Endoe ke riva l'xlam el desfa i paexi co la goera e el teror

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Messaggioda Berto » mer mag 24, 2017 8:57 pm

L'Islam nel cuore dell'Inghilterra e della Francia
Denis MacEoin

https://it.gatestoneinstitute.org/10415 ... ra-francia

La città di Birmingham nelle Midlands occidentali, il cuore dell'Inghilterra, il luogo in cui è iniziata la Rivoluzione industriale, la seconda città più popolosa del Regno Unito e l'ottava d'Europa, oggi è la città più pericolosa della Gran Bretagna. Con una popolazione musulmana in forte crescita, cinque delle sue circoscrizioni elettorali presentano il più elevato livello di radicalizzazione e terrorismo del paese.

Nel febbraio scorso, la giornalista francese Rachida Samouri ha pubblicato un articolo nel quotidiano parigino Le Figaro in cui ha raccontato le sue esperienze durante una visita nella città inglese. Nell'articolo titolato "Birmingham à l'heure islamiste", la giornalista descrive la sua preoccupazione per la crescente separazione tra i valori normativi britannici e quelli di molte enclave islamiche. La Samouri menziona il quartiere di Small Heath, dove quasi il 95 per cento della popolazione è musulmano, le bambine indossano il velo, la maggior parte degli uomini ha la barba e le donne portano lo jilbab e il niqab per coprire corpi e volti. I banchi al mercato chiudono durante le ore di preghiera; i negozi espongono in vetrina capi di abbigliamento islamico e le librerie sono tutte religiose. Le donne da lei intervistate dichiarano che la Francia è una dittatura basata sul laicismo (laïcité), che a loro dire è "un pretesto per attaccare i musulmani". Dicono anche di approvare il Regno Unito perché permette loro di indossare il velo integrale.

Un'altra giovane donna, Yasmina, spiega che, sebbene lei possa frequentare i locali notturni, di giorno però è costretta a indossare il velo e l'abaya [la lunga tunica nera]. E poi parla degli estremisti:

"In Inghilterra, sono liberi di esprimersi. Non parlano che di divieti, impongono la loro visione rigida dell'Islam, ma d'altra parte non ascoltano nessuno, soprattutto quelli che non sono d'accordo con loro".

Riferendosi alle scuole statali, la Samouri tratteggia "una islamizzazione dell'istruzione che è impensabile nella nostra repubblica [francese] laica". Poi, intervista Ali, un 18enne di origine francese, il cui padre si è radicalizzato. Il giovane racconta così la sua esperienza di educazione islamica:

"In questa città, ci sono molte scuole private musulmane e madrasse. Fanno tutte finta di predicare la tolleranza, l'amore e la pace, ma non è vero. Dietro le loro mura ci costringono a ripetere i versetti del Corano, a proposito di odio e intolleranza".

Ali parla della ferrea disciplina che gli è stata imposta, dei maltrattamenti subiti, delle punizioni che gli sono state inflitte per essersi rifiutato di imparare a memoria il Corano senza comprendere una parola o per aver ammesso di avere una ragazza.

La Samouri osserva che per i giovani predicatori musulmani "la legge della Sharia rimane la sola salvezza dell'anima e l'unico codice di leggi al quale dobbiamo fare riferimento". La giornalista intervista alcuni membri di un "tribunale" della Sharia prima di parlare con Gina Khan, una ex musulmana che fa parte dell'organizzazione anti-Sharia One Law for All. Secondo la giornalista, Gina Khan – una femminista laica – considera i tribunali "un pretesto per tenere le donne sotto pressione e un mezzo per i fondamentalisti religiosi grazie al quale estendere la loro influenza nella comunità".

Mobin, un altro adolescente di origine francese spiega come suo padre preferisca Birmingham alla Francia perché "si può indossare il velo senza problemi e si possono trovare scuole dove le classi non sono miste". Secondo il giovane, "Birmingham è un po' come un paese musulmano. Siamo tra noi, non ci mescoliamo agli altri. È difficile".

La stessa Samouri rileva come sia inquietante questo contrasto tra la Francia e l'Inghilterra musulmana. E lo sintetizza così:

"Uno stato dentro lo stato o piuttosto un'islamizzazione rampante di una parte della società, qualcosa che la Francia è riuscita ad evitare per ora, anche se il suo modello di laicità comincia a essere messo alla prova".

Un altro commentatore francese, ripubblicando l'articolo della Samouri, scrive: "Birmingham è peggio di Molenbeek" – il quartiere di Bruxelles che secondo The Guardian "sta diventando noto come l'epicentro del jihadismo in Europa".

Il paragone con Molenbeek può sembrare un po' esagerato. Ciò che è incomprensibile è che i giornalisti francesi si concentrino su una città britannica quando, in realtà, la situazione in Francia – nonostante il suo laicismo – è in qualche modo molto più grave che nel Regno Unito. Articoli recenti hanno rilevato il crescente amore per l'Islam della Francia e la sempre maggiore debolezza di quest'ultima di fronte alla criminalità islamista. Questa debolezza è incorniciata da un desiderio politicamente corretto di insistere su una politica multiculturalista, a costo di fidarsi degli estremisti musulmani e delle organizzazioni fondamentaliste. Il risultato? Gli attentati jihadisti in Francia sono stati tra i peggiori della storia. Si calcola che il paese ha circa 751 no-go zones ("zones urbaines sensibles"), luoghi in cui la violenza estrema scoppia di tanto in tanto e dove la polizia, i vigili del fuoco e altre forze dell'ordine non osano addentrarsi per paura di provocare ulteriore violenza.

Molte autorità nazionali e gran parte dei media negano l'esistenza di queste enclave, ma come di recente ha spiegato l'esperto norvegese Fjordman:

Se dite che esistono alcune zone in cui anche la polizia ha paura di addentrarsi, dove le normali leggi laiche del paese si applicano con difficoltà, allora è indiscutibile che zone di questo tipo esistono ora in diversi paesi dell'Europa occidentale. La Francia è uno dei più colpiti: ha un'alta concentrazione di immigrati arabi e africani, tra cui milioni di musulmani.

Nel Regno Unito, non esistono zone del genere, certamente non a questo livello. In molte città, ci sono enclave musulmane in cui un non musulmano può non essere il benvenuto; luoghi che assomigliano al Pakistan o al Bangladesh più che all'Inghilterra. Ma nessuno di questi posti è una no-go zone nel senso francese, tedesco o svedese – luoghi in cui la polizia, le ambulanze e i vigili del fuoco vengono aggrediti se entrano e in cui l'unico modo di accedervi (per spegnere un incendio, ad esempio) è sotto scorta armata.

La Samouri apre l'articolo scrivendo:

"Nei quartieri popolari della seconda città dell'Inghilterra, lo stile di vita settario degli islamisti tende a imporsi e minaccia di far saltare una società vittima della sua utopia multiculturalista".

Ha visto qualcosa che è sfuggito ai giornalisti britannici?

Il paragone con Molenbeek può non sembrare del tutto esagerato. In un report di un migliaio di pagine dal titolo "Terrorismo islamista: Analisi dei reati e degli attacchi nel Regno Unito (1998-2015)", realizzato dalla stimata analista Hannah Stuart per la Henry Jackson Society, Birmingham è citata più di una volta come la principale fonte di terrorismo della Gran Bretagna.[1]

Una conclusione che emerge dal rapporto è che le condanne per terrorismo sono raddoppiate negli ultimi cinque anni. Peggio ancora, il numero degli autori di reati che non erano già noti alle autorità è aumentato considerevolmente. Il coinvolgimento delle donne nel terrorismo, sebbene in misura minore rispetto agli uomini, "è triplicato nello stesso periodo". In modo allarmante, "proporzionalmente, i reati implicanti atti violenti come decapitazioni o accoltellamenti (pianificati o meno) sono aumentati di undici volte passando dal 4 per cento al 44 per cento" (p.xi).

Soltanto il 10 per cento degli attacchi è stato commesso da "lupi solitari", quasi l'80 per cento era affiliato, ispirato o collegato a reti dell'estremismo – con il 25 per cento legato ad al-Muhajiroun. Come sottolineato nel report, questa organizzazione (che ha assunto nomi diversi) un tempo era difesa da alcuni funzionari di Whitehall – una chiara indicazione questa dell'ingenuità del governo.

Omar Bakri Muhammed, che ha fondato insieme ad Anjem Choudary l'organizzazione islamista britannica Al-Muhajiroun, nel 2013 ha ammesso in un'intervista televisiva che lui e Choudary hanno inviato jihadisti occidentali a combattere in molti paesi diversi. (Fonte dell'immagine: MEMRI video screenshot)

Una conclusione più importante è che esiste un chiaro nesso fra zone musulmane inaccessibili e terrorismo. Come sottolinea un articolo del Times sull'analisi della Henry Jackson Society, questo legame "è stato precedentemente negato da molti". Da un lato:

Quasi la metà di tutti i musulmani vive in quartieri dove i musulmani sono meno di un quinto della popolazione. Tuttavia, un numero sproporzionatamente basso di terroristi islamisti – il 38 per cento – proviene da tali quartieri. Nella città di Leicester, che ha una considerevole popolazione musulmana ben integrata, sono cresciuti soltanto due terroristi negli ultimi 19 anni.

