I devastanti effetti globali della rinuncia a denunciare il maleIl trattamento riservato a Israele dimostra da anni una discesa nel relativismo amorale
Di Isi Leibler
lunedì 25 luglio 2016
http://www.israele.net/i-devastanti-eff ... re-il-maleUna generazione fa la parola “male” aveva un significato. Non c’erano cuori teneri – certamente non ce n’erano fra gli ebrei – che minimizzavano il più possibile la malvagità dei nazisti. Il male era il male.
Oggi, con il relativismo morale imperante, il mondo ha di fatto abbandonato il concetto di male, sostituendolo con una “sofisticata” correttezza politica nella quale gli aggressori e le vittime sono spesso considerati eticamente equivalenti. Così, ad esempio, chi denuncia il terrorismo islamico viene accusato di islamofobia.
Naturalmente c’è uno “shock” di fronte alle stragi e alle decapitazioni ad opera di fondamentalisti islamisti, ma ci viene detto che è fuorviante descrivere questi comportamenti come “malvagi” perché questo distoglie l’attenzione dalla vera causa, che naturalmente sta nello sfruttamento coloniale, nell’imperialismo occidentale eccetera. E più e più volte sentiamo ripetere il mantra che è la sofferenza economica e sociale quella che causa la disperazione e fornisce l’incentivo per il reclutamento jihadista. E poco importa se in realtà la maggior parte dei terroristi dell’ISIS che colpiscono nelle città occidentali, come già quelli di al-Qaeda di dieci-quindici anni fa, sono persone provenienti da famiglie della classe media e che hanno potuto studiare.
“Se un albero cade nella foresta e non c’è nessuno a sentirlo… c’è il rumore?” – “Un mistico pensatore buddista…” – “Se c’è una guerra di conquista islamica in tutto il mondo e nessuno che lo dice… esiste davvero?” – “Razzista islamofobo fascista!”
Non basta. I governi occidentali che si trovano oggi a fare i conti con attentati terroristici ad opera di sostenitori dell’ISIS “in sonno” cresciuti all’interno dei loro stessi paesi, seppelliscono la testa nella sabbia rifiutandosi di affrontare la realtà del nemico malvagio rappresentato dal fondamentalismo islamista incubato in quelle comunità musulmane i cui membri ordinari non hanno la volontà o il coraggio di smascherare i jihadisti in mezzo a loro.
Al cuore di tutto questo c’è il rifiuto di identificare e affrontare la minaccia del fondamentalismo islamista per quello che è: un male globale che mira a distruggere il patrimonio morale e civile ebraico-cristiano e la democrazia liberale, e sostituirli con la legge della sharia e il califfato.
Questo sfuggire all’utilizzo di concetti come bene e male è ben evidente nel trattamento riservato da anni a Israele che, in questo senso, è veramente – come il canarino nella miniera di carbone – un faro puntato sulla discesa globale nel relativismo amorale. Qualche esempio.
Israele è l’unica democrazia nella regione del Medio Oriente: una società basata sul diritto, sull’eguaglianza e su una libertà di espressione senza riserve. Nonostante vicini arabi ostili che perseguono la sua distruzione, garantisce piena uguaglianza politica a tutti i suoi cittadini, arabi ed ebrei allo stesso modo. Basta visitare un ospedale, un centro commerciale, una università o un parco pubblico per rendersi conto di quanto sia vergognoso usare termini come apartheid in riferimento a Israele. Si confronti questa società con l’Autorità Palestinese e il regime di Hamas, società criminali che violano i diritti umani più basilari e promuovono apertamente il terrorismo. I loro imam glorificano i cosiddetti shahid, i martiri, e le madri si vantano con orgoglio in tv dei loro figli martirizzati nel compiete attentati, esprimendo la speranza che altri figli ne seguano le orme. Autorità Palestinese e Hamas pagano consistenti pensioni alle famiglie dei terroristi rimasti uccisi mentre assassinavano ebrei o detenuti nelle carceri israeliane per lo stesso motivo. Scuole, piazze e squadre sportive vengono intitolate in loro onore. E ogni volta che viene ucciso un ebreo, scoppiano celebrazioni spontanee nelle strade palestinesi. Una vera cultura della morte. Eppure la comunità globale continua a mettere sullo stesso piano morale (quando va bene) la democrazia israeliana e la criminale società palestinese. Il male viene ignorato.
