Bosnia, Kosovo e Albania cavalli o navi di Troia dell'Islam?

Bosnia, Kosovo e Albania cavalli o navi di Troia dell'Islam?

Messaggioda Berto » mer gen 01, 2020 9:52 pm

Terrorismo in Bosnia
Giovanni Giacalone
1 gennaio 2020

https://it.insideover.com/terrorismo/la ... hGlUbGSji8

Il presidente francese Emmanuel Macron ha rischiato un incidente diplomatico con la Bosnia-Erzegovina a inizio novembre quando, durante un’intervista rilasciata alla rivista Economist, ha definito il Paese balcanico “una bomba a orologeria”, con chiaro riferimento al problema dei jihadisti di ritorno dal teatro di guerra siriano-iracheno.

Un’affermazione che ha mandato su tutte le furie i bosniaci, con tanto di richiamo dell’ambasciatore francese da parte dell’attuale presidente Zeljiko Komsic e con il portavoce della Comunità islamica di Bosnia, Muhamad Jusic, che ha ricordato a Macron come dalla Bosnia siano partiti “soltanto” 300 jihadisti, mentre dalla Francia più di 1900.

Soddisfatto invece delle parole di Macron il rappresentante serbo alla presidenza bosniaca, Milorad Dodik, che ha affermato come in Bosnia chiunque sollevi il problema dei jihadisti venga immediatamente accusato di voler creare divisione nel Paese.

Effettivamente, quanto affermato da Dodik è poi stato confermato dalle dichiarazioni del rappresentante bosniaco alla presidenza, Sefik Dzaferovic:

l problema principale della Bosnia-Erzegovina sono le forze che vogliono la divisione della Bosnia e il signor Macron lo sa bene. Parte della colpa è della comunità internazionale

Gli elementi interessanti che emergono da tale questione sono due: in primis è evidente come le divisioni in Bosnia siano intrinseche al Paese e anche a livello istituzionale, visto che nemmeno i rappresentanti della presidenza riescono a condividere una visione comune sul problema dei jihadisti.

In secondo luogo non si può non criticare il paragone fatto dal portavoce della Comunità islamica, Muhamad Jusic. È vero infatti che dalla Bosnia sono partiti tra i 300 e i 350 jihadisti mentre dalla Francia più di 1900, ma è altrettanto vero che la Bosnia ha una popolazione di 3 milioni e mezzo mentre la Francia di 66 milioni. Il paragone non calza dunque molto.


La situazione interna in Bosnia-Erzegovina

Il “Country Report on Terrorism” per l’anno 2018, pubblicato dal Dipartimento di Stato americano, evidenzia un quadro piuttosto problematico per quanto riguarda la Bosnia, sia sul piano giuridico che investigativo.

La Sipa (State Investigation and Protection Agency) avrebbe a disposizione soltanto 25 uomini che lavorano su indagini legate al terrorismo, tanto che nel 2017 il ministero per la Sicurezza aveva proposto di incrementare il numero a 50 unità, una misura però non ancora completata a causa della lentezza nella formazione del nuovo esecutivo dopo le elezioni dell’ottobre 2018. In aggiunta, anche in Bosnia, così come in altri paesi dell’area, vi è un problema di scarsa collaborazione tra agenzie e forze di polizia, in questo caso tutto aggravato da persistenti tensioni etniche.

Sul piano giuridico, nonostante la pena minima per chi si macchia del reato di terrorismo sia stata incrementata da cinque a otto anni, i magistrati hanno comunque la possibilità di ridurre le pene detentive a un anno circa, con tutti i relativi rischi per la sicurezza, considerando anche gli scarsi progressi fatti sul piano della de-radicalizzazione.

Nel contempo però il problema della radicalizzazione islamista in Bosnia persiste, con l’ideologia wahhabita e salafita ampiamente diffuse in quelle enclave dove soggetti con tuniche e lunghe barbe fanno da padroni. I centri culturali islamici, le madrasse e le moschee, prevalentemente finanziate da Arabia Saudita e Turchia, sono in aumento: “Non riusciamo a costruire chiese, mentre negli ultimi anni sono nati più di 70 centri di culto musulmano solo a Sarajevo”, ha reso noto l’Arcivescovo di Sarajevo, Vinko Puljic, lamentando anche una disparità di trattamento nei confronti dei cattolici.

Una cosa è certa, la Bosnia è diventata oggetto di forte influenza da parte dei sauditi, con un progressivo incremento degli investimenti da parte del Regno che a fine 2017 è arrivato a 22 milioni di dollari statunitensi (secondo quanto reso noto dall’agenzia per la promozione degli investimenti Esteri di Bosnia). L’Arabia Saudita è inoltre il più grosso acquirente di armamenti bosniaci, con ben 42 milioni di dollari spesi (tra armamenti e munizioni) nel 2018. A ciò va ad aggiungersi il turismo proveniente dal Regno che ha portato più di 400 mila sauditi soltanto nei primi mesi del 2019 e con l’introduzione, sempre quest’anno, di voli diretti tra Sarajevo e Riad ad opera della compagnia FlyBosnia. Alcune zone di Sarajevo sono frequentate esclusivamente da turisti sauditi e capita frequentemente di imbattersi in donne col niqab nero e uomini dalle lunghe barbe.

Un “boost” economico di non poco conto per un Paese istituzionalmente fragile ed economicamente compromesso, con un tasso di disoccupazione del 55.5% e con quello giovanile che si aggira attorno al 48%. Investimenti che hanno però una condizione, ovvero l’influenza ideologico-religiosa sull’Islam locale, come illustrato da Leila Bicakcic del Center for Investigative Reporting di Sarajevo.

Non è invece di tale avviso Muhammer Stulanovic, preside della Facoltà Islamica di Pedagogia di Bihac, istituto costruito con finanziamenti provenienti dall’Arabia Saudita e con tanto di targa di ringraziamento nei confronti del sovrano saudita Salman bin Abdulaziz al-Saud. Secondo Stulanovic infatti, in Bosnia non vi sarebbe alcuna interferenza saudita e il tanto criticato wahhabismo non sarebbe altro che propaganda ostile perpetrata contro i bosniaci dall’Occidente e dagli sciiti.

L’Arabia Saudita non è però la sola ad avere mire espansionistiche in Bosnia, con la lunga mano di Recep Tayyip Erdogan particolarmente attiva in ambito politico attraverso rapporti stretti con il partito islamista Sda, guidato da Bakir Izetbegovic, figlio dell’ex presidente Alija Izetbegovic (1990-1996) e considerato vicino alla Fratellanza Musulmana. Fu proprio Alija Izetbegovic, durante il conflitto, a permettere l’ingresso in Bosnia della famigerata unità jihadista araba “el-Mudzahid”, formata da tagliagole reduci dall’Afghanistan e molti dei quali legati a gruppi terroristici egiziani, tunisini, algerini ma anche ad al-Qaeda.

Lo scorso luglio Erdogan si era recato a Sarajevo per il South East European Countries Cooperation Process (Seecp) Summit dopo che l’anno precedente aveva organizzato un mega-comizio nella capitale bosniaca in vista delle elezioni presidenziali tenutesi in Turchia a giugno del 2018. È evidente come Erdogan stia cercando di utilizzare un “soft power” neanche troppo “soft” che coinvolge business, politica, attività culturale e tutto in salsa islamico-ottomana.


Il rientro dei jihadisti

Vi è poi il problema legato ai foreign fighters bosniaci in fase di rientro. Lo scorso 20 dicembre la Sipa ha fermato un gruppo di 25 persone (sette uomini, sei donne e dodici bambini) giunti all’aeroporto di Sarajevo con un volo charter proveniente dalla Siria. I sette individui sono stati identificati come Emir Alisic, Sead Kasupovic, Miralem Berbic, Jasmin Keserovic, Hamza Labidi, Armen Dzelko e Muharem Dunjic (gli ultimi due, trattenuti dalla Sipa per ulteriori accertamenti). Le donne e i bambini sono invece stati sottoposti a una serie di visite mediche e psicologiche.

Lo scorso novembre, fonti del ministero per la Sicurezza bosniaco avevano ipotizzato la presenza di circa 260 bosniaci attualmente detenuti nei campi in Siria, tutti cittadini che dovranno essere rimpatriati. Un rischio serio considerate le carenze dell’area balcanica (ed europea in generale) in ambito di de-radicalizzazione e reinserimento sociale. Allo stato attuale i tribunali bosniaci hanno condannato 25 individui a un totale di 47 anni e due mesi di reclusione per essersi recati a combattere in Siria o per aver reclutato jihadisti.

Bisogna però vedere se le istituzioni bosniache saranno in grado di gestire il rientro di foreign fighters, il loro reinserimento e nel frattempo contrastare il fenomeno della radicalizzazione islamista e jihadista che corre sia sul web che in alcune moschee e madrasse della Bosnia. Un compito non semplice in un Paese ancora caratterizzato da forti tensioni inter-etniche e in cui la religione rischia di diventare un ulteriore elemento scatenate per un’escalation violenta. Insomma, forse stavolta Macron non ha tutti i torti quando definisce la Bosnia una “bomba ad orologeria”, seppur innescata da attori esterni.
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Re: Boxnia e Kosovo cavałi o navi de Troia de l'Ixlam ?

Messaggioda Berto » lun mar 30, 2020 3:26 pm

L'Albania tra jihadisti di ritorno e propaganda islamista
Giovanni Giacalone
31 dicembre 2019

https://it.insideover.com/terrorismo/lo ... icale.html

Il problema dell’infiltrazione jihadista e islamista radicale nei Balcani occidentali è reale e pluriforme, in base al Paese di riferimento e alle relative caratteristiche istituzionali, politiche e socio-economiche. Non si tratta infatti di un fenomeno che può essere inteso come generalizzato, ma piuttosto legato a specifiche dinamiche. Il radicalismo di matrice islamista fa infatti breccia lì dove lo Stato è carente o assente, dove le condizioni socio-economiche (in particolare quelle dei giovani) sono gravose, senza dimenticare la storia del relativo Paese, che può in qualche modo contribuire alle modalità con le quali si sviluppa il fenomeno.

Nel caso dell’Albania, il fatto che l’eredità del regime comunista guidato da Enver Hoxha, che aveva portato all’annullamento della religione nel Paese e all’introduzione dell’ateismo di Stato (1967) come dottrina ufficiale, possa aver contribuito ad impoverire la fertilità del terreno nel quale l’islamismo radicale poteva progressivamente cercare di far breccia dopo la caduta del regime è ancora oggi oggetto di dibattito.

Nonostante alcune teorie secondo le quali l’ateismo di Stato avrebbe rafforzato, per reazione, il credo del popolo albanese, fin’ora l’unica effettiva conseguenza comprovata in Albania è la reciproca tolleranza e cooperazione tra le diverse comunità religiose in un paese a maggioranza musulmana, ma con relativa presenza cattolica, ortodossa e bektashi. Difficile invece sostenere che l’ateismo di Stato abbia contribuito a un incremento del numero di credenti in un paese dove il nazionalismo, la cosiddetta “albanesità”, ha la precedenza su etnia e religione e dove il tasso di matrimoni misti è particolarmente elevato. E’ possibile dunque ipotizzare che la notevole tolleranza interreligiosa sia in realtà risultato di un’impostazione che, tramite l’ateismo di Stato, ha portato a mettere in secondo piano l’aspetto religioso, visto come secondario rispetto all’appartenenza alla Nazione. In aggiunta, l’Albania non è mai stata teatro di conflitti religiosi sul proprio territorio.


L’islamismo radicale alimentato dall’estero

L’estremismo di stampo islamista presente in Albania è un problema importato dall’estero e ricollegabile a diverse fonti. Ci sono paesi del Golfo e organizzazioni caritatevoli che hanno tutto l’interesse a diffondere wahhabismo e salafismo, finanziando moschee, centri culturali, associazioni benefiche di stampo religioso, importando materiale dottrinario da distribuire e indottrinando imam.

Se da una parte la comunità islamica albanese (Kmsh) è molto attenta a individuare ed eventualmente respingere derive radicali, al punto che già nel 2015 chiese l’intervento delle Istituzioni per far fronte al problema, dall’altra è presente una realtà formata da predicatori radicali, attivi in centri islamici non ufficiali ma anche sul web, alcuni dei quali rientrati in Albania dopo periodi di studio in scuole islamiche del Medio Oriente. Questi predicatori di odio non solo si occupano di diffondere quell’ideologia salafita e wahhabita fondata sulla prevaricazione e l’intolleranza, ma invocano apertamente anche il jihad. Non caso, nel marzo del 2014, le forze di sicurezza albanesi smantellavano una delle più grosse reti di propagandisti e reclutatori per l’Isis attive nei Balcani occidentali (e la più importante d’Albania), con a capo proprio i due imam Genci Balla e Bujar Hysa.

Tra i personaggi collegati alla rete “Balla-Hysa” vi era anche Almir Daci, ex imam della moschea di Leshnica, apparso con il nome “Abu Bilqis Al-Albani” nel noto video sui Balcani rilasciato dall’Isis a giugno 2015 e dal titolo “Honor is Jihad”.

La zone prese di mira dai predicatori di odio sono prevalentemente quelle periferiche di Elbasan, Cerrik, Kavaja, Librazhd, Pogradec, Skutari ma anche la periferia di Tirana. I loro target sono in gran parte giovani individui in precarie condizioni sociali, culturali ed economiche.

Un ulteriore problema è poi l’infiltrazione economica e politica della Turchia di Erdogan, ideologicamente legata all’islamismo radicale dei Fratelli Musulmani, infiltrazione perpetrata tramite l’utilizzo del cosiddetto “soft power”, la capacità di persuadere, attrarre e cooptare, tramite mezzi quali la cultura e la politica. Un pericolo ben più serio perchè più difficile da individuare e da gestire. Un esempio? La grande moschea di Tirana (la più grande di tutti i Balcani), fatta costruire da Erdogan a due passi dal Parlamento albanese su una superficie di 32.000 metri quadrati. Ovviamente tutto ha un costo e in questo caso di tipo ideologico-politico. Non deve infatti stupire se i sermoni predicati all’interno di queste moschee siano gli stessi pronunciati dagli imam dei paesi d’origine, con contenuti che vanno oltre gli aspetti fideistico-dottrinari per sfociare nel politico. Un’arma potentissima nelle mani dei regimi.


Il jihadismo di ritorno e il contrasto al terrorismo

L’Albania ha “contribuito” alla causa jihadista in Siria e Iraq con circa 180-200 foreign fighters su una popolazione di 2.873 milioni ma sembra anche avere un buon controllo della situazione. Il “Country Reports on Terrorism” del Dipartimento di Stato americano per l’anno 2018 ha infatti messo in evidenza come l’Albania, nonostante la scarsità di risorse, abbia comunque ottenuto buoni risultati nel contrasto al jihadismo. La collaborazione tra la CTU albanese e le agenzie statunitensi nella lotta al terrorismo è attualmente ad elevati livelli; un ulteriore aspetto di rilievo è inoltre la modernizzazione del Personal Identification Secure Comparison and Evaluation System (Pisces) per proteggere le frontiere albanesi, oltre ai già elevati controlli presso gli scali marittimi ed aeroportuali.

Nel complesso, l’Albania appare in grado di gestire il pericolo derivante dal jihadismo legato al rientro di foreign fighters e alla radicalizzazione sul territorio; ciò è certamente il risultato della cooperazione con le agenzie europee e statunitensi, ma anche la presenza di un’efficiente sistema di intelligence interno, eredità del periodo comunista. Più problematica risulta invece la gestione della propaganda tramite web che colpisce non soltanto in Albania ma anche la diaspora (un problema tra l’altro su scala globale), propaganda che potrebbe influenzare anche jihadisti ritornati in patria, oltre che quelli latenti, mai partiti.


Il quartier generale dei Mujahideen del Popolo iraniano

Un’ulteriore problematica in suolo albanese è legata alla presenza del quartier generale dei Mujahideen del Popolo d’Iran (Mek), insediato a Manez (vicino Durazzo) dal 2016, dopo anni di attività in Iraq. Una presenza che ha creato non pochi grattacapi alle istituzioni di Tirana.

Il Mek nasceva nel 1963 con l’obiettivo di combattere il regime dello Shah e nel 1979 partecipava alla rivoluzione islamica guidata dall’Ayatollah Khomeini; l’ideologia divulgata (un incrocio di marxismo, femminismo e islamismo) si scontrava però con quella degli Ayatollah, veniva quindi messa al bando e i mujahideen trovavano rifugio nell’Iraq di Saddam Hussein.

Visto con molta diffidenza da Israele e mal sopportato da molti iraniani anti-Ayatollah, in precedenza il Mek era inserito nella lista nera da Unione Europea, Gran Bretagna, Usa e Canada, per poi venire “sdoganato” tra il 2008 e il 2012, grazie anche all’ intervento dell’allora Segretario di Stato, Hillary Clinton.

Se da una parte Washington vede nel Mek “la principale forza d’opposizione promotrice di democrazia e laicità in Iran”, dall’altra, Teheran lo identifica come “organizzazione terroristica responsabile di attentati ed atti di violenza politica”. Se il Mek sia promotore di “democrazia e libertà” o meno, è difficile dirlo; certo è che il connubio tra marxismo-leninismo ed islamismo predicato dal gruppo non è certo una garanzia, così come non lo è la struttura che mostra elementi tipici di una setta, come illustrato recentemente dalla Bbc.

Vale la pena ponderare sull’utilità della presenza del Mek in territorio albanese, presenza scomoda, forse inopportuna, che rischia di creare più problemi che vantaggi in un contesto estremamente delicato come quello balcanico.
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Re: Boxnia e Kosovo cavałi o navi de Troia de l'Ixlam ?

Messaggioda Berto » lun mar 30, 2020 3:27 pm

Il terrorismo dei separatisti albanesi in Kosovo e Metohija
Segreteria Jugocoord

IL TERRORISMO DEI SEPARATISTI ALBANESI IN KOSOVO E METOHIJA
di Rade Drobac

Febbraio 1999
Fonte: ARTEL GEOPOLITIKA - www.artel.co.yu


http://www.cnj.it/home/it/informazione/ ... ohija.html

La situazione attuale in Kosovo e Metohija dimostra assai chiaramente i veri scopi dei separatisti e terroristi albanesi e conferma in totale il contenuto di questo testo scritto nel febbraio 1999, poco prima l'aggressione della NATO contro la Jugoslavia, precisamente per supportare questi stessi separatisti e terroristi.


Benché l'attività terrorista dei separatisti albanesi in Kosovo e Metohija si sia manifestata sotto la sua forma estremista armata, e a scala massiccia, all'inizio del 1998 (raid contro le forze di sicurezza nei villaggi di Luzane e Likosane, nel febbraio 1998), le sue radici sono ben più vecchie, benché il suo scopo strategico resta lo stesso: la creazione della "Grande Albania", dello stato etnicamente puro, dello stato nazionale esplicitamente di tutti gli Albanesi.
Il terrorismo albanese in Kosovo e Metohija è basato sul concetto politico che comanda l'espulsione con la forza e le minacce della popolazione non-albanese, soprattutto Serbi e Montenegrini, alfine di assicurarsi la maggioranza nella struttura nazionale della popolazione, e di farne la base delle rivendicazioni in vista del controllo politico su questo territorio e dell'annessione nella cosiddetta "Grande Albania", prima di incorporare egualmente delle parti dei territori d'altri stati vicini - la Macedonia e la Grecia.

Le radici e la continuità del separatismo e del terrorismo albanese

Gli assassinii, le persecuzioni e le aggressioni alle popolazioni serbe e montenegrine risalgono ai tempi della dominazione dell'Impero Ottomano. Si approfittava della prevalenza della popolazione albanese sul posto, del fatto d'avere accettato l'Islam, godendo di uno statuto privilegiato presso i Turchi e si dedicavano impunemente al terrore contro la popolazione cristiana, i Serbi e i Montenegrini. Questa violenza era diretta dai pashà e dai signorotti locali.
Dopo la liberazione della Serbia e del Montenegro dall'occupazione turca, alla fine del XIX.mo secolo, gli atti di violenza si ridussero, ma non cessarono mai. Durante la Prima Guerra mondiale, che afflisse pesantemente la Serbia (un terzo della sua popolazione vi perì in combattimento o in altro modo), i separatisti e i terroristi albanesi ne approfittarono per rinnovare e intensificare gli atti di terrore e violenza contro la popolazione serba e montenegrina. La storia nota come un fatto particolarmente crudele, lo sterminio massiccio dei soldati serbi, per inedia, fame e freddo nel 1916, mentre l'esercito serbo attraversava le montagne del Kosovo, Metohija e Albania, durante la ritirata verso la Grecia.
Dopo la fine della Prima Guerra mondiale, nel periodo 1919-1924, crimini terroristici furono perpetrati attraverso il territorio della Provincia del Kosovo e Metohija dal cosiddetto "Movimento dei katchak" - un movimento che amalgamava la politica con il banditismo e la violenza.
Ora, il Regno di Jugoslavia sconfisse in vent'anni, il terrorismo e il banditismo albanese, affinché non potesse provocare effetti negativi maggiori.
Il terrorismo albanese dei "Katchak", d'una portata più importante e con delle conseguenze quasi tragiche per i Serbi, i Montenegrini e le altre comunità attraverso il Kosovo e Metohija, rinacque sotto l'ala dell'Italia fascista, appena dopo l'occupazione dell'Albania nell'aprile 1939. Le irruzioni delle bande dei criminali dall'Albania al Kosovo e Metohija, nonostante le obbligazioni che il governo italiano aveva in termini del trattato intergovernativo, sia di rispettare l'integrità della Jugoslavia, che servivano a provocare dei conflitti armati e a preparare il terreno per le conquiste fasciste successive e per la frammentazione della Jugoslavia. Dopo la breve guerra d'Aprile (abbreviata con il bombardamento di Belgrado dalla Germania fascista il 6 aprile 1941), e precedente l'accordo dei ministri degli affari esteri della Germania e dell'Italia (Vienna, 21-24 aprile 1941), il dittatore italiano B. Mussolini promosse ufficialmente il 29 luglio dello stesso anno, "la Grande Albania" cui furono annesse delle regioni della parte orientale del Montenegro, del Kosovo e Metohija, della parte occidentale della Macedonia, e una parte dell'Epiro greco. Così, con l'aiuto delle potenze fasciste si vide la realizzazione della "Grande Albania", una creazione collaborazionista e chauvinista per il suo carattere - il sogno dei separatisti e terroristi albanesi, anche oggi.
Sotto gli auspici dell'Italia fascista, con il suo aiuto, e durante tre anni d'occupazione, i separatisti e terroristi albanesi in Kosovo e Metohija hanno ucciso circa 10.000 Serbi e Montenegrini, hanno incendiato e raso al suolo circa 30.000 abitazioni e espulso 60/70.000 Serbi e Montenegrini. Nello stesso periodo, più di 100.000 Albanesi d'Albania s'installarono sulle proprietà dei Serbi e Montenegrini espulsi.
Alla capitolazione dell'Italia, settembre 1943, i terroristi albanesi ricevettero un nuovo mentore - la Germania fascista, con la speranza che fosse essa a salvaguardare i loro interessi. La marcia vittoriosa delle potenze alleate, scatenate dalla metà del 1944, nel quadro in cui l'Armata Popolare di Liberazione della Jugoslavia apportò un contributo significativo, grazie al fatto d'avere liberato essa stessa il proprio stato, spezza definitivamente il III Reich nazista. A partire da quel momento e fino alla disfatta definitiva della Germania, i terroristi albanesi, valletti fedeli del fascismo, assicuravano la protezione dell'esercito tedesco che si ritirava dalla Grecia passando per il Kosovo e Metohija. Dopo l'evacuazione dei tedeschi, i resti delle unità delle bande di terroristi e i separatisti albanesi restavano in Kosovo e Metohija, non rinunciando all'idea e alla loro volontà di perseguire la lotta per l'instaurazione della frontiera etnica dell'Albania.
L'Armata Popolare di Liberazione Nazionale della Jugoslavia vinse, fin al maggio 1945 - data della capitolazione della Germania - il grosso delle formazioni di
banditi e proseguì la lotta contro i resti dei terroristi - i "balisti" - nelle foreste del Kosovo e Metohija, per un certo periodo nel dopoguerra.
Poco dopo la Seconda guerra mondiale, e grazie al clima favorevole nelle relazioni della Jugoslavia nuova e dell'Albania, circa 200.000 Albanesi d'Albania s'installarono in Kosovo e Metohija, mentre allo stesso tempo i Serbi e i Montenegrini espulsi durante l'occupazione italiana si videro interdire per legge il ritorno alle loro proprietà rispettive.
(...)

Il separatismo e il terrorismo albanese, in funzione della disintegrazione dell'ex Jugoslavia

Un nuovo incoraggiamento del movimento nazional-separatista e terrorista albanese, data dalla fine degli anni '80 e dall'inizio degli anni '90. L'autonomia emancipata di cui godeva la Provincia, che comprendeva egualmente degli elementi dello statuto federale e confederale (rappresentazione diretta a livello della Federazione, benché parte integrante della Serbia, autonomia decisionale sulla quasi totalità degli affari senza consultazioni con la Repubblica-madre e senza possibilità per la Serbia, la Repubblica-madre, di contestarli, il potere assoluto nel campo giuridico, esecutivo e altri) non bastavano all'epoca; l'obiettivo dei separatisti albanesi in Kosovo e Metohija erano stati e rimanevano il potere e l'indipendenza assoluta. Nel processo della disintegrazione violenta dell'ex Jugoslavia, i separatisti albanesi erano patrocinati dalle direzioni politiche identiche nelle Repubbliche dell'ex Jugoslavia che si separarono (Slovenia, Croazia, Bosnia-Herzegovina e Macedonia).
All'inizio, i nazionalisti-separatisti tentarono di completare i loro scopi separatisti con l'incitazione di manifestazioni massicce di Albanesi, con scioperi (di minatori, dei servizi pubblici), il sabotaggio e altre azioni del genere effettuate con lo slogan: "Kosovo-Repubblica". Tale slogan articolava il primo stadio del programma dei nazionalisti grande-albanesi, poiché l'ottenimento dello statuto di Repubblica permetteva la secessione secondo il modello applicato dalla Slovenia, dalla Croazia, dalla Bosnia-Herzegovina e dalla Macedonia. Si dissimulava un obiettivo secessionista - la separazione per tappe dalla Serbia e dalla Jugoslavia e l'integrazione con l'Albania. Durante le sommosse all'interno del Kosovo e Metohija, nel 1991, i nazionalisti-separatisti votano e proclamano anticonstituzionalmente e nell'illegalità la Repubblica del "Kosovo" (la cosiddetta Costituzione di Kacanik) con l'appoggio e l'aiuto dissimulato dei loro nuovi tutori - del milieu particolare della comunità internazionale, gli stessi che avevano sostenuto la disintegrazione dell'ex Jugoslavia. Il disegno è chiaro - creare delle strutture statali parallele che dovevano permettere, con l'assistenza delle potenze straniere che gli erano favorevoli, l'internazionalizzazione della questione del Kosovo e Metohija allo scopo di assicurare una legittimità politica internazionale e l'apertura del processo di secessione della Serbia e della Jugoslavia.
La radicalizzazione, quasi la ripresa del terrorismo, come mezzo di realizzazione degli obiettivi politici dei separatisti albanesi in Kosovo e Métohija, s'inscrive dal 1992, nel quadro dell'Alleanza democratica del Kosovo. È stato stabilito che gli aderenti della struttura autoproclamata come "Ministero della difesa e lo stato maggiore della Repubblica del Kosovo" operavano secondo le istruzioni e gli ordini del leader dell'Alleanza democratica del Kosovo, Anton Kolja, e del ministro della difesa di uno stato straniero, l'Albania all'occorrenza - il generale Safet Zullallia, all'epoca.
Simultaneamente, il leader politico nazionalista albanese e capo del Partito democratico albanese Salli Berisha assicurava i suoi servizi logistici ai terroristi del Kosovo e Metohija, concernente, soprattutto, il loro addestramento nei centri del Nord dell'Albania. L'elezione di Salli Berisha alla presidenza della Repubblica albanese nel 1992 e una prima dissoluzione dell'organizzazione dello stato albanese (la caduta della piramide dei risparmi, fine 1996, il saccheggio dei depositi di armi dell'armata albanese, il crollo del sistema di sicurezza - la polizia) incoraggiano il rafforzamento del sostegno apportato al terrorismo e al separatismo in Kosovo e Metohija. Non è un caso che alla stessa epoca la formazione terrorista, il cosiddetto "Esercito di liberazione del Kosovo" ("UCK") si fa sentire per la prima volta. E parallelamente con questi sviluppi, l'Albania apporta il suo pieno sostegno politico ai separatisti e terroristi in Kosovo e Metohija, riconoscendo, nettamente, la legittimità della "Repubblica del Kosovo" illegale e autorizzando il funzionamento in Albania della rappresentazione "diplomatica" di questa creazione statale inesistente. L'Albania è il solo stato a riconoscere gli atti illegali e lo stato virtuale del Kosovo, sul territorio di un altro stato sovrano , contrariamente a tutti i documenti e principi internazionali. Sempre nello stesso periodo, l'organizzazione terrorista dei separatisti albanesi s'estende, dei nuovi centri s'aggiungono a coloro che operano già a Tirana e a Elbasan, e si vede di stabilire nell'Adriatico una via di passaggio dei terroristi provenienti dall'Italia.
In Albania s'addestrano: degli emigranti - terroristi del Kosovo e Metohija, dei terroristi d'Albania stessa, degli Albanesi che vivono all'estero e dei mercenari provenienti da ogni parte, compresi i mujahedin.
Indolente e spesso incoraggiante, la posizione che una parte del milieu politico internazionale osserva verso i terroristi, compreso l'aiuto crescente dell'Albania, finì col contribuire alla escalation degli atti terroristici nella Provincia autonoma del Kosovo e Metohija. I dati seguenti del periodo 1991-1998,
lo dimostrano nettamente:


Anni e numeri d'atti terroristici:
1991. - 11
1992. - 12
1993. - 8
1994. - 6
1995. - 11
1996. - 31
1997. - 31
1998. - 1885

Gli scopi della strategia degli chauvinisti grande-albanesi

L'obiettivo politico dei nazionalisti nelle strutture dello statali e politiche d'Albania e nel milieu dei nazionalisti-separatisti in Kosovo e Metohija, é - come fu sempre nella storia - identica: "la Grande Albania" etnicamente pura. E il Kosovo e Metohija costituisce il centro focale delle aspirazioni di tutti gli Albanesi che desideravano la creazione di questo stato fantomatico, il punto di scatenamento dell'azione con tutti i mezzi sulla via della realizzazione di questi obiettivi.
Il ruolo del Kosovo e Metohija nel concetto grand-albanese appariva come la sintesi di molti interessi di cui alcuni si sono già articolati come i più importanti. La ragione più importante, strategica, che fa che la conquista del potere in Kosovo e Metohija divenga d'una importanza centrale per la concretizzazione della "Grande Albania", risiede nel fatto che tale regione figura al centro dell'entità politica e statale immaginata. Senza il controllo su questa regione, gli Albanesi che vivono in Macedonia sono esclusi. Una seconda ragione è la percentuale estremamente elevata della popolazione albanese nella regione. È d'altronde la base unica su cui i separatisti e i terroristi fondano la loro rivendicazione in favore delle loro secessione dalla Serbia e dalla Jugoslavia.
Inoltre, conviene sottolineare che il Kosovo e Metohija è una regione dotata di ricchezze naturali eccezionali, e perché vi passano le arterie delle comunicazioni collegate con l'Europa e il Medio-Oriente. In questo contesto, si deve sottolineare che l'Albania ha sempre appoggiato, quasi incoraggiato, l'attività separatista e terrorista, soprattutto perché nella sua storia di corta durata (è stata creata nel 1912) non è mai stata stabile né uno stato di diritto. Il "problema" del Kosovo e Metohija gli serviva sempre per distogliere l'attenzione dell'opinione nazionale propria dai problemi interni ai problemi esterni dell'Albania.
L'esempio più recente sono gli eventi che successero in Albania che è, dal 1996, marcata dall'instabilità, i disordini, i conflitti, il caos politico e economico. L'Albania trova il suo interesse nel nodo del nazionalismo grand-albanese alfine di rigettare la colpevolezza per tutte le sue difficoltà proprie (la dissoluzione dello stato e la profonda crisi economica e sociale) sul terreno dell'irrazionale, pertanto che il tutto s'inserisce anche nei piani strategici dei suoi mentori più recenti - la NATO - consistente nel consolidare le posizioni strategiche nei Balcani (rafforzamento dell'ala sud della NATO). Cioè anche il Kosovo e Metohija formano il punto centrale di un nuovo ritracciamento geostrategico della NATO. Da cui questa tendenza degli USA (e della NATO) per dispiegare tranquillamente le truppe attraverso il Kosovo e Metohija.
I separatisti e i terroristi e gli estremisti grand-albanesi del Kosovo e Metohija hanno accolto la nuova sponsorizzazione delle forze politiche nel mondo come una occasione che si prestava alla realizzazione del loro sogno secolare - fare secedere una parte del territorio della Serbia e della Jugoslavia, che hanno quasi purificato sul piano etnico, alfine di annetterla all'Albania. Al contrario dei periodi storici precedenti, essi approfittano per realizzare i propri obiettivi, degli interessi strategici e egemonici delle grandi potenze, quelli della NATO nel caso più recente, che desiderano controllare ogni via che va dall'Europa al Medio-Oriente, cioè le arterie terrestri verso le materie prime strategiche (il petrolio).
Loro compito è reso più facile dall'interesse d'una parte degli stati islamici che desideravano fare del Kosovo e Metohija un catalizzatore dell'islamismo, ottenendo un nuovo appoggio islamico sicuro e solido (accanto la Bosnia-Herzegovina), e ciò nel quadro del concetto ben noto della creazione della "trasversale verde", quasi un ponte islamico che conduce dalla Turchia verso l'Europa centrale e occidentale.

Il terrorismo, l'arma dei separatisti

Il terrorismo come mezzo di realizzazione dei loro obiettivi, i terroristi albanesi l'hanno scelto per due ragioni principali. Innanzitutto perché non erano riusciti a rovesciare lo stato serbo e la Jugoslavia attraverso il processo politico e non violento, la loro concezione d'acquisizione graduale dell'indipendenza completa con le pressioni e le minacce politiche essendo state impedite dalle modifiche della Costituzione della Serbia e del Kosovo e Metohija, effettuate nel 1989. In seguito, poiché era per essi il mezzo unico per destabilizzare la situazione in Kosovo e Metohija, per provocare la reazione degli organi legittimi del potere e approfittando, alla fine, delle manipolazioni dell'opinione internazionale che dovevano sboccare nell'internazionalizzazione del problema e a un proprio regolamento al di fuori delle istituzioni dello stato legittimo sul posto, con l'appoggio e l'aiuto di una parte della comunità internazionale.
Nella realizzazione di tali obiettivi i separatisti albanesi in Kosovo e Metohija, e in Albania, contano sull'appoggio senza riserve dei loro nuovi mentori (la NATO) e la loro formula già verificata (in Slovenia, in Croazia e in Bosnia-Herzegovina) del rovesciamento degli stati sovrani - l'aggressione a uno stato preciso era scopo dell'uso dei terroristi locali, delle pressioni e minacce esterne, dell'assistenza logistica e finanziaria dall'estero, dei mercenari provenienti da paesi terzi. Il risultato di questa decisione di passare dal politico al terrorismo, è stato questa enorme espansione del terrorismo attraverso il Kosovo e Metohija, nel 1998.
Questa "espulsione della Serbia" dal "loro Kosovo", che i terroristi del cosiddetto "Esercito di Liberazione del Kosovo" ("OVK" - "UCK") si sforzavano di compiere con degli attacchi terroristici massicci contro le forze del Ministero degli interni. Sul totale di 1885 atti terroristici operati nel 1998, 1129 avevano come obiettivi forze e istituzioni degli organi della sicurezza, 115 poliziotti uccisi e 403 feriti. Inoltre, 15 furono rapiti (3 uccisi, 3 liberati, e la sorte di 9 poliziotti rimane ignota). Nel corso dello stesso anno, i terroristi si dedicarono, in Kosovo e Metohija, in molti atti di terrorismo contro civili, e hanno ucciso:
- 46 civili di nazionalità serba e montenegrina;
- 77 civili di nazionalità albanese, leali allo stato serbo e alla Jugoslavia;
- 14 civili di nazionalità diverse, titolari della funzione pubblica o che lavoravano nei servizi pubblici;
Feriti, 158 persone, di cui:
- 74 civili di nazionalità serba e montenegrina;
- 72 civili di nazionalità albanese;
- 3 civili della comunità nazionale dei Goranci;
- 9 civili appartenenti ad altre nazionalità;
293 civili rapiti, di cui:
- 173 civili di nazionalità serba e montenegrina (13 uccisi, 2 fuggiti, 68 liberati, la sorte di 90 resta ignota);
- 101 agenti di nazionalità albanese (16 uccisi, 8 evasi, 34 liberati, la sorte di 43 persone resta ignota);
- 14 Rom (2 uccisi, la sorte di 5 resta ignota, 7 liberati);
- 2 Egiziani (sorte ignota);
- 1 agente della R.F. di Jugoslavia dell'ex-Repubblica jugoslava di Macedonia (liberato);
- 2 civili di altre nazionalità (sorte ignota).
I terroristi albanesi appartenenti al cosiddetto "Esercito di liberazione del Kosovo" ("OVK"-"UCK") hanno tentato nel 1998, 708 volte di passare la frontiera statale (504 volte per entrare nella R.F. di Jugoslavia, 204 volte per uscire dalla RFY) alfine di addestrarsi e armarsi in Albania. Ciò provocò 125 incidenti di frontiera, di cui 100 operazioni armate con qualche migliaio di terroristi contro le guardie di frontiera jugoslave. Nell'insieme dei terroristi uccisi (715), feriti (366) e arrestati (93), si è potuto identificare degli elementi della minoranza nazionale albanese del Kosovo e Metohija, della nazionalità d'Albania, dei fondamentalisti islamici e dei mujahedin del Medio-Oriente e d'Asia (un gran numero legato a Usama Bin Laden), così come i mercenari europei (compresi gli stati creati nello spazio dell'ex Jugoslavia). Nella loro missione di difesa della frontiera dello stato e di prevenzione delle irruzioni dei terroristi, 36 elementi dell'Armata di Jugoslavia furono uccisi, e 105 feriti. Conviene notare che al momento delle irruzioni illegali dei terroristi albanesi provenienti dall'Albania, essi beneficiavano dell'appoggio armato di elementi dell'esercito albanese.
Bisogna sottolineare anche che i terroristi dell'"UCK" hanno per la prima volta, dalla Seconda Guerra mondiale, formato dei campi per le persone detenute, attraverso il Kosovo e Metohija (Junik, Glodjane, Izbica, Lipovica, e altri luoghi), e si ricorreva a delle esecuzioni usando i metodi più brutali, caratteristiche dell'epoca dei nazi-fascisti (il crematorio a Klecka - l'incenerimento dei Serbi e Montenegrini, i carnai di Donji Ratis, Volujak, e altri).

L'"UCK" è una organizzazione terrorista

Nel vasto spettro di posizioni politiche contraddittorie e ipocrite, relative agli eventi in Kosovo e Metohija, i più cinici sono i tentativi fatti affinché il terrorismo evidente e eclatante del cosiddetto "Esercito di liberazione del Kosovo" sia presentato come la "lotta per la protezione dei diritti umani minacciati", la "resistenza del popolo armato", una "insurrezione"; la lotta contro "l'aggressione serba", contro "la colonizzazione", contro "l'apartheid"; che i terroristi fossero qualificati come "formazioni albanesi armate", dei corpi di "resistenza collettiva degli Albanesi", per divenire dei "civili" eliminati dalla polizia. Tale "copertura dei terroristi" e la relativizzazione delle loro responsabilità e azioni abusive, si sono fatte risentire ora, significavano evitare ogni condanna del terrorismo e dei terroristi da parte della comunità internazionale, marcano un tentativo aperto per farli legittimare tacitamente. Tale posizione dei leaders del nuovo ordine mondiale confermano il fatto che nelle loro attività riguardo al Kosovo e Metohija, sono guidate dai loro propri interessi, e non dal Diritto e le buone pratiche internazionali. L'ONU, l'UE, la CSCE e altri fattori politici influenti, erano strumentalizzati dagli USA e un piccolo numero di loro alleati, e non osavano opporsi, benché l'azione dell'"UCK" s'inscrive. per sua stessa essenza, nel contesto della definizione generalmente riconosciuta e ammessa del terrorismo internazionale. Benché esistano più di 120 definizioni del terrorismo e qualsiasi sia la definizione accettata da tutti, esistono anche alcuni elementi comuni, generalmente accettati e riconosciuti, che portano una attività criminale nella categoria del terrorismo. Pertanto per la teoria che studia il terrorismo contemporaneo, l'"esercito di liberazione del Kosovo" è una organizzazione terrorista, e per le seguenti ragioni:
-Mira su un obiettivo politico non legittimo: la secessione della Provincia del Kosovo e Metohija dalla madrepatria, e la sua annessione all'Albania vicina, in
vista della creazione della "Grande Albania" (all'interno delle frontiere etniche popolate dagli Albanesi);
- Il metodo d'azione di base è il combattimento con la polizia e non con l'esercito;
- Ha ucciso un gran numero di agenti della polizia, dell'esercito, così come dei civili, si è dedicata alla distruzione massiccia dei beni ricorrendo ai più brutali metodi del terrorismo e del banditismo, così con le armi più diversificate;
- Al livello di organizzazione l'"UCK" s'articola come la somma dei gruppi debolmente legati tra essi, che agiscono simultaneamente, e anche come terroristi e come criminali e senza alcuna subordinazione;
- la cospirazione è il modo di comunicazione tra i capi dei gruppi e i collaboratori stretti dei terroristi.

Gli USA s'appoggiano sulla definizione (dell'FBI) che dice: "Il terrorismo é il ricorso illegale alla forza o alla violenza contro persone o beni alfine d'intimidire o di fare pressione sul governo, la popolazione civile, o su qualche altro segmento della società, alfine di ottenere degli obiettivi politici e sociali".
Le attività dell'"UCK" s'inscrivono precisamente in una tale definizione.
Secondo la Convenzione di Ginevra, anche, l'"UCK" rientra tra le organizzazioni terroriste per il fatto di effettuare degli attacchi e delle imboscate contro dei civili innocenti e forze di sicurezza, mentre la Convenzione riconosceva la guerriglia come mezzo di guerra "se si tratta veramente di una guerra", ciò che non era il caso in questione, poiché non si trattava di due eserciti in conflitto ma di "civili" armati che attaccavano vigliaccamente vittime di ogni settore della popolazione, così le istituzioni e funzionari pubblici statali.
Inoltre, secondo la regola, gli aderenti a un guerriglia s'oppongono apertamente ai loro avversari.
Che si trattava di una vera organizzazione terrorista, è confermata anche dai legami con dei gruppi islamici fondamentalisti-terroristi del Medio-Oriente, d'Afghanistan e di certi paesi d'Asia, così con il terrorismo di stato che l'Albania pratica verso la Serbia e la Jugoslavia.
Di conseguenza, ciò che noi precisiamo, conferma senza alcun dubbio che l'organizzazione separatista-terrorista, l'"UCK", riveste, secondo i criteri internazionali, il carattere d'una organizzazione terrorista. Dati gli obiettivi dei terroristi, si può facilmente supporre che i fondatori siano dei leaders politici albanesi in Kosovo e Metohija, mentre gli sponsor esteri sono l'Albania, gli USA, la Germania, così come certi altri paesi dell'Europa occidentale. La sponsorship dell'"UCK" e il significante fatto di evitare di condannare il suo carattere terrorista, provengono da una dichiarazione di Christopher Hill, ambasciatore degli USA a Skoplje, fatta verso la metà del 1998: "Il Nostro concetto non significa necessariamente che cerchiamo di separare il Kosovo dalla Serbia, benché gli Albanesi vogliano ciò. Ma ciò che vogliamo, e il meno che possa dire, è di cacciare la Serbia dal Kosovo, iniziando dai poliziotti". Se si prende in considerazione il numero di attacchi terroristici perpetrati nel 1998, e se lo si mette in rapporto con i desiderio espresso dall'ambasciatore Hill "di scacciare la Serbia e i suoi poliziotti" dal Kosovo e Metohija, traspariva chiaramente che si trattava di un sostegno aperto al separatismo e al terrorismo.
Nel contesto di un tal ambiente politico, modellato dai protagonisti dell'egemonismo globale, confondendo totalmente le cause e gli effetti, sostituendo le tesi, in modo che la vittima delle aggressioni terroriste - la Serbia e la Jugoslavia, all'occorrenza - sul suo proprio territorio, finisce per essere qualificata da aggressore, mentre i terroristi, gli assassini e i rapitori sono trasformati in vittime.
La loro ipocrisia, le potenti influenze in seno alla comunità internazionale, la dissimula sotto il loro pacifismo verbale, benché le loro azioni, propriamente parlando, istigano e prolungano i conflitti in Kosovo e Metohija. La conseguenza logica di questo appoggio è stato l'accrescimento del numero di attacchi terroristici dell'"UCK" nel 1998 e attraverso tutta la regione del Kosovo e Metohija. Ciò è divenuto particolarmente trasparente dopo la firma dell'accordo tra il presidente della R.F. di Jugoslavia, S. Milosevic, e l'inviato USA R. Holbrooke. In risposta alla ritirata parziale della polizia della Repubblica di Serbia e dell'esercito della RFY dal Kosovo e Metohija, operata non solo per onorare le obbligazioni prese, ma ugualmente nel desiderio di calmare i conflitti e di fare risolvere i problemi pacificamente, con il dialogo politico, i terroristi dell'"UCK" intensificarono i loro attacchi. Dal 13 ottobre 1998 al 11 febbraio 1999, l'"UCK" effettuò 753 attacchi terroristici:
uccisi: 89 persone, di cui:
- poliziotti: 19
- civili: 70
feriti: 160 persone, di cui:
- 84 poliziotti
- 76 civili
rapiti: 55 persone, di cui:
- poliziotti: 6 (2 uccisi)
- civili: 49 (1 ucciso)
- la sorte degli altri rapiti resta incerta.
E durante tutto questo tempo, i fattori internazionali interpretavano questi crimini come "provocazioni" e "reazioni agli assassini di civili albanesi", le loro condanne non si rivolgevano che agli organi legittimi e legali della Serbia di cui ogni azione contro i terroristi fu stigmatizzata di colpo come "ricorso esagerata alla forza", come "massacro di civili", come "reazione militare smisurata", come "catastrofe umanitaria", e così di seguito.
Parallelamente, il sostegno logistico aperto e ogni altro sostegno e aiuto ai terroristi albanesi, dall'Albania, sono passati sotto silenzio o sono giustificati. Il fatto che i terroristi albanesi del Kosovo e Metohija sono addestrati nei centri in Albania (Tirana, Elbasan, Bajram Curi,Tropoïe, Kruma, ecc.) da ufficiali dell'esercito albanese, dei servizi d'intelligence di certi paesi euro-occidentali, e da combattenti del "jihad", non preoccupava nessuno, apparentemente. E lo stesso sostegno finanziario abbondava dalla narco-mafia albanese e da certi paesi islamici verso l'"UCK", non suscitava alcuna reazione corrispondente in paesi che diversamente combattono rigorosamente ciò sul proprio territorio.
Detto ciò, non è sorprendente che l'"UCK", organizzazione terrorista che occupa certamente il primo posto dei crimini commessi nel 1998, non solamente non appare sulla lista delle organizzazioni terroriste, ma si vede accrescere anche le pressioni di un piccolo numero di paesi, e in primo luogo degli USA, per essere presentata come partner politico legittimo e negoziatore alla pari nel dialogo sul Kosovo e Metohija. Cioè, gli USA attaccano impietosamente i terroristi che li minacciano, non esitano di attaccare i terroristi nei territori degli Stati indipendenti, ma minacciano di ricorrere alla NATO per impedire alla Serbia e alla Jugoslavia di combattere i terroristi sul loro proprio territorio.

Il crimine come fonte di finanziamento del terrorismo

Una moltitudine di dati degni di fede indicano che le più importanti fonti per il finanziamento delle attività terroriste in Kosovo e Metohija provengono dalle
attività criminali della mafia albanese: il traffico di narcotici verso gli USA, la Svizzera, la Germania, il Belgio, la Gran Bretagna e in altri paesi europei (le vie della droga: Asia-Europa e USA); il contrabbando e il traffico di armi in certi paesi europei e asiatici; il racket, i ricatti e la violenza verso i membri della comunità nazionale degli Albanesi che lavorano all'estero; la prostituzione, la falsificazione dei biglietti e le entrate clandestine negli USA e nei paesi europei, degli Albanesi del Kosovo e Metohija e altri provenienti da paesi non europei; il commercio di organi umani; l'accattonaggio dei minori di nazionalità albanese; i furti e le altre attività criminali. Il
vasto ventaglio di attività criminali degli Albanesi, organizzati sulla base della loro appartenenza nazionale, indipendentemente se siano di nazionalità Albanese, Jugoslava, Macedone o Greca, e secondo i principi del clan, rilevata dalla sua importanza delle più grandi strutture criminali in Europa e nel mondo.
È particolarmente pericolosa e "riuscita" la "narcomafia" albanese che è, secondo le valutazioni di esperti, la terza in Europa per i ricavi ottenuti. Una buona parte dei fondi così ottenuti è utilizzata per finanziare "lo stato" parallelo, illegale, in Kosovo e Metohija, e per equipaggiare i terroristi con armi ultramoderne. Il traffico di armi che sono, via l'Albania, destinate in Kosovo e Metohija assume d'ora in poi delle proporzioni enormi.
Dei fondi significativi sono ottenuti con il racket degli Albanesi che lavorano all'estero. Sono forzati a versare regolarmente un minimo del 3% del loro reddito ai rappresentanti dei terroristi albanesi in molti paesi dell'Europa occidentale, USA e Canada, e secondo certi indici confermati, dei fondi ancora più importanti sono raccolti con la minaccia, il ricatto o il pestaggio di coloro che si oppongono. In Kosovo e Metohija, i cittadini di nazionalità albanese sono costretti a versare una "imposta" ai separatisti, appena essi ottengono le loro obbligazioni legalmente dovute, e mentre per i leader separatisti ogni tentativo più serio di attuazione della legge (pagamento delle imposte, tasse e altri introiti) diviene immediatamente, "pressione", "violenza", sui "civili albanesi", benché si tratti di obbligazioni che riguardano tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro origine nazionale.

La solidarietà internazionale nella lotta contro il terrorismo

Per ciò che concerne il finanziamento del terrorismo albanese, una parte importante proviene dai fondamentalisti islamici dell'Arabia saudita, dell'Afghanistan e da altri paesi mussulmani, così da certi servizi d'intelligence occidentali le cui attività non dovrebbero sfuggire dalla conoscenza e dalla volontà dei responsabili politici di questi paesi.
Benché tutti gli stati abbiano, in termini di diritto internazionale, l'obbligazione né d'incoraggiare né di tollerare i finanziamenti delle attività terroriste dirette contro altri stati, nel caso concreto ciò non è rispettato da una parte della comunità internazionale. L'applicazione dei doppi standard si situa in funzione della realizzazione degli interessi politici e altri fattori internazionali chiave.
Oltre alla Carta dell'ONU, gli atti che interdicono i finanziamenti e ogni altro appoggio e sostegno al terrorismo, e condannando generalmente ogni attività terrorista sono: la Risoluzione dell'Assemblea generale dell'ONU 2113 del 21 dicembre 1965; la Risoluzione-Dichiarazione sui modi d'applicazione del Diritto internazionale e la cooperazione degli stati; la Risoluzione 2625/25 del 24 ottobre 1970; la Risoluzione-Dichiarazione sul rafforzamento della sicurezza internazionale, n. 2734/25 del 16 dicembre 1970, la Risoluzione n. 3314 del 14 dicembre 1974, così come numerosi altri documenti internazionali, compreso necessariamente le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'ONU n. 1160, 1199 e 1203, così come le ultime risoluzioni dell'Assemblea generale dell'ONU n. 53/108 del 26 gennaio 1999.
È sulla stessa via che si situano anche le posizioni della conferenza sulla repressione del terrorismo nel mondo, tenuta nel 1997 al Cairo. Questo summit specifico dei capi di stato e di governo ha qualificato il terrorismo come il più grande male globale del mondo contemporaneo, mentre nelle sue conclusioni la Conferenza lancia un appello generale che invita gli stati a lottare in comune, a sostenersi e a collaborare in favore dell'eliminazione del terrorismo. Quanto ai protagonisti dal comportamento contraddittorio, violento e autoritario, e anche se si tratta dei difensori del globalismo, dell'egemonia, della religione o dell'ideologia, questi documenti in vigore che gli impegnano ugualmente, non rappresentano un ostacolo nella realizzazione dei loro interessi nello spazio dei Balcani, in virtù della politica conseguente d'applicazione delle norme doppie. Invece di tagliare le radici del terrorismo, sono divenuti, conscientemente o inconscientemente, i suoi complici.

La legalità della lotta degli organi dello stato della Serbia e della R.F. di Jugoslavia contro il terrorismo

Al fine di proteggere lo stato contro il terrorismo dei separatisti albanesi e d'assicurare l'ordine e la sicurezza di tutti i cittadini della Provincia, gli agenti della polizia attuarono delle attività antiterroriste legittime.
Durante l'esercizio delle loro funzioni, gli agenti della polizia sono stati, nel 1998, attaccati 1129 volte dai terroristi albanesi; 115 poliziotti sono stati uccisi, 403 feriti, e 15 rapiti, di cui 3 uccisi e 9 scomparsi. Ora, ciò che è legittimo nella lotta antiterrorista negli USA, in Irlanda del Nord, in Spagna (Paesi Baschi), in Francia (Corsica) e in altri paesi, secondo la volontà delle potenze mondiali e della NATO è proclamata illegittima quando si tratta della Serbia e della Jugoslavia. E con la loro aggressione informativa e la promozione mediatica di nozioni nuove, come: il "ricorso esagerato alla forza", l'"azione smisurata delle forze della polizia", la "catastrofe umanitaria degli Albanesi", e altre, si tenta d'impedire che le forze di sicurezza legale di lottare contro il terrorismo in Kosovo e Metohija. I terroristi sono costantemente amnistiati. Le Risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'ONU n. 1160, 1199 e 1203, non solo non condannavano i terroristi dell'"UCK", ma sono utilizzate per fare pressione sulla R.F. di Jugoslavia. Sono, dunque dei documenti internazionali che sostengono apertamente il terrorismo e i terroristi in Kosovo e Metohija. Sotto la pressione degli USA, i più alti funzionari dell'ONU non potevano compiere il loro dovere di protettori obiettivi della legalità e della Carta dell'ONU.
Così, Kofi Anan, il segretario generale dell'ONU, parlando il 5 giugno 1998 delle attività antiterroriste della polizia in Kosovo e Metohija, disse: "Se il mondo deve apprendere qualche cosa da questo capitolo nero della storia, quando a questo genere d'aggressione (é la questione della lotta della polizia contro i terroristi) conviene opporsi immediatamente e energicamente". Ciò che viene evocato finì col favorire la riorganizzazione dei terroristi, la continuazione delle loro attività criminali. La Repubblica d'Albania, senza nascondersi, sotto gli occhi della comunità internazionale e degli osservatori internazionali presenti in questo stato e in Kosovo e Metohija, continuava impunemente a aiutare direttamente i terroristi dell'"UCK". Per quanto riguarda il volume della logistica armata che appoggiava dall'Albania l'esecuzione dei raid terroristi in Kosovo e Metohija, la dice lunga la constatazione del sotto-segretario dell'ONU per il disarmo, Giant Danapaul, fondata sui dati ufficiali di una missione speciale dell'ONU in Albania, secondo cui sono stati saccheggiati i depositi di armi dell'esercito dell'Albania, di circa 650.000 armi, 1,5 miliardi di proiettili e 20.000 tonnellate di esplosivo, mentre si sa che circa 200.000 armi sono state clandestinamente trasferite in Kosovo e Metohija. Evidentemente, conviene aggiungervi le armi e le munizioni destinate ai terroristi da certi servizi segreti e dalla mafia albanese del mondo, e destinati ai centri d'addestramento e d'armamento dei terroristi dell'"UCK" nel Nord dell'Albania. Ne fanno parte armi e equipaggiamento ultramoderni della NATO, comprese le armi il cui uso è interdetto dalle convenzioni internazionali.
I responsabili internazionali, obbediscono conseguentemente allo stereotipo creato dalla responsabilità esclusiva della Serbia e della Jugoslavia, ignorano apertamente l'aggressione terrorista su uno stato sovrano - la Repubblica federale di Jugoslavia. Così, ciò che nella stragrande maggioranza degli stati del mondo costituisce il crimine più grande - gli attacchi, gli assassinii e i rapimenti degli agenti della polizia - è qualificata tendenziosamente, nel caso della Serbia e della Jugoslavia, di "resistenza alla repressione", di "lotta di liberazione di un popolo oppresso" o di "lotta dei civili esposti alle rappresaglie delle autorità". E lo si usa come fondamento "legale" per insistere continuamente sulla riduzione del numero di agenti della polizia in Kosovo e Metohija, in una situazione in cui i terroristi albanesi intensificavano le loro azioni e le dirigevano sempre più verso l'ambiente urbanizzato.
L'obiettivo strategico di questa politica é chiara - espellere gradualmente dal Kosovo e Metohija le istituzioni e gli organi legali della Serbia, e permettere la ripresa completa della Province dagli Albanesi, in vista di una secessione futura.

L'opzione della Serbia e della Jugoslavia, in favore del regolamento pacifico

Nonostante tale posizione verso il Kosovo e Metohija, la Serbia e la Jugoslavia orientavano la loro posizione politica di principio, che vuole risolvere pacificamente le questioni relative a questa Provincia della Serbia meridionale, tramite il dialogo democratico e nell'interesse di tutte le comunità nazionali che vivono in Kosovo e Metohija. La Serbia e la Jugoslavia non avevano bisogno di alcuna minaccia d'azione militare della NATO in vista della realizzazione della pace, la loro opzione era stata ben articolata in precedenza. L'accordo del Presidente della RFY Slobodan Milosevic e dell'Ambasciatore Richard Halbrooke doveva apportare ai responsabili internazionali il vero quadro della situazione in Kosovo e Metohija e di ciò che succede realmente, e contribuire alla realizzazione di un regolamento pacifico. La buona volontà della parte serba e jugoslava si è tradotta con l'applicazione integrale degli accordi convenuti. Una parte delle forze della polizia legittima è stata ritirata del Kosovo e Metohija, sono stati soppresse le caserme di queste forze nelle località abitate, e eliminati i posti di blocco sulle vie di comunicazioni, ecc., mentre la missione diplomatica d'osservazione (KVM) in Kosovo e Metohija si vide assicurare le condizioni necessarie per il suo lavoro.

La verifica

Dopo la realizzazione dell'Accordo, il Governo della Repubblica di Serbia e i rappresentanti di tutte le comunità in Kosovo e Metohija hanno segnato la dichiarazione sul quadro politico dell'autogoverno in Kosovo e Metohija, ma con l'assenza unicamente dei rappresentanti dei partiti albanesi nazionalisti-separatisti disuniti. Il Governo della Repubblica di Serbia lanciò una serie d'inviti al dialogo politico, ma invano. Così, e di fatto, la Serbia e la Jugoslavia si sono fatti carico dei loro obblighi imposti dalle Risoluzioni pertinenti dal CS, dagli Accordi e conclusioni dell'UE, e del Gruppo di contatto, e hanno sinceramente rinunciato ai loro interessi in vista del superamento dei problemi che sospendevano un dialogo franco e aperto, nato dal rispetto dai principi fondamentali convenuti con l'ambasciatore R. Holbrooke.
I più importanti erano: la protezione dell'integrità territoriale e della sovranità della Serbia e della RFY, il rispetto dei diritti delle minoranze secondo le norme europee e mondiali più avanzate, l'attuazione di una autonomia che non uscirebbe dal quadro delle costituzione della Serbia e della RFY, e la realizzazione di accordi per proteggere a titolo comune tutte le comunità nazionali che vivono in Kosovo e Metohija.
La risposta a questi sforzi della Serbia e della RFY, sono stati gli attacchi terroristici più violenti dell'"UCK" agli agenti dell'esercito e della polizia, i rappresentanti delle autorità dello stato e i civili innocenti. In questo contesto di violenza e di atti cruenti, conviene segnalare l'attentato al café "Panda" a Pec, in cui dei terroristi albanesi uccisero sei giovani serbi tra i 15 e i 31 anni.
Non bisogna dubitare che in questo comportamento dei terroristi e la parzialità di una parte della comunità internazionale (la Missione di verifica) è certamente un sostegno politico, più ampio e in tutt'altra forma è il sostegno che gli proviene dalla Repubblica d'Albania. Poiché, molti argomenti testimoniano che tutti comprendevano perfettamente ciò che succedeva realmente in Kosovo e Metohija, chi attacca chi e chi difende chi. A tal riguardo, è particolarmente illustrativo il caso montato del "massacro di civili albanesi" nel villaggio di Racak, che corrisponde a una manipolazione mediatica calcolata per distogliere l'attenzione dai crimini sempre più frequenti e crudeli perpetrati dai terroristi albanesi, e, pertanto, per "creare" le condizioni in vista del perseguimento e dell'intensificazione delle pressioni e delle minacce verso la Serbia e la RFY.
Una dichiarazione pubblica di Dan Everts, capo della Missione dell'OSCE in Albania, pronunciata nel gennaio 1999, secondo cui "non si saprebbe negare che il Nord dell'Albania rappresenta una base per l'addestramento dell'"UCK'" non ha dato luogo a una condanna seria dell'Albania con la comunità internazionale, che ha avanzato proteste vigorose a proposito delle azioni antiterroriste della polizia in Kosovo e Metohija. L'arresto a Tirana d'un membro (Max Ciciku) del gruppo fondamentalista-terrorista di Osama Bin Laden, addetto alle attività terroriste da attuare in Kosovo e Metohija, è da giudicare, secondo le dichiarazioni degli USA, in favore della persecuzione e della distruzione del terrorismo, e soprattutto di quello che minaccia gli stessi USA (Bin Laden figurava in testa alla lista dei più grandi terroristi ricercati dagli USA), dovrebbe fornire una ragione seria per intraprendere delle misure contro l'Albania e per impedirle un sostegno ormai aperto, al terrorismo e ai terroristi, che attingono il territorio sovrano della Serbia e della RFY. La Risoluzione del Parlamento albanese del 28 dicembre 1998, "esigeva il sostegno energico del governo e dello stato albanese ai fratelli del Kosovo", rappresenta, secondo le norme internazionali, una aggressione a uno stato vicino. Le interviste degli statisti e dei politici d'Albania con i terroristi dell'"UCK", a Tirana, sono un esempio eclatante di una politica sovversiva, diretta contro l'integrità e la sovranità della RFY, stato membro dell'ONU.
Nonostante i difensori - internazionali - del ricorso alla forza contro la RFY continuavano a richiedere il perseguimento delle minacce e delle pressioni, comprese quelle militari, verso la Serbia e la Jugoslavia che vorrebbero esclusiva responsabile dello stato di cose e dei problemi in Kosovo e Metohija, chiudendo gli occhi davanti al terrorismo e al separatismo flagrante.
I terroristi dell'"UCK" e l'Albania - loro ispiratore e complice, benché abbiano commesso molti crimini e attacchi, restano, per il momento esentati dalle loro responsabilità per aver provocato tale crisi nella regione, le cui conseguenze restano inconcepibili.
La crisi in Kosovo e Metohija non potrà essere risolta fin quando i terroristi albanesi non saranno pubblicamente e decisamente qualificati come tali, come
tutti i terroristi nelle altre parti del mondo, fin quando le loro attività non saranno condannate senza ambiguità, e non saranno attuate tutte le misure che gli imponga di privarli di ogni aiuto e sostegno dall'estero, e fin quando tutti gli altri abitanti del Kosovo e Metohija - che compongono la maggioranza-, abbiano la possibilità di articolare apertamente e liberamente senza timore per la loro vita e quelle dei loro familiari, le loro proprie posizioni sulle modalità della vita in comune di tutte le comunità nazionali in Kosovo e Metohija.

traduzione di Alessandro Lattanzio
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Boxnia e Kosovo cavałi o navi de Troia de l'Ixlam ?

Messaggioda Berto » dom apr 11, 2021 11:12 am

Albania, la promessa tradita della lotta alla marijuana
Osservatorio Balcani e Caucaso
Giovanni Vale, Laetitia Moreni
28/06/2018

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Alb ... ana-188781

La prima parte di un’inchiesta a puntate sulla produzione e il traffico di droga in Albania, uno dei temi più delicati nelle relazioni tra Tirana e l’Unione europea

“Ogni civiltà muore, anche Babilonia è morta”. Con gli occhi socchiusi per il sole che picchia forte sull’asfalto, un abitante di Lazarat spiega così la fine del “paese della marijuana”. Questo villaggio del sud dell’Albania, che fino al 2013 produceva quasi mille tonnellate di cannabis l’anno (pari a 4,5 miliardi di euro e ad un terzo del Pil albanese), è oggi un incrocio di vie deserte e silenziose. “Certo, è giusto che la corruzione venga estirpata in Albania, ma non crediate che Rama sia un Dio", aggiunge il passante, che preferisce rimanere anonimo.

Più che la corruzione, il Primo ministro Edi Rama ha fisicamente estirpato da Lazarat un’immensa coltivazione di marijuana. Durante la sua campagna elettorale, il leader socialista aveva promesso “una guerra senza pietà alla droga” e, dopo la sua elezione nel settembre del 2013, ha messo sotto assedio il villaggio ribelle. “Cosa credi, che io accetti oggi un lavoro a 200 euro al mese? Ma cosa puoi fare con 200 euro al mese? Niente! Mi do da fare, aiuto mio padre... a volte mi chiamano per dei piccoli lavori a destra o a sinistra. Si tira avanti così”, prosegue l’abitante di Lazarat.

Nella piazzetta centrale, in cima alla collina su cui si arrampica il paese, dei ragazzi seduti al tavolino di un bar parlano tra di loro per passare il tempo. Quando si evoca il passato e gli anni d’oro della cannabis, alzano le spalle. Tutti - assicurano - hanno almeno un parente o un amico finito in prigione dopo la maxi-operazione di polizia voluta da Rama. Per loro Lazarat ha oggi poco o nulla da offrire ed i giovani sognano di partire all’estero, come fanno i loro coetanei degli altri villaggi dell’Albania.


Il boom della produzione di marijuana

Ma se dietro agli alti muri che recintano le case di Lazarat la marijuana non cresce più, la “guerra senza pietà alla droga” di Rama non ha risolto completamente il problema. La cannabis estirpata dal villaggio ribelle è infatti cresciuta altrove in Albania negli anni successivi all’assedio. L’associazione Save the Children, che oggi gestisce una radio-scuola a Lazarat nel tentativo di rianimare la comunità locale, ha notato - tra il 2013 e il 2016 - il diffondersi della coltivazione di marijuana dalle colline del sud alle altre aree del paese.

“Prima la produzione era concentrata a Lazarat, non era estesa. Ma dopo l’operazione [della polizia, ndlr.] abbiamo visto una diffusione in tutto il paese. Un fenomeno che ci ha preoccupati perché in questo contesto agricolo, i bambini sono coinvolti fin dalla tenera età”, racconta Anila Meço, direttrice di Save the Children in Albania. La Guardia di Finanza italiana (GdF), che sorvola il paese dal 2012 alla ricerca dei centri di produzione di marijuana, registra questa stessa progressione: dalle 300 piantagioni fotografate nel 2013, si passa alle oltre 2000 nel 2016.

Di fronte al dilagare delle coltivazioni, le Fiamme gialle hanno raddoppiato le ore di volo e oggi scrutano un quarto del territorio albanese. Ma l’impennata delle aree coltivate non sembra turbare il governo di Tirana. Ad ogni conferenza annuale sulla lotta alla droga, il ministero dell’Interno albanese assicura infatti di aver distrutto oltre il 99% delle piantagioni segnalate dalla GdF e di aver dunque adempiuto al proprio compito. Ma è smentito dall’attualità: fin dal 2013, Italia e Grecia continuano a sequestrare grandi quantità di canapa albanese con regolarità.

Nonostante queste incoerenze, il partito socialista di Edi Rama ha vinto le elezioni del giugno 2017 garantendosi di governare senza bisogno di alleati. Quello stesso anno porta tuttavia anche un pesante scandalo che fa vacillare l’esecutivo, senza affossarlo. L’ex ministro dell’Interno Saimir Tahiri, considerato il delfino di Rama, è menzionato in un’indagine della Guardia di Finanza sul traffico di droga tra l’Albania e la Sicilia (l’operazione “Rosa dei venti”). Espulso dal partito, Tahiri resiste a lungo in parlamento e lascerà soltanto nel 2018, per affrontare l’inchiesta “da privato cittadino”.


Un problema ancora attuale

Il successore di Tahiri, il nuovo responsabile degli Interni Fatmir Xhafaj, assicura oggi che la guerra alla marijuana albanese è ormai vinta. “I dati dell’anno scorso, in termini di produzione, sono risibili: l’Albania ha prodotto 48 volte di meno rispetto al 2016!”, assicura il ministro, secondo cui “se si considerano questi risultati del 2017, si può affermare che l’Albania non figura più tra i paesi produttori di cannabis. E non siamo noi a dirlo, ma la Guardia di Finanza, che è un serio organo di polizia”.

Il ministro fa riferimento al numero di piantagioni di cannabis recensite dalla GdF nel corso del 2017, ovvero meno di 100. Tra il 2016 e il 2017, si è dunque registrato un crollo della produzione outdoor. “È il risultato delle azioni intraprese da Tirana”, assicura Xhafaj, che illustra l’operazione “Power of law”, lanciata a fine 2017. “L’obiettivo è di identificare i gruppi criminali e di prendersela con i loro beni. Nel 2016, abbiamo sequestrato beni per un valore di 40 milioni di euro e nei primi quattro mesi del 2017, siamo già a 10 milioni di euro”, conclude il ministro.

Ma se da un lato è vero che i sorvoli delle Fiamme gialle segnalano un crollo nel numero di piantagioni, dall’altro la cannabis albanese continua ad arrivare sulle coste della Puglia. “Abbiamo sequestrato 860 kg di marijuana e hashish nel 2015, 13,9 tonnellate nel 2016, 34,9 tonnellate nel 2017 e quasi 10 tonnellate nei primi quattro mesi del 2018”, spiega Nicola Altiero, generale di brigata della GdF a Bari. Inoltre, la cannabis intercettata dalle forze dell’ordine italiane è di recente produzione.

“Dall’altro lato [dell’Adriatico, ndlr.], si giustificano dicendo che i prodotti sequestrati provengono dagli stock realizzati in questi ultimi anni. Ma noi abbiamo studiato la percentuale di principio attivo presente nella marijuana e nell’hashish al fine di determinarne l’età e ci sembra che la produzione risalga a non più di sei mesi”, precisa il generale Altiero. Insomma, anche se la cannabis non cresce più all’aria aperta in Albania, la sua produzione continua al coperto, in qualche laboratorio.

Di fronte a queste constatazioni, l’opposizione albanese accusa l’esecutivo di essere addirittura complice dei trafficanti di droga. “Nessun boss di Lazarat è stato arrestato. Che ne è di loro? Ve lo dico io: sono diventati agronomi e hanno trasformato tutta l’Albania in una grande Lazarat”, denuncia Lulzim Basha, il leader del Partito democratico. Qual è allora il ruolo del governo di Edi Rama nella lotta alla droga? Nel prossimo capitolo di questo focus sull’Albania, cercheremo di rispondere a questa domanda.
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Re: Boxnia e Kosovo cavałi o navi de Troia de l'Ixlam ?

Messaggioda Berto » dom apr 11, 2021 11:12 am

Serbia e Kosovo verso la pace (con lo sguardo rivolto verso la Turchia)
Autore Emanuel Pietrobon
6 settembre 2020


https://it.insideover.com/politica/serb ... -pace.html

La sera del 4 settembre è stato annunciato da Donald Trump che la Casa Bianca è riuscita a mediare uno storico accordo di normalizzazione parziale tra Serbia e Kosovo, il primo passo di un lungo cammino che dovrebbe condurre ad una stabilizzazione solida e duratura capace di pacificare l’intera regione. L’accordo si regge su due perni fondamentali: la pax economica tra i due acerrimi nemici che hanno incendiato i Balcani negli anni ’90 e l’entrata in scena di Israele a Pristina. Ed è proprio quest’ultimo punto, apparentemente illogico poiché slegato dal processo di pace, che è obbligatorio approfondire per capire l’intera visione strategica che ha guidato la visione di Trump.

Pax economica per una pax perpetua?

L’accordo di normalizzazione parziale è stato raggiunto nello Studio Ovale della Casa Bianca dopo due giorni di intense trattative fra Donald Trump, il presidente serbo Aleksandar Vucic e il primo ministro kosovaro Avdullah Hoti. L’incontro e l’accordo erano nell’aria da tempo: i tre avrebbero dovuto incontrarsi a Washington il 27 giugno ma l’incriminazione del presidente kosovaro Hashim Thaci per crimini contro l’umanità da parte della Corte speciale dell’Aja, avvenuta a tre giorni dal vertice, aveva fatto saltare l’intera operazione.

Il testo è stato elaborato con l’obiettivo preciso di accontentare ogni parte coinvolta direttamente e indirettamente: Vucic e Hoti possono tornare nelle rispettive patrie come dei vincitori, essendo i firmatari di un accordo di natura economica che non entra nella sfera diplomatica e lascia la geografia immutata, Trump migliora sensibilmente la propria immagine di negoziatore e risolutore di conflitti in prossimità delle elezioni, Vladimir Putin acconsente tacitamente perché la sfera d’influenza russa nella regione resta inalterata, mentre Benjamin Netanyahu giubila per varie ragioni.

L’accordo non prevede alcun riconoscimento diplomatico reciproco da parte di Belgrado e Pristina, ma crea le premesse affinché ciò avvenga: nel solco della migliore delle tradizioni funzionalistiche, si punta sull’apertura di un dialogo economico per arrivare a quello politico.

Più nei dettagli, Vucic e Hoti hanno discusso lo sviluppo di progetti economici e infrastrutturali congiunti che soltanto in Kosovo dovrebbero produrre benefici per un miliardo di euro nei prossimi tre-cinque anni. Questi progetti, come ad esempio la costruzione di reti ferroviarie e collegamenti stradali, se effettivamente realizzati porterebbero ad un radicale avvicinamento multiforme tra i due Paesi, favorendo i movimenti di merce transfrontalieri e legando le due economie in maniera tale da rendere antieconomico qualsiasi ripensamento. Ultimo ma non meno importante, le parti hanno anche concordato di dare spazio alle grandi corporazioni statunitensi all’interno di alcuni dei progetti che saranno portati avanti.

Infine, i due governi hanno concordato una moratoria di un anno del lobbismo in sede internazionale a detrimento dell’altro: Pristina non cercherà di aderire alle organizzazioni internazionali in cambio dell’impegno di Belgrado a fermare la sua campagna di boicottaggio che dal 2018 ad oggi ha convinto ben diciotto Paesi a disconoscere ufficialmente l’esistenza del Kosovo.

È chiaro che se l’accordo funzionasse la mediazione fondamentale di Trump entrerebbe nei libri di storia: “Dopo una storia tragica e violenta e anni di negoziazioni fallite, la mia amministrazione ha proposto un nuovo modo di colmare il divario. Focalizzandosi sulla creazione di posti di lavori e sulla crescita economica, i due Paesi sono stati in grado di fare un grande passo in avanti”.


Il fattore Israele

Mentre la prima parte dell’accordo è concentrata sulla normalizzazione economica fra Serbia e Kosovo, la seconda è focalizzata interamente su Israele e prevede i seguenti punti:

Le autorità serbe apriranno un ufficio commerciale a Gerusalemme entro fine settembre, ed entro luglio 2021 riconosceranno informalmente la città quale capitale unica e indivisibile dello stato israeliano per mezzo dello spostamento dell’ambasciata, attualmente situata a Tel Aviv.
Le autorità kosovare stabiliranno ufficialmente relazioni diplomatiche con Israele e consacreranno l’evento in grande stile, ovvero aprendo un’ambasciata a Gerusalemme, diventando così il primo Paese a maggioranza islamica del mondo a compiere il gesto.

Il primo punto non dovrebbe sorprendere perché i rapporti tra Serbia e Israele sono piuttosto datati e sono stati tradizionalmente connotati da un legame stretto e positivo, dalla collaborazione durante le guerre iugoslave all’attuale sodalizio negli armamenti, la vera novità è rappresentata dal Kosovo. Quest’ultimo, venendo riconosciuto da una grande potenza, avrà maggiori probabilità di invertire la tendenza della delegittimazione degli anni recenti causata dal boicottaggio serbo, mentre Netanyahu aprirà un nuovo capitolo della guerra fredda in divenire con Recep Tayyip Erdogan, allargandola dal Medio Oriente ai Balcani.

L’apertura di un dialogo diplomatico ufficiale fra Pristina e Tel Aviv avviene sullo sfondo del terremoto in Albania del 26 novembre 2019, tragico evento che, proprio come la pandemia di Covid19, ha rapidamente assunto connotati geopolitici per via della battaglia degli aiuti umanitari nata successivamente. Fu proprio in quell’occasione che Israele manifestò con forza le proprie ambizioni nei Balcani meridionali, decidendo di entrare nella competizione umanitaria e inviando un chiaro segnale alla Turchia che, dopo aver surclassato l’Italia, da diverso tempo è il nuovo guardiano del Paese delle aquile.

Entrare in Kosovo, dove negli anni l’influenza saudita si è ridotta di pari passo con l’incremento di quella turca (e iraniana), per Israele rappresenta un imperativo strategico: esso è la chiave di volta con cui controllare da vicino ed ostacolare le mosse di Ankara nella cosiddetta “cintura albanese“, il triangolo Tirana-Pristina-Skopje, e a latere nell’intera penisola balcanica, caduta nelle mire turche per via della componente neo-ottomana dell’agenda estera di Erdogan.
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Re: Boxnia e Kosovo cavałi o navi de Troia de l'Ixlam ?

Messaggioda Berto » dom apr 11, 2021 11:13 am

Il sito culturale più minacciato d’Europa è un monastero in Kosovo
Senza i militari italiani, il monastero di Visoki Decani farebbe la fine delle 140 chiese serbe già distrutte o delle chiese armene ora rase al suolo. E' dovere dell'Europa continuare a proteggerle
Giulio Meotti
11 aprile 2021

https://meotti.substack.com/p/il-sito-c ... minacciato

Il monastero di Visoki Decani della Chiesa ortodossa nel Kosovo meridionale è stato incluso nell’elenco dei sette siti del patrimonio culturale più a rischio in Europa nel 2021. Il nuovo elenco è stato diffuso in un evento online ospitato da “Europa Nostra” e alla presenza di Maria Gabriel, Commissario europeo per la cultura. Visoki Decani non è solo l’unica chiesa inserita nell’elenco, è anche l'unico monumento in Europa sotto la protezione militare della missione KFOR a guida NATO e a comando italiano. Perché ancora nel 2021 un monastero dovrebbe essere tutelato?

In tutto il Kosovo, i luoghi di culto cristiani - a volte vecchi di 600 anni – sono stati livellati a centinaia con ruspe ed esplosivi dopo la guerra del 1999 e le violenze del 2004. Il numero dei siti cristiani distrutti è di 140. Come il monastero del XV secolo della Santissima Trinità a Musutiste, iniziato nel 1465, e raso al suolo. Come il monastero dell'Arcangelo a Vitina, costruito nel XIV secolo, e bruciato. Come la chiesa di San Nicola a Prekoruplje, rasa al suolo e le sue icone perdute, compresa quella dell'apostolo Tommaso.

Appena quattro anni fa, quattro estremisti islamici armati erano stati arrestati davanti al monastero di Visoki Decani. Avevano con sè kalashnikov, pistole, grandi quantità di munizioni e libri di radicalismo islamico. L'abate di Visoki Sava Janjic disse che l’arresto era un'ulteriore dimostrazione "che la presenza delle truppe della KFOR è essenziale per la sicurezza del monastero". Il monastero di Visoki Decani è una enclave cristiana sotto protezione dei militari italiani. Sono apparse anche scritte inneggianti all’Isis sulle mura del monastero: “Il Califfato sta arrivando”. Il motivo è che questo monastero, come tutti i luoghi sacri cristiani in Kosovo, simboleggia la presenza storica e religiosa dei serbi nella regione per diversi secoli. Chi vuole un Kosovo puramente albanese e musulmano non può sopportarlo.

“È impensabile per noi vivere senza protezione internazionale, perché non vi è alcuna garanzia che uno scoppio di violenza come quello del marzo 2004, quando 35 chiese o cimiteri ortodossi furono distrutti in due giorni, non si ripeta più” ha detto a Le Figaro l’abate Janjic. “All'epoca la situazione sembrava tranquilla e la città di Prizren era un modello di tranquillità e un simbolo di società multietnica: in quarantotto ore tutti i serbi della città furono espulsi, la residenza vescovile e le chiese bruciate. ..”. Quello che sta accadendo alle chiese armene non lascia ben sperare.

In tutto il Kosovo sorgono nuove moschee e scuole coraniche finanziate da regimi stranieri e va crescendo il peso delle correnti islamiste. “Il denaro e l'influenza saudita hanno trasformato questa società musulmana un tempo tollerante ai bordi dell'Europa in una fonte di estremismo islamico” racconta il New York Times. 314 kosovari - tra cui due kamikaze, 44 donne e 28 bambini - si sono recati all'estero per entrare nello Stato Islamico, il numero più alto pro capite d'Europa.

La paura, se non ci fossero i militari a protezione delle chiese ortodosse, è che queste chiese in Kosovo siano trasformate in musei, convertite in moschee o distrutte. Sopravvissute a secoli di occupazione ottomana, le chiese necessitano dunque di uno status speciale che garantisca la loro protezione in quanto simbolo dell'eredità cristiana. E’ un obbligo per l'Unione europea. O la memoria dell'eredità cristiana in questa parte d'Europa scomparirà.
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