Endoe ke riva l'xlam el desfa i paexi co la goera e el teror

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Messaggioda Berto » mer lug 20, 2016 4:13 am

La fine degli ebrei di Medina
15 luglio 2016
Gabriele Zweilawyer

http://www.progettodreyfus.com/la-fine- ... -di-medina

La tribù dei Banu Qurayza giunge nella parte settentrionale dell’arabia nel corso delle guerre romano-giudaiche del I e II secolo. Formata da ebrei che, in patria, esercitavano diversi mestieri, riesce subito a raggiungere una buona posizione sociale rispetto alle tribù arabe della zona. I Banu Qurayza introducono infatti l’agricoltura nella zona e mettono a frutto anche le loro capacità commerciali. L’oasi di Yathrib, soprattutto grazie a loro, diventa un importante snodo agricolo e commerciale. Tracciare con precisione la loro storia nel corso dei secoli che vanno dal II al V necessiterebbe diversi volumi ma, visto che l’intento di questo breve articolo è mostrare le fasi dell’incontro-scontro con Maometto e i suoi seguaci, qui è sufficiente specificare che avevano sempre commerciato, stretto alleanze e, ovviamente, combattuto con le altre tribù. Sembra però che con l’arrivo di due tribù yemenite, i Banu Aws e i Banu Khazraj, gli ebrei Qurayza perdano la loro posizione di indipendenza e diventino, de facto, una tribù cliente degli Aws. Sostengono infatti questi ultimi nella continua lotta per il primato instaurata con i Khazraj, iniziata probabilmente nell’ultimo quarto del VI secolo e protrattasi nel VII. È proprio questo stato di guerra perenne che porta le due tribù a richiedere l’intervento, in veste di arbitro, di un signore della guerra arabo, ossia Maometto. In cambio, offrono accoglienza nella città a lui e a tutto il suo clan, che a La Mecca inizia ad avere sempre più oppositori.

Maometto lascia La Mecca arriva a Yathrib, la città-oasi più importante in cui si affrontano Aws e Khazraj. Il suo spostamento da La Mecca a Yathrib, che rinominerà Medina, è conosciuto come Hegira. Qui Maometto si mette all’opera per adempiere al compito assegnatogli e stila la Costituzione di Medina. Si tratta del documento con cui Maometto regola i rapporti fra le tribù presenti in città, comprese quelle formate da ebrei (Banu Nadir, Banu Qaynuqa e, per l’appunto, Banu Qurayza), e da cristiani. In realtà, molti storici mettono in dubbio la veridicità della Costituzione di Medina, di cui non è giunto ai giorni nostri nessun originale e che si pensa possa essere un lavoro più tardo, utilizzato ritagliando varie fonti, scritto appositamente per giustificare il comportamento di Maometto.

Ad ogni modo nel 624, mentre Maometto è intento a sconfiggere i Meccani nella battaglia di Badr, le tensioni fra ebrei e musulmani crescono. L’episodio che fa precipitare la situazione, riportato dalle fonti arabe, riguarda una donna musulmana e un orafo dei Qaynuqa. Non si sa per quale motivo, forse per puro caso, l’orafo calpesta il vestito della donna e questa, camminando, rimane nuda. Il marito di lei interviene e taglia la gola all’ebreo. Gli altri Qaynuqa, perlopiù residenti in due cittadelle fortificate nella parte sud-occidentale di Medina, corrono in soccorso del loro correligionario e uccidono il musulmano. Questo viene considerata una rottura della costituzione di Medina e la giustificazione dell’aggressione maomettana alla tribù.

In realtà, pochi storici occidentali reputano plausibile questo episodio e sottolineano le altre motivazioni dell’attacco. In primo luogo pongono l’accento sul fatto che Maometto, sconfitti i Meccani, è in una posizione di forza ottimale per eliminare gli ebrei, che non accettano di sottostare al suo governo. Seguono poi le considerazioni di tipo economico, sostenute in particolare dal Prof. Fred McGraw Donner (Università di Chicago): i mercanti ebrei sono rivali di quelli musulmani ed è immaginabile che questi ultimi chiedano di continuo a Maometto di risolvere il problema in modo definitivo.

Quale che sia la motivazione sottostante, Maometto fa radunare i Qaynuqa nella piazza del mercato:
Ebrei, non fate che Allah porti su di voi la vendetta che ha già portato sui Quraysh. Accettate l’Islam, perché sapete che sono il profeta mandato da Allah. Lo troverete nelle vostre scritture e nel patto che Allah ha fatto con voi.

Muhammad , pensi che siamo uguali alle tue genti? [...] Dio ci è testimone, se ci combatti, vedrai che siamo veri uomini!

Gli Ebrei non hanno alcuna intenzione di convertirsi, quindi Maometto assedia le loro fortezze per 14 giorni, facendoli capitolare e costringendoli all’esilio. Le altre due tribù ebree, Nadir e Qurayza, non intervengono. Maometto però ha in serbo qualcosa anche per loro.

Il capo dei Nadir, il poeta Ka'b ibn al-Ashraf, viene accusato da Maometto in persona di aver composto dei versi di dileggio nei confronti delle donne musulmane. Le fonti storiche islamiche precisano anche che è l’intervento dell’Arcangelo Gabriele, che comunica a Maometto l’esistenza di un complotto contro di lui, a convincere il condottiero arabo ad agire. Al-Bukhari, nell’hadith 4:52:270, riporta le parole di Maometto:

Chi vuole uccidere Ka’b bin Al-Ashraf, che ha danneggiato Allah e il suo Profeta?

Muhammad ibn Maslamah e altri dei primi convertiti all’islam si offrono volontari. Chiedono al capo ebreo di accompagnarli a fare due passi e lo pugnalano. Da quel giorno, si racconta che nessun ebreo si sente più al sicuro a Medina.

Anche qui è importante sottolineare che, nel marzo 625, Maometto è sconfitto dai meccani a Uhud, e ha bisogno di rinsaldare la sua fama di condottiero invincibile al più presto. I Nadir sono un bersaglio eccellente, e Maometto ordina loro di lasciare Medina. I Nadir rifiutano, sperando anche nell’aiuto dei Qurayza che però non si materializza. A quel punto, Maometto assedia anche le cittadelle Nadir, che alla fine sono costretti alla resa. L’unica condizione che riescono a strappare a Maometto prima del loro esilio è quella di poter portare con loro tutti i beni mobili, ad eccezione delle armi. I Nadir caricano tutto su 600 cammelli, che passano attraverso Medina destando grande impressione, diretti all’Oasi di Khaybar. Due anni dopo,i soldati musulmani li raggiungeranno anche lì, massacrando gli uomini e riducendo in schiavitù le donne.

Con la divisione delle terre e degli edifici dei Nadir, Maometto raggiunge la posizione di indipendenza economica a lungo cercata. Dal sud, arrivano altri musulmani per occupare i luoghi strappati agli ebrei.

A Medina, gli unici ebrei rimasti sono i Qurayza. Maometto, chiamato come semplice arbitro di una faida decennale, si è impadronito della città e ha intenzione di eliminare l’ultimo ostacolo alla creazione della vera umma. L’anno è il 627, e le forze Meccane, unite a quelle di alcune tribù Beduine, attaccano Medina. In The Jews in the Arab Lands, Norman Stillman (University of Oklahoma) scrive che i Qurayza contribuiscono alle fortificazioni e forniscono armi ai soldati di Maometto, poi si rinchiudono nelle loro fortezze.

Anche quando un emissario dei Meccani, il capo degli ebrei Nadir in esilio, arriva per chiedere il supporto dei Qurayza, questi rimangono sulla loro posizione di sostanziale neutralità, anche perché non si fidano dei Meccani. Quello che noi conosciamo come “parlè”, ossia l’incontro per discutere tregue, alleanze e condizioni di resa, è già stato utilizzato anche da Maometto quando ha tentato di corrompere i beduini Ghatafan e Fazara per portarli dalla sua parte. Egli però non accetta questo incontro e, dopo aver vinto la famosa Battaglia del Fossato, il primo giorno dopo la partenza dei Meccani attacca i Qurayza. Questi resistono 25 giorni e, quando capitolano, sono convinti di poter ottenere le stesse condizioni dei Nadir. Purtroppo però Maometto vuole fare di loro un esempio. Lo storico islamico dell’VIII secolo Ibn Ishaq racconta che, dopo aver fatto scavare delle fosse nella piazza del mercato, Maometto li fa portare lì a piccoli gruppi. I soldati di Maometto ne decapitano fra 600 e 900, tutti ragazzi e uomini, mentre le donne e i bambini sono ridotti in schiavitù.

Come parte del bottino, Maometto sceglie una ragazza ebrea, Rayhana, il cui marito è stato appena decapitato e gettato in un fosso. Rayhana diventa poi sua moglie, una delle tredici attribuite a Maometto.

Dopo il 627 Medina, resa fertile e ricca dagli ebrei fuggiti nel corso delle guerre giudaico romane, diventa una proprietà privata di Maometto. Tutte e tre le maggiori tribù di Ebrei sono state eliminate, e rimangono solo alcune famiglie che, però, non rappresentano un pericolo per il primo condottiero musulmano.
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Messaggioda Berto » ven nov 11, 2016 9:06 pm

"Se passa la Sharìa, la Nigeria sarà un Paese in fiamme"
L'appello dei cristiani contro la proposta di legge che vuole allargare i poteri delle corti islamiche: "Non si può imporre a nessuno di aderire a una legge che vieta la libertà religiosa, il Parlamento ci ripensi". Sostieni il reportage sui cristiani perseguitati
Giovanni Vasso - Gio, 10/11/2016

http://www.ilgiornale.it/news/mondo/se- ... 30096.html

“Se il Senato dovesse approvare la legge che introduce la Sharia nella nostra Costituzione, la Nigeria diventerebbe un Paese in guerra”.

Lo ha detto il presidente del Cocin (Church of Christ in Nations), Dachollom Datiri, commentando l’iniziativa politica che vorrebbe assegnare, costituzionalmente, valore legale alle pronunce giudiziarie delle Corti Islamiche. Per Datiri, il pericolo è grande: “Sarebbe meglio se si pensasse a combattere seriamente i gruppi estremisti”.

Datiri, come riporta il Daily Post, ha parlato durante l’assemblea tenuta della Chiesa nella città nigeriana di Jos. Ha ricostruito gli equilibri politici e l’attività parlamentare mettendo in guardia i ministri e i fedeli. Nel caso in cui la proposta divenisse legge, sarebbero guai per i cristiani in Nigeria. “Ormai il disegno legislativo ha superato anche la seconda lettura e passerà allo studio delle commissioni parlamentari. Però queste devono capire bene come il provvedimento inciderà, pesantemente, sulle vite di tutti coloro che non sono musulmani”.

E ha aggiunto: “E’ chiaramente anticostituzionale forzare qualcuno ad aderire a una legge che infrange la sua più intima libertà, quella religiosa. Così facendo si provoca e si istiga il popolo. Sarebbe molto meglio mettere al bando, una volta e per sempre, quei gruppi violenti che fanno dell’estremismo la loro ragione di vita”.