Ma dall'altro lato:

Solo il 14 per cento dei musulmani britannici vive in quartieri dove i musulmani sono più del 60 per cento dei residenti. Tuttavia, il report rileva che il 24 per cento di tutti i terroristi islamisti proviene da tali quartieri. Birmingham, città con un'alta proporzione di musulmani che vivono isolati, è forse un esempio chiave del fenomeno.

Il rapporto continua asserendo:

In solo cinque – e tutte a Birmingham – delle 9.500 circoscrizioni del paese si contano 26 persone condannate per terrorismo, un decimo del totale nazionale. Queste circoscrizioni - Springfield, Sparkbrook, Hodge Hill, Washwood Heath e Bordesley Gree – annoverano zone piuttosto ampie dove la stragrande maggioranza della popolazione è musulmana.

A Birmingham, con 234mila musulmani residenti nelle sue 40 circoscrizioni, sono 39 le persone finora condannate per terrorismo. Questa cifra supera quella del totale degli arrestati per lo stesso reato nel West Yorkshire, Greater Manchester e Lancashire dove vivono circa 650mila musulmani, che sono quasi tre volte gli islamici residenti a Birmingham. Ci sono sacche di elevata segregazione nel nord dell'Inghilterra, ma sono molto più piccole di quelle di Birmingham.

Il maggior numero di persone condannate per terrorismo, 117, proviene da Londra, ma questa cifra è approssimativamente proporzionata al milione o poco più di musulmani residenti nella capitale.

L'autrice dello studio, Hannah Stuart, ha osservato che il suo lavoro ha sollevato "difficili interrogativi su come l'estremismo metta radici nelle comunità svantaggiate, molte delle quali hanno elevati livelli di segregazione. È necessario fare molto di più per sfidare l'estremismo e promuovere il pluralismo e l'integrazione in loco".

Molti osservatori dicono che Birmingham non ha superato questo test:

"È una situazione davvero strana", ha dichiarato Matt Bennett, consigliere dell'opposizione al Comune: "Si può avere questa comunità chiusa che è tagliata fuori dal resto della città in molti modi. La leadership del Comune non desidera in particolar modo interagire direttamente con le persone di origine asiatica – quello che le piace fare è conversare con qualcuno al quale poter 'offrire' il proprio sostegno".

Chiaramente, non stupisce affatto che la mancanza di integrazione sia la radice di un problema crescente. Questo è il tema centrale dell'importante rapporto che Madame Louise Casey ha presentato nel dicembre scorso al governo britannico. Commissionato dall'ex-premier David Cameron, "The Casey Review: A review into opportunity and integration" identifica alcune comunità musulmane (essenzialmente quelle costituite da immigrati pakistani e bengalesi e i loro figli) come le più resistenti all'integrazione in seno alla società britannica. Queste comunità fanno poco o nulla per incoraggiare i bambini a partecipare ad eventi, attività o momenti di formazione-non musulmani; molte delle loro donne non parlano una parola d'inglese e non svolgono alcun ruolo nell'ambito della società più ampia; e sono in parecchi a dire di preferire la legge islamica della Sharia alla legge britannica.

La Casey fa esplicitamente riferimento al famigerato piano del "Cavallo di Troia" scoperto nel 2014, un complotto di estremisti islamici per introdurre le dottrine e le pratiche salafite fondamentaliste in una serie di scuole di Birmingham – non solo scuole private di fede islamica, ma anche ordinarie scuole pubbliche (pp. 114 ff.): "volevano assumere il controllo di un certo numero di scuole di Birmingham per dirigerle conformemente ai rigorosi principi islamici...".

È importante rilevare che non si trattava di scuole "islamiche" o "confessionali". [L'ex-capo dell'antiterrorismo britannico] Peter Clarke, nel suo rapporto del luglio 2014 affermava:

"Ho potuto constatare che le scuole dove si ritiene siano accaduti questi fatti sono scuole pubbliche non confessionali...".

Clarke ha rilevato una serie di comportamenti inappropriati nelle scuole, come atti di bullismo, intimidazioni, modifiche dei programmi scolastici, proselitismo improprio in scuole non confessionali, disparità di trattamento e separazione. Ecco alcuni esempi specifici:

una discussione sui social media tra insegnanti è stata definita la "Park View Brotherhood", in cui le idee omofobiche, estremiste e settarie contenute erano diffuse alla Park View Academy e in altre scuole;
gli insegnanti lanciavano messaggi anti-occidentali nelle assemblee dicendo che i bianchi non avrebbero mai avuto a cuore gli interessi dei bambini musulmani;
l'introduzione delle preghiere del venerdì nelle scuole pubbliche non confessionali e le pressioni esercitate sul personale e gli studenti affinché vi partecipassero. In una scuola, è stato installato un sistema di diffusione sonora per chiamare gli allievi alla preghiera, e attraverso il quale un membro del personale rimproverava gli studenti che si trovavano nel cortile e non partecipavano alla preghiera e metteva in imbarazzo alcune ragazze per l'attenzione che veniva loro rivolta perché alle giovani con il ciclo mestruale non è consentito di partecipare alla preghiera; e
il personale di grado superiore che chiamava gli studenti e lo staff che non partecipavano alle preghiere "k****r". (Kuffar, il plurale di kafir, è un termine offensivo che sta per "miscredenti". Questo affronto riproduce la tecnica salafita di stigmatizzare i musulmani moderati o riformisti come non musulmani che possono essere uccisi perché apostati.)

La Casey poi cita la conclusione di Clarke:

"Ci sono state azioni coordinate, deliberate e continue, condotte da un certo numero di individui per introdurre un'etica islamica intollerante e aggressiva in alcune scuole di Birmingham. Tale obiettivo è stato conseguito in un certo numero di scuole acquisendo influenza sugli organi direttivi, nominando dirigenti scolastici o funzionari solidali, piazzando persone che condividessero le loro idee in posizioni chiave, e cercando di rimuovere i dirigenti scolastici che non erano compiacenti abbastanza".

Secondo la Casey, la situazione, anche se migliorata dal 2014, rimane instabile. E in una lettera inviata al ministro dell'Istruzione, la funzionaria governativa cita sir Michael Wilshaw, il capo dell'Ofsted, il servizio nazionale inglese di ispezione scolastica, che ha dichiarato non più tardi dell'8 luglio 2016, che la situazione "resta fragile", con:

una minoranza di persone della comunità che sono ancora intenzionate a destabilizzare queste scuole;
una mancanza di sostegno coordinato offerto alle scuole per istituire buone prassi;
una cultura della paura in cui gli insegnanti si trovano ad operare che è latente ma non è scomparsa;
un'intimidazione manifesta da parte di alcuni elementi della comunità locale;
una concertata resistenza all'educazione personale, sociale e alla salute (PSHE) e alla promozione della parità.

La Casey inoltre rileva altre due problemi esistenti soltanto a Birmingham, che fanno luce sulla popolazione musulmana della città. A Birmingham la stragrande maggioranza delle donne musulmane non conosce l'inglese (p.96) ed è presente il maggior numero di moschee (161) del Regno Unito (p. 125).

Da anni il governo britannico blandisce la popolazione musulmana. Il governo era chiaramente convinto che i musulmani si sarebbero integrati, assimilati e sarebbero diventati pienamente britannici, come avevano fatto i primi immigrati. Più di un sondaggio ha tuttavia mostrato che le generazioni più giovani sono ancor più fondamentaliste dei loro genitori e dei nonni, che sono arrivati direttamente dai paesi musulmani. Le generazioni più giovani sono nate in Gran Bretagna, ma all'epoca in cui l'Islam estremista sta crescendo a livello internazionale, in particolare nei paesi con cui le famiglie musulmane britanniche hanno stretti legami. Non solo, ma un gran numero di predicatori fondamentalisti continua a passare per le enclave musulmane inglesi. Questi predicatori tengono liberamente sermoni nelle moschee e nei centri islamici rivolti alle organizzazioni giovanili, nei collage e nei campi universitari.

Infine, vale la pena notare che Khalid Masood, un convertito all'Islam che ha ucciso quattro persone, ferendone molte altre, durante l'attacco sferrato a marzo davanti al Parlamento britannico, aveva vissuto a Birmingham prima di recarsi a Londra per fare il jihad.

È giunto il momento di pensare seriamente ai modi in cui la moderna tolleranza britannica dell'intolleranza e il consenso per un gradito multiculturalismo pacifista hanno favorito questa regressione. Birmingham è probabilmente il posto dove iniziare.

