Małexia e Endonexia a prevałensa xlamega

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Messaggioda Berto » mer nov 18, 2015 4:40 pm

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Małexia a prevałensa xlamega

Messaggioda Berto » mer nov 18, 2015 4:42 pm

Malesia, il termine “Allah” non può essere usato dai cristiani
E’ arrivata la sentenza definitiva dalla Corte più alta del Paese. Il settimanale cattolico The Herald non potrà utilizzare il termine di origine araba per riferirsi a Dio

http://www.lastampa.it/2014/06/24/ester ... agina.html

https://en.wikipedia.org/wiki/Roman_Cat ... n_Malaysia
https://de.wikipedia.org/wiki/R%C3%B6mi ... n_Malaysia

https://it.wikipedia.org/wiki/Chiesa_ca ... in_Malesia
I cattolici in Malesia rappresentano il 4% della popolazione, in un paese multiconfessionale a maggioranza musulmana.
La maggior parte dei cattolici vive nella parte orientale del Paese, sull'isola del Borneo (stati di Sabah e Sarawak). Nella parte peninsulare della Malesia, i cattolici sono presenti soprattutto negli agglomerati urbani di Penang e della capitale Kuala Lumpur.
In Malesia il Natale e la Pasqua sono feste pubbliche. Anche il Venerdì santo è riconosciuto come festivo in alcuni stati della federazione come Sabah e Sarawak.

Legislazione in materia religiosa
In Malaysia l'espressione della libertà religiosa trova delle limitazioni.
La legge federale non contempla la sharia ma sono in aumento i tribunali statali che la applicano nella risoluzione delle controversie.
Inoltre, gli stati del Kelantan e del Terengganu hanno approvato, rispettivamente nel 1993 e nel 2002, norme che rendono l'apostasia un reato punibile con la pena di morte.
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Re: Małexia a prevałensa xlamega

Messaggioda Berto » gio nov 19, 2015 12:09 am

Gli attacchi di Parigi danno ragione alla tesi dello «scontro di civiltà»?
di Gideon Rachman18 novembre 2015
http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/20 ... d=ACEtSxbB

Da quando negli ultimi anni della sua vita Samuel Huntington predisse che la politica internazionale sarebbe stata dominata dallo “scontro di civiltà”, la sua teoria, delineata per la prima volta nel 1993, ha trovato alcuni dei suoi più appassionati seguaci tra i militanti islamici. I terroristi che hanno inscenato un assassinio di massa a Parigi sono parte di un movimento che considera l'Islam e l'Occidente come bloccati in un inevitabile combattimento mortale.

Al contrario, i leader politici occidentali hanno quasi sempre respinto l'analisi di Huntington. Persino l'ex presidente degli Stati Uniti George W.Bush aveva dichiarato: «Non c'è nessuno scontro di civiltà». E la vita di tutti i giorni nelle nazioni occidentali multiculturali, nella maggior parte delle quali vivono ampie minoranze di musulmani, offre una confutazione quotidiana all'idea che fedi e culture differenti non possano vivere e lavorare insieme.

All'indomani degli attacchi di Parigi, questa idea centrale esige di essere riaffermata. Tuttavia, la necessaria riproposizione dei valori liberali non dovrebbe impedire un riconoscimento equilibrato di alcune tendenze globali molto negative. Il fatto è che l'ala intransigente dell'islamismo è in aumento – persino in alcuni Paesi come Turchia, Malesia e Bangladesh, precedentemente considerati come modelli di società musulmane moderate. Allo stesso tempo, l'espressione di pregiudizi anti-musulmani si sta facendo strada tra le correnti politiche dominanti negli Stati Uniti, in Europa e in India.
Presi assieme, questi sviluppi stanno restringendo lo spazio d'azione per quelli che invece vogliono contrastare la narrazione di uno “scontro di civiltà”.

Attacchi terroristici come quelli di Parigi suscitano tensioni tra musulmani e non-musulmani – esattamente come si ripromettono di provocare. Tuttavia, ci sono all'opera anche tendenze di lungo termine che spianano la strada alla radicalizzazione del confronto. Tra queste, una delle più pericolose è il modo con il quale gli Stati del Golfo, in particolare l'Arabia Saudita, hanno usato i ricavi del petrolio per diffondere le versioni più intolleranti dell'Islam nel resto del mondo musulmano.