Da tempo si dibatte sulla proposta di legge sull’introduzione ufficiale della Sharia nell’ordinamento costituzionale della Nigeria. L’iniziativa, che è stata etichettata dai media come “allargamento” dell’applicazione della legge islamica, porta la firma di Abdalani Bessarabi Salame esponente dell’Alleanza dei Progressisti. Questi, già nei mesi scorsi, aveva provato a rintuzzare le critiche spiegando a Naij.com che: “La legge non vuole fare altro che riconoscere e allargare la giuridisdizione delle corti islamiche, che già abbiamo. I cristiani non hanno nulla da temere”. Rassicurazioni, però, a che non sembrano rasserenare proprio nessuno.
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Messaggioda Berto » gio nov 24, 2016 9:14 pm

Francia: La bomba a orologeria dell'islamizzazione
di Yves Mamou
24 novembre 2016
Pezzo in lingua originale inglese: France: The Ticking Time Bomb of Islamization
Traduzioni di Angelita La Spada

https://it.gatestoneinstitute.org/9413/ ... mizzazione



Di recente, sono stati pubblicati in Francia due importanti studi sui musulmani francesi. Il primo, intitolato in modo ottimista "Un Islam francese è possibile", è stato edito con il patrocinio dell'Institut Montaigne, un think tank francese indipendente.

Il secondo studio, intitolato "Il lavoro, la società e la questione religiosa", è la quarta ricerca annuale congiunta condotta dall'Institut Randstad (una società di reclutamento) e dall'Observatoire du fait religieux en entreprise (Ofre), un istituto di ricerca.

Entrambi gli studi, che colmano un notevole vuoto di conoscenza sulla demografia etnica e religiosa, hanno suscitato una forte reazione mediatica. La Francia è un paese ricco di demografi, studiosi, docenti e istituti di ricerca, ma le statistiche o i dati basati sulla razza, le origini o la religione sono proibiti dalla legge.

La Francia ha 66,6 milioni di abitanti, secondo un censimento del 1° gennaio 2016 condotto dall'Institut national de la statistique (Insee). Ma i questionari del censimento non permettono di sapere quanti musulmani, neri, bianchi, cattolici, arabi, ebrei, etc. vivono oggi nel paese.

Questo divieto è basato su un principio antico e un tempo salutare per evitare ogni tipo di discriminazione in un paese in cui "l'assimilazione" è la regola. L'assimilazione alla francese implica che ogni straniero che desidera vivere in Francia deve attenersi al codice di comportamento della popolazione locale e sposare rapidamente un autoctono. Questo modello di assimilazione ha perfettamente funzionato per gli spagnoli, i portoghesi o i polacchi. Ma con gli arabi e i musulmani non è più così.

Oggi, nonostante tutte le buone intenzioni, il divieto di raccogliere i dati che potrebbero essere fonte di discriminazione è diventato un ostacolo alla sicurezza nazionale.

Quando un gruppo di persone, che agiscono apertamente in base alla loro religione e origine etnica, inizia ad attaccare i principi fondamentali della società, sarebbe necessario – e impellente – che questa società sappia quali sono queste religioni ed etnie e quante persone rappresentano.

I due studi in questione non si basano sui dati censuari, ma sui sondaggi. L'Institut Montaigne, ad esempio, scrive che i musulmani rappresentano il 5,6 per cento della popolazione metropolitana della Francia ossia tre milioni di persone. Invece, Michèle Tribalat, una demografa specializzata in problemi dell'immigrazione, ha scritto che nel 2014 è stata raggiunta la soglia di cinque milioni. Il Pew Research Center stima che a metà del 2010 la popolazione musulmana della Francia ha raggiunto i 4,7 milioni di persone. Secondo altri studiosi, come Azouz Begag, ex ministro delle Pari opportunità (si dimise dal governo nel 2007), in Francia ci sono almeno 15 milioni di musulmani.
Lo studio dell'Institut Montaigne: la secessione dei musulmani francesi

Lo studio condotto dall'Institut Montaigne, pubblicato il 18 settembre, si basa su un sondaggio realizzato dall'Ifop (Istituto francese dell'opinione pubblica), su un campione di 1.029 musulmani. L'autore dello studio è Hakim el Karoui, un ricercatore che è stato consigliere del primo ministro Jean-Pierre Raffarin (2002-2005).

Secondo El Karoui si delineano tre profili di musulmani:

Il primo gruppo, il più importante, è costituito dai cosiddetti "laici" (46 per cento). Essi hanno dichiarato di essere "totalmente secolarizzati, anche quando la religione occupa un posto importante nella loro vita". Pur dicendosi laici, molti di loro appartengono al gruppo che è favorevole al fatto che le donne indossino l'hijab (58 per cento degli uomini e 70 per cento delle donne). Questi "laici" rientrano anche nel gruppo (60 per cento) dei musulmani che sono favorevoli all'uso dell'hijab nelle scuole, sebbene il velo islamico sia vietato nelle scuole dal 2004. Molti di questi "laici" fanno anche parte di quel 70 per cento di musulmani che consumano "sempre" carne halal (solo il 6 per cento non l'acquista mai). Secondo lo studio, indossare un hijab e mangiare solo carne halal vengono considerati dagli stessi musulmani come eloquenti segni dell'identità musulmana in Francia.

Un secondo gruppo è quello dei "conservatori" (25 per cento del campione) che sono "fieri di essere musulmani". Essi si definiscono molto pii e rivendicano il diritto di esprimere la propria appartenenza religiosa (indossando l'hijab e consumando carne hahal) nei luoghi pubblici. Rigettano però il niqab e la poligamia. Dicono di rispettare la laicità e le leggi della Repubblica, ma sono a favore dell'uso dell'hijab nelle scuole.

Gli "ultras" costituiscono l'ultimo gruppo, ossia il 28 per cento del campione, e rappresentano il profilo più autoritario. Proclamano il diritto di non vivere nel rispetto dei valori repubblicani. Per loro, i valori islamici e la legge islamica della sharia vengono prima delle leggi della Repubblica. Si dicono favorevoli alla poligamia e all'uso del niqab o del burqa.

"Questo 28 per cento aderisce all'Islam nella sua versione più retrograda, che è diventata per loro un forma di identità. L'Islam è l'asse portante della loro rivolta; e questa rivolta trova espressione in un Islam di rottura, nelle teorie del complotto e nell'antisemitismo", secondo quanto asserito da Hamid el Karoui in un'intervista al Journal du Dimanche.

Hamid el Karoui, parlando delle opinioni espresse dai musulmani francesi in un'intervista al Journal du Dimanche, ha detto: Questo 28 per cento aderisce all'Islam nella sua versione più retrograda, che è diventata per loro un forma di identità. L'Islam è l'asse portante della loro rivolta; e questa rivolta trova espressione in un Islam di rottura, nelle teorie del complotto e nell'antisemitismo".

La cosa più importante è che questo 28 per cento è costituito in prevalenza da giovani (il 50 per cento ha meno di 25 anni). In altre parole, un giovane musulmano francese su due è un salafita del tipo più radicale, anche se non frequenta una moschea.

E allora la domanda è "quanti saranno tra cinque, dieci, venti anni?" È importante chiederselo, perché i sondaggi presentano sempre un fotogramma di una situazione. Quando vediamo che il velo e il cibo halal sono imposti all'intera famiglia dai "fratelli maggiori", dobbiamo capire che è in corso un processo, un processo di secessione a causa della re-islamizzazione dell'intera comunità musulmana da parte dei giovani.

La giornalista e scrittrice Elisabeth Schemla ha scritto sulle pagine di Le Figaro:

"Per capire cos'è la re-islamizzazione occorre definire che cos'è l'islamismo. La definizione più esatta è quella data da uno dei suoi più ferventi sostenitori, il consigliere di Stato Thierry Tuot, uno dei tre magistrati scelti questa estate per decidere se vietare o meno l'uso del burkini in spiaggia (...). L'islamismo, egli scrive, è 'la rivendicazione pubblica di comportamenti sociali presentati come esigenze divine che irrompono nell'arena pubblica e politica'. Alla luce di questa definizione, lo studio di El Karoui mostra che l'islamismo si diffonde inesorabilmente".

L'Islam sul posto di lavoro: l'islamismo in movimento

Questa bomba a orologeria lavora in silenzio... nei luoghi di lavoro.

Un sondaggio condotto tra aprile e giugno 2016 dall'Institut Randstad e l'Observatoire du fait religieux en entreprise (Ofre) su 1.405 manager di varie aziende ha rivelato che due dirigenti su tre (65 per cento) parlano di regolari "comportamenti religiosi" sul luogo di lavoro, nel 2015 era il 50 per cento a segnalarli.

Il professor Lionel Honoré, direttore dell'Ofre e autore dello studio, ammette tranquillamente che "nel 95 per cento dei casi" il "comportamento religioso sul posto di lavoro è quello tenuto dai musulmani".

Per capire l'importanza di questo "Islam visibile" nelle imprese e negli uffici francesi, dobbiamo ricordare che tradizionalmente il luogo di lavoro è considerato come uno spazio neutrale. La legge non vieta alcun tipo di espressione religiosa o politica sul luogo di lavoro, ma per tradizione, dipendenti e datori di lavoro ritengono che va mostrata moderazione nell'esercizio della libertà religiosa.

Lo studio Ranstad del 2016 mostra che questa vecchia tradizione è terminata. I simboli religiosi proliferano nel luogo di lavoro e il 95 per cento di questi simboli visibili sono islamici. Ci sono anche espressioni del sentimento religioso cristiano o ebraico, ma rispetto all'Islam il fenomeno è insignificante.

Il sondaggio ha esaminato due tipi di espressione del credo religioso:

Le pratiche personali, come il diritto di assentarsi dal lavoro per le feste religiose, le ore di lavoro flessibili, il diritto di pregare durante le pause di lavoro e il diritto di portare simboli del proprio credo religioso.
Turbative sul luogo di lavoro o la violazione di norme, come rifiutarsi di lavorare con una donna o di accettare ordini da una dirigente donna, rifiutarsi di lavorare con persone di religione diversa, rifiutarsi di svolgere compiti specifici e fare proselitismo durante l'orario di lavoro.

Pratiche personali. "Nel 2016", si legge nello studio, "indossare simboli religiosi [hijab] è diventata la massima espressione della fede religiosa (21 per cento dei casi contro il 17 per cento nel 2015 e il 10 per cento nel 2014). Rimane stabile la richiesta di assentarsi dal lavoro in occasione di festività religiose (18 per cento), ma ora è passata in secondo piano.

Turbative sul luogo di lavoro. Lo studio Randstad – politicamente corretto – tende a minimizzare i conflitti tra dipendenti e datori di lavoro per motivi religiosi. Nel 2016, si rileva che tali conflitti sono "minoritari" e sono "solo" il 9 per cento. Tuttavia, si registra un aumento del 50 per cento dei conflitti rispetto al 2015 (6 per cento). Inoltre, i disaccordi sul posto di lavoro sono triplicati dal 2014 (3 per cento) e quasi quintuplicati dal 2013 (2 per cento).