“Io credo che l’islam sia una religione di pace, e credo che gli aggressori ‘lupi solitari’ siano dei pazzi, e credo che l’ISIS, lo Stato Islamico, non sia islamico. Queste convinzioni non mi mettono al sicuro… ma mi rendono felice”.
Due primi ministri israeliani, Ehud Barak e Ehud Olmert, sono stati respinti da Yasser Arafat e dall’attuale presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) quando hanno offerto ai palestinesi il 97% dei territori che erano occupati dalla Giordania prima del ’67. Il primo ministro israeliano di destra Benjamin Netanyahu ha fatto concessioni più ampie di quelle che Yitzhak Rabin aveva mai pensato di fare, a partire dall’appoggio esplicito alla soluzione a due stati (condizionata a concrete garanzie di sicurezza e al riconoscimento palestinese di Israele come stato nazionale del popolo ebraico). Ma l’obiettivo palestinese rimane quello di sempre: porre fine alla sovranità ebraica attraverso un processo per fasi, esigendo concessioni senza alcuna reciprocità. Eppure la comunità globale accusa entrambe le parti allo stesso modo per la rottura dei negoziati, nella migliore delle ipotesi. Ma di solito addita solo Israele come unico responsabile. Di nuovo, si nega l’esistenza di un male equiparandolo a tutto il resto.
Oggi il Medio Oriente ricorda il Medioevo, con mezzo milione di civili innocenti massacrati e più di quattro milioni profughi costretti a lasciare le proprie case. Invece di occuparsi di queste atrocità, Washington si mette alla testa della demonizzazione di Israele per la costruzione di abitazioni in borgate ebraiche. Questa ossessione per gli “insediamenti” – che, a parte Gerusalemme, comprendono il 3% dei territori di Cisgiordania occupati dai giordani prima del ‘67 – è decisamente bizzarra. Nessuno sosterrebbe mai che un arabo israeliano non ha il diritto di costruire su una proprietà che ha acquistato perché questo impedisce la pace. Invece, gli ebrei che hanno regolarmente acquistato terreni al di là della cosiddetta Linea Verde vengono additati come il peggiore ostacolo alla pace, quando non la causa prima di ogni terrorismo. Non è grottesco che un israeliano che si costruisce una terrazza sulla sua casa in un quartiere di Gerusalemme possa innescare ritorsioni e sanzioni, mentre a pochi chilometri di distanza stragi e devastazioni continuano senza sosta?
Leader e mass-media occidentali fanno mostra di codardia quando si piegano agli islamisti lasciando intendere che atrocità del terrorismo, come accoltellare a morte una ragazza israeliana di 13 anni nel suo letto, sono una forma di “resistenza all’occupazione”. E’ spregevole che rappresentanti americani ed europei rimangano in silenzio quando il presidente dell’Autorità Palestinese riceve una standing ovation dopo aver ripetuto infami calunnie contro Israele e aver di nuovo negato qualsiasi legame tra ebrei e Gerusalemme. Quando i rappresentanti occidentali si astengono o addirittura votano a favore di risoluzioni Onu che demonizzano e delegittimano lo stato ebraico, si fanno complici attivi del male.
“In caso di emergenza, incolpare Israele”
Questo mettere sullo stesso piano morale il male e le sue vittime – un atteggiamento che è all’ordine del giorno quando si tratta di Israele – è uno dei fattori che sta portando al collasso globale della fiducia delle masse nei paesi democratici. Il rifiuto e l’incapacità di affrontare, persino di nominare il malvagio nemico rappresentato dal fondamentalismo islamista sta minando la stabilità politica globale e sta generando una rivolta della base contro l’establishment. Così crescono i partiti nazionalisti e xenofobi, mentre le persone vedono con orrore come le loro società non sono più capaci di chiamare il male con il suo nome. La speranza è che tali rivolgimenti portino a un risveglio delle coscienze e a leadership più responsabili e coraggiose, capaci di combattere il male senza ambiguità e senza reticenze.