Le conseguenze sono ora percepibili nel Sud-Est asiatico, nel subcontinente indiano, in Africa e in Europa.

La Malesia è stata additata a lungo come esempio di una nazione multiculturale vincente e prospera, con una maggioranza musulmana Malay e una vasta minoranza etnica cinese.
La situazione, tuttavia, sta cambiando. Bilahari Kausikan, ex capo del ministero degli Esteri nella vicina Singapore, nota in Malesia “una significativa e continua contrazione degli spazi politici e sociali per i non musulmani”. E aggiunge: “Le influenze arabe esercitate dal Medio Oriente hanno eroso costantemente nel corso di diversi decenni la variante Malay dell'Islam, rimpiazzandola con un'interpretazione decisamente più austera ed esclusiva”. Lo scandalo per corruzione che sta facendo vacillare il Governo del primo ministro Najib Razak ha accresciuto le tensioni tra comunità, dal momento che il governo malese si è ripiegato sull'identità musulmana come leva per ottenere il consenso. Ancora recentemente, un vice ministro ha accusato l'opposizione di essere complice di una cospirazione ebraica globale contro la Malesia.
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Re: Małexia e Endonexia a prevałensa xlamega

Messaggioda Berto » lun apr 24, 2017 9:18 am

Anche la pacifica Indonesia fallisce un grande test sull’islam politico
Il governatore uscente di Giacarta, cristiano e cinese, perde contro il rivale musulmano. Tutta colpa di un versetto del Corano
di Massimo Morello
19 Aprile 2017 alle 20:34

http://www.ilfoglio.it/esteri/2017/04/1 ... ico-130883

Secondo i dati ufficiosi Anies Baswedan ha ottenuto il 58% nel ballottaggio per la carica di governatore di Giacarta (foto LaPresse)

«Non ce la prendiamo con loro perché sono cristiani. È perché sono cinesi». Così una gentile guida turistica dell’isola indonesiana di Lombok spiegava la recente ondata di violenza. Era il 1998, l’anno della caduta del presidente Suharto, al potere dal 1965. Il regime finiva com’era iniziato, quando Suharto aveva massacrato la popolazione sino-indonesiana accusandola di far fronte con i comunisti guidati da Mao.

Dei 245 milioni della popolazione indonesiana, l’88% è di etnia Malay e religione islamica, il che fa dell’Indonesia la più popolosa nazione musulmana. Il 9% di religione cristiana. Solo il 2% è di etnia cinese. Ma detiene una percentuale molto maggiore nei 900 miliardi di dollari dell’economia. Il che ne fa un comodo capro espiatorio per tutti i problemi nazionali.
È cinese ed è cristiano Basuki Tjahaja Purnama, 51 anni, più noto come Ahok (soprannome dell’etnia Hakka, originaria del sud della Cina) governatore di Giacarta, clamorosamente sconfitto al secondo turno delle elezioni per il rinnovo della carica che si sono svolte oggi. I risultati ufficiali saranno comunicati a inizio maggio, ma secondo i conteggi ufficiosi Ahok ha ottenuto il 42% dei voti, mentre il suo avversario Anies Baswedan è al 58%. Al primo turno, il 15 febbraio scorso, Ahok aveva il 43% delle preferenze, Baswedan il 39. Su di lui sono confluiti i voti degli altri candidati musulmani.