Eric Manca, un avvocato giuslavorista dello studio legale August & Debouzy che era presente alla conferenza stampa della presentazione dello studio Randstad, ha detto che quando i conflitti religiosi diventano una procedura giudiziaria "sono sempre legati all'Islam. I cristiani e gli ebrei non muovono mai un'azione legale contro i loro datori di lavoro per motivi religiosi". Quando gli islamisti perseguono penalmente un loro datore di lavoro, la giurisprudenza mostra che l'accusa è sempre basata sul "razzismo" e la "discriminazione" – accuse che hanno un forte potere intimidatorio sui datori di lavoro.

I motivi di conflitto enumerati comprendono il proselitismo (6 per cento), il rifiuto di svolgere mansioni (6 per cento), ad esempio, un addetto alle consegne che si rifiuta di consegnare alcolici ai clienti; il rifiuto di lavorare con una donna o sotto la direzione di una donna (5 per cento) e la richiesta di lavorare solo con musulmani (1 per cento). Questi casi riguardano principalmente "i fornitori di autovetture, le imprese edilizie, le aziende che si occupano della gestione di rifiuti, i supermercati (...) e sono circoscritti alle regioni periurbane".
Conclusioni

Il modello francese di assimilazione non funziona più. Come osservato nell'introduzione, il modello francese di assimilazione ha funzionato per tutti fuorché per i musulmani francesi; e le scuole pubbliche non sono in grado oggi di trasmettere valori repubblicani, soprattutto ai giovani musulmani. Secondo Hakim el Karoui:

"I musulmani di Francia vivono nel bel mezzo di più crisi. La Siria, ovviamente, che scuote lo spirito. Ma anche la trasformazione delle società arabe dove le donne assumono un ruolo nuovo: le studentesse sono più numerose degli studenti, le ragazze sono più istruite dei loro padri. La religione, nella sua versione autoritaria, è un'arma di reazione contro queste evoluzioni. (...) E per finire, c'è la crisi sociale: i musulmani, per due terzi lavoratori bambini e salariati, sono le principali vittime della deindustrializzazione".

L'islamizzazione si sviluppa ovunque. Nei centri urbani, la maggior parte delle donne arabe indossa il velo e nelle banlieu, burqa e niqab sono sempre più comuni. Al lavoro, dove il comportamento non religioso era in genere la regola, i datori di lavoro cercano di capire come far fronte alle pretese islamiste. Nelle grandi multinazionali, come Orange (che opera nell'ambito delle telecomunicazioni) è stato nominato "un direttore della diversità" per gestire le richieste ed evitare i conflitti. Nelle piccole imprese, i dirigenti sono nel panico. I conflitti e le vertenze sono in aumento.

Il silenzio dei politici. Nonostante l'ampia copertura mediatica riservata a questi due studi, un sorprendente silenzio è stato rilevato da parte dei politici. Un silenzio preoccupante se si considera il fatto che lo studio dell'Institut Montaigne contiene anche alcune proposte per costruire un "Islam di Francia". Fra tali proposte, c'è quella di porre fine ai finanziamenti esteri delle moschee e formare ed educare i religiosi musulmani al rispetto della Repubblica e della laicità. Altre idee, come l'insegnamento dell'arabo nelle scuole laiche per "evitare che i genitori iscrivano i loro figli nelle scuole coraniche", sono alquanto bizzarre perché rischiano di perpetuare la fallita strategia di integrare l'islamismo attraverso le istituzioni. I giovani musulmani francesi, anche quelli nati in Francia, hanno difficoltà a parlare e scrivere correttamente in francese. Ecco perché devono imparare a farlo prima di ogni altra cosa.

Questi due studi rivelano carenze nell'attività di ricerca. I politici, i giornalisti e tutti i cittadini devono saperne di più sull'Islam, sui suoi principi e i suoi obiettivi nel Paese. È incredibile che gli unici strumenti a nostra disposizione siano degli inadeguati sondaggi d'opinione. Senza conoscenza non è possibile alcuna azione politica né qualsiasi altro tipo di azione. È una situazione di cui beneficiano in larga misura gli islamisti politici aggressivi.

Senza una maggiore conoscenza, la negazione dell'islamizzazione e l'immobilità nell'affrontarla continueranno. L'ostinata cecità è la madre dell'imminente guerra civile, a meno che i francesi non preferiscano sottomettersi all'Islam senza lottare.

Yves Mamou, vive in Francia, ha lavorato per vent'anni come giornalista per Le Monde.
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Messaggioda Berto » mer feb 15, 2017 8:17 am

Cina, assalto con coltelli: otto persone uccise nello Xinjiang
14 febbraio 2017

http://www.tgcom24.mediaset.it/mondo/ci ... 702a.shtml

Otto persone sono state uccise a coltellate nella regione autonoma dello Xinjiang, nel nord-ovest della Cina. L'aggressione è stata compiuta da tre uomini, che hanno assaltato un gruppo di persone ferendone anche altre dieci, prima di essere uccisi dalla polizia. Negli ultimi anni lo Xinjiang ha registrato una serie di episodi di violenza che Pechino ha attribuito ai separatisti uiguri, etnia turcofona di religione islamica.

https://it.wikipedia.org/wiki/Xinjiang
Lo Xinjiang, o Regione autonoma uigura dello Xinjiang (talvolta Sinkiang, 新疆维吾尔自治区S, Xīnjiāng Wéiwú'ěr ZìzhìqūP), è una regione autonoma della Repubblica Popolare Cinese dal 1955. La maggioranza della sua popolazione è uigura (45%).

Attraversato dalla Via della Seta, lo Xinjiang è il nome cinese per le regioni del Tarim e dello Jungar dell'odierna Cina nord-occidentale. Nel corso degli ultimi due millenni, la regione dello Xinjiang è stata governata dall'Impero Turcomanno, dal Tibet, dal Regno Uiguro di Idiqut, dal Khanato moghul dello Yarkland, dagli Zungari e per circa 125 anni dalla Dinastia Han e dalla Dinastia Tang. L'impero Qing controllò il territorio della regione fino alla conquista da parte dell'imperatore manciù Qianlong nel 1758. Il controllo Manciù era esercitato dal Generale di Ili, di stanza a Gulja. Yaqub Beg ottenne l'indipendenza dello Xinjiang a spese del governo manciù nel 1864. Nel 1877 i Manciù ripresero il controllo del territorio e nel 1884 stabilirono la provincia dello Xinjiang (nuova frontiera). Durante la tarda Dinastia Qing la maggior parte dello Xinjiang nord-occidentale fino al lago Balkhash fu governata dall'Impero Russo. Questa area corrisponde oggi a parte del Kazakistan, del Kirghizistan e del Tagikistan.

Cina: il terrorismo islamico, il separatismo etnico e i limiti della censura
di Cristiano Consolini - 17 giugno 2014

http://www.geopolitica.info/cina-terror ... ti-censura

I musulmani sono presenti in Cina fin dal VII secolo d.C. e sebbene la Costituzione della Repubblica Popolare Cinese riconosca alle minoranze delle tutele, le stesse lamentano una forte discriminazione. Tra queste vi è l’etnia uigura, turcofona, musulmana sunnita e di origine altaica che si trova nella regione autonoma dello Xinjiang, nell’estremo occidentale della Cina. Le lotte tra questa minoranza e la maggioranza Han si susseguono da secoli, recentemente, però, questi attacchi sono avvenuti nel cuore stesso della Cina interna e fanno pensare a un gruppo terroristico organizzato.

Nei media internazionali si è recentemente iniziato a parlare degli attentati islamici in Cina: questi attacchi non sono però novità, infatti analizzando le fonti storiche si scopre che gli attacchi alla popolazione Han nella regione autonoma dello Xinjiang iniziarono con una certa frequenza negli anni novanta. La particolarità di questi attacchi era sempre stata quella di scatenarsi entro i confini della regione e quasi sempre contro amministrazioni locali o rappresentanze del Partito al potere. Un modus operandi che rientrava nelle rivendicazioni di autonomia perpetrate da parte delle minoranze etniche della regione.
Molti degli attacchi nascono come rivolte estemporanee contro gli abusi subiti dalle minoranze da parte delle forze dell’ordine nel quotidiano. Con la neo presidenza di Xi Jinping nel 2013, si è fatto un maggiore ricorso alle armi da parte della polizia e dei corpi militari nei centinaia di scontri avvenuti nel 2013 nello Xinjiang sono morte 219 persone la quasi totalità tra la minoranza uigura e i civili, mentre un decimo delle vittime era fra le forze dell’ordine.

Sono due gli attacchi che manifestano, però, l’affermarsi di un terrorismo strutturato di matrice islamica in Cina: il primo è avvenuto a fine ottobre 2013 in piazza Tienanmen, quando un 4×4 ha attraversato la piazza piena di turisti prima di schiantarsi e andare a fuoco vicino al ritratto di Mao Zedong. I tre uomini presenti nell’auto e due turisti sono morti mentre decine sono stati i feriti. L’attentato suicida, che è avvenuto pochi giorni prima della terza sessione plenaria del XVIII Congresso del Comitato Centrale del Partito Comunista, è stato rivendicato dall’ETIM, il Movimento Islamico del Turkestan orientale, movimento presente nella lista delle formazioni terroristiche stilata dal Congresso USA a seguito degli attacchi dell’undici settembre.

Il secondo attacco terroristico è avvenuto il primo marzo 2014 nella stazione ferroviaria di Kunming, nello Yunnan, regione nella parte meridionale della Cina. Otto persone armate di coltelli e coltellacci hanno attaccato i viaggiatori in attesa nella stazione. Prima di essere fermati dalla polizia (quattro sono stati uccisi e gli altri quattro arrestati), quelli che sono stati identificati come uiguri dello Xinjiang sono riusciti a uccidere 29 persone. Anche questo secondo attentato è avvenuto poco prima dell’apertura di due importanti eventi politici, la dodicesima Assemblea Nazionale del Popolo (il Parlamento cinese, NdR) e la Conferenza politica consultiva del Popolo cinese.

Rispetto ai precedenti attacchi questi si caratterizzano per l’essere stati attuati al di fuori dello Xinjiang e contro obiettivi civili. Questa novità ha fatto definire l’ultimo attacco come l’”11/9 cinese” e il Presidente Xi Jinping ha annunciato delle «severe ripercussioni» nei confronti dei separatisti. La crescente ‘popolarità’ della questione ha portato i media internazionali a interessarsi alla situazione nello Xinjiang. Il 22 maggio scorso la notizia dell’attentato esplosivo in un mercato della Regione uigura è comparsa nelle testate mondiali, prima era successo solamente durante la sommossa di Urumqi nel 2009. Sebbene i media internazionali e, molti analisti riportino le notizie di questi attentati e di altri minori, non sono però in tanti a porsi due questioni.

