze. Non c'è verso di poter essere aderenti alla realtà, guai a fare un titolo che definisca bastardi gli attentatori. Non sei obbligato a lodarli, ma costretto a non deplorarli. Chi non si attiene a queste regole paradossali si becca la sanzione e deve stare attento se non vuole poi essere radiato.
Insomma i carnefici che in Sri Lanka hanno massacrato una moltitudine di persone sono degli illustri sconosciuti non meritevoli di essere insultati. Quando verrà fuori, e ciò sta avvenendo, che sono islamici saremo indotti, in omaggio alla deontologia del cavolo, a giustificarli. Saremo pregati di usare, dandogli addosso, un linguaggio ossequioso perché - tutto sommato - chi uccide centinaia di uomini, donne e bambini, in fondo non ha torto. Così è anche se vi fa schifo, noi italiani siamo convinti che leccando i piedi ai musulmani avremo il vantaggio di essere soppressi per ultimi. Oriana Fallaci aveva intuito tutto, noi siamo persuasi che irrorando saliva su chi ci perseguita ce la caveremo, almeno per un po'. Illusione.
"La paura negata dell’islam. Perché l’occidente non ha il coraggio (psichico) di chiamare il nemico col suo nome"
di Rocco Quaglia, "Il Foglio", 30 aprile 2019.
https://www.facebook.com/walter.marrocc ... 3130890376
“È come vivere ai piedi di un vulcano e non capire che si prepara a scoppiare” (Boualem Sansal, scrittore musulmano)
Quando la verità non può più essere detta la si dice per allusione o negandola. L’occidente ha paura dell’islam ma non può ammetterlo, le ragioni possono essere tante, sicuramente tutte ben razionalizzate e politicamente corrette, o forse c’è una ragione soltanto, sconosciuta e irrazionale. Secondo l’intellettuale Sansal (1), il terrore islamico sarebbe ormai troppo radicato, e noi saremmo paralizzati dalla paura; ce ne staremmo buoni e tranquilli in attesa che tutto finisca come per incanto. Non si può escludere che alcuni abbiano raggiunto lo stato di aponia, affermando che l’islam non sia una minaccia; tuttavia l’aggressività generalmente mostrata nella difesa dell’islam contro i cosiddetti islamofobi, tradirebbe in costoro la presenza di una paura negata.
Inutile sarebbe ricordare quanto sia cambiata la nostra vita dopo l’Undici settembre: è sufficiente andare in aeroporto o in una stazione di treni per rendersene conto, anche se continuiamo a dire: “La mia vita non cambierà”, o “Tutto sarà come prima”. Dopo il panico scoppiato in piazza san Carlo a Torino (3 giugno 2017) in seguito a un improvviso rumore, non possiamo più consolarci fingendo di non temere il terrorismo islamico. C’è dunque un conflitto dentro di noi, due forze in opposizione tra loro: c’è un vissuto di paura non riconosciuto che spinge per manifestarsi, e c’è una contro carica di energia che cerca di respingerlo nei sotterranei della psiche.
Come stiamo risolvendo questo conflitto, e quali disagi stiamo vivendo a livello psichico? Negando la paura, poiché socialmente rigettata, viene a mancare il vero oggetto della paura stessa. In altre parole, in assenza di una fonte della paura la nostra psiche è costretta ad attivare una serie di meccanismi di difesa contro la paura stessa, che diventa l’unico nostro nemico. In genere, il primo meccanismo attivato per arginare l’angoscia è la rimozione, che tuttavia, nel nostro caso, poiché è alimentata da un reale nemico esterno, non può avere pieno successo. La mente quando non può rimuovere, cioè espellere dalla coscienza, ricorre alla repressione, investendo molte risorse di energia psichica.