Denis MacEoin è Distinguished Senior Fellow presso il Gatestone Institute. Ha appena finito di scrivere un libro sui motivi di preoccupazione riguardo all'Islam nel Regno Unito.
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Messaggioda Berto » mar mag 30, 2017 8:34 pm

Kerkaporta, la porta dimenticata. 29 maggio 1453, Costantinopoli cade, mentre l’Occidente dorme
30 maggio 2017 Stefania

http://www.lindipendenzanuova.com/quand ... ente-dorme

È un pezzo del miglior collaboratore che abbia avuto a la Padania, il professor Giuseppe Reguzzoni. Nel pieno della tempesta politica, nei primi giorni di complessa e ostacolata direzione del quotidiano, mi inviò questo magnifico articolo. Lo ha lui stesso riproposto in questi giorni sul suo blog, citandone la fonte. Lo ringrazio ancora oggi per la lealtà della sua amicizia umana e intellettuale, essendo Giuseppe una mente di grande valore per la nostra terra, un intellettuale che la classe politica del Nord ha con grassa supponenza ritenuto di dover espellere dalla propria vista, come si fa quando la cultura e la verità creano imbarazzo per la propria pochezza (ste.pi). Sul proprio profilo facebook annota: 29 maggio 1453, Costantinopoli cade, mentre l’Occidente dorme. Pochi decenni dopo, il risveglio sarebbe stato terribile. Pochi, però ricordano per quale negligenza la Città fu presa. Lo ripubblico oggi, ricordandomi di avere un blog, che non aggiorno da molto tempo. http://giuseppereguzzoni.blogspot.ch/20 ... a-una.html

di GIUSEPPE REGUZZONI
C’è un’opera bellissima di Stefan Zweig, ancora troppo poco nota, il cui titolo in traduzione italiana – «Momenti fatali» – non rende sino in fondo quello originale, «Sternstunden der Menschheit», momenti “stellari” dell’umanità. Quattordici scene, quattordici racconti brevi, che narrano, ciascuno, di un solo momento, che ha, in qualche modo, cambiato la storia. Ma non è solo l’interesse storico a governare la narrazione. Ognuna di queste scene è la parabola di qualcosa che potrebbe accadere ancor oggi, una sorta di simbolo esistenziale di dimensioni recondite dell’umano, del rapporto tra la storia dei singoli e dei popoli e l’oscurità, tenebrosa, del potere e della brama di esso. La storia raramente è magistra vitae, maestra di vita, men che meno lo è per la politica, ma, forse, è ancora utile cercare di riflettere sui grandi crepacci che ne percorrono il fluire incessante e in cui, in un attimo, possono precipitare e perire le speranze di un’intera generazione. «Momenti fatali», appunto, che ci possono insegnare molto, anche sul piano politico, prima che la resistenza dell’ultima opposizione al potere assoluto delle Logge sia vinta e travolta. Questo è il Paese della democrazia a comando, delle stragi di Stato ancora inesplorate, dei salotti buoni che decidono per noi. Questo è il Paese che, oggi, ha bisogno di un’opposizione forte e costruttiva. Perché ci sia democrazia, infatti, bisogna che ci sia opposizione. Perché ci sia opposizione, bisogna che ci sia un progetto alternativo. Tempi duri, questi, in cui i poteri forti si sentono così sicuri da sferrare l’ultimo attacco. Bisogna però fare attenzione alle mosse del Nemico, alla sua slealtà intrinseca, ma anche alle negligenze, anche quelle apparentemente più piccole e trascurabili. Il prezzo sarebbe altissimo.

KERKAPORTA
Immagine


Non ce ne vorrà, dunque, una grande scrittore come è stato Stefan Zweig, se si vorrà rileggere uno dei «momenti fatali» come un emblema di questo scontro. Tra le scene più drammatiche del suo libro c’è, infatti, quella che narra la caduta di Costantinopoli, la capitale dell’Impero d’Oriente, per secoli baluardo della Cristianità contro l’invasione islamica. La sua storia è l’emblema di una resistenza disperata, dove non si possono lasciare spazi alle divisioni e dove la negligenza è un pericolo mortale.

È il 29 maggio 1453 e da tre mesi ottomila uomini in armi, bizantini, veneziani, genovesi, resistono a un’armata di centocinquantamila turchi. Le possenti cerchie murarie della città, edificate nei secoli da Costantino il Grande, Teodosio, Giustiniano e dai loro successori reggono i possenti colpi del grande cannone capace di sparare otto massi di granito al giorno, pesanti mezza tonnellata. Di giorno il cannone spara, di notte la popolazione ripara e tampona le ferite dell’antica capitale cristiana. Centocinquanta navi turche chiudono il mare intorno alla città. Dall’Europa, divisa e litigiosa, non arrivano che promesse, tranne un paio di navi inviate dal Papa e da Genova e Venezia. Le città marinare promettono, ma non danno, e intanto trattano col Sultano.

Pochi credono nella vittoria.

La sera del 22 maggio Maometto II, il coltissimo Sultano che godeva a impalare e torturare a morte, ordina l’attacco finale. Promette alle sue truppe che dopo la caduta della Città avranno tre giorni di assoluto arbitrio, per saccheggiare, violentare, scannare, massacrare … A Costantinopoli, intanto, viene celebrata l’ultima Messa nell’antica basilica di Santa Sofia, per la prima e unica volta Greci e Latini, Bizantini e Veneziani, tutti insieme, in ginocchio nella più bella chiesa del mondo, a implorare la grazia di Dio, che non verrà. All’una di notte il Sultano ordina di srotolare gli stendardi con la spada del Profeta e centomila uomini si avventano sulle mura. I primi sono i bascibozuk, soldati inesperti, che combattono seminudi, mandati allo sbaraglio e a morte quasi certa da Maometto II, che se ne serve come un ariete. Incalzati dall’esercito regolare, costoro si precipitano verso le mura, si arrampicano sugli spalti, ne vengono buttati giù. Maometto ha fatto bene i suoi calcoli. Le truppe sulle lunghissime mura sono stanche. Gli assediati, coperti di pesanti armature devono correre in continuazione per respingere gli attacchi incessanti.

Dopo due ore di battaglia, quando il cielo comincia a schiarirsi, subentra la seconda ondata, i soldati dell’Anatolia, ben addestrati e ben equipaggiati. Eppure Costantinopoli resiste ancora. Il Sultano è costretto a lanciare l’ultima riserva, i giannizzeri, soldati scelti, giovani sottratti alle famiglie cristiane in tenerissima età ed educati all’obbedienza assoluta. Le campane di Costantinopoli suonano, chiedendo a chiunque sia in grado di farlo di correre sulle mura. Ma la sorte è avversa, e una pietra colpisce in pieno il coraggioso comandante genovese, Giustiniani, che deve essere trasportato su una nave. La sua assenza fa vacillare il coraggio dei soldati, ma, subito, accorre l’imperatore Costantino in persona e una volta di più si riescono a far cadere le scale dell’assalto. Al numero si oppone la disperazione e la disperazione diventa ardimento estremo contro la furia del nemico. Ma è un tragico incidente, uno di quei momenti fatali che cambiano la storia, a determinare di colpo la sorte di Bisanzio.

È accaduto qualcosa di incredibile. Alcuni Turchi sono riusciti a passare attraverso una delle brecce aperte lungo la cinta più esterna delle mura. Si aggirano tra il primo e il secondo bastione, quando si accorgono che una delle porte più piccole delle mura cittadine, la Kerkaporta, per un’inconcepibile negligenza, è rimasta aperta. Si tratta solo di una postierla, che in tempo di pace permette il passaggio ai pedoni quando le grandi porte sono chiuse. I giannizzeri rimangono stupefatti nel trovare quel varco aperto, chiamano rinforzi ed entrano, sorprendendo gli ignari difensori. Un’intera truppa, al grido di «Allah il Allah!» si riversa nella città, mentre all’interno risuona quel lamento funesto che è più esiziale di qualunque cannone: «La città è presa!» I mercenari, sentendosi traditi, corrono al porto a cercare rifugio.

Costantino, l’ultimo imperatore, spalleggiato da pochissimi fedeli, si avventa contro gli invasori. Cade, guerriero anonimo, in mezzo alla mischia, fedele sino all’ultimo alla sua missione. Lo riconosceranno solo l’indomani, grazie a un paio di scarpe di porpora ornate con un’aquila d’oro. Intanto migliaia di Ottomani si scatenano sulla Città, stanano dalle chiese gli infelici che vi hanno trovato rifugio, violentano le donne e ragazze, trucidano come esseri inutili gli infanti e i vecchi, legano come bestiame gli uomini ancora in grado di servire come forza lavoro. Mentre intorno a lui scorrono fiumi di sangue, Maometto II entra a cavallo nella Basilica di Hagia Sophia, Santa Sofia, cuore dell’Ortodossia e del Cristianesimo d’Oriente. Inebriato dall’odore del sangue e della morte, il Sultano si stende sul tappeto che gli è posto dinanzi e benedice Allah, consacrando quel luogo all’Islam. Gli altari vengono distrutti, sugli splendidi mosaici si passa una mano di calcina e l’altissima croce che da mille anni sembra abbracciare il mondo si rovescia a terra nella polvere, sostituita dalla Mezza Luna. Il clangore rimbomba all’interno della chiesa e si ripercuote al di là delle mura, facendo tremare l’intero Occidente, sino ad allora rimasto indifferente. Qualche decennio e gli interi Balcani saranno occupati, con le armate turche alle porte di Venezia e di Vienna.
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Messaggioda Berto » ven giu 02, 2017 10:14 pm

Madrasse, nuova jihad e violenze di piazza. Così l’islamismo conquista il Sudest asiatico
Dal Pakistan alle Filippine aumentano l’intolleranza e gli attentati
2017/06/02
carlo pizzati
Waingapu (Indonesia)

http://www.lastampa.it/2017/06/02/ester ... agina.html

Le due pentole a pressione trasformate in bombe che hanno ucciso tre poliziotti ferendo altre 10 persone l’altro ieri a Giakarta sono quanto di più annunciato ci potesse essere nell’Indonesia reduce dalle elezioni più radicalizzate della sua storia recente. Una nuova generazione di militanti ispirati allo Stato islamico si sta facendo sentire nel Paese con più musulmani al mondo. La prevista radicalizzazione, non arginata dalla posizione troppo ambivalente del presidente Jokowi Widodo, continua a crescere dopo che le piazze, riempite dagli estremisti musulmani che chiedevano il golpe, sono riuscite a far eleggere come governatore di Jakarta un politico musulmano, a scapito dello sfidante di etnia cinese e religione cristiana.