Si conclude così quella che il “Giacarta Post” ha definito la campagna elettorale “più sporca, radicalizzata e controversa” che l’Indonesia abbia mai visto. Un’elezione che secondo molti osservatori era un test per la democrazia indonesiana, un banco di prova per la sua tolleranza religiosa. «Credo che sarà una cartina di tornasole per l’Islam indonesiano: siamo tolleranti o intolleranti?» aveva dichiarato Tobias Basuki, ricercatore del Centre for Strategic and International Studies.
La sconfitta di Ahok, quindi, sembra segnare la sconfitta della tolleranza, dello stesso concetto che era alla base della democrazia indonesiana, espresso nel motto nazionale: “Bhinneka Tunggal Ika”, “Unità nella diversità”. Ma non è stata la sua “doppia minoranza”, di cinese e cristiano, a determinare la sconfitta di Ahok. Non in senso stretto. Sino all’ottobre scorso, infatti, i sondaggi lo davano per favorito con una maggioranza di quasi il 75%. La nuova classe media di Giacarta, dove si concentra il 70% del capitale nazionale e si produce il 17% del Pil, ne apprezzava lo stile decisionista, moderno, la trasparenza di governo, il contrasto alla burocrazia e gli sforzi per migliorare i trasporti pubblici di una megalopoli soffocata dal traffico.
La sconfitta di Ahok è stata provocata dall’aver osato citare il Corano pur essendo cristiano. In un comizio del settembre scorso, infatti, Ahok aveva dichiarato che alcuni cittadini non lo avrebbero votato perché condizionati da un versetto del Corano. Si riferiva al versetto 51 della al-Maʼida, la quinta sura del Corano. Che recita così: “O voi credenti, non prendete come alleati gli ebrei e i cristiani”. Secondo molte interpretazioni proibisce ai non musulmani di avere ruoli di comando in paesi islamici. La dichiarazione di Ahok, diffusa in un video su YouTube divenuto virale, gli è costata una denuncia per blasfemia. Se giudicato colpevole, potrebbe essere condannato a cinque anni di carcere. Il processo è stato rimandato a dopo le elezioni (riprenderà nei prossimi giorni), ma dall’ottobre scorso quell’accusa è stata il pretesto per manifestazioni di massa. Nello stesso mese il Concilio indonesiano degli Ulema, ha infatti emanato un editto dichiarando “haram”, proibito, per i musulmani votare un non musulmano. A quel punto, il cinese Ahok è stato presentato come la resurrezione del diabolico nemico dell’Islam che negli anni ’50 e ’60 era incarnato nei comunisti indonesiani, influenzati dai cinesi senza dio che combattevano contro i partiti nazionalisti musulmani. Le organizzazioni islamiche hanno colto l’occasione per accrescere il potere in una nazione in cui si stava affermando una democrazia laica. Secondo Tobias Basuki è stato un tentativo di “dirottare l’Islam indonesiano da parte dell’Islam radicale”. Il governo del presidente Joko “Jokowi” Widodo, è infatti sostenitore di una legge che promuove la libertà religiosa, caso unico nel mondo islamico. Lo stesso Jokowi era il maggior sostenitore di Ahok, suo vice quando era governatore di Giacarta, succedutogli quando è divenuto presidente, nel luglio del 2014.

Secondo molti analisti, del resto, le elezioni per il governatore di Giacarta sono considerate una sorta di prova generale per le presidenziali. Se il settarismo riesce a prevalere nella capitale, città cosmopolita che sembrava aver subito l’influenza della comunità dei bulé, gli stranieri che vi si sono stabiliti per lavoro, e dove ha preso vita la nouvelle vague culturale indonesiana, sembra molto probabile che gli integralisti islamici possano vincere le presidenziali del 2019.

