Bosnia, Kosovo e Albania cavalli o navi di Troia dell'Islam?

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Messaggioda Berto » mar mag 15, 2018 5:32 pm

Burundi ritira riconoscimento indipendenza del Kosovo
17.02.2018

https://it.sputniknews.com/politica/201 ... nza-kosovo


Il Burundi ha ritirato il riconoscimento della Repubblica autoproclamata del Kosovo, alla vigilia del decennale della secessione unilaterale dalla Serbia.

Lo ha riferito il Primo Vice Primo Ministro e Ministro degli esteri della Serbia Ivica Dacic in un briefing speciale a Belgrado. Ha appena terminato una visita di lavoro a Bujumbura, dove ha tenuto colloqui con la leadership burundese.

"In questi giorni a Pristina si celebrano i dieci anni della dichiarazione unilaterale d'indipendenza del Kosovo. Vorrei dare il mio contributo. Ho portato una nota del Ministero degli esteri e della Cooperazione internazionale del Burundi, in cui si annulla il riconoscimento dell'indipendenza del Kosovo", ha detto Dacic.

"I kosovari dicono di essere stati riconosciuti da 116 stati. Esorto le autorità di Pristina a mostrare i documenti da di quei 116 paesi, compresi quelli che non hanno riconosciuto l'indipendenza del Kosovo, quelli che non sono membri delle Nazioni Unite, e quelli che hanno ritirato il riconoscimento del Kosovo come stato indipendente", ha detto il Ministro serbo.

Ha sottolineato che, nonostante il forte sostegno dell'Occidente, l'autoproclamato Kosovo non è ancora diventato membro delle Nazioni Unite, dell'OSCE e del Consiglio d'Europa.

La repubblica autoproclamata dal 17 al 18 febbraio festeggia "l'anniversario" della separazione unilaterale dalla Serbia nel 2008. Alla vigilia della ricorrenza dell'indipendenza il Ministro degli esteri del Kosovo, Behgjet Pacolli, ha detto che le Barbados sono 117° paese a riconoscere la sovranità di Pristina.

Non ci sono informazioni affidabili sul numero di paesi che hanno riconosciuto la sovranità del Kosovo, poiché fonti ufficiali danno informazioni contrastanti. In particolare, il governo serbo ha negato le affermazioni di Pristina sul riconoscimento da parte dei singoli paesi (Oman, Guinea-Bissau, Uganda), e alcuni altri paesi hanno ritirato da soli il loro riconoscimento (Suriname, Sao Tome e Principe).

A esclusione di Russia e Serbia, la repubblica autoproclamata non è riconosciuta da Cina, India, Brasile e molti altri, tra cui cinque paesi dell'UE, Spagna, Grecia, Slovacchia, Romania, Cipro.

Dal momento della dichiarazione di indipendenza il Kosovo è entrata in varie organizzazioni internazionali: il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, il Comitato Olimpico Internazionale, la Federazione Internazionale Calcio (FIFA) e un certo numero di altre associazioni. Le intenzioni delle autorità di Pristina di aderire all'UNESCO e all'Interpol non hanno avuto successo.
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Re: Boxnia e Kosovo cavałi o navi de Troia de l'Ixlam ?

Messaggioda Berto » mar mag 15, 2018 5:41 pm

Kosovo, quando la Nato dichiarò guerra: 78 giorni di bombardamenti aerei per piegare Milosevic
Kosovo 24 marzo 2016
In breve: se il presidente Milosevic non arriverà alla pace, limiteremo la sua capacità di provocare una guerra. (Bill Clinton, 24 marzo 1999)

http://www.rainews.it/dl/rainews/artico ... 99e81.html

Sono passati 17 anni da quel 24 marzo del 1999 in cui le parole dell’allora presidente americano Bill Clinton annunciano l'intervento Nato. È il segno del fallimento delle trattative, dei negoziati e delle strategie diplomatiche per convincere il presidente serbo Slobodan Milosevic a porre fine alla pulizia etnica in Kosovo e alla repressione della popolazione di etnia albanese.