La prima questione è una critica sull’attendibilità delle informazioni presentate. Avvenendo in luoghi pubblici gli attacchi ricevono una copertura da parte dei cittadini che potrebbero contribuire alla diffusione delle informazioni tramite il citizen journalism oggi sempre più diffuso grazie alle fotocamere dei telefonini, ma intervenendo la nota censura cinese, a seguito di ogni attentato viene fatta piazza pulita dei vari scatti. Inoltre la presenza come uniche fonti dei comunicati del Governo e dell’Agenzia stampa di governo, la Xinhua, nonché il contenimento dei media stranieri limitano molto la credibilità della ricostruzione degli eventi e soprattutto le sicure e repentine accuse verso la minoranza uigura.
La seconda questione riguarda i motivi di questi attacchi terroristici. La minoranza uigura e i musulmani in Cina vantano una presenza millenaria nella storia cinese. I mercanti arabi avevano relazioni con la Cina da prima della nascita di Maometto e dopo la conversione all’Islam la presenza dei musulmani nei ruoli chiavi militari, amministrativi e del commercio nelle differenti Dinastie è indiscutibile. Sebbene avessero delle limitazioni religiose questi si erano sempre dimostrati fedeli ai regnanti fino all’arrivo della Dinastia Qing (l’ultima Dinastia cinese che regnò dal 1644 al 1911) contro cui si schierarono in favore dei predecessori, i Ming. Con la Dinastia Qing molti musulmani videro un aumento delle discriminazioni mentre altri furono costretti a ‘cinesizzarsi’ abbandonando l’uso della lingua e venendo forzati alle relazioni miste. I loro discendenti sono oggi conosciuti come esponenti della minoranza Hui, distinguibile dagli Han solo per la professione religiosa, sebbene non ortodossa, e per il mantenimento di alcuni abiti tradizionali.
Nelle zone periferiche come lo Xinjiang (che significa letteralmente nuova frontiera), le minoranze etniche rimasero maggioritarie. La Dinastia Qing come anche il Governo repubblicano sorto nel 1949 attuarono a più riprese delle migrazioni pianificate per portare gli Han nelle regioni periferiche, e questo fu fatto per favorire il controllo ‘cinese’ nelle “zone cuscinetto”, ovvero quelle zone che dovevano difendere la Cina interna da eventuali attacchi.

Dopo la fine della Dinastia Qing, nel 1911, il controllo dello Xinjiang passò a dei signori della guerra che alternavano le loro alleanze tra la Cina e l’Unione Sovietica, e questo permise la creazione di due Repubbliche Indipendenti del Turkestan Orientale, che malgrado la loro breve vita riuscirono a dare un forte slancio morale alla minoranza uigura. Questa nei negoziati di riunificazione della Repubblica Popolare del 1949 riuscì a guadagnare la concessione dell’autonomia della Provincia da parte del Governo centrale (Autonomia che però non si è realizzata de facto, essendo il Governo Centrale a porre il veto sia in materia legislativa che finanziaria).

Le campagne degli anni ’50 e la Rivoluzione Culturale portarono poi alla carcerazione degli intellettuali uiguri, dei filo-sovietici (veniva accusato di essere filo-sovietico chiunque movesse la più piccola critica verso le azioni del governo centrale) e alla dissacrazione dei luoghi di preghiera (molte moschee furono trasformate in porcilaie durante la Rivoluzione culturale). L’arrivo di Deng Xiaoping nel 1979 portò a una mitigazione delle politiche discriminatorie e all’apertura all’Occidente. Molti politici e pensatori cinesi ritengono questo ‘rilassamento’ la causa principale della nascita della minaccia separatista, mentre le cause principali sono la povertà in cui versano gli Uiguri e i privilegi offerti agli Han per stabilirsi nella regione.

La politica cinese ha inoltre posto il separatismo, l’estremismo religioso e il terrorismo sullo stesso livello, definendoli i “Tre Mali” da eradicare e punire con pene severe, inclusa la pena di morte. L’apice della lotte ai separatisti è arrivato a seguito degli attacchi alle Torri gemelle del 2001 quando il governo cinese si è subito schierato al fianco degli Stati Uniti nella lotta al terrorismo mondiale e a quello domestico dichiarando ogni movimento separatista come movimento terroristico. Il governo statunitense, sebbene abbia mantenuto nella lista due movimenti terroristici legati agli uiguri (uno è il sopraindicato ETIM) riprende spesso il Governo cinese contro le violazione dei diritti umani commesse nei confronti degli Uiguri e ha concesso asilo politico a molti intellettuali uiguri ritenuti separatisti/terroristi dal governo cinese.

I piani del governo cinese sembrano condurre verso un completo annichilimento delle minoranze, lo Xinjiang non è come il Tibet dove i tibetani mantengono una percentuale schiacciante nei confronti dell’etnia Han. Solo nella parte sud-occidentale della regione autonoma dello Xinjiang, gli uiguri conservano una percentuale maggioritaria. Purtroppo, però, queste zone sono anche le più povere e sottosviluppate.
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Messaggioda Berto » sab feb 18, 2017 7:55 pm

Caro Papa Francesco si sbaglia il terrorismo islamico esiste
Magcristiano Allam - Sab, 18/02/2017
http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 65629.html

di Magdi Cristiano Allam

Non è la prima volta che Papa Francesco scende in campo per assolvere l'islam dalla responsabilità del terrorismo di chi sgozza, decapita, massacra e si fa esplodere urlando «Allah è il più grande». L'ha fatto all'indomani della strage dei vignettisti di Charlie Hebdo il 7 gennaio 2015 a Parigi, arrivando a giustificare l'atrocità dell'Isis per avere rappresentato in modo irriverente Maometto.
L'ha fatto all'indomani del barbaro sgozzamento il 26 luglio 2016 in una chiesa a Saint-Étienne-du-Rouvray, in Normandia, dell'anziano sacerdote cattolico Jacques Hamel da parte di due giovani terroristi islamici francesi.
Cinque giorni dopo, domenica 31 luglio, quasi fosse la Chiesa a doversi discolpare e quasi fosse la cristianità a dovere tendere la mano all'islam, fu consentito agli imam di entrare nelle chiese in Italia e in Francia, di salire sugli altari affiancati dal sacerdote e di recitare i versetti del Corano in arabo. Fu la prima volta in assoluto che accadde in 1.400 anni di storia dell'islam.
La Chiesa per 1.400 anni ha sempre condannato l'islam, ha sempre condannato il Corano, ha sempre condannato Maometto. Non c'era mai stata una così formale e plateale legittimazione dell'islam come religione.

L'affermazione di Papa Francesco fatta ieri all'università Roma Tre, «non esiste il terrorismo cristiano, non esiste il terrorismo ebraico e non esiste il terrorismo islamico», è un passo ulteriore nell'accreditare il relativismo religioso. Mettere sullo stesso piano ebraismo, cristianesimo e islam, assolvendoli indistintamente e acriticamente perché sarebbero le «tre grandi religioni monoteiste, rivelate, abramitiche», sostenendo che tutte e tre adorerebbero lo stesso Dio «clemente e misericordioso», ci impone la conclusione che l'islam è una religione legittima a prescindere dai suoi contenuti e dai comportamenti violenti dei suoi adepti.

Papa Francesco sbaglia nel sovrapporre in modo automatico la dimensione della persona con la dimensione della religione. Il cristianesimo si fonda sull'amore del prossimo, il cristiano è tenuto ad amare cristianamente il musulmano a prescindere dalla sua fede, ma non a legittimare la sua religione anche se i suoi contenuti sono del tutto incompatibili con la fede cristiana, perché l'islam condanna l'ebraismo e il cristianesimo di miscredenza e legittima l'uccisione dei miscredenti.

Sarebbe sufficiente che Papa Francesco ascoltasse più attentamente i sacerdoti e i vescovi cristiani e cattolici d'Oriente, che conoscono bene l'arabo e il Corano, che hanno subito la discriminazione e patito la persecuzione islamica per il semplice fatto di essere cristiani.

Papa Francesco sbaglia facendo propria la tesi che ha prevalso in seno ai vertici della Chiesa, secondo cui il nemico da combattere è la secolarizzazione della società e la diffusione dell'ateismo, specie tra i giovani. In questo contesto si è giunti alla conclusione che l'islam sarebbe un alleato perché mantiene comunque in piedi l'idea di Dio. Si tratta di un tragico errore perché non è lo stesso Dio. Non c'è nulla che accomuna il Dio Padre della cristianità con l'Allah islamico che nei versetti 12-17 della Sura 8 del Corano tuona «getterò il terrore nel cuore dei miscredenti. Colpiteli tra capo e collo (...) Non siete certo voi che li avete uccisi, è Allah che li ha uccisi».

Papa Francesco sbaglia promuovendo un immigrazionismo che sta auto-invadendo l'Europa di milioni di giovanotti islamici. Come può immaginare che la rigenerazione della vita e la rivitalizzazione della spiritualità in questa Europa decadente possa realizzarsi con la sostituzione della nostra popolazione con una umanità meticcia e con l'avvento dell'islam? Il continuo riferimento storico sulle contaminazioni etniche che hanno connotato la storia dell'Europa è sbagliato, sia perché si è trattato di popolazioni cristiane o che hanno aderito al cristianesimo, sia soprattutto perché l'Europa e la Chiesa hanno potuto salvaguardare la propria identità e la propria civiltà solo perché hanno combattuto e sconfitto gli eserciti invasori islamici a Poiters (732), con la Reconquista (1492), a Lepanto (1571), a Vienna (1683).

Papa Francesco si ricordi che tutto il Mediterraneo era cristiano fino al Settimo secolo. E che in meno di 200 anni dopo la morte di Maometto nel 632 le popolazioni cristiane al 98% che popolavano la sponda orientale e meridionale del Mediterraneo furono violentemente sottomesse all'islam. Per averlo evocato nella sua Lectio Magistralis a Ratisbona il 12 settembre 2006 Benedetto XVI fu messo in croce fino a quando fu costretto a rassegnare le dimissioni.

Papa Francesco probabilmente sa già tutto ciò e pertanto non possiamo continuare a dire che sbaglia. Dobbiamo avere l'onestà intellettuale e il coraggio umano di dire che Papa Francesco sta consapevolmente ottemperando a una strategia finalizzata alla legittimazione dell'islam come religione costi quel che costi, anche se culminerà nel suicidio della Chiesa.
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Messaggioda Berto » gio mar 30, 2017 12:05 pm

AQIS
Paolo Palumbo
30/03/17

http://www.difesaonline.it/evidenza/app ... menti/aqis

Il 3 settembre 2014 il capo di al-Qaeda Central, Ayman al-Zawahiri annunciò al mondo islamista la nascita di un nuovo gruppo combattente il cui scopo principale era diffondere la jihad in tutto il sub continente indiano. Da diversi anni, nelle regioni del Kashmir, nel Gujarat, Assam e Burma i fratelli musulmani erano sopraffatti dalla politica discriminante dei rispettivi governi i quali li avevano condannati all’isolamento e in alcuni casi alla persecuzione. Gli affiliati qaedisti, il cui acronimo era AQIS, abbreviativo che significava Al-Qaeda in the Indian Subcontinent prendevano in carico le recriminazioni dei mussulmani in India, Bangladesh, Afghanistan e una parte del Pakistan.