In questo contesto Israele non è mai stato forte come oggi perché conosce i suoi nemici, le loro intenzioni e sa come difendersi. E c’è da sperare che venga finalmente riconosciuto come un alleato costruttivo e prezioso nella guerra globale contro il fondamentalismo islamista, smettendola di farne il capro espiatorio dei fallimenti della leadership globale attuale in fatto di lucidità e determinazione.
(Da: Jerusalem Post, Israel HaYom, 21.7.16)
Il terrorismo, il diritto alla vita e i falsi sacerdoti dei diritti umaniQuando la tutela dogmatica delle libertà fa premio sul diritto alla vita, una società deve correre ai ripari e in fretta
Di Gerald M. Steinberg
lunedì 25 luglio 2016
http://www.israele.net/il-terrorismo-il ... itti-umaniI diritti umani, che qualcuno ha definito “la religione laica del XXI secolo”, sono catastroficamente falliti. Il primo e più fondamentale diritto umano, infatti, è il diritto alla vita: il diritto di essere protetti dall’assassinio, indipendentemente dalla causa che viene proclamata per giustificare l’uccisione di persone innocenti, che sia in Europa, in America, in Israele, in Siria o da qualsiasi altra parte.
Giudicata in base a questa verità basilare, la religione dei diritti umani è stata un fallimento totale. Mentre le famiglie in lutto seppelliscono le loro vittime, i sacerdoti dei diritti umani – dirigenti di potenti organizzazioni mondiali come Amnesty International e Human Rights Watch, e funzionari dei corrispondenti organismi internazionali – si comportano da sofisti predicando una rigida liturgia molto lontana dalla realtà. Le istituzioni che dirigono, come ad esempio il Consiglio Onu dei diritti umani, sono veri e propri monumenti di ipocrisia che promuovono istigazione all’odio e ideologie di discriminazione.
I valori dei diritti umani e le relative istituzioni non fluttuano in un vuoto teorico: quando vengono presentati e commercializzati come se il terrorismo e l’assassinio di massa non esistessero, perdono ogni significato. Quando coloro che parlano a nome dei diritti umani insolentiscono e demonizzano ogni misura adottata dai governi e dalle forze di difesa per garantire la sicurezza (cioè la protezione della vita umana), allora nessuna misura è più ammissibile. E così vengono perse molte vite innocenti. Questa interpretazione integralista, dogmatica e distorta dei diritti umani ne ha demolito il fondamento morale.
Come altri valori morali universali, i diritti umani non sono semplici regole e divieti (reali o immaginari). Quei valori comportano anche degli obblighi vitali. Nel mondo degli stati-nazione il primo dovere di un governo è quello di proteggere i suoi cittadini, e quando i responsabili governativi falliscono questo compito, come si è tragicamente visto in Francia e in Belgio, perdono la loro legittimità. Nel mondo reale, senza sicurezza (cioè protezione della vita umana) non ci possono essere altri diritti umani.
In un’epoca di ideologie estremiste e di odio religioso, i principi cui aspirano le società ideali devono essere calibrati rispetto al requisito primario della sicurezza. La raccolta invasiva di informazioni di intelligence per identificare i terroristi stragisti, e la detenzione amministrativa di quelli più pericolosi prima che possano realizzare le loro stragi, diventano elementi vitali irrinunciabili, nonostante l’ingerenza sulle libertà civili di un quadro democratico “normale”. Governi e forze di sicurezza che, di fronte a minacce incombenti, non utilizzano posti blocco, profiling dei gruppi a rischio, arresti preventivi, incursioni nei covi sospetti e altri strumenti simili, sono destinati a fallire ripetutamente e tragicamente e migliaia di persone innocenti finiranno fatte a pezzi.
In effetti, queste sono proprio le misure per cui Israele viene condannato da decenni, e che hanno salvato innumerevoli vite. L’industria dei diritti umani, con i suoi poteri globali e i loro alleati locali israeliani e palestinesi, largamente finanziata dall’Unione Europea e da singoli governi (tra cui Francia e Belgio), ha sempre costantemente condannato tutte queste misure, chiudendo gli occhi rispetto al contesto in cui si inserivano caratterizzato da terrorismo di massa e indottrinamento all’odio. Con bilanci di decine di milioni di euro pagati dai contribuenti, questi falsi profeti e i loro professionali agenti di pubbliche relazioni hanno inventato una narrazione che usa il linguaggio del diritto internazionale allo scopo di demonizzare i dirigenti israeliani come “criminali di guerra” per il fatto che adempiono al loro dovere principale: garantire la sicurezza (cioè la vita) dei loro cittadini.