La paura di cui si parla qui resta così appena sotto la superficie della “pelle”, e per questo noi sentiamo il bisogno, dopo ogni attacco terroristico islamico, di marciare insieme per le strade gridando forte, come è avvenuto a Barcellona, “No tinc por!”, “Non ho paura!”. In tali occasioni, non si nomina la fonte della paura, non si indica nessun nemico; si esecra l’atto e si tenta di ridurre tutto all’azione di uno squilibrato, o di un cane sciolto senza collare né museruola. Per chi ha subìto l’offesa è importante riunirsi, sentirsi per un momento insieme, sia per evacuare la rabbia generata dalla paura, sia per non sperimentare la solitudine e lo smarrimento, vale a dire “il terrore senza nome”.
Oltre la negazione, ecco il diniego. A far apparire minaccioso l’islam non sarebbe la semina dei morti per le strade, ma i nostri pregiudizi
Quel che colpisce nelle interviste alle persone sopravvissute, è l’impiego del soggetto “Io” e non “Noi”. Indizio – questo – che denuncia un fragile senso di appartenenza a una comunità, e l’assenza di riferimento a una dimensione di valori umani, sociali, etici condivisi. Il massimo dell’espressione della propria reazione è: “Non ho paura e per dimostrarlo continuo a vivere la mia vita di individuo come se nulla fosse accaduto”. Le folle che si riversano per la strada a rivendicare il loro diritto a starsene in pace in realtà non formano cortei di popoli ma costituiscono una massa di individui accumunati dalla sola paura.
Di fronte a fatti per noi fino a venti anni fa affatto inconcepibili, l’occidente soffre di un disturbo da stress post traumatico. L’invincibile e moderno Occidente non può ammetterlo, perciò grida una paura negata, mascherata, repressa, negletta. Tuttavia, una paura negata non svanisce nel nulla, ma continua a lavorare in profondità distruggendo nell’individuo il suo sentimento di identità e di appartenenza, ossia il significato stesso del suo esser-ci. Più si fa finta che tutto sia come prima, è più si avverte un senso di irrealtà e di precarietà, unito a un senso di paralizzante impotenza. La paura è reale e noi possiamo “valutarla” in proporzione alla forza con cui la neghiamo, o la ignoriamo “distraendoci”.
L’insistenza con cui si nega il pericolo islamico è, infatti, un’inconsapevole difesa. Di solito i negazionisti sono persone che parlano dei terribili fatti di cronaca in modo distaccato; senza una reale partecipazione emotiva. La loro dimensione affettiva è come isolata dal resto dei processi psichici: si tratta di un meccanismo di difesa noto come isolamento dell’affetto. La mente si difende dagli stimoli che non riesce a elaborare, eliminando la parte affettiva dalla coscienza.
La negazione, già più volte menzionata, rappresenta uno dei meccanismi di difesa maggiormente utilizzati. Oltre a negazioni esplicite del tipo “L’Islam non è una minaccia”, esistono forme negazioniste che tendono a ridimensionare sia i fatti di cronaca, riducendoli a “singoli e isolati episodi” ma ingigantiti da una stampa prevenuta, sia il numero degli aspiranti jihadisti, che sarebbe una trascurabile minoranza. In compenso esisterebbero, come scrive un bravo storico, molti “onesti e buoni musulmani desiderosi di vivere da virtuosi nostri concittadini”. Queste rassicurazioni potrebbero attenuare le paure se cessassero le minacce di matrice islamica. Tuttavia il ripetersi delle stragi risveglia, ogni volta, paure appena assopite, costringendo il nostro “Io” a ricorrere a più drastiche misure difensive che, pur variando da individuo a individuo, si rivelano con sempre maggior insistenza sui giornali e nei dibattiti televisivi.
Accanto alla negazione ecco così il diniego; questo meccanismo, alquanto primitivo, nega la realtà stessa di quel che si percepisce. A far apparire minaccioso l’islam, pertanto, non sarebbe la semina dei morti per le strade, ma sarebbero i nostri pregiudizi e la nostra ignoranza dell’islam, oppure sarebbero i “manovratori del terrore”, che coltiverebbero artificialmente un clima di allarme per fini non ben definiti, ma sicuramente politici.