Il 2014 era stato un anno impegnativo per il direttivo di al-Qaeda poiché il giovane leader dell’ISIS Abu Bakr al-Baghdadi, con l’improvvisa proclamazione sulla nascita del Califfato, si era autoeletto a bandiera protettrice della jihad globale. Il dissenso palesato da al-Zawahiri e la mancata adesione di al-Qaeda al nuovo sedicente Stato, provocò una spaccatura tra gli islamisti, laddove proprio l’organizzazione di bin-Laden subiva il contraccolpo peggiore. Anche in Afghanistan le cose stavano precipitando: la latitanza del Mullah Omar – poi dichiarato morto l’anno successivo – aveva diviso i talebani i quali agivano ormai in piccoli gruppi indipendenti molti dei quali, per altro, stavano confluendo nelle file dell’ISIS. Secondo l’opinione di diversi analisti la nascita di AQIS era una risposta diretta di al-Qaeda Central contro l’infiltrazione dello Stato Islamico in quella parte del mondo anche se al-Zawahiri in un lungo discorso, puntualizzò come il progetto “it was the product of more than two years’ work in recruiting fighters and uniting diffrent pre-existing Jihadi groups in the Indian Subcontinent”1 .

Il subcontinente indiano e la jihad

Effettivamente AQIS raggruppava diversi nuclei di islamisti che già da tempo svolgevano azioni in quella regione; alcuni tra i più importanti erano gli Indian Mujahideen (IM) piuttosto che i pakistani di Lashkar-e-Taiba (LeT) o Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP)2. L’elezione del primo ministro indiano Narendra Modi – ritenuta responsabile della strage di Gujarat nel 2002 dove perirono 1000 musulmani – alimentò il malcontento di una minoranza oppressa, costretta a vivere in ghetti, senza dignità ed educazione. Se le condizioni di vita in regioni come il Kashmir erano la prima causa di ribellione, dal punto di vista dottrinale la guerra santa in India percorreva il sentiero tracciato da Ghazwa-e-Hind o “Battaglia per riunire l’India”, un Hadit del Profeta che divenne il testo di riferimento per tutti coloro che bramavano fondare un Califfato nella regione. Per al-Qeada l’interpretazione della Hind e la sua realizzazione fu sempre secondaria rispetto altri obiettivi, rivolti prevalentemente contro gli occidentali: Osama bin Laden, una volta perse le sue basi in Afghanistan, spostò l’attenzione verso lo Yemen commettendo, a detta di alcuni sostenitori, una scorrettezza rispetto il vero senso della jihad e dove questa si sarebbe dovuta attuare con maggior vigore. Nel 2013, ad esempio, il Mullah Fazlullah leader degli jihadisti pakistani di TTP rivendicò l’importanza della Hind, richiamando l’attenzione della comunità islamista su quali fossero le vere conquiste della Guerra Santa, vale a dire Pakistan, India, Lahore, Multan e Punjab, mentre gli altri obiettivi erano solo secondari 3.

Dal punto di vista meramente operativo, la jihad indiana e del Bangladesh era un fenomeno coevo alla formazione di al-Qaeda, o meglio, una diretta conseguenza del conflitto russo afghano degli anni Ottanta4. Le rivendicazioni musulmane nella regione subirono poi un’escalation a partire dal 2000, con un deciso aumento degli attentati contro obiettivi governativi. Il progetto AQIS e la creazione di un fronte unico jihadista nel subcontinente indiano ottenne così un duplice vantaggio, soprattutto per al-Qaeda: da un lato l’organizzazione di al-Zawahiri ribadiva la sua supremazia in un settore dove lo Stato Islamico stava cercando di insinuarsi, dall’altro i gruppi misconosciuti di quell’area potevano finalmente fregiarsi di un “marchio” che dava loro prestigio e motivazione. Per rinvigorire la credibilità di AQIS, lo sceicco egiziano nominò il giovane Maulana Asim Umar come emiro, una scelta non casuale che evidenziava come al-Qaeda Central confidasse, ora più che mai, su dirigenti non arabi. Una investitura che, secondo Husain Haqqani, rivelava ancora una volta la debolezza di al Zawahiri rispetto al-Baghdadi il quale era riuscito ad accaparrarsi la fiducia di buona parte del mondo arabo, un tempo il principale bacino di reclutamento dei qaedisti.

Asim Umar era comunque una scelta azzeccata poiché giovane (40 anni circa), colto e capace di esprimersi in Urdu, Inglese, Arabo e Pashto. Il suo radicalismo era maturato a Karachi, presso la madrasa di Jamia Uloomul Islamia uno dei più noti divulgatori della jihad in Pakistan5. Umar esordì in al-Qaeda come addetto alla propaganda giacché avvezzo all’uso di internet e valido scrittore: pubblicò ben quattro libri in lingua Urdu e numerosi articoli tra cui il più noto era The Future of Muslims in India apparso sulla rivista qaedista Resurgence. Nel testo, Umar si scagliava contro la falsa “democrazia Indiana” colpevole di schiacciare l’identità dei mussulmani: “for far too many years the Muslims of India have been fooled by the empty slogans of ‘Indian Democracy’, ‘Secular State’, ‘Land of Ghandi’, ‘Paece’, and so on. Those whose homes have been reduced to ashes by the Hindu’s deep rooted hatred will not be bluffed by these empty slogans”6. La composizione di Umar appare effettivamente come un vero e proprio manifesto di AQIS dove, dopo le solite rivendicazioni, viene promessa una vittoria sicura sugli infedeli: “Ahadith as well as recent events also portend a bright future for the Muslims of India; a future linked with the establishment of the Islamic Emirate in Afghanistan. The time has come for the Muslims of India to play a proactive rule in the Jihad in Afghanistan and benefit from the experience of forty years of Jihad so that they may build a better future for coming generations”7. Appare, inoltre, chiaro come Asim non faccia alcun cenno allo Stato Islamico, ribadendo con convinzione la vicinanza all’emirato afghano e un chiaro allineamento alle idee di al-Zawahiri. Il direttivo di al-Qaeda Central reputava Umar una pedina importante nello scenario indiano, soprattutto grazie alla rete di conoscenze da lui intessuta con i gruppi talebani che si muovevano al confine tra Afghanistan e Pakistan e con i fratelli mussulmani del Kashmir.

Dalle idee alla lotta

Il debutto degli jihadisti di AQIS risale al 2012 nel completo anonimato, quando ancora non vi era alcuna ufficialità circa l’esistenza del gruppo. Nel 2012, Aniqa Naz, blogger pakistano, fu ucciso con l’accusa di blasfemia. L’anno successivo un altro blogger, Ahmed Raijab Heider (foto) finiva nelle mire dei terroristi poiché accusato di non essere un vero mussulmano, reo di aver pubblicato alcuni articoli contro l’islamismo. Questi due omicidi furono rivendicati da AQIS soltanto nel 2015, quando gli autori godevano ormai del patrocinio di al-Zawahiri ed avevano bisogno di promuovere le loro imprese. L’assassinio di alcuni blogger non era però il tipo di azione che poteva dare ad AQIS fama internazionale, perciò serviva qualcosa di più eclatante e nel contempo rischioso.

Il 6 settembre 2014 alcuni terroristi abbordarono la nave pakistana PNS Zulfiqar: Indubbiamente attaccare una nave militare, completa di armi ed equipaggio, era un’azione davvero spettacolare e, tra l’altro, usciva dagli schemi prettamente “terrestri” del terrorismo islamista: “This attack also highlighted a new and emerging strategy of al-Qaeda to target America’s control of the sea”8. L’indagine che seguì l’attacco – per altro fallito con l’uccisione di un terrorista – portò alla luce una cospirazione ad alti livelli: la PNS Zulfiqar imbarcava otto missili antinave C-802 i quali dovevano essere usati contro il naviglio americano presente nell’Oceano Indiano. Inoltre, dato più preoccupante era il coinvolgimento di numerosi ufficiali e marinai della marina pakistana, reclutati direttamente nelle file di AQIS. Ancora una volta la rivista Resurgence aveva preannunciato l’attacco con un articolo intitolato Targeting the Achilles Heel of Western Economies firmato da Hamza Khalid. Lo stretto di Hormuz e il canale di Suez – punti di passaggio fondamentali sulle linee commerciali di tutto il mondo – dovevano diventare punti vulnerabili poiché il mare sarebbe diventato il nuovo teatro ove colpire gli interessi delle democrazie occidentali, almeno questa era la volontà di Allah: “I was presented with some of my nation who were going out to fight in the cause of Allah riding the sea like kings of thrones”9. I progetti di AQIS erano al di sopra della loro possibilità e così il 26 febbraio 2015 ripresero a puntare le armi contro la libertà di espressione, assassinando Avijit Roy, un blogger ateo di Dhaka in Balgladesh; lo stesso si ripeté per altri quattro blogger.

Segnale di forza o debolezza?

Alastair Reed, nella sua lucida analisi su AQIS, fa una riflessione sensata riguardo le loro potenzialità: sebbene siano pochi e non abbiano la capacità di sferrare attacchi sensazionali contro l’occidente, la loro esistenza pone comunque una concreta minaccia in tutta la regione, con una propensione ad espandersi. In questo senso al-Qaeda Central può mantenere pedine importanti nel subcontinente indiano con probabili prospettive di crescita, viste le difficoltà militari dello Stato Islamico. Secondariamente esistono sempre i talebani i quali, dopo la ritirata definitiva dell’ISAF, hanno ripreso vigore e “AQIS may well be able to exploit the situation to establish safe havens in Afghanistan from which it can operate”10. La presenza di al-Qaeda, o meglio di un gruppo a lei affiliato, offre dunque un’alternativa importante a chi non ha mai voluto allinearsi con i macellai dell’ISIS ed inoltre costituisce un pericoloso elemento stimolatore di quanti in India vogliano unirsi alla jihad globale contro gli infedeli. Le reclute di AQIS formano ormai quella che Abdel Bari Atwan ha chiamato la “terza generazione” dell’islamismo: giovani istruiti, aperti all’uso della tecnologia e alle comunicazioni telematiche. Se anche nel subcontinente indiano – regione notoriamente arretrata sotto molti punti di vista – al-Qaeda riuscirà a riguadagnare terreno, allora ci troveremo di fronte ad una nuova e prevedibile minaccia. Il fatto più rilevante è, infatti, che AQIS abbia rotto i confini di un terrorismo regionale e circoscritto, presentandolo sul palcoscenico internazionale ed ottenendo un effetto moltiplicatore sulle sue reali capacità offensive11.

1 - A. Reed, “Al Qaeda in the Indian Subcontinent: A New Frontline in the Global Jihadist Movement?”, ICCT Policy Brief, Maggio 2015, URL: https://icct.nl/publication/al-qaeda-in ... -a-new-f...

2 - Cfr. I. Ahmad, “Towards a Kashmiri Settlement Beyond Jihad”, SAM Center for Strategic Research,

URL: https://sam.gov.tr/towards-a-kashmiri-s ... ond-jihad/

3 - H. Haqqani, “Prophecy and the Jihad in the Indian Subcontinent”, in Current Trends in Islamist Ideology, Hudson Institute, Vol. 18, May 2015, p. 10. URL:

4 - A. Riaz, “Who are the Bangladeshi Islamist Militants?”, in Prespectives on Terrorism, Vol. 10, Issue 1, February 2016, p. 4. URL: http://www.terrorismanalysts.com/pt/ind ... e/view/485.