Anche se gran parte del danno è già fatta, si impone con urgenza una radicale riforma delle istituzioni internazionali allo scopo di rimetterle in sintonia con le esigenze del mondo reale. Sono necessarie nuove istituzioni, e gli attuali sacerdoti integralisti dei diritti umani dogmatici devono essere sostituiti e chiamati a rispondere del loro corso distruttivo.
Gli sforzi dolorosi e avveduti compiuti negli anni dai governi e dai tribunali israeliani per individuare le giuste priorità e il giusto equilibrio tra diritti contrastanti – il diritto alla sicurezza, cioè alla vita, e gli altri diritti umani – offrono un esempio e una guida preziosi. L’alternativa sono molti altri anni di terrorismo di massa, molte altre stragi e la fine di ogni possibilità di destreggiarsi tra vita e libertà.
(Da: Times of Israel, 15.7.16)
I tic e i cliché di un’opinione pubblica che non vuole guardare in faccia la realtàDove sono le manifestazioni di milioni di musulmani sconvolti e indignati per l’abuso della fede fatto dai loro correligionari?
Di Derek Saker
lunedì 25 luglio 2016
http://www.israele.net/i-tic-e-i-cliche ... -la-realtaLe azioni omicide in diversi paesi del mondo ad opera di individui islamici possono anche nascere da una combinazione di certe dinamiche familiari, disfunzioni personali e rivendicazioni politiche locali, ma ciò che prevale in queste azioni individuali è la convinzione condivisa dagli autori che esse, per quanto assassine, siano giustificate in nome dell’islam.
Noi in Israele siamo inorriditi, ma non sorpresi, di fronte al crescente numero, all’estero, di attacchi omicidi contro innocenti come quelli che noi subbiamo da fin troppo tempo. E mentre assistiamo alla duplicazione esatta di quelle atrocità al di fuori di Israele, constatiamo in modo sempre più acuto l’ipocrisia, l’ambiguità, soprattutto il pericolo che risulta dall’esplosione del terrorismo islamista, per quella che è, nel migliore dei casi, una lettura grossolanamente sbagliata di questo flagello del nostro tempo; e nel peggiore, una forma di condiscendenza, un chiudere gli occhi, quasi una condivisione che non può che perpetuare una realtà che nel futuro sarà sempre peggio.
Ipocrisia: un’auto deliberatamente lanciata contro innocenti è terrorismo. Come spesso accade, Israele è stato il primo a sperimentare la violenza di un nuovo strumento di assassinio indiscriminato: l’attacco con mezzi stradali. Ebrei e Israele sono sempre stati le cavie. Il mondo ha ignorato o addirittura tollerato. E la maggior parte dei principali mass-media si rifiutava anche solo di definire “terrorismo” quegli attacchi. Al massimo, gli innocenti uccisi e mutilati in quegli attacchi erano “vittime di una spirale di violenza” o “di un incidente stradale poco chiaro”. Anche questa volta, si è dovuti arrivare all’attacco terroristico a Nizza per chiamare le cose con il loro nome.
Riluttanza a citare il nome del responsabile dell’attentato a Nizza. Sebbene il nome del terrorista Mohamed Lahouaiej Bouhlel sia stato diffuso subito dopo l’attentato, molti mass-media hanno evitato a lungo di nominarlo negli articoli e nei notiziari. Perché? Perché il suo nome avrebbe confermato la dolorosa realtà che tanti cercano disperatamente di negare. No, non si trattava di un Solomon o di un Christian, ma tragicamente, ancora una volta, di un Mohamed. Letteralmente. E, cosa più importante, di un ennesimo individuo di fede musulmana che ha commesso una strage sentendosi giustificato dalla sua religione, come tanti altri prima di lui a Boston, a Parigi, a Dacca, a Gerusalemme, a Tel Aviv, a Bruxelles.