Un altro meccanismo di difesa è la formazione reattiva. Questo meccanismo consiste nell’adozione di atteggiamenti e di comportamenti contrari al contenuto di cui non si vuole prendere consapevolezza (nel nostro caso la paura), evitando di sperimentare l’angoscia della propria invalidità. L’individuo sente così non avversione ma simpatia verso l’Islam, e un “sincero” senso di amicizia verso i musulmani. Può diventare un amante della cultura islamica e un paladino delle loro richieste. A informare che un tale comportamento sia più il prodotto di una formazione reattiva e meno il frutto di una personale formazione culturale è l’esagerazione delle attestazioni di amicizia manifestate, in assenza di ogni capacità critica.
Tuttavia, né il diniego, né la formazione reattiva sono sufficienti a tenere a bada l’inconscia paura del terrorismo islamico, in conseguenza del rinnovarsi sia delle minacce sia delle stragi sempre più imprevedibili e clamorose. Quando poi ci si rende conto che con il mondo islamico il dialogo non è possibile; che il far finta che tutto continui come prima non funziona; che l’integrazione con gli “infedeli” è dall’islam considerata una forma di apostasia; che il buonismo non serve a “bonificare” gli islamici; che le concessioni fatte in nome del rispetto delle culture si rivela un’inutile espediente; e che persino le rinunce alle proprie tradizioni e alle proprie festività in ossequio alla sensibilità dei musulmani si rivelano del tutto inefficaci a trasmettere le nostre buone disposizioni, allora si rende necessario mobilitare nuove energie psichiche e far ricorso a meccanismi di difesa ancora più primitivi e pericolosi per la nostra salute mentale.
Uno di questi meccanismi è la seduzione. Ci si rivolge ai musulmani chiamandoli “nostri fratelli”, mettendo in atto un comportamento di benevola arrendevolezza, separando il terrorismo dall’Islam, e decantando quest’ultimo come portatore di nuove ricchezze morali e spirituali. Tuttavia la seduzione è un segno di grande debolezza che rafforza l’altro nelle sue convinzioni di onnipotenza e nelle sue azioni di forza. Sedurre vuol dire compiacere l’altro, fino a mostrargli un atteggiamento di sottomissione. Tuttavia, la seduzione incita inconsapevolmente l’altro al disprezzo e alla denigrazione. Non c’è mai stato né rispetto né stima per chi ha mostrato paura.
Un aspetto della seduzione è la giustificazione dell’altro e, persino, dei suoi crimini. Si giustifica l’islam dicendo: “Anche noi abbiamo fatto crimini simili”, “Anche noi cattolici siamo violenti”. In un caso Qualcuno è giunto a equiparare la “violenza domestica” dei cattolici alla “violenza islamica” dei terroristi. Il messaggio inviato è: “Noi non siamo migliori di loro”. L’occidente non più cristiano presenta un vuoto che non può restare a lungo tale. Le banche sono diventate le sue nuove chiese, le società si sono trasformate in grandi centri commerciali dove tutto si vende e tutto può essere comprato, compresi i corpi e le anime. L’occidente è ormai una realtà senza convinzione, ha perduto la Ragione, cioè il Logos della sua esistenza. Non ha più uno scopo per stare al mondo che vada oltre il mangiare e il bere. Di fronte a un islam, carico di energie e desideroso di portare la ummah a tutti gli uomini, l’ateo mondo occidentale è incredulo, disorientato e smarrito di fronte a una crudeltà che va oltre ogni limite e ogni misura concepibile. L’occidente è impotente, e cede sempre più terreno, ricorrendo a ideali di antica fattura cristiana per salvare quel che resta del rispetto e la dignità di sé.