5 - A. Basit, “Asim Umar – ‘New Kid on the Block?’, in Counter Terrorist Trend and Analysis, Vol. 6, Issue 10, Novembre 2014, p. 8.URL:

6 - Asim Umar, “The Future of Muslims in India”, Resurgence, Issue 1, Fall 2014, p.76. URL:

7 - Ibidem, p. 77.

8 - Reed, p. 13.

9 - Resurgence, p. 95.

10 - Reed, p. 18.

11 - S. Dasgupta, “Al Qaeda in India: Why We Should Pay Attention”, in ISN ETH Zurich, 15 January 2015.

(foto: web / Erwin Lux)
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Messaggioda Berto » mer apr 12, 2017 1:04 pm

L'Isis smentisce il Papa: "Vi vogliamo tutti morti in nome di Allah"
11 Aprile 2017
di Nicholas Farrell

http://www.liberoquotidiano.it/news/est ... disti.html

Secondo i saccenti nostrani in materia, cioè i progressisti, solitamente atei, quando un musulmano si mette ad ammazzare civili occidentali gridando «Allah Akbar» questo non è «terrorismo islamico». Non c' entra «la religione della pace» - ci spiegano - con comportamenti di questo genere e dire il contrario è islamofobia, causata da ignoranza e razzismo. Ovviamente, tante gente normalmente «infedele» all' islam - come me ad esempio, come la maggioranza, scommetto - non è per niente d' accordo. Ma non lo sono neppure i terroristi islamici stessi.

Anzi. Sono arrabbiatissimi con la macchina del fango occidentale che vuole spiegare il loro terrorismo in tanti modi (pazzia, povertà, perversione, ecc.) ma evitando a tutti costi un nesso con la religione islamica. E ce l' hanno anche col Papa che sta per visitare l' Egitto fra poco per lo stesso motivo. A febbraio ha detto: «Non esiste il terrorismo islamico». Nella rivista online dell' Isis - Dabiq - c' è un editoriale lunghissimo scritto in inglese ed intitolato «Break the Cross» (Spaccate la Croce) sul tema dell' ignoranza occidentale del terrorismo jihadista praticato in nome di Allah.

L'oggettivo dell' editoriale è di «correggere la falsa narrazione» sull' islam e spiegare chiaro e tondo «perché noi odiamo voi e perché noi combattiamo contro di voi». L' Isis, cioè Islamic State in Iraq and Syria, elenca in bianco e nero le motivazioni del suo terrorismo. Innanzitutto, noi occidentali dobbiamo morire perché non ci siamo convertiti all' islam e il Cristianesimo è blasfemia e offesa ad Allah punibile con la morte. Si legge: «Noi vi odiamo, prima e principalmente perché siete miscredenti; rifiutate l' unicità di Allah - anche se non ve ne rendete conto - voi siete colpevoli della blasfemia contro di Lui, pretendendo che Lui ha un figlio, voi fabbricate delle bugie contro i Suoi profeti e messaggeri, e commettete delle pratiche diaboliche di ogni tipo.

Non solo: la vostra miscredenza è la prima ragione per cui noi vi combattiamo; è la nostra fede che ci ordina di combattere i miscredenti finché non si sottomettono all' autorità dell' islam. Le penne dell' Isis si sentono in particolare offese da Papa Francesco perché ha detto più di una volta (più recentemente a febbraio) che non esiste «terrorismo musulmano» e che i jihadisti non sono motivati dalla religione e che i musulmani vogliono la pace e che il terrorismo commesso da musulmano è motivato dalla povertà. La loro unica motivazione invece, scrivono, è la religione come richede Allah nel Corano.
«Questa è una guerra divinamente giustificata fra le nazioni musulmane e le nazioni della miscredenza».
Ce l' hanno col Papa forse ancora più che con i progressisti probabilmente perché ha più peso spirituale.

Non è vero, dicono, che l' islam autentico secondo il Corano è contro la guerra e la violenza come sostiene il Papa che si nasconde dietro «un velo di buona volontà». Il messaggio dell' editoriale è chiarissimo: il dovere di ogni musulmano è di prender in mano la spada in nome del «più grande obbligo» di ogni musulmano genuino, cioè, la Guerra santa.
Nel frattempo gli attentati contro i cristiani in quelle chiese in Egitto domenica delle Palme vengono definiti - dal governo egiziano per esempio - assalti «contro gli egiziani» - cioè tutti - e dunque non contro solo cristiani. Mi dispiace: ma per capire il terrorismo islamico - ed islamico lo è - mi fido più dei terroristi stessi piuttosto che la sinistra progressista ed atea e persino del Papa.
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Messaggioda Berto » mer apr 26, 2017 12:25 pm

In Cina non si potranno più chiamare i bambini Islam, Quran, Saddam e Mecca
Il governo ha vietato di dare ai neonati nomi propri legati all'Islam: l'obiettivo è colpire la comunità musulmana dello Xinjiang
25 aprile 2017

http://www.ilpost.it/2017/04/25/in-cina ... am-e-mecca

Nello Xinjiang – una provincia occidentale cinese, a maggioranza musulmana – non si potranno più chiamare i neonati con nomi legati alla religione islamica. La decisione si è aggiunta a una serie di provvedimenti simili presi dal governo cinese – come il divieto di portare la barba per gli uomini e di indossare veli che coprano il volto per le donne – al fine di limitare la libertà religiosa e di espressione della comunità musulmana uigura, che rappresenta circa la metà dei 23 milioni di musulmani cinesi. Da molto tempo gli uiguri avanzano richieste separatiste verso il governo centrale di Pechino, senza però ottenere alcunché.

Le autorità cinesi hanno distribuito una lista, non ancora completa, con i primi 12 nomi vietati: tra questi ci sono Islam, Quran, Saddam e Mecca e ogni nome nel quale ci sia un riferimento ai simboli delle stelle o della luna crescente. In caso di violazione delle nuove regole, il neonato non potrà essere registrato nei documenti familiari e avere accesso ai servizi sanitari e sociali, oltre che all’istruzione. Tuttavia, una lista completa non è ancora stata stilata e non è chiaro secondo quali parametri un nome verrà considerato legato alla religione islamica oppure no.

Il provvedimento è più che altro un attacco alla minoranza degli uiguri dello Xinjiang, la regione in gran parte costituita da deserti nel nord ovest della Cina dalla quale provengono i pochi attentatori che hanno colpito Pechino negli ultimi anni. Lo Xinjiang, che significa “Nuova Frontiera”, è stato portato sotto il completo controllo della Cina nel 1949: confina con otto stati (India, Pakistan, Russia, Mongolia, Kazakistan, Afghanistan, Tagikistan e Kirghizistan) ed è un passaggio obbligato per gli scambi commerciali con l’Asia Centrale e l’Europa. È un territorio molto ricco di gas e petrolio. La capitale è Urumqi e un altro centro molto importante a grande maggioranza uigura è Lukqun, a circa 200 chilometri a sud est della capitale. Nella regione sono frequenti da molti anni proteste contro il regime di Pechino e scontri etnici: gli uiguri non accettano la presenza dei cinesi han nella regione e denunciano da tempo le repressioni e le discriminazioni compiute dal governo.

La direttrice per la Cina di Human Rights Watch Sophie Richardson ha parlato del divieto di dare nomi di origine musulmana come dell’ultima restrizione alla libertà religiosa messa in atto in nome della lotta all’estremismo religioso. Richardson ha detto: «Queste politiche sono una violazione sfacciata delle libertà di credo e di espressione garantite a livello statale e internazionale».
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Messaggioda Berto » mar mag 09, 2017 3:14 pm

Attentato Thailandia: esplodono due bombe in un centro commerciale
Raffaella Cagnazzo
Milano, 9 maggio 2017 - 10:55

http://www.corriere.it/esteri/17_maggio ... d393.shtml

Media locali parlano di numerosi feriti: la prima esplosione è avvenuta all'interno della struttura, la seconda all'esterno nel parcheggio dove si erano riversati i presenti in fuga

Numerose persone sono rimaste ferite in Thailandia per l'esplosione di due bombe in un centro commerciale nella provincia meridionale di Pattani. La prima esplosione è avvenuta all'interno del centro commerciale Big C che ha preso fuoco, la seconda nel parcheggio.

I feriti sono oltre cinquanta

I media locali parlano di numerosi feriti: «La prima bomba era piccola e non si sono avute vittime - ha detto un responsabile della polizia locale - ma la seconda era più potente e probabilmente si trattava di un'autobomba». I feriti sono 56, almeno due in gravi condizioni secondo quanto riportano i media locali. Le prime immagini mostrano una lunga colonna di fumo che sale dal tetto del padiglione che ospita il centro commerciale, mentre le squadre di soccorso e i vigili del fuoco sono al lavoro per portare in salvo i feriti e per domare l'incendio.


Le forze ribelli islamiste

La provincia di Pattani lotta dal 2004 con fazioni secessioniste violente che in 13 anni hanno causato la morte di più di 6.500 persone tra Yala, Pattani e Narathiwat, secondo quanto riferisce il gruppo di monitoraggio indipendente Deep South Watch. Nell'area, a prevalenza buddhista e che si trova al confine con la Malesia, sono quotidiani gli attacchi da parte dei ribelli islamisti.

Gli avvisi della Farnesina

La situazione nel paese era indicata come «tranquilla a Bangkok e in tutte le località turistiche» sul sito della Farnesina nella sezione Viaggiare Sicuri in cui si legge anche: «Non ci sono restrizioni per gli stranieri. Le Autorità locali hanno aumentato i controlli di sicurezza in luoghi sensibili, invitato a ridurre gli spostamenti non necessari e ad evitare assembramenti, luoghi affollati, cerimonie e grandi eventi in luoghi pubblici». Ma è lo stesso ministero degli Esteri italiano a mettere in guardia - a causa del terrorismo separatista - sullo stato di emergenza nelle Province del sud di Yala, Narathiwat e Pattani, nonché nei Distretti di Jana, Nathawee, Thepha e Sabayoi: «Si raccomanda di evitare viaggi nelle predette zone - suggerisce la Farnesina ai connazionali - e, in ogni caso, di informarsi sull'evoluzione della situazione poiché non accenna a fermarsi lo stillicidio di attentati che hanno come obiettivo forse dell'ordine e la comunità buddista residente».