78 giorni di raid aerei

I raid dell’Alleanza, senza mandato Onu, iniziano la sera, l’ordine arriva dal Segretario Generale della Nato, Javier Solana, e dureranno 78 giorni. I bombardieri Nato decollano anche da quattro basi aeree in Italia e da unità navali nell’Adriatico. La Serbia e il Kosovo si trasformano in morti e macerie, ad essere colpiti sono sia obiettivi militari sia obiettivi civili. Insieme alle basi e alle caserme crollano le case, le scuole, gli ospedali, gli edifici pubblici e i centri culturali. Anni più tardi, dei luoghi bombardati, resta un elenco sul sito della Nato, una gabbia di cifre in cui, 15 anni di distanza, ancora non si sa quale sia il numero esatto delle vittime. I morti, si stima, sono tra 1200 e i 2500, i feriti oltre 12 mila. Secondo i calcoli di alcuni economisti occidentali i danni materiali dei bombardamenti Nato sfiorano i 30 miliardi di dollari.

La fine dei bombardamenti

Bisogna aspettare il 10 giugno del 1999 per vedere la fine dei raid, con l’accordo di Kumanovo – in Macedonia, firmati il giorno prima – e la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Milosevic accetta di ritirare le sue truppe dal Kosovo dove entrano 37 mila soldati Nato, le forze Kfor – ancora oggi presenti con 5 mila militari - arrivate da 36 Paesi – i più numerosi sono gli uomini mandati dall’Italia, dalla Germania, dagli Stati Uniti e dalla Francia. Secondo l’UNHCR, l’agenzia Onu per i rifugiati, da quel momento 230 mila serbi e rom hanno lasciato il Kosovo dove invece hanno fatto ritorno quasi 800 mila profughi albanesi.

L'uranio impoverito e la "sindrome dei Balcani"

Dramma nel dramma, le conseguenze dell’utilizzo dell’uranio impoverito – i cui residui sono ancora sia in Serbia sia in Kosovo. E’ nel 2001 che si inizia a parlare della cosiddetta Sindrome dei Balcani quando si viene a conoscenza dei primi militari italiani morti, o ammalati, dopo il rientro dalle missioni in Bosnia e Kosovo, due Paesi colpiti dai bombardamenti Nato, nel 1995 e nel 1999.
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Re: Boxnia e Kosovo cavałi o navi de Troia de l'Ixlam ?

Messaggioda Berto » gio ago 02, 2018 3:28 am

???


Se l'Europa sarà cristiana non temerà l'islamismo
agosto 1, 2018

https://www.tempi.it/solo-riscoprendo-l ... 2Jdlrh9ijK

Parla il cardinale Vinko Puljic, arcivescovo di Sarajevo e primate della Chiesa della Bosnia-Erzegovina. La comunità internazionale «non ha offerto ai cattolici lo stesso aiuto concesso ad altri gruppi»

«L’Europa deve riscoprire le proprie radici, la propria identità cristiana. Soltanto così non dovrà temere il radicalismo islamico». Sono parole del cardinale Vinko Puljic, arcivescovo di Sarajevo e primate della Chiesa della Bosnia-Erzegovina, in una conversazione con Aiuto alla Chiesa che Soffre.

In questi giorni la sezione italiana della Fondazione pontificia ha lanciato una campagna di raccolta fondi dal titolo “Non c’è Europa senza Cristo” a sostegno degli studenti del seminario Redemptoris Mater di Vinnitsa in Ucraina, e dell’ampliamento del centro giovanile San Giovanni Paolo II di Sarajevo.