C’è un conflitto dentro di noi: un vissuto di paura non riconosciuto che spinge per manifestarsi, e una contro carica di energia
A questo punto rimangono poche altre difese da mettere in campo. Noi in qualche modo abbiamo incarnato i fantasmi contro cui lottano i terroristi islamici, e, come si è già detto, non potendo oggettivare la nostra paura non possiamo liberarcene. L’islam non si può sconfiggere, le sue armi non sono convenzionali, il suo esercito è ovunque, ed è animato da un furore divino e da una passione di morte contro cui la “dea ragione” non può nulla. Soprattutto è tardi e sembra saperlo bene il Regno Unito che “discrimina i cristiani perseguitati a favore dei rifugiati musulmani” (2). Vi è qualcosa di intollerabile e di incomprensibile in tanta spontanea soggezione.
Comunque, riprendendo il discorso, le ultime ed estreme difese che possiamo mettere in campo per negare la verità della nostra paura sono l’idealizzazione e l’identificazione all’aggressore. La prima, l’idealizzazione, innalza così l’altro fino alla perfezione. Quando l’angoscia diventa insopportabile, c’è un solo modo per sottrarsi alla paura, trasformare la fonte della paura da malvagia a buona, e se è buona non è da temere. Segue un lavoro di intellettualizzazione, grazie al quale si riesce a scagionare e a legittimare, con ragionamenti ideologici, comportamenti fino a poco tempo prima condannati. L’aggressore diventa così vittima, il terrorista diventa un martire della libertà; l’islam diventa la religione della pace e della fratellanza universale. Non hanno forse i cristiani distrutto il mondo della Roma classica? Si chiede uno storico in un suo libro.
Implicitamente si comunica che non dobbiamo impedire che un nuovo cambiamento avvenga. Nei cambiamenti – si inizia a dire – ci sono sempre cose positive e nell’Islam di cose positive ce ne sarebbero molte. Diversi programmi televisivi hanno già magnificato la raffinata civiltà islamica contro un mondo barbaro e rozzo quale sarebbe stato il nostro nel Medioevo. Con il ricorso a questo meccanismo si assiste allo sgretolamento della nostra realtà interna, che è culturale, sociale, religiosa. Ormai siamo pronti, pur di ricuperare la perduta serenità, ad abbracciare con “fiducioso abbandono” l’islam e la sharia. Un tale passo è possibile con l’adozione dell’ultima difesa, l’identificazione all’aggressore, meccanismo più noto con il nome della “sindrome di Stoccolma”.
Per spegnere, una volta per tutte, la sorgente della paura in noi, alla psiche non resta che convincersi di essere lei stessa quella sorgente. Il male non è l’atro ma sarebbe in ciò che crediamo, pensiamo e siamo. Se il bambino si auto-convince di essere lui il lupo, non egli deve temere il lupo, ma gli altri devono temere lui. Se dunque io sposo la causa del terrore e mi identifico al terrorista islamico più nessun terrorista può farmi paura, poiché io, al pari di lui, divento “signore del terrore”. Già i neoconvertiti di ex cattolici ed ex atei all’islam sono oggi una realtà non trascurabile. Già assistiamo a parroci che invitano gli imam musulmani nelle chiese cattoliche a spiegare chi è Gesù per loro. Quando avverrà la conversione di massa – poiché avverrà – tutta la paura fino ad allora compressa esploderà, riversandosi su chi nel frattempo non si sarà convertito.
Questi due ultimi meccanismi di difesa possono essere attivati in milioni di individui anche da una sola persona, ma con un ascendente mondiale, parlo del Papa. La persona del papa è stata ormai privata della libertà di fare citazioni storiche a Ratisbona, l’auspicio è che non chieda a Casablanca perdono per le crociate. Si può fare qualcosa? A livello individuale sì: ognuno cominci a dire a sé stesso: “Io ho paura”. Forse un giorno sapremo dire insieme “Tenemos por”, paura per le future generazioni, che non potranno più cambiare religione, non potranno più amare chi vogliono, non potranno più ammirare la Cappella Sistina né la Pietà di Michelangelo”.