I precedenti

Nessuna misura restrittiva quindi, ma attenzione con particolar riferimento a violenze ed attentati terroristici avvenuti negli ultimi anni e che nel corso degli ultimi 12 mesi si sono intensificati. Nel mese di agosto 2015 un grave attentato nella capitale Bangkok ha causato diversi morti e feriti. Nella notte dell’11 agosto 2016 si sono verificate due esplosioni nel centro della cittadina balneare di Hua Hin, circa 150 km a sud di Bangkok, con una vittima thailandese e feriti, anche stranieri, tra cui due italiani. Nella mattina del 12 agosto 2016 ulteriori esplosioni si sono registrate a: Surat Thani, Phuket (Patong), Phang-nga e nuovamente a Hua Hin. Non sono stati coinvolti altri stranieri, ma ci sono state alcune vittime e feriti thailandesi.
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Messaggioda Berto » mer mag 24, 2017 8:55 pm

Filippine, battaglia strada per strada a Marawi: "L'Isis vuole conquistare la città"
L'esercito di Manila sta combattendo contro alcune decine di militanti del gruppo Maute, che ha giurato fedeltà ad al-Baghdadi, e che cerca di insediare un emiro a capo del "califfato" di Lanao. Ed è allarme senza precedenti per il tentativo ormai ripetuto di stabilire un’area franca sotto l’egida dell’Isis in una delicata provincia dell’arcipelago a maggioranza cattolica
di RAIMONDO BULTRINI
23 maggio 2017

http://www.repubblica.it/esteri/2017/05 ... -166224382

Soldati inviati da Manila nel sud del paese
Nel sud delle Filippine un gruppo alleato dello Stato islamico sta combattendo armi in pugno per stabilire il califfato di Lanao al comando di un “emiro”. La battaglia è ancora in corso nella città di Marawi, capitale dell’omonima provincia, tra l’esercito di Manila e alcune decine di militanti del gruppo Maute, ex membri del Fronte islamico Moro affiliati all’IS e alleati dei terroristi-sequestratori di Abu Sayyaf.

Anche se non accade niente di paragonabile agli scenari di guerra di Mosul, l’assalto su larga scala contro il carcere cittadino, dato alle fiamme, l’ospedale generale, diversi edifici governativi e una serie di altri obiettivi, ha provocato devastazioni e un numero imprecisato di feriti tra la popolazione civile. Ma ha soprattutto creato un allarme senza precedenti per il tentativo ormai ripetuto di stabilire un’area franca sotto l’egida dell’Isis in una delicata provincia dell’arcipelago a maggioranza cattolica.

Le autorità hanno invitato la popolazione a mantenere la calma e a denunciare ogni movimento sospetto attorno alle loro case, mentre altre truppe stanno raggiungendo l’area degli scontri per difendere ed evacuare gli abitanti sotto minaccia oltre a liberare le strade dai militanti che secondo alcuni testimoni hanno anche issato bandiere dell’Is su qualche tetto.

Non è la prima impresa attribuita alla formazione che porta il nome del suo fondatore, Abdullah Maute. Per celebrare l’alleanza con i fratelli di fede in Siria, il Maute assaltò nel novembre scorso una scuola di Butig, dove venne per la prima volta issata la famigerata bandiera nera su territorio filippino, oltre a occupare una moschea e altri obiettivi della città che ospita il quartier generale del gruppo, il califfato di Lanao e il Fronte islamico Moro, gestiti da vere e proprie famiglie di militanti legate da antichi vincoli di sangue e di matrimonio, anche se spesso in contrasto tra loro sulle strategie dei sequestri e della lotta armata.

I portavoce dell’esercito e della polizia hanno dichiarato che i nuovi attacchi di Marawi, dove una buona parte della popolazione è fuggita dal fuoco incrociato lasciando le strade semideserte, sarebbero guidati personalmente da Isnilon Hapilon, 50 anni, già comandante di Abu Sayyaf e da poco autoproclamato “emiro” dei guerrieri islamici di Lanao. Dal gennaio scorso l’IS ha riconosciuto il suo gruppo, formato da 100 o 200 uomini, come un membro effettivo e rappresentante ufficiale nel Sud est asiatico, dopo che nell’aprile del 2016 tutti i “Maute” hanno promesso la loro fedeltà ad Abu Bakr al-Baghdadi. Ma solo a novembre, dopo ripetuti dinieghi, il governo di Manila ha ammesso i legami tra militanti filippini e IS con un discorso in tv del presidente Duterte, a sua volta appena reduce da un attentato compiuto proprio a Butig contro la sua scorta, con 9 guardie speciali ferite poco prima del suo arrivo.

Come nel caso dei sospetti sul nucleo di ex guerriglieri addestrati in Siria o Iraq e rientrati a Manchester e in Inghilterra, anche parte dei militanti del califfato di Lanao sarebbero reduci recenti dai campi dell’IS. L’ipotesi è confermata dalle intelligence straniere e dalle indagini degli esperti filippini, anche se il numero dei militanti armati effettivi resta incerto, come lo sono i legami tra Maute, Abu Sayyaf, irriducibili del Fronte Moro contrari agli accordi di pace col governo e Jemaah Islamiyah, la più grande formazione islamica del Sud Est con base in Indonesia e ambizioni altrettanto forti di formare un califfato pan-asiatico.

Secondo la ministra degli Esteri australiana Julie Bishop i militanti sudorientali di ritorno dai campi di battaglia in Iraq e Siria sarebbero almeno 600. “C'è la preoccupazione reale – disse due mesi fa di ritorno da un vertice antiterrorismo negli Usa - che IS possa cercare di dichiarare un califfato islamico nelle Filippine meridionali".

Per questo nessuno sottovaluta gli incidenti di questi giorni a Marawi, nonostante la confusione sulle dimensioni reali del conflitto ancora in corso, che potrebbe coinvolgere anche Cagayan de Oro, Butig e altre località comprese nel nascente e ancora sconosciuto “emirato di Lanao”.



Filippine, militanti Isis assediano la città di Marawi: 21 morti, scontri a fuoco nelle strade e gruppo di cattolici in ostaggio
25 maggio 2017

http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/05 ... io/3613895


Il capo della polizia decapitato, edifici governativi presi d’assalto, una cattedrale data alle fiamme, il prete e una dozzina di fedeli cattolici presi in ostaggio: le Filippine sono piombate nel caos per la guerriglia portata avanti da alcuni militanti affiliati all’Isis. E il presidente Rodrigo Duterte, eletto nel 2016, ha proclamato la legge marziale nel sud del Paese, promettendo di usare il pugno di ferro contro la crescita dell’estremismo islamico, considerata una minaccia alla sicurezza nazionale. “Sarò duro”, ha affermato il presidente, tracciando un collegamento tra la sua legge marziale e quella dell’ex dittatore Ferdinand Marcos e dicendosi pronto a tenerla in vigore per un anno, senza escludere di estenderla da Mindanao a tutto l’arcipelago a maggioranza cattolica se la minaccia islamica dovesse propagarsi.

La crisi è scoppiata martedì 23 maggio a Marawi, una città di 200mila abitanti nell’isola di Mindanao, dopo un blitz fallito dell’esercito per mettere le mani su Isnilon Hapilon, comandante del gruppo ribelle Abu Sayyaf e considerato tra i terroristi più pericolosi del Paese. I miliziani hanno chiamato i rinforzi del gruppo islamico Maute, che ha giurato fedeltà all’Isis. Decine di uomini armati hanno assaltato diversi edifici tra cui un carcere e una chiesa, a cui hanno appiccato il fuoco. Un sacerdote e almeno altre 13 persone tra fedeli e personale della chiesa sono state prese in ostaggio, con la minaccia di ucciderli se l’esercito non interromperà l’offensiva. Si contano almeno 21 morti, tra cui 12 militanti islamici, negli scontri con l’esercito, e migliaia di residenti hanno ormai abbandonato le proprie case mentre proseguono le operazioni militari per riprendere il controllo delle aree occupate dai combattenti, che continuano ad avere 13 persone sotto ostaggio.

L’esplosione di violenza ha sorpreso Duterte mentre si trovava in visita a Mosca per incontrare Putin. Il leader è tornato in patria mercoledì, dicendosi pronto a combattere gli estremisti e proclamando la legge marziale a Mindanao. Già nei mesi scorsi Duterte aveva lanciato un’offensiva contro alcuni piccoli gruppi islamici radicali che avevano giurato fedeltà all’Isis, con scontri nelle campagne che avevano causato decine di morti. La prospettiva della legge marziale era stata evocata più volte: “Vi avevo detto di non costringermi a farlo”, ha dichiarato mercoledì. “Se volete morire, morirete. E se molte persone dovessero morire, che sia così”.

“Non è escluso” che la legge marziale proclamata a Mindanao possa essere estesa a tutto il Paese se la minaccia dell’Isis si dovesse diffondere al resto dell’arcipelago. Ma il presidente ha aggiunto che non permetterà abusi del provvedimento. Per quanto l’opinione pubblica cattolica sia fermamente ostile al pericolo di infiltrazione dell’Isis, il provvedimento è storicamente associato agli abusi dei diritti umani perpetrati dal regime di Marcos. Il predecessore di Duterte, Benigno Aquino, non proclamò la legge marziale quando dovette fronteggiare una simile situazione a Zamboanga, nel cui assedio morirono 200 persone. Ma l’attuale presidente ha già dimostrato di essere pronto a tutto per far fronte alle minacce: nella sua crociata contro la droga e il crimine sono già morte 9mila persone.



Filippine, l’Isis controlla una città di 200 mila abitanti
Ottocento jihadisti occupano Marawi: chiese bruciate e bandiere nere
25/05/2017
giordano stabile
http://www.lastampa.it/2017/05/25/ester ... agina.html

Con un blitz a sorpresa i gruppi jihadisti filippini alleati con l’Isis hanno occupato la città di Marawi, 200 mila abitanti, nell’isola meridionale di Mindanao. Le formazioni Abu Sayyaf e Maute si sono unite per formare un battaglione di “500-800 combattenti”, secondo stime locali. Sono armati con moderni fucili mitragliatori, armi pesanti, fuoristrada.

Gli islamisti hanno cacciato la polizia locale, ucciso numerosi agenti, occupato l’ospedale principale, assaltato e distrutto la prigione, issato la bandiera nera sugli edifici governativi del distretto. Poi hanno assaltato la Cattedrale di Nostra Signora, dato alle fiamme l’edificio e sequestrato il sacerdote Teresito Sugano, assieme a 13 fedeli, come ha confermato la Conferenza episcopale delle Filippine.

Il governo del presidente Rodrigo Duterte ha reagito con l’imposizione della legge marziale, ha chiesto a tutta la popolazione di chiudersi in casa. Le forze speciali della 103esima brigata, unità di élite per il controterrorismo, stanno per dare l’assalto ai check-point islamisti nei sobborghi della città e nei villaggi circostanti.


Mindanao: l’esercito filippino controlla gran parte di Marawi
29 maggio 2017
(con fonte AsiaNews)


http://www.analisidifesa.it/2017/05/min ... -di-marawi

Le forze armate filippine hanno dichiarato di avere assunto il controllo della maggior parte della città di Marawi, città islamica nell’isola di Mindanao di circa 200mila abitanti, dove militanti armati legati allo Stato islamico hanno lanciato un sanguinoso assedio quasi una settimana fa. Il 23 maggio avevano incendiato la cattedrale cattolica e rapito alcune persone.

Ernesto Abella, portavoce presidenziale, ha dichiarato oggi che solo alcune piccole aree della città rimangono sotto il dominio di un numero imprecisato di guerriglieri Maute e jihadisti di Abu Sayyaf, gruppo che aveva già aderito ad al-Qaeda.