L’Isis affiancandosi ad Al Qaeda dilaga nel continente Indiano e nel Sud-Est asiatico dove vivono in totale quasi due miliardi di abitanti, imponendo un Islam più combattivo e meno tollerante con una strategia a tridente: educazione, jihad e proteste di piazza.

Lo si vede dall’islamizzazione del conflitto in Kashmir dove l’altro giorno il 22enne Zakir Musa, comandante della più forte milizia anti-indiana, ha preso le distanze dal movimento indipendentista che da più di 70 anni combatte tra quelle montagne, ma anche da chi vuole farsi annettere dal Pakistan. «La nostra lotta è esclusivamente per l’Islam, per affermare la Sharia», ha detto aprendo ufficialmente le porte all’Isis.

E lo si è visto negli attacchi sanguinari in Pakistan. Il più significativo è stato quello al santuario Shehwan Sharif, cuore del sufismo, dove sono morte 90 persone: una dura lezione a chi vuole un Islam aperto al canto, alla celebrazione di amore e arte, alla poesia. Nello scontro globale, i musulmani pluralistici e moderati sono schiacciati dai puritani del riformismo wahabita e salafita, che trova l’espressione più cruenta nell’Isis. E intanto l’Arabia Saudita ha finanziato 5 mila delle 8 mila scuole coraniche, le madrasse, che insegnano quest’interpretazione del loro libro sacro per portare in Pakistan, come ammette uno dei suoi insegnanti, «un Islam ancora più estremo di quello dei Talebani».

In Bangladesh a parte l’espandersi dell’Isis, con 8 attacchi dal 2015 culminati con il massacro a Dacca di 9 italiani nel luglio scorso, dall’inizio dell’anno scolastico 42 milioni di studenti, dalle elementari al liceo, hanno scoperto l’arrivo del fondamentalismo nei loro 360 milioni di libri di testo: la «o» dell’abbecedario non è più quella di «ol», la patata dolce, ma è quella di «orna», una sorta di velo hijab. Dalle antologie sono svaniti i testi di autori non islamici. Via i riferimenti alla Ramayana induista e le canzoni sufi. «Se vieni sorpreso a mangiare in pubblico durante il Ramadan può capitare di farti insultare da sconosciuti», dice K. Anis Ahmed, editore del «Dhaka Tribune».

Nella Birmania buddista dallo scorso ottobre, oltre ai 200 mila profughi rohingya, popolazione musulmana messa di nuovo in fuga dall’esercito per rappresaglia all’uccisione di 9 poliziotti, almeno altri 70 mila sono stati cacciati in Bangladesh, dove non trovano facile accoglienza. Ecco perché, il think tank di Bruxelles, International Crisis Group, sostiene che la prossima minaccia sarà Harakah al-Yaqin, il Movimento per la Certezza, gruppo jihadista che ha 20 leader in Arabia Saudita. Sono tutti emigrati rohingya con legami in Bangladesh, Pakistan e India che vogliono una fatwa e missione suicide. Uno dei leader, Ata Ullah è scomparso dal radar nel 2012. Si teme sia in combutta con i pachistani del Lashkar-e-Taiba, legati agli attacchi al Taj Mahal di Mumbai nel 2008, e ai Jash-e-Mohammed, che militano nel Jammu e Kashmir.

In Malesia invece si riempiono le piazze di migliaia di manifestanti che chiedono la sharia, la severa legge islamica. Qui operano già non solo le brigate moralizzatrici come la Jawi, il dipartimento religioso dei territori federali islamici, che a San Valentino irrompe negli alberghi per punire gli amanti, ma anche il potente Jakim, il dipartimento per lo sviluppo islamico della Malesia, autorità religiosa che ha ricevuto 240 milioni di dollari in finanziamenti pubblici per poi censurare libri, proibire l’utilizzo della parola «hot dog», perché il cane (dog) è una animale impuro per l’Islam, ma anche bandire l’uso della parola «Allah» per chi non è musulmano.

Nelle Filippine, dagli Anni 90, con rapimenti di stranieri e assalti alle prigioni, continua la battaglia di Abu Sayyaf che vuole un Califfato chiamato «Daulah Islamiah Nusantara», l’arcipelago dello Stato islamico. Ma il sultano del Brunei ha già battuto tutti sui tempi, sull’islamizzazione: nel maggio di tre anni fa ha imposto la sharia per la popolazione musulmana, proibendo subito il Natale.

Ciò che questa espansione dimostra, è che le posizioni di mediazione della leadership in Paesi come l’Indonesia e il Bangladesh non arginano la radicalizzazione, anzi aprono le porte, tramite le scuole, a una futura disfatta elettorale per i laici. E che la politica di repressione intransigente come quella della Birmania buddista non risolve il problema, anzi genera nuovi combattenti. Nemmeno nelle Filippine un presunto «vero duro» come Duterte raggiunge risultati.

L’unica buona notizia è che ieri i membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico sono riusciti a trovare un accordo nel combattere i crimini transnazionali a Vientane, capitale del Laos. E pochi giorni prima a Manila i rappresentati degli eserciti dell’Asean Chief of Defence Forces Informal Meeting hanno stretto un patto nella lotta al terrorismo in Asia: ci saranno esercizi militari congiunti, assistenza umanitaria e aiuti coordinati alle vittime, per «combattere il dilagare delle ideologie violente».
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Messaggioda Berto » mer giu 07, 2017 9:39 pm

Bangladesh: cresce la paura tra le minoranze religiose
2017/06/06

http://it.radiovaticana.va/news/2017/06 ... sa/1317251

“Il sentimento che accomuna la vita delle minoranze religiose in Bangladesh è la paura”: è quanto si legge in una nota della delegazione della Conferenza cristiana dell’Asia. Dal 2014 sono stati assaltati numerosi villaggi abitati dalle minoranze religiose: un fenomeno particolarmente diffuso è il 'land grabbing', l’esproprio di terra e di abitazioni ai danni di famiglie non musulmane. Giorgio Saracino ne ha parlato con padre Bernardo Cervellera, direttore di 'Asia News':

R. – La situazione religiosa in Bangladesh è che più dell’80% della popolazione è musulmana; poi c’è una minoranza discreta di indù e una piccolissima minoranza di cristiani cattolici (lo 0,4% su 150 milioni). Questa popolazione musulmana è stata spesso tranquillamente in convivenza con le altre religioni, come era un po’ la tradizione all’interno del subcontinente indiano. Ma da diversi anni - tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 - c’è sempre stato un incremento di radicalismo islamico. Questo è dovuto anche al fatto che ci sono stati spesso aiuti alla povertà del Bangladesh dati da Paesi del Golfo - in particolare l’Arabia Saudita - che oltre a dare aiuti per la povertà dà anche aiuti per costruire moschee e scuole coraniche, dove ci mettono predicatori radicali.

D. - Come si possono tutelare quindi le minoranze religiose?

R. - Le minoranze religiose si possono tutelare se c’è il rispetto della legge, perché di per sé la legge garantisce la libertà religiosa in Bangladesh e garantisce anche il percorso della giustizia. Il problema è che la situazione che c’è in Bangladesh è anche una situazione di corruzione, una situazione di povertà estrema per cui chi è povero e subisce soprusi non è che abbia la possibilità di farsi rivalere e di chiedere giustizia. La corruzione è tale che si può fare tutto quello che si vuole.

D. - Che ruolo che può assumere la politica per attenuare questi conflitti interni?

R. - Io penso che il problema più grosso nel Bangladesh sia quello della povertà. Ci sono adesso tantissime industrie, tantissime compagnie che investono in Bangladesh perché il prezzo della manodopera del Bangladesh è una delle più basse nel mondo. Queste compagnie che vanno ad investire in Bangladesh dovrebbero avere il compito di spingere il governo a una maggiore giustizia e una maggiore equità nel trattare la popolazione e nel trattare le varie minoranze, altrimenti si rischia di distruggere la convivenza e quindi di distruggere anche questa rinascita economica che il Paese sta avendo.

D. - Negli ultimi due anni tra giornalisti, blogger e attivisti per i diritti umani sono stati uccisi perché promotori della libertà di pensiero e di religione. Come si può intervenire a sostegno di queste persone che tentano di cambiare e modificare qualcosa?

R. - Il problema più grosso per cui avvengono tutti questi soprusi, queste violenze, per cui ci si appoggia ai radicali islamici, è anzitutto un problema di povertà e un problema anche di potere politico. Bisogna affrontare questi due elementi: il problema della povertà attraverso degli investimenti che non abbiano come condizione il far maturare le scuole coraniche sullo stile dell’Arabia Saudita e, dall’altra parte, anche denunciare però, se non c’è una forza effettiva nel Paese, diventa molto difficile.
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Messaggioda Berto » gio giu 08, 2017 8:27 pm

La guerra che perdiamo: perché l'islam radicale è sempre più forte
di Giulio Meotti
2017/04/09

http://www.ilfoglio.it/cultura/2017/04/ ... amo-129098

Cinque anni dopo l’attacco alle Torri gemelle, il filosofo inglese David Selbourne scrisse per il quotidiano Times un articolo illuminante per spiegare perché “l’occidente non vincerà la battaglia con l’islam” (il saggio si sarebbe sviluppato in un libro, “The Losing Battle with Islam”).

Selbourne elencava una serie di motivi: la divisione nel mondo non musulmano sulla definizione della guerra in corso, la natura dell’islam che viene fraintesa, la debolezza della leadership occidentale, la confusione degli “esperti” di islam, la soddisfazione vicaria avvertita da molti non-musulmani sulla sconfitta dell’America, la dipendenza dell’occidente dalle risorse materiali dei paesi islamici, e, infine, la convinzione occidentale che i concetti di modernità siano intrinsecamente vincenti rispetto all’islam.

Ayaan Hirsi Ali dà respiro a questo pessimismo nel suo nuovo libro-choc, “The challenge of Dawa”, uscito per le edizioni di Stanford, dove ha sede la Hoover Institution che ha finanziato il saggio. “Dall’11 settembre, almeno 1,7 trilioni di dollari sono stati spesi in combattimento e in costi di ricostruzione in Iraq, Siria, Afghanistan, e Pakistan. Il costo del bilancio complessivo delle guerre e della sicurezza dal 2001 al 2016 è di più di 3,6 trilioni di dollari. Tuttavia, nonostante i sacrifici di oltre cinquemila soldati che hanno perso la vita dall’11 settembre e le decine di migliaia che sono stati feriti, oggi l’islam politico è in aumento in tutto il mondo”. E’ sconsolante il bilancio che Hirsi Ali, dissidente dell’islam, ex parlamentare olandese e oggi fellow alla Harvard Law School, traccia nel libro. La prima parte, pessimista, è un grande bilancio della guerra al terrorismo islamico dal 2001 a oggi. E quella la stiamo perdendo, scrive Hirsi Ali. Nella seconda offre una ricetta su come vincerla.

Il terrorismo islamico è in grande spolvero, anche a giudicare dalla banale conta dei morti, il “bottino di guerra” principale dei jihadisti. “Degli ultimi sedici anni, l’anno peggiore per il terrorismo è stato il 2014, con novantatré paesi attaccati e 32.765 persone uccise. Il secondo peggiore è stato il 2015, con 29.376 morti. Nell’ultimo anno, quattro gruppi radicali islamici sono stati responsabili del 74 per cento di tutte le morti per terrorismo: lo Stato islamico, Boko Haram, i talebani e al Qaida. Anche se il mondo musulmano porta il fardello più pesante della violenza jihadista, l’occidente è sempre più sotto attacco”.

Sempre più profondo è il radicamento islamista nel mondo musulmano. “Quanto è grande il movimento jihadista in tutto il mondo? In Pakistan da solo, dove la popolazione è quasi interamente musulmana, il 13 per cento dei musulmani intervistati – più di 20 milioni di persone – dice che la violenza contro obiettivi civili è giustificata al fine di difendere l’islam dai nemici. Il numero di jihadisti musulmani occidentali è in notevole aumento. Le Nazioni Unite hanno stimato che circa 15 mila combattenti stranieri provenienti da almeno ottanta nazioni hanno viaggiato in Siria per unirsi al jihad. Circa un quarto di loro proviene dall’Europa occidentale. Secondo una stima, il 10-15 per cento dei musulmani di tutto il mondo è islamista: su 1,6 miliardi, ovvero il 23 per cento della popolazione del globo, questo implica più di 160 milioni di individui. Il supporto totale per le attività islamiste nel mondo è significativamente superiore a quello stimato”.

Questo vale anche per l’Europa occidentale. Secondo un rapporto ComRes commissionato dalla Bbc, il 27 per cento dei musulmani inglesi ha approvato la strage a Charlie Hebdo. Un sondaggio Icm, diffuso da Newsweek, rivela che il 16 per cento dei musulmani francesi simpatizza per l’Isis. La percentuale sale al 27 per cento fra i giovani di diciotto-ventiquattro anni.

Un sondaggio Cnrs su settemila studenti ha appena dimostrato che un terzo dei giovani musulmani di Francia aderisce al “fondamentalismo”. Un terzo. Il 32 per cento, ad esempio, non ha condannato completamente gli attacchi contro Charlie Hebdo e Hypercacher a Parigi. Tra gli studenti delle scuole superiori, il 70 per cento non condanna gli autori dei due attacchi. Il 44 per cento pensa che sia accettabile “in alcuni casi, nella società attuale”, “combattere con le armi in mano per la propria religione”. A settembre era uscito un altro sondaggio simile condotto da Ifop per il think tank Institut Montaigne: il 28 per cento dei musulmani in Francia è “fondamentalista” e vorrebbe sostituire la legge laica con la sharia. Ma la percentuale sale al cinquanta per cento se si considerano i giovani. Nel Regno Unito, un musulmano su cinque nutre simpatia per il Califfato. Tra i giovani musulmani europei, il consenso per gli attentati suicidi va dal 22 per cento in Germania al 29 per cento in Spagna, dal 35 per cento in Gran Bretagna al 42 per cento in Francia, secondo un sondaggio del Pew Forum. In questi anni, se l’occidente ha investito in guerre, droni e sicurezza, il mondo islamico ha irrorato la “dawa”, la predicazione dell’islam violento.
“Dal 1973 al 2002, i sauditi hanno speso 87 miliardi di dollari per la ‘dawa’ all’estero”, scrive Hirsi Ali. “Le organizzazioni caritatevoli, dagli anni Settanta a oggi, hanno speso 110 miliardi, 40 dei quali per islamizzare l’Africa subsahariana”. Hirsi Ali definisce così la dawa: “È per gli islamisti quella che per i marxisti del XX secolo era la ‘lunga marcia attraverso le istituzioni’”. Per vincere la guerra, si deve affrontare prima l’ideologia. E quella, per ora, la stanno vincendo gli islamisti. Il terrore è un hardware che non può essere fermato se non si distrugge il software, l’islam radicale. E come funziona questo software?

“Con gruppi islamici ben organizzati, come la Fratellanza, che parlano a nome di tutti i musulmani, emarginando riformatori musulmani e dissidenti; favorendo l’immigrazione invocando la hijra, l’emigrazione del Profeta dalla Mecca a Medina; riducendo le donne al rango di macchine riproduttive al fine della trasformazione demografica; sfruttando l’attenzione sulla ‘inclusione’ da parte dei progressisti, costringendoli ad accettare le richieste islamiche in nome della coesistenza; aumentando la presenza islamista nel sistema educativo”.

“La strategia dominante dall’11 settembre a oggi, concentrandosi solo sulla violenza islamista, non ha funzionato”, scrive ancora Hirsi Ali. “Concentrandosi sugli atti di violenza, abbiamo ignorato l’ideologia che giustifica, promuove, celebra, e incoraggia la violenza, e i metodi della dawa utilizzati per diffondere l’ideologia. L’abbandono virtuale dell’Iraq, l’eccessivo affidamento sul potere aereo e gli attacchi di droni, la convinzione che le reti terroristiche possano in qualche modo essere decapitate, tutti questi sono stati errori tattici fondamentali. Ma chiaramente, non possiamo continuare a combattere l’islam politico impegnandoci su larga scala in interventi militari stranieri. Quindi cos’altro può essere fatto? In primo luogo, abbiamo bisogno di un cambiamento di paradigma che riconosca come il jihad si intreccia con l’infrastruttura ideologica della dawa. Questo riaprirà il dibattito su come bilanciare i diritti civili con il bisogno di sicurezza. E’ chiaramente fatalista suggerire, come ha fatto l’Amministrazione Obama, che gli americani devono imparare a convivere con la minaccia terroristica e che, sulla base di statistiche, gli americani sono più in pericolo per le loro vasche da bagno che per i terroristi islamici. La minaccia terroristica non può essere misurata solo dal numero di attacchi di successo. Le vasche da bagno non complottano per rovesciare il modo di vita americano. Gli islamisti sì”. Hirsi Ali critica “l’illusione che una linea possa in qualche modo essere tracciata fra l’islam, ‘una religione di pace’, rispettata da una maggioranza moderata, e ‘l’estremismo violento’, in cui è impegnata una piccola minoranza”.

I governi devono allearsi con i “riformatori”, non con gli “islamisti non violenti”; l’immigrazione deve includere lo “scrutinio ideologico” di chi richiede accesso alle democrazie; interrompere il flusso di denaro delle ong islamiche, spesso usate come cavallo di Troia per attività jihadiste, e nel frattempo la guerra convenzionale contro il jihad deve essere rafforzata anziché abbandonata, come è invece avvenuto negli ultimi anni.

Una vasca da bagno la ripari. L’islam radicale lo distruggi.
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Messaggioda Berto » dom giu 11, 2017 10:13 pm

QUANDO L'ISLAM ...

https://www.facebook.com/zio.Ferdinando ... ED&fref=nf

Quando l’Islam e la popolazione islamica si attestano sotto al 2% del totale, rimangono una Minoranza pacifica e amabile: è il caso di Stati Uniti, Australia, Canada, Cina, Italia e Norvegia;

quando l’Islam e la popolazione islamica sono al 2-5% cercano di convertire gli altri, anche in prigione, ed è il caso di Danimarca, Germania, Gran Bretagna, Spagna e Thailandia;

quando l’Islam e la popolazione islamica sono al 5% influenzano la Società, per esempio volendo introdurre il cibo ‘halal’, che per loro è “pulito”, e tutto quanto è per loro idoneo; è questo si verifica in Francia, Filippine, Svezia, Svizzera, Paesi Bassi, Trinidad e Tobago; a questo punto chiedono di avere un ruolo nel Governo e di essere regolati dalla Legge della Shari’a, poiché il loro scopo è quello di imporre la Shari’a nel mondo.

Quando raggiungono il 10%, svolgono manifestazioni violente per imporre il rispetto della loro volontà; a Parigi sono state anche bruciate delle auto. Qualsiasi critica nel loro confronti viene regolata in modo violento, come è stato il caso Theo Van Gogh, e questi episodi si ripetono quotidianamente in molti Paesi, come Guiana, India, Israele Kenia, Russia ecc.;

quando gli islamici sono il 20%, la popolazione restante può aspettarsi persecuzioni, come in Etiopia ecc.;
quando l’Islam e la popolazione islamica sono al 40%, gli altri vengono massacrati, come in Bosnia, Chad e Libano ecc.;
quando l’Islam e la popolazione islamica sono al 50%, procedono a sporadiche pulizie etniche, come in Albania, Malesia, Qatar e Sudan, ecc.;

quando l’Islam e la popolazione islamica arrivano sopra all’80% ci sono azioni di ‘jihad’ quotidiane e genocidi, come in Bangladesh, Egitto, Gaza, Indonesia, Iran, Iraq, Giordania, Marocco, Pakistan, Palestina, Siria, Tagikistan, Turchia e Emirati Arabi Uniti ecc..
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Messaggioda Berto » ven giu 16, 2017 7:41 am

???

Un dialogo necessario fra musulmani e cristiani (Prima parte)
15/06/2017
ISLAM-M.ORIENTE
Samir Khalil Samir

http://www.asianews.it/notizie-it/Terro ... rima-parte)-41023.html

Fra cristiani e musulmani vi è un buon rapporto in Libano, Siria, Giordania. Le difficoltà sono nate e cresciute con l’Arabia saudita e il suo islam wahhabita, oltre che con i Fratelli Musulmani in Egitto. Il sunnismo di questi è simile a quello di al Qaeda e di Daesh. Il contributo dei cristiani alla cultura araba sulla modernità, sull’educazione, sul ruolo della donna nella società. La cultura araba comune tra cristiani e musulmani in Oriente.

Roma (AsiaNews) – La serie di attentati terroristi che ha colpito molte città e capitali europee, come pure l’ondata irrefrenabile di migranti che cercano asilo in Europa spinge molti alla paura di una possibile “invasione” dell’islam. Allo stesso tempo, alle violenze subite negli attentati, una risposta altrettanto violenta pare essere la mossa più razionale. Una “guerra fra religioni” è il cliché che molti media seguono con passione, ricalcando l’ipotesi del “conflitto di civilizzazioni” in voga alcuni anni fa.

P. Samir Khalil Samir, gesuita, islamologo, mostra invece che le tensioni con l’islam non avvengono ovunque e non con tutto l’islam, ma sono riconducibili a ragioni storiche, geografiche e culturali e che vi è sempre stata una base dialogica in Medio oriente, che è ora importante rafforzare in Europa. Pubblichiamo l’analisi di p. Samir in tre parti. Questa di oggi è la Prima.

1. Le relazioni tra cristiani e musulmani in Oriente

La situazione è diversa secondo i Paesi. In generale però la loro situazione è difficile, perché gli Stati non sono laici, ma sono gestiti dalla Legge islamica (la shari’a), all’eccezione del Libano, unico Paese arabo non islamico. I Paesi musulmani non distinguono tra fede e politica, tra privato e pubblico. Questa è la più grande difficoltà per noi cristiani: essere sottomessi al sistema islamico, un sistema che risale al settimo secolo.

In Libano la situazione è generalmente buona e c’è la volontà di convivere in modo amichevole. Tutti i gruppi religiosi sono riconosciuti: possono seguire le loro norme, e c’è una costituzione ispirata dalle più moderne e riconosciuta da tutti i gruppi. C’è la parità tra i due gruppi.

In Giordania la situazione è abbastanza buona, perché il re è di tendenza aperta. Sia il padre Hussein che il re attuale, il figlio Abdallah hanno sposato delle mogli occidentali, molto colte e di origine orientale anche cristiane.

La Siria ha elementi positivi, seguendo il partito Baath fondato da un cristiano ortodosso (Michel Aflaq, 1910-1989) e avendo una costituzione laica. Il problema viene dal fatto che, da quasi 50 anni, il presidente è un musulmano di tradizione sciita (alawita), benché il 70% della popolazione sia musulmana di tradizione sunnita. Il fatto che la costituzione sia laica e che tutte le religioni siano rispettate, permette per esempio ad ogni gruppo religioso di costruire i propri luoghi di preghiera, di avere le loro attività religiose, i loro giorni di festa; il sistema matrimoniale è diverso secondo le religioni, il sistema ereditario anche. Insomma, c’è una distinzione tra la vita politica (comune a tutti), e l’organizzazione religiosa diversa secondo i gruppi religiosi.

L’Egitto, troppo marcato dall’università religiosa d’al-Azhar e dai Fratelli Musulmani fondati nel 1928, è più fanatico. Tutto è retto dalla shari’a islamica. Non era il caso prima, sotto i monarchi e neppure sotto Gamal Abdel Nasser. Questo è cambiato con la modifica della Costituzione sotto il presidente Sadat, nel 1972, con l’articolo 2 che faceva della shari’a la base essenziale della costituzione.

Inoltre il movimento dei Fratelli Musulmani è molto forte in Egitto (dove è nato). Questo movimento ha per scopo l’islamizzazione della società, con tutti i mezzi possibili. Le moschee sono numerosissime e sempre più radicali, e emettono i discorsi degli imam e le preghiere cinque volte al giorno (anche alle 5 del mattino) con megafoni potentissimi. È il loro modo di fare la propaganda islamica.

Quanto ai Paesi della Penisola arabica, in particolare dell’Arabia Saudita, l’intolleranza religiosa è la norma, basata sul fanatismo wahhabita, dottrina introdotta dall’imam Muhammad Abd al-Wahhāb (1703-1792), nella forma più rigida dell’islam, insistendo sull’interpretazione letterale del Corano. Molti di loro stimano che chi non adotta questa forma d’islam è semplicemente un pagano, un kāfir. Personaggi come Osama bin Laden, i Ṭālebān e oggigiorno l’Isis (Da’esh in arabo) s’ispirano a questa concezione dell’islam, con tutta la violenza che vediamo da questi gruppi. Il peggio è che tutti questi massacri disumani sono fatti in nome di Dio e della religione.

La maggioranza dei Paesi della Penisola arabica seguono l’Arabia Saudita in gradi diversi. La tragedia oggi è che l’Arabia (e il Qatar), con la loro ricchezza proveniente dal petrolio, distribuiscono largamente milioni di dollari in ogni Paese islamico purché adottino la dottrina wahhabita. E così stanno rovinando tutti i Paesi musulmani.

2. La cultura araba comune tra cristiani e musulmani facilita il dialogo

Cristiani e musulmani del Medio Oriente condividono una cultura araba comune. Anzi, tutti riconoscono che attraverso i secoli i cristiani hanno giocato un ruolo importante nella cultura araba, sia durante il periodo abbasside (750 - 1250), sia nell’epoca moderna, nel XIX e XX secolo. Hanno modernizzato la lingua e il pensiero arabo; sono stati spesso i promotori delle idee moderne e delle tecnologie moderne. Tutti riconoscono il loro contributo (soprattutto quello dei cristiani siro-libanesi, anche in Egitto nel XIX e XX secolo) nella società araba e nella politica araba.

Questa cultura araba comune, e questo contributo positivo a rinnovare e modernizzare la cultura, facilita il rapporto tra le due religioni. Spesso però i cristiani sono più aperti alla cultura occidentale rispetto ai musulmani, i quali hanno una visione della vita più chiusa, più marcata dal passato, soprattutto riguardo ai rapporti tra uomo e donna. In questo campo, in ciò che riguarda il posto della donna, i cristiani hanno portato un grosso contributo. Senza cadere in alcuni eccessi visibili in occidente, hanno dato valore al ruolo rispettivo degli uomini e delle donne.

Il più grosso contributo dei cristiani alla civiltà araba moderna è probabilmente nel settore dell’educazione. Sia in Libano che in Egitto, le scuole cristiane (principalmente cattoliche), maschili e femminili, già a metà nel XIX secolo, hanno formato le personalità le più marcate, musulmane e cristiane. In Libano inoltre, le più famose università fino ad oggi sono state create dai cristiani protestanti (come l’Università americana, AUB, fondata nel 1866) e cattolici (l’Università San Giuseppe dei gesuiti, USJ, fondata nel 1875). Nel XX secolo sono venute fuori molte università cattoliche (fondate da ordini religiosi), cominciando con l’Università di Kaslik (USEK, fondata nel 1950), l’Università ortodossa di Balamand (inaugurata nel 1988), e finalmente l’Università libanese (nel 1953).

L’Istituto di studi islamo-cristiani, fondato nel 1977 all’Università San Giuseppe, dà un’informazione scientifica sulle due religioni e sul rapporto tra le due. Gli studenti sono più o meno a parità musulmani e cristiani. Lo stesso vale per i professori. Alcune materie sono date simultaneamente da due professori, uno musulmano e l’altro cristiano. Ciò permette di completare il punto di vista di ciascuno con il punto di vista dell’altro professore.

Avendo una cultura araba comune, ciò permette ai cristiani di capire meglio i musulmani, e ai musulmani di scoprire che i cristiani non sono estranei al mondo culturale musulmano. Le difficoltà s’incontrano con i musulmani rigorosi o fanatici, più raramente con i cristiani fanatici.

Inoltre, c’è una base comune tra musulmani e cristiani d’Oriente: la fede nell’unico Dio, la totale fiducia in Dio. Esistono molte espressioni comuni che esprimono l’abbandono alla volontà di Dio in tutto, e la fiducia in Lui: insciallah (se Dio vuole!), al-hamdu lillah (lode a Dio!), bi-idhn Allah (col permesso di Dio!), neshkor Allah (ringraziamo Dio!), Subḥān Allah (Gloria a Dio!), Mā sha’ Allah (ciò che Dio ama!), Fi aman Allah (nella protezione di Dio!), Rahimahu Allah (Che Dio abbia pietà di lui! Per un morto), ecc.


Alberto Pento

Amir non mentire!
Gli islamici nei paesi dove sono divenuti dominanti, hanno fatto sparire ogni diversanente religioso e pensante con le persecuzioni, con le conversioni forzate, con la costrizione all'esilio, con lo sterminio dei diversemente religiosi.


Nella storia dove è arrivato l'Islam è poi sempre avvenuta la guerra civile e religiosa e lo sterminio di tutti i diversamente religiosi e pensanti
viewtopic.php?f=188&t=1895

Nazismo maomettano = Islam = dhimmitudine = apartheid = razzismo = sterminio
viewtopic.php?f=188&t=2526

Ensemense proixlam, buxie e falbarie xlameghe
viewtopic.php?f=188&t=1737

Islam e persecuzione e sterminio dei cristiani (cristianofobia)
viewtopic.php?f=181&t=1356
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Messaggioda Berto » ven giu 23, 2017 8:49 pm

Il terrorismo islamista e l’odio anti occidente
12 giugno 2017
di Ernesto Galli della Loggia

http://www.italiaisraeletoday.it/il-ter ... -occidente

Dietro il terrorismo islamista è facile scorgere un vasto retroterra di opinione pubblica mussulmana – presente anche in Europa – che certamente condanna le imprese dei terroristi ma che oscuramente ne subisce una certa fascinazione perché, magari inconsapevolmente, ne condivide alla fine un sentimento di fondo: cioè una radicata avversione antioccidentale.

La quale si alimenta a propria volta di un sentimento diffusissimo in tutto il mondo islamico: il vittimismo. L’idea che mentre quel mondo sarebbe stato oggetto da sempre di gravi soprusi da parte dell’Occidente, il suo passato, invece, sarebbe totalmente privo di macchie. L’atmosfera culturale dominante in Europa e negli Stati Uniti negli ultimi decenni, intrisa di un desiderio di espiazione per i nostri, veri o presunti, peccati storici, ha indubbiamente favorito la diffusione di tale sentimento pronto a volgersi in risentimento.

Ma tutto questo ha ben poco a che fare con la storia, con la storia reale che si sforza di accertare e di raccontare i fatti per quello che sono effettivamente stati. Quella storia che però, disgraziatamente, sembra essere ancora oggi la grande assente nell’opinione pubblica islamica. Con il risultato che la non conoscenza del passato favorisce ogni mitizzazione, accredita una visione del mondo in bianco e nero, e contribuisce non poco a distorcere gravemente il significato di quanto accade attualmente, producendo per l’appunto vittimismo e pericolosi desideri di rivalsa.

A fare giustizia di molte leggende storiche su due aspetti centrali del passato islamico sono utilissimi due libri (oltre agli smartphone per fortuna esistono ancora i libri). Il primo, recentissimo, è di Georges Bensoussan, «Les juifs du monde arabe» (Odile Jacob, 2017) dedicato, come dice il titolo, alla vita delle comunità ebraiche nell’islam arabo. Il mito di cui qui si tratta è quello — prediletto in special modo da tutta l’opinione progressista occidentale ma costruito paradossalmente dal sionismo tedesco dell’Ottocento — della presunta felice convivenza che avrebbe caratterizzato in generale l’esistenza degli ebrei in tutto il mondo arabo. Fintanto che — così vuole il mito — a spezzare l’incantesimo e a rendere invivibili per gli ebrei i Paesi islamici sarebbe intervenuta la nascita abusiva dello Stato di Israele. Senza la cui presenza, perciò, l’eden avrebbe potuto tranquillamente continuare a esistere.

Si dà invece il caso che la realtà, tranne in casi rarissimi, sia stata sempre ben diversa. Le pagine del libro forniscono a questo proposito una vasta documentazione circa il miserabile stato di inferiorità, di forzata ignoranza, in cui per secoli nel mondo islamico gli ebrei furono costretti, in virtù di un pregiudizio religioso antigiudaico ben più vasto e pervasivo di quello diffuso nel mondo cristiano.

Per essere tollerati gli ebrei erano costretti, oltre che a pagare una tassa speciale, ad accettare una condizione di paria, ad esempio subendo quotidianamente da parte di chiunque (anche di un bambino islamico incontrato per strada) una serie di angherie, di violenze e di oltraggi mortificanti senza potersi permettere, pena la vita, il minimo gesto di reazione. Si è trattato per secoli dell’applicazione di una vera e propria tecnica di degradazione sociale tendente, suggerisce l’autore, a una sorta di animalizzazione deumanizzante della figura dell’ebreo.

Le cose mutarono solo con le conquiste coloniali europee e con la presenza mandataria anglo-francese nell’ex impero ottomano dopo il 1918. Gli ebrei allora — grazie anche ai loro legami con i correligionari in Europa — furono pronti a cogliere l’occasione e a iniziare un percorso di emancipazione culturale ed economica nei vari Paesi arabi, che gli attirò tuttavia una ancor più aggressiva ostilità da parte delle élite e delle popolazioni islamiche. Sicché dalla fine dell’Ottocento al 1945 in tutto il Maghreb e il Medio Oriente aggressioni, disordini, autentici pogrom, non si contarono, a stento contenute dalle potenze coloniali, e con l’ovvia appendice di derive filofasciste e filonaziste. Assai spesso, alla sua origine il moderno nazionalismo arabo-islamico si è nutrito profondamente proprio di questo antisemitismo militante mischiato con l’antioccidentalismo. Quando lo Stato d’Israele, si noti bene, era ancora al di là da venire.

Sempre circa l’immagine idilliaca della civiltà islamica che dalle nostre parti ancora piace a molti costruirsi — con conseguente autoflagellazione della civiltà occidentale — bisognerebbe poi che i nostri manuali scolastici si decidessero per esempio a dire qualcosa a proposito della tratta degli schiavi che i negrieri islamici, arabi e berberi, praticarono dall’ottavo al sedicesimo secolo (dunque per almeno cinque, sei secoli in più rispetto ai negrieri europei e americani — di questi ultimi non pochi armatori ebrei di Charleston e di Newport — delle cui imprese, invece, quei manuali parlano a ragione molto diffusamente). Nell’attesa si può ricorrere alle trecento e passa pagine di uno storico della Sorbona, Jacques Heers («Les négriers en terre d’islam»).

Coadiuvati anch’essi — come più tardi i trafficanti euro-americani — dall’indispensabile collaborazione dei capi neri degli Stati dell’Africa sub sahariana — sovente veri e propri Stati predatori dei propri stessi abitanti —, i negrieri islamici della penisola arabica e della riva sud del Mediterraneo si diedero per un lunghissimo tempo al commercio quando non all’organizzazione in prima persona di razzie sistematiche, ogni volta di migliaia e migliaia di schiavi, dal Sudan al Senegal, al Mali, al Niger: non mancando d’invocare in molte occasioni il pretesto della conversione e della guerra santa. Fin dall’inizio dell’islam Gedda, Medina, la Mecca, e in seguito Algeri e Tunisi, furono grandi mercati di esseri umani catturati non solo in Africa ma anche per esempio tra i Bulgari e in tutti i Balcani. Alla metà del ‘500 i «bagni» di Algeri erano affollati pressoché esclusivamente di schiavi cristiani, bambini compresi, cui era spesso riservato il triste destino della castrazione. Mercanti islamici arrivarono a trafficare schiavi neri fino in Cina e in India.

Come si vede, è abbastanza evidente che se oggi volessimo davvero impegnarci in una battaglia culturale per favorire la nascita di un Islam «moderato», è da qui, da una ricognizione del passato, e quindi da libri di storia come quelli che ho citato, che si dovrebbe cominciare. Dal momento che è solo grazie alla conoscenza dei fatti che si può evitare di credere alle menzogne e di farne lo strumento autoconsolatorio di una propria immaginaria innocenza a confronto della malvagità altrui.


Islam, Maometto, Allah, Corano e Sharia sono orrore e terrore
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Messaggioda Berto » dom nov 05, 2017 8:34 pm

Il Libano nelle mani di Hezbollah
05/11/2017

http://www.linformale.eu/libano-nelle-mani-hezbollah

Con le dimissioni di Saad Hariri da Primo Ministro del Libano cade la foglia di fico dell’Iran e appare senza infingimenti una realtà ben conosciuta. Il dominus incontrastato in Libano è il gruppo fondamentalista sciita Hezbollah, la principale e più temibile formazione terrorista musulmana istituzionalizzata in Medioriente.

Hariri, sunnita, figlio di quel Rafiq Hariri che lo aveva preceduto nella stessa carica, e fatto saltare per aria il 14 febbraio del 2005 da Hezbollah su ordine congiunto di Teheran e Damasco, ha scelto Riad per annunciare le proprie dimissioni. Al riparo della monarchia saudita, ha rivelato che l’Iran stava preparando anche per lui la stessa sorte riservata al padre. Che sia vero o no, resta il fatto che i sauditi non avevano mai visto di buon occhio l’accettazione dell’incarico da parte di Hariri, undici mesi fa, ed è assai probabile che Riad abbia avuto un ruolo determinante nel consigliargli di rassegnare le dimissioni.

La contrapposizione regionale sciita-sunnita si sta manifestando in maniera sempre più plastica in questi mesi, configurando nuove alleanze di cui Israele nella prossima guerra che lo coinvolgerà, quella contro Hezbollah, potrà eventualmente beneficiare.

Benjamin Netanyahu, a Londra nei giorni scorsi per il centenario della Dichiarazione Balfour, ha sottolineato come la minaccia sempre più incombente dell’Iran abbia allargato il perimetro delle alleanze con gli attori sunniti regionali le quali sarebbero state impensabili solo qualche anno fa.

Il ruolo degli Stati Uniti in questa inedita convergenza è palese. La visita di Donald Trump a Riad a maggio, tappa iniziale del suo primo viaggio internazionale, faceva seguito a un riposizionamento americano netto sull’Iran, nuovamente indicato dopo il periodo dell’appeasement obamiano, come la minaccia più grave incombente in Medioriente e per gli interessi americani. Il grande accordo miliardario sul rifornimento d’armi stipulato con la dinastia saudita, e, pochi mesi dopo, la decisione partita da Riad di mettere l’embargo sul Qatar, accusato di finanziare copiosamente il terrorismo islamico, sono esiti dello schieramento venuto in essere.

Il Libano, da anni un protettorato iraniano, ora, dopo le dimissioni di Harari, è palesemente consegnato all’egemonia di Hezbollah, di cui il presidente in carica, il cristiano Michel Auon, è un sostenitore.

Un paese in mano a un gruppo terrorista armato fino ai denti e il cui principale obbiettivo di politica internazionale è la distruzione di Israele, se non, idealmente, in chiave radicalmente eliminazionista di tutti gli ebrei, come ebbe a dire il suo segretario Hassan Nasrallah nel 2002 al Daily Mail, “Se gli ebrei si radunassero in Israele, ci risparmierebbero la fatica di cercarli in giro per il mondo”, pone un problema assai serio per lo stato Ebraico.

Problema che dovrà necessariamente e inevitabilmente essere risolto.
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Messaggioda Berto » mar mag 22, 2018 1:53 am

Arabia Saudita: la sfida di MBS contro il Deep State religioso, gli Ulema
Francesco Cirillo
21 Mag 2018

http://www.atlanticoquotidiano.it/quoti ... -gli-ulema

Nel Regno saudita il principe ereditario Mohammed Bin Salman sta provando a riformare in profondità le strutture costituzionali del regno, ma deve confrontarsi con la classe religiosa wahhabita ultraconservatrice che si oppone ad ogni tentativo di riforma: gli Ulema. Questa élite è sia il pilastro su cui la casa Reale dei Sa’ud ha fondato il proprio potere per controllare l’Arabia sia la principale fonte di instabilità della Monarchia Saudita.

Ma nella storia dell’Arabia Saudita la loro presenza è stata fondamentale per consolidare lo State-Building saudita. Gli Ulema si definiscono gli eredi legittimi del Wahhabismo fondato dal predicatore Abd-al-Wahhab che si alleò con la Famiglia dei Sa’ud e con il capo d’allora Muhammad bin Sa’ud, signore del piccolo villaggio di al-Dir’yya di Nagd, nel 1744. L’alleanza tra i due ebbe come effetto l’inizio di una espansione militare che venne fermata, agli inizi del XIX secolo, soltanto dall’intervento militare ottomano ed egiziano, fermando il primo tentativo di State-Building saudita.

Solo dal 1900 in poi i Sa’ud si riorganizzarono per riprendere la conquista dell’Arabia ed unificare il paese. Nel 1927 avvenne la riconquista del regno Hascemita, che nel 1924 perse il sostegno diplomatico e militare britannico, dello Higaz, prendendo il controllo delle città sante dell’Islam Medina e La Mecca. Nel 1932 venne proclamato il Regno dell’Arabia Saudita e ‘Abd al-‘Aziz al-Saud, ricevendo il sostegno della Corona Britannica, divenne il primo re del nuovo stato. Il terzo tentativo di State-Building saudita si è realizzato grazie ad azioni prettamente militari di conquista territoriale ed alla volontà di costruire un sentimento nazionale attraverso l’ideologia religiosa islamica ultraconservatrice wahhabita che, dal 1932 ad oggi, viene preservata dagli Ulema, i maggiori rappresentanti dell’establishment che hanno sempre garantito la stabilità politica della monarchia.

La classe religiosa wahhabita, in seguito alla conquista Sa’ūd delle due città sante de La Mecca e Medina, iniziò un’opera di purificazione e di purghe estirpando dalla città le altre correnti islamiche sunnite.

Dagli anni cinquanta e sessanta gli Ulema iniziarono ad istituzionalizzarsi. Guidati da un discendente del predicatore al-Wahhab, Muhammad bin Ibrahim al-Sayh, riuscirono a farsi riconoscere importanti istituzioni statali strategiche, come una nuova autorità per emettere la fatwa, che nel 1971 venne rinominata il Consiglio degli Ulema anziani. Agli Ulema venne dato il controllo delle Corti islamiche, unificate nel 1958, e nel 1959 aprirono diversi giornali che dovevano essere le principali voci di risonanza per esportare l’ideologia wahhabita all’estero.

Gli Ulema, dopo la crisi petrolifera del 1973 causata dall’embargo che l’Opec attuò contro gli Usa ed Israele, ebbero l’opportunità di espandere ed esportare l’ideologia wahhabita fuori dai confini dell’Arabia Saudita, con il consenso/assenso indiretto della stessa monarchia. Con l’indebolimento dei nazionalismi panarabi gli Ulema iniziarono ad accettare da parte della monarchia uno sviluppo economico che non andasse contro i principi della Shari’a, la legge islamica. Inoltre gli Ulema stavano tessendo una ragnatela di contatti transnazionali di banche private che elargivano prestiti senza interessi, visto che l’interesse bancario era proibito dal Corano. Così queste banche iniziarono ad emettere prestiti verso i paesi musulmani più poveri come il Sudan e il Pakistan con l’obiettivo di farli entrare nella sfera d’influenza di Riyadh.

Gli Ulema autorizzarono anche la creazione di diversi istituti islamici che promuovevano la realizzazione di scuole coraniche e moschee in giro per il mondo, con il fine di espandere la dottrina del wahhabismo ed attrarre studenti a frequentare le università saudite. Definito Petro-Islam, questo sistema di indottrinamento fornì liquidità infinita alla Da’wa (proselitismo) wahhabita, con l’obiettivo di voler comprare la comunità sunnita alla visione islamica wahhabita.

L’esempio migliore di come sono stati spesi i soldi provenienti dalla vendita di petrolio è rappresentata dalla Islamic University of Medina. Istituita nel 1961 con un decreto reale, la IUM è uno tra i principali fari per il proselitismo e la visione salafita della religione islamica, allineandosi con la dottrina religiosa dominante nel Regno dei Sa’ūd. Offrendo borse di studio complete (spese di viaggio, vitto e alloggio comprese) agli studenti stranieri, l’obiettivo è quello di spingere i giovani non sauditi, ma pur sempre musulmani, a studiare alla IUM per poi tornare nei paesi di appartenenza con una visone islamica saudita e fortemente wahhabita. Ma con l’avvento di Re Salman nel 2015 , dopo la morte di Re ‘Abdallah, il giovane principe ereditario Mohammed Bin Salman, anche ministro della difesa, inizia a pianificare la Saudi Vision 2030, progetto che punta a riformare la complessa macchina socio-economica saudita e le stesse istituzioni del Regno, inclusi gli Ulema e la loro influenza nella società saudita. La sfida del giovane principe MBS è piena di ostacoli, ma la posta in gioco è troppo alta: la stessa sopravvivenza del Regno dei Sa’ūd.
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