La prima vittima dell’attentato è stata una musulmana. Gli stessi mass-media non hanno avuto problemi, anzi hanno enfatizzato il più possibile il fatto che fosse una “musulmana” quella che sembra sia stata la prima persona investita e uccisa a Nizza. Perché? Per riproporre immediatamente la narrazione a loro cara secondo cui anche i musulmani sono vittime del terrorismo. E naturalmente è vero che lo sono. Dai jihadisti islamici dono stati uccisi più musulmani che membri di qualunque altro gruppo. Il punto è che questo non si traduce in una costante denuncia e in un coerente intervento, in tutto il mondo a maggioranza islamica, contro quella minoranza di correligionari – tutt’altro che marginale – che uccide la propria gente. Per dirla fuori dai denti, un conto è quando i musulmani ignorano o giustificano stragi e devastazioni in mezzo a loro; tutt’altro quando esportano stragi e devastazioni nei caffè e per le strade di Gerusalemme e Parigi. Il fatto che i musulmani subiscono stragi e devastazioni non attenua la responsabilità di quella “stragrande maggioranza di musulmani pacifici”, e soprattutto dei leader e dei chierici musulmani, di denunciare pubblicamente, protestare ed esigere la fine di questo cancro della loro fede. Su una popolazione di 1,2 miliardi di musulmani, dove sono le manifestazioni di almeno un milione di persone in marcia verso la Mecca per chiedere che i jihadisti vengano scomunicati dalla fede musulmana?
Il disperato desiderio di razionalizzare le stragi. Se solo… I principali mass-media cercano disperatamente di spiegare le azioni omicide come qualcosa che (almeno in parte) non ha nulla a che fare con la concezione che taluni hanno della propria fede, quanto piuttosto come il frutto di una giovinezza travagliata, di commistioni con la criminalità, di una vita ai margini della società. E se ciò non basta, spesso si seminano spunti di introspezione della serie: forse siamo noi in qualche modo colpevoli per le azioni di quell’individuo, se solo fossimo stati più sensibili alle sue esigenze, se solo fossimo stati più attenti a non stigmatizzare gli immigrati, tutta questa tragedia poteva essere evitata. Ancora peggio la mania, se tutto questo non basta, di cercare di razionalizzare quelle azioni semplicemente come quelle di un individuo squilibrato affetto da qualche turba mentale. Ancora una volta, come se i problemi nell’islam non avessero nulla a che fare con tutto questo. Al limite, l’appartenenza all’islam viene vista addirittura come una semplice coincidenza. Per gli individui che soffrono davvero di malattia mentale, e soprattutto quelli che riescono coraggiosamente a controllare la loro malattia, questi giudizi ridicoli sono una vera offesa, e dovrebbe esserlo per tutti noi. Un individuo con malattia mentale non è di default un jihadista patentato, uno che aspetta solo di farsi saltare in aria. Violenza e malattia mentale non sono la stessa cosa. Al contrario, la realtà è che per la maggior parte le persone con malattie mentali sono intrinsecamente non violente. Non hanno l’ossessione di far del male agli altri. Il più delle volte sono su un percorso lungo e solitario per aiutare se stesse. E quand’anche un terrorista fosse effettivamente affetto anche da qualche disturbo mentale, la sua mentalità folle e contorta che non solo approva ma addirittura incoraggia a uccidere, non nasce dal nulla ma da letture, insegnamenti, idealità avvalorate da altri, e inculcate nelle sue azioni.
Non una perversione dell’islam, ma una versione dell’islam. Subito dopo ogni attentato terroristico, sentiamo immancabilmente i governi occidentali dichiarare che questa azione terroristica “non ha nulla a che fare con l’islam”. Quando la cosa evidente agli occhi di qualunque persona razionale è che essa è motivata dall’islam. La realtà è che non si tratta tanto di una perversione dell’islam, si tratta piuttosto di una versione dell’islam. Una versione della fede all’interno di una religione, l’islam, che da decenni si batte per trovare il proprio posto nella modernità. E fallisce. Fallisce a livello individuale e fallisce a livello nazionale, un paese musulmano dopo l’altro. Un popolo e interi paesi bloccati nei tempi dell’oscurantismo. Non si tratta di “lupi solitari”, ma dei seguaci di un movimento teologico universale all’interno dell’islam che crede nel terrore come strumento perfettamente legittimo per perseguire il Califfato islamico mondiale.
Le minoranze che dettano la storia. Cerchiamo di essere chiari, a beneficio di coloro che si precipitano ad accusare di xenofobia e islamofobia. Nessuna persona razionale pensa che gran parte della popolazione islamica mondiale – 1,2 miliardi di individui – sia fatta di terroristi. Ovviamente. Eppure, dopo ogni attentato, sentiamo la lezione sulla “stragrande maggioranza dei musulmani…” eccetera. Tuttavia, la stima generalmente accettata è che gli islamisti (coloro che vogliono imporre la legge islamica a tutta la società) rappresentano il 15-20% del totale, il che significa circa 300 milioni di persone. Diciamo pure che la stima è molto esagerata e che solo l’1% degli islamici è definibile islamista. Si tratta pur sempre di un milione di persone. Per la devastazione dell’11 settembre sono bastate 19 persone; per l’attentato a Nizza una sola persona. La storia della civiltà è piena di casi in cui minoranze estremiste – individui o segmenti o gruppi di una popolazione – hanno dettato l’agenda di intere nazioni. Se non reagisce, la famosa “stragrande maggioranza” diventa del tutto irrilevante.
Chiamare le cose con il loro nome. Rispondendo alle critiche di chi lo accusava di non aver chiamato ” jihadismo islamico” il terrorismo, il presidente Barack Obama ha detto che “chiamare una minaccia con un nome diverso non la fa scomparire”. Al presidente sfugge, però, un punto molto importante. Nessuno sano di mente crede che chiamare il terrorismo per quello che è – jihadismo islamico – serva come una bacchetta magica a porre fine a questa piaga della nostra generazione. Ma quello che può fare – se lo si ripete più e più volte, con costanza e determinazione – è tenere accesi i riflettori sui leader religiosi e politici musulmani, e contribuire a garantire che non si perda per strada l’assillo di fare i conti con questo male all’interno della loro fede. Certo, questo può mettere a disagio “la maggioranza di musulmani pacifici”, ma forse è bene che si sentano a disagio. Dovrebbero sentirsi ben più che a disagio rispetto ai loro correligionari che uccidono in loro nome.
La religione che hanno tanto a cuore. Devono svegliarsi, prendere posizione, far sentire la loro voce e battersi nella guerra civile che lacera la loro fede; forzare sempre più il dibattito già tardivo ma indispensabile, l’esame di coscienza, le rigorose argomentazioni intellettuali che i musulmani stessi in tutto il mondo devono abbracciare in modo molto più combattivo; soprattutto attuare programmi, politiche e azioni concrete e coraggiose per contrastare con vigore la versione islamista dell’islam adottata da una consistente minoranza. Mentre loro si battono per cercare di allontanare il loro “islam che ama la pace” dagli islamisti assassini, noi dobbiamo costantemente spingere e spronare il mondo islamico ad un’azione di trasformazione. C’è da vincere una guerra civile necessaria, già iniziata da tempo. E si può fare solo chiamando le cose con il loro nome, e garantendo tutto il sostegno di cui siamo capaci, giacché alla fine il successo potrà venire solo dal loro interno.
Un mondo un po’ troppo relativo. Due individui ebrei, in Israele, uccidono un innocente ragazzo palestinese. Vi è totale e unanime condanna su tutto lo spettro politico e religioso ebraico, che immediatamente denuncia il delitto. Una nazione intera è in lutto, l’intero popolo ebraico – dentro e fuori Israele – prova un enorme senso di vergogna. Dai giornali israeliani al New York Times, scorrono pagine e pagine di editoriali e analisi che passano ai raggi X la società israeliana, che sviscerano ogni possibile ombra della mentalità del paese. Con toni fortemente critici e autocritici. Non si fa nessuno sconto. Un solo omicidio è già un omicidio di troppo. Poi c’è il mondo musulmano. Con decine di migliaia di morti trucidati in nome della fede. Esplosioni, decapitazioni e anche peggio. Quotidianamente. Dov’è lo scandalo? Dov’è la quotidiana indignazione? Dove sono gli editoriali critici, le analisi impietose, non sul New York Times ma sulla stampa musulmana? Dove sono le manifestazioni di milioni di persone sconvolte e indignate per l’abuso della religione perpetrato dai loro correligionari?
(Da: Times of Israel, 18.7.16)