I combattimenti a Marawi (video) si sono intensificati dal momento che i miliziani oppongono una strenua resistenza, inaspettata dal comando filippino, sfidando i militari che hanno schierato elicotteri, UH-1H e pribabilmente AW-109, mortai e obici da 105 millimetri, veioli blindati V-150 e GKN FS-100 Simba e migliaia di soldati.

I vertici militari hanno disposto ieri i primi attacchi aerei per respingere i terroristi, mentre centinaia di civili hanno agitato drappi bianchi dalle proprie abitazioni per segnalare la loro presenza all’aviazione filippina. La Regione autonoma del Mindanao musulmano ha riferito che, a partire da sabato, 42.142 persone sono fuggite dalle loro case.

Circa 30.600 persone si trovano nei centri di evacuazione, mentre altre 11.500 hanno trovato rifugio dai parenti fuori Marawi. Circa 2.200 abitanti sono invece segnalati in città, intrappolati nei combattimenti.

Nel frattempo, i soldati hanno proseguito le operazioni porta a porta per stanare i jihadisti e le autorità hanno comunicato ieri il ritrovamento di 19 cadaveri nelle strade della città. Tra questi vi erano i corpi di otto civili, comprese tre donne e un bambino, giustiziati dai terroristi.

Dall’inizio delle ostilità sale così a 97 il numero delle vittime. Hanno perso la vita 19 civili, 13 soldati, quattro poliziotti e 61 membri del gruppo Maute e Abu Sayyaf. Tra questi ultimi, sei combattenti sono stranieri, indonesiani e malaysiani.

Le violenze a Marawi sono scoppiate lo scorso 23 maggio, quando l’esercito filippino ha tentato la cattura di Isnilon Hapilon, leader islamico estremista. Attaccati dalle forze governative, Hapilon e più di una dozzina dei suoi uomini hanno trovato il sostegno dei guerriglieri Maute e in circa 50 sono riusciti ad entrare nella città.

Hapilon è riuscito a scappare e i combattenti a lui fedeli hanno occupato alcune parti di Marawi, bruciando edifici, tra cui la cattedrale e facendo 14 ostaggi, compreso padre Teresito “Chito” Suganob. Le loro condizioni sono al momento sconosciute.

Nei giorni scorsi si è diffusa la notizia, non confermata, della liberazione del sacerdote. Una fonte di AsiaNews a Mindanao dichiara che “le notizie da Marawi sono molto confuse, ma la liberazione di padre Chito, conosciuto e rispettato dai musulmani locali, è credibile. Per quanto riguarda i tre impiegati della chiesa e i 10 fedeli, l’intenzione dei guerriglieri è quella di usarli come scudi umani e avere un maggior margine di trattativa con il governo”.

Hapilon, comandante dei guerriglieri di Abu Sayaaf, nel 2014 è stato nominato emiro dallo Stato islamico, quando ha giurato fedeltà ad al Baghdadi. I Maute sono uno dei nuovi gruppi armati filippini di stampo islamista che hanno sposato l’ideologia del Califfato siglando con altri gruppi nel sud delle Filippine un’alleanza, della quale si ritiene Hapilon sia il leader e promotore.

Le violenze hanno spinto il presidente Rodrigo Duterte a dichiarare la legge marziale per 60 giorni nel sud del Paese, dove da decenni è in corso una ribellione della minoranza musulmana, che rappresenta circa il 20% della popolazione filippina. Nei mesi scorsi il presidente aveva paventato la possibilità di imporre il provvedimento qualora i ribelli avessero tentato azioni violente.

L’amministrazione Duterte, da un lato cerca di condurre dei colloqui di pace con i ribelli islamici, dall’altro ha dato mandato all’esercito di distruggere la rete dei gruppi armati minori, legati allo Stato islamico. Di fronte alla decisione di Duterte, i gruppi di attivisti per i diritti civili e l’opposizione esprimono i propri timori che i poteri derivanti dalla legge marziale possano condurre il Paese verso una deriva autoritaristica.

Tuttavia, un’altra fonte di AsiaNews afferma: “I critici ritengono che queste violenze siano solo un pretesto, ma la maggioranza della popolazione sostiene la presa di posizione di Duterte. Nell’ultimo anno l’isola di Mandanao è diventata un luogo di addestramento per gli islamisti, filippini e stranieri, e gli abitanti sono molto spaventati. Crescono infatti gli episodi di intolleranza nei confronti dei cristiani, anche se il governo non ne parla”.

Ad aumentare le paure sono però le dichiarazioni del presidente, che lo scorso 28 ha affermato che ignorerà il parere della Corte Suprema e del Congresso, qualora non venisse accordato il prolungamento del periodo di legge marziale.

“Fino a quando le forze armate non dicono che le Filippine sono al sicuro, questa legge marziale continuerà. Non voglio ascoltare altri. I giudici della Corte Suprema, i congressisti, non sono qui”, ha detto Duterte in un discorso ai soldati.

La Costituzione del 1987 impone limiti alla legge marziale per impedire una ripetizione degli abusi effettuati sotto il regime del dittatore Ferdinand Marcos, deposto nel 1986 dalla rivoluzione di Edsa People Power.

La Costituzione richiede che il Congresso approvi la dichiarazione della legge marziale e limita la regola militare a 60 giorni. Se il presidente vuole estendere la durata della legge marziale, deve nuovamente ottenere l’approvazione del Congresso.


Guerra nelle Filippine. L'estremismo islamico avanza ma i media occidentali se la prendono con Duterte
(di Giampiero Venturi)
30/05/17

http://www.difesaonline.it/geopolitica/ ... ccidentali

L'isola di Mindanao è per tradizione l’isola “diversa” della Repubblica delle Filippine e per evidenza il tallone d’Achille della sua stabilità. Grande un terzo dell’Italia e tra le dieci isole più popolose del mondo, è da decenni il covo del separatismo islamico e dell’opposizione alla supremazia cristiano-cattolica di Manila.

L’attacco all’unità del Paese e alle sue radici è più forte nella Regione Autonoma del Mindanao Musulmano, territorio speciale di 5 province a cui si aggiunge la città autonoma di Marawi. La storia dell’attrito è lunga ma le evoluzioni recenti meritano un’attenzione particolare.

La galassia delle milizie islamiche filippine ha ruotato fin dagli anni ‘70 intorno al Fronte di Liberazione Islamico Moro ma nell’ultimo ventennio è rimasta attratta dai metodi più spiccioli di Abu Sayyaf, milizia operativa dal ‘91 e intenzionata ad allargare la pressione islamista a tutto il Sudest asiatico.

L’arrivo nel 2013 del gruppo Maute (scissionista dal Fronte Islamico impegnato in colloqui col governo) e la sua scelta successiva di affiliarsi all'ISIS, ha ufficialmente trasformato la jihad filippina da focolaio locale a problema internazionale. Messo alle corde in Medio Oriente, lo Stato Islamico appare dunque ancora capace di proiettare fascino e rigenerare il progetto fondamentalista in altre parti del mondo, tra cui sembra spiccare proprio l’Asia.

Agli attacchi sistematici ma circoscritti contro le forze armate e la polizia, sono seguiti atti di vera e propria insorgenza militare sfociata il 23 maggio in guerra aperta.

500 miliziani islamisti hanno occupato Marawi, città di 200.000 abitanti, a cui è seguita la reazione dei militari di Manila.

A Mindanao lo schiermento di forze filippine è imponente: oltre alle 1a, 4a, 6a e 10a Divisione di fanteria dell’esercito (tutte impegnate contro la guerriglia separatista nell’isola) vanno considerate le forze speciali tra cui il 1° Reggimento, il Light Reaction Regiment e i Rangers, tutti derivazione della Delta Force USA e coordinati direttamente dal Comando Operazioni Speciali di Manila. A questi si aggiungono i ”seals” della marina filippina e il 710° Squadrone Operazioni Speciali delle forze aeree.

Lo sforzo è immenso e si è concretizzato negli ultimi giorni in un intervento accompagnato da bombardamenti aerei e da operazioni mirate condotte con elicotteri.

Le notizie che Reuters rimbalza in queste ore da quotidiani locali, parlano di recupero dell’80% della città da parte dei governativi grazie ad un’operazione di rastrellamento che ha portato alla luce esecuzioni di civili e violenze inenarrabili da parte dei miliziani islamici. Gli scontri sarebbero tuttavia ancora in corso.

Mindanao non è solo importante per l'unità della Repubblica delle Filippine ma è strategica per tutto il Sudest asiatico. La presenza di combattenti stranieri è già stata segnalata tra i miliziani integralisti filippini e l'insorgenza islamista appare in evidente progressione in tutta la regione: Malesia, Brunei, Indonesia (più grande paese islamico al mondo) Singapore, Tailandia sono interessati al fenomeno e rischiano di divenire parte di un dinamismo integralista continentale. Fondamentalismo e jihad hanno già trasformato il subcontinente indiano (Bangladesh), l’Asia centrale (Uzbekistan, Kirghizistan) e la Cina occidentale (Xinjiang) in serbatoi di reclutamento per il terrorismo internazionale islamico. L'apertura di ulteriori fronti potrebbe innescare una spirale incontrollabile, soprattutto alla luce del fatto che il Sudest asiatico è caratterizzato da un'enorme pressione demografica e da infiniti disagi sociali.

L'Islam radicale è un pericolo quindi per l'Asia sudorientale?

La risposta è sì, ma ovviamente in Occidente le preoccupazioni sono altre.

Anziché puntare i riflettori sulle esecuzioni di massa, sulle violenze e sulle prospettive legate all'avanzata islamista, i media occidentali preferiscono soffermarsi sulle pesanti dichiarazioni del presidente filippino Duterte e sui suoi metodi da sceriffo.

Dopo aver criticato la sua richiesta di prolungamento della Legge Marziale, necessaria per le operazioni di controguerriglia a Mindanao, i media (anche gli italiani, nessuno escluso) si sono soffermati sulle parole sessiste di Duterte, che in un discorso ai soldati avrebbe "incitato” allo stupro.

Nell’occhio del ciclone mediatico fin dal suo insediamento, a Duterte viene perfino imputata la guerra al traffico di droga, ambito nel quale ha ottenuto finora risultati macroscopici, seppur con metodi violenti. Amnesty e Human right Watch, rimbalzati da La Repubblica (4 marzo, nda), parlano senza mezzi termini di guerra finta, usata come scusa per uccidere i poveri e instaurare una dittatura.

Nemico del politically correct e noto per il suo stile bellicoso (leggi articolo) e indiscutibilmente provocatorio, Duterte non piace al bon ton politico dell’Occidente. Per quanto criticabile sotto molto aspetti, relativamente all’Islam radicale sta però fronteggiando da solo una sfida che riguarda l'Occidente più di quanto la geografia non dica. Le sue proposte di sforzo congiunto fatte ai separatisti non jihadisti e ai guerriglieri comunisti dell'NPA (nemico storico di Manila), lasciano spunti per più di una riflessione.

Mentre l’Asia estrema s’infiamma, l’unico contributo occidentale sembra essere per ora una campagna di scredito sistematico, la cui utilità pratica nel contesto del radicalismo islamico attuale appare quanto meno discutibile.
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