Il prossimo avversario di Jokowi potrebbe essere proprio il neo governatore di Giacarta Anies Baswedan, che pare aver messo in ombra anche il suo grande padrino, l’ex generale Prabowo Subianto, sconfitto da Jokowi nel 2014. Baswedan, 47 anni, ex ministro dell’educazione nel governo Jokowi (poi rimosso nel rimpasto del 2016), accademico incluso nella lista di “Foreign Policy” dei 100 intellettuali più influenti al mondo, incarna la figura di un nuovo integralismo islamico che può attrarre anche le parti più colte del paese, quelle che si richiamano ai cosiddetti “valori asiatici” e cercano di coniugare tecnocrazia, rigore morale e tradizione in contrasto con oscure “influenze esterne” in cui s’identificano al tempo stesso democrazia, consumismo, omosessualità, corruzione dei costumi, globalizzazione. Non è un caso che gli studenti delle scuole musulmane indonesiane abbiano protestato contro la celebrazione del giorno di San Valentino o che Giacarta si stia proponendo come “zona economica halal”, dove ogni servizio - dai ristoranti, agli alberghi, ai negozi, alle banche - sia “halal”, conforme alle regole islamiche.
È in questo complesso scenario che si svolge la visita in Indonesia del vicepresidente americano Mike Pence, a Giacarta il 20 e 21 aprile. Potrebbe rivelarsi un importante sostegno per Jokowi, ma potrebbe anche accentuarne la debolezza. Un passo falso dell’amministrazione statunitense, inoltre, rischierebbe anche di accelerare la tendenza al conservatorismo islamico che si sta diffondendo in Indonesia come in Malaysia e che ha le sue manifestazioni estreme nella crescita del numero di foreign fighters
in Sudest asiatico: secondo le agenzie d’intelligence locali alla fine del 2015 erano tra i 1200 e i 1800. Per lo scrittore indonesiano Eka Kurniawan (il suo ultimo romanzo, “L’uomo tigre” è pubblicato in Italia da “Metropoli d’Asia”) è una manifestazione di “amok”, sindrome culturale del Sudest asiatico che prende nome da una parola malese che indica una follia rabbiosa, una furia violenta.
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Re: Małexia e Endonexia a prevałensa xlamega

Messaggioda Berto » dom gen 20, 2019 7:44 pm

La Malaysia vieta l'ingresso nel proprio territorio agli Israeliani
Gerry Freda - Gio, 17/01/2019

http://www.ilgiornale.it/news/mondo/mal ... 30089.html

Tra le prime “vittime” del provvedimento restrittivo varato da Kuala Lumpur ai danni dei cittadini israeliani vi saranno degli “atleti paralimpici”

Il governo della Malaysia ha in questi giorni interdetto l’ingresso nel Paese ai cittadini di Israele.

La nazione islamica è da sempre strenua sostenitrice dei diritti dei Palestinesi e non ha mai instaurato relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico.

Saifuddin Abdullah, ministro degli Esteri di Kuala Lumpur, ha recentemente annunciato che, da oggi in poi, il territorio del suo Paese “non accoglierà più Israeliani” e ha presentato tale divieto come una “ritorsione più che proporzionata” alle “reiterate umiliazioni subite dagli abitanti di Gaza e della Cisgiordania ad opera dell’esecutivo Netanyahu”. Secondo il capo della diplomazia malaysiana, le “brutalità” perpetrate dai militari dello Stato ebraico ai danni dei Palestinesi avrebbero ormai “superato ogni limite”.

Il ministro ha poi evidenziato un ulteriore motivo alla base del recente divieto: la decisione di alcune nazioni occidentali di riconoscere Gerusalemme come “capitale di Israele”. Ad avviso dell’esponente del governo di Kuala Lumpur, tale riconoscimento, effettuato, tra gli altri, da Usa, Brasile e Australia, costituirebbe una “criminale revisione della storia”. L’interdizione disposta ultimamente dalle autorità malaysiane sarebbe quindi anche una reazione a tale “brutale attentato alla verità storica”, promosso, a detta di Abdullah, da una “cricca revisionista capeggiata da Netanyahu”.

Tra le prime “vittime” del provvedimento restrittivo varato da Kuala Lumpur ai danni dei cittadini israeliani vi saranno degli “atleti paraolimpici”. La delegazione sportiva dello Stato ebraico, in virtù della ritorsione decisa dalla nazione islamica, non potrà infatti prendere parte ai mondiali di nuoto per disabili. La manifestazione si svolgerà il prossimo luglio proprio in Malesia.

La reazione di Gerusalemme non si è fatta attendere. Dichiarazioni di condanna nei riguardi del Paese asiatico sono state pronunciate da numerosi componenti dell’esecutivo Netanyahu. Ad esempio, Yisrael Katz, ministro dell’Intelligence, ha bollato il divieto disposto da Kuala Lumpur come una “vigliacca aggressione ai danni del popolo israeliano”, mentre Miri Regev, ministro della Cultura e dello Sport, ha tratto spunto dalla vicenda degli atleti paraolimpici per accusare le autorità malaysiane di “calpestare i diritti dei disabili in nome del fanatismo e dei pregiudizi politici”.
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