A tal proposito il cardinal Puljic ha riferito ad ACS della difficile situazione nel Paese Balcanico, dal quale si stima che ogni anno emigrino circa 10mila cattolici. «È dalla fine della guerra che la nostra piccola comunità continua a diminuire di anno in anno, a causa dell’assenza di uguaglianza sia a livello politico che giuridico. Alcuni non trovano lavoro, altri invece hanno un impiego ma non riescono più a vivere in un Paese in cui non godono degli stessi diritti degli altri cittadini». I cattolici sono infatti discriminati in entrambe le entità istituite dagli accordi di Dayton nel 1995. Nella Federazione croato-musulmana, perché di fede non islamica, e nella Repubblica serba di Bosnia-Erzegovina perché prevalentemente di origine croata. L’arcivescovo di Sarajevo riconosce a tal riguardo le responsabilità della comunità internazionale, «che non ha offerto a noi cattolici lo stesso aiuto concesso ad altri gruppi».

La Chiesa locale cerca di infondere speranza al proprio gregge e di favorire un clima di tolleranza attraverso diverse iniziative, specialmente rivolte ai giovani nel Centro San Giovanni Paolo II, che accoglie anche ragazzi di altre fedi. «Ma non possiamo farcela da soli, perché siamo una piccola realtà», afferma il porporato ringraziando i benefattori di ACS per l’aiuto finora ricevuto. «Vi siamo molto grati perché la nostra Chiesa non potrebbe sopravvivere senza quanti ci sono vicini e ci offrono il loro appoggio».

Un’altra grave difficoltà è rappresentata dall’Islam radicale, sempre più diffuso in Bosnia-Erzegovina. «Vi è un grande investimento da parte di Paesi arabi che costruiscono moschee e perfino interi villaggi in cui far vivere quanti giungono qui dalle loro nazioni. Con i musulmani slavi abbiamo buoni rapporti, ma con gli islamici radicalizzati provenienti dal mondo arabo è difficile dialogare. Soprattutto perché, specie a livello politico, ignorano la nostra presenza».

Il Paese balcanico è una nota porta di accesso all’Europa per l’islam radicale, che si sta propagando velocemente nel vecchio continente. «Purtroppo l’Europa non conosce bene l’islam e non capisce cosa significhi vivere fianco a fianco con il radicalismo islamico». Per contrastare il dilagante fenomeno, il cardinal Puljic ritiene si debba ripartire dalla riscoperta delle radici cristiane. «Al giorno di oggi c’è attenzione soltanto per il materialismo e non per la dimensione spirituale dell’uomo. L’Europa deve imparare a custodire le sue radici cristiane, altrimenti continuerà a temere il radicalismo».
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Re: Boxnia e Kosovo cavałi o navi de Troia de l'Ixlam ?

Messaggioda Berto » ven ago 03, 2018 4:15 am

Salvini chiude l'Italia ai clandestini: schierata la polizia al confine
Claudio Cartaldo - Gio, 02/08/2018

http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 61227.html

Il ministro dell'Interno ordina controlli a tappeto su tutti i valichi. In pochi giorni intercettati 1.144 immigrati irregolari

Fedriga e Salvini chiudono le porte ai clandestini. Lo dicono i numeri. Sono infatti 1.144 gli stranieri irregolari rintracciati dalla Polizia di frontiera tra le province di Trieste e Gorizia.

Spesso ci si limita a parlare della rotta meridionale delle migrazioni. Quella, per intenderci, che dalla Libia (o dall'Africa in generale) porta via mare i migranti fino alle nostre coste. Eppure il Friuli Venezia Giulia sa bene quali possano esserei problemi che sorgono con l'arrivo degli immigrati dalla rotta terrestre.

Il lavoro delle forze dell'ordine nelle ultime settimane è stato enorme. La polizia di frontiera ha controllato oltre 2600 veicoli, ha effettuato 24 respingimenti alla frontiera, un ingente numero di arresti e ha sequestrato qualcosa come 125 chili tra hashish e marijuana.

"Sono solo una parte - riferisce una nota del Viminale - dei numeri conseguiti nei primi mesi dell'anno dalle questure di Trieste e Gorizia nel contrasto alle attività illecite transfrontaliere e per la lotta all'immigrazione irregolare".

Secondo quanto emerge dal rapporto fornito dalla polizia di frontiere della IV zona di Udine, dopo un periodo in cui l'emergenza immigrazione in Italia era concentrata nel mare nostrum, adesso si sta registrando un importante incremento degli ingressi nel Nord Est.

Il ministero dell'Interno, guidato da Matteo Salvini, ha decretato l'incremento dei servizi di pattugliamento. A controllare le frontiere di Trieste, per esempio, adesso ci sono la polizia di Frontiera, la Polfer, la Stradale, il Reparto prevenzione crimine di Padova, i carabinieri e la Guardia di finanza. Senza dimenticare il personale della Questura, la Squadra mobile e la Digos. Il pattugliamento dura giorno e notte, diviso in cinque turni. Nelle ultime settimane sono stati arrestati ben 4 passeur e 24 kosovari sono stati denunciati perché, secondo le indagini, sarebbero i fiancheggiatori di una organizzazione criminale che faceva entrare immigrati da Kosovo. Nel registro delle attività messe in atto dalle forze dell'ordine anche 33 denunce per altri reati e 13 espulsioni di cittadini stranieri.

In fondo l'elezione a governatore di Massimiliano Fedriga è stata favorita anche dalle posizioni prese dal suo predecessore, Debora Serracchiani, in materia di immigrazione. Appena insediato, il leghista aveva annunciato una rivoluzione totale del sistema di accoglienza friulano. Ed ha già tagliato alcuni fondi ai centri per i migranti.

Le nuove disposizioni del Viminale, a quanto pare, funzionano. Secondo quanto racconta il Piccolo, nella zona del Triestino i cambiamenti si vedono eccome. "I confini sono monitorati secondo le disposizioni che abbiamo ricevuto", racconta al quotidiano locale Chiara Ippoliti, vice dirigente dell’Upgsp (Ufficio prevenzione generale e soccorso pubblico). "Il fenomeno va gestito, perché i migranti non possono essere dei fantasmi che vagano sul territorio e di cui non si sa nulla. Sono persone che vanno identificate e tracciate".

I numeri in mano alla Questura parlano chiaro. La polizia ne ha fermati 200 in venti giorni al confine con la Slovenia. Alcuni sono stati rispediti in Lubiana, altri espulsi. Una parte invece ha chiesto asilo nel Belpaese e i minori sono stati accompagnati nei centri di accoglienza.
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Re: Boxnia e Kosovo cavałi o navi de Troia de l'Ixlam ?

Messaggioda Berto » mer ott 10, 2018 6:44 am

Ecco perché il voto in Bosnia allontana Sarajevo da Bruxelles
Mauro Indelicato
9 ottobre 2018

http://www.occhidellaguerra.it/il-voto- ... -bruxelles

Gli accordi di Dayton del 1995 hanno sì messo fine ad una delle guerre più cruente dal secondo conflitto mondiale, ma al tempo stesso hanno creato una struttura di Stato bosniaco molto complessa. In Bosnia non vi è più la guerra, ma è difficile parlare di pacificazione: l’architettura della federazione nata da Dayton ha posto fine a divisioni create da fili spinati e campi minati, ma ha dato vita ad un contesto dove i muri divisori appaiono costituiti dalla non meno pericolosa diffidenza sociale e politica. Bosgnacchi (bosniaci musulmani), croati e serbi compongono assieme uno Stato dove però, per evitare tensioni, appare difficile anche realizzare un singolo censimento per timore che un’etnia rivendichi una posizione di maggior forza a discapito dell’altra. Nella giornata di domenica questo complesso e complicato paese è andato alle urne ed i risultati non hanno mancato, come prevedibile, di suscitare curiosità e sorpresa.

La complicata divisione dei poteri in Bosnia

La Bosnia Erzegovina nata dagli accordi di Dayton è uno Stato federale distaccatosi da Belgrado, composto da due entità: la federazione di Bosnia – Erzegovina, composta dalle entità dei bosgnacchi e dei croati, e la Repubblica Srpska, ossia la repubblica che ingloba l’entità serba. Si tratta di un’architettura statale che non ha pari al mondo, un complesso sistema quasi a “scatola cinese”: vi è un’amministrazione statale il cui potere deve essere condiviso dalle tre entità, sotto vi sono due Stati autonomi dove, a propria volta, lo Stato di Bosnia – Erzegovina è suddiviso in altri due Stati, uno bogsniacco ed uno croato. Impossibile anche solo pensare ad un governo unitario in un paese del genere. Ed infatti secondo gli accordi di Dayton non può esserci un solo presidente. Esiste, al contrario, un consiglio di presidenza formato da tre membri, ognuno dei quali rappresenta una delle tre entità etniche della federazione. A turno, ogni otto mesi uno dei tre membri assume la reggenza della presidenza.

I tre membri del consiglio di presidenza sono eletti a suffragio universale dalla singola entità di appartenenza. In poche parole, i bogsniacchi eleggono il proprio presidente, altrettanto fanno i croati ed i serbi. Di fatto è come se le urne aperte domenica erano posizionate in tre Stati diversi. Ogni entità ha la sua peculiarità politica e le proprie dinamiche tutte interne, quella bosniaca appare un complicato mix tra federazione e congregazione. Difficile dare una linea comune politica al paese, specie sul posizionamento internazionale e sulle riforme interne. Ogni singola pietra mossa in Bosnia potrebbe suscitare malumori se non vere e proprie tensioni tra le tre comunità. A complicare il quadro sono anche i risultati usciti dalle tre entità al voto, oltre che alle accuse di brogli che arrivano da più parti.

La vittoria dell’indipendentista Dodik tra i serbi

In tutto questo, per valutare al meglio il voto bosniaco è bene fare un’ulteriore precisazione. Domenica non sono stati eletti i presidenti delle tre entità che compongono il paese, bensì i tre componenti che comporranno il nuovo consiglio di presidenza in rappresentanza ciascuno della propria entità. Milorad Dodik, secondo quanto da lui stesso affermato nelle scorse ore, rappresenterà i serbi. Sarebbe stato lui a vincere tra gli elettori iscritti nei registri dei serbi di Bosnia. Dodik è un uomo politico già molto noto sia in Serbia che in Bosnia: nato a Banja Luka, capitale della Srpska, è molto legato alla madrepatria serba. Da giovane ha studiato lì, da buon serbo è grande appassionato di basket tanto da essere attualmente presidente onorario del Partizan di Belgrado. Poi la discesa in politica tra i serbi di Bosnia, l’incarico di primo ministro fino al 2010 e, successivamente, quello di leader della Srpska. E le sue posizioni spesso fanno discutere: in particolare, Dodik viene definito un vero e proprio indipendentista il cui fine è quello di far tornare questo territorio sotto Belgrado.

Accuse respinte, ma il carattere nazionalista nella politica di Dodik appare ben marcato. Nel settembre del 2016 ad esempio, è fautore di un referendum volto a dichiarare il 9 gennaio festa nazionale della Srpska. Il 9 gennaio non è una data come le altre, bensì è il giorno della proclamazione (avvenuta nel 1992) della nascita della Repubblica serba di Bosnia ad opera di Radovan Karadzic. Per Sarajevo quel referendum, che ha avuto esito positivo, appare come un vero e proprio schiaffo: di fatto, con questa proclamazione, si fa della Srpska la naturale prosecuzione dell’entità creata da Karadzic, acerrimo nemico dei bosniaci e considerato responsabile di crimini di guerra dal tribunale internazionale. Appare difficile, anche a distanza di ore dal voto, reperire risultati ufficiali. Nella Bosnia di oggi diffondere notizie ordinarie potrebbe essere pericoloso, dunque niente indiscrezioni sugli esiti: occorre aspettare la proclamazione dell’ufficio elettorale. Ma Dodik appare sicuro ed ha già rivendicato la vittoria: a perdere è stato l’uscente Mladen Ivanic, il quale invece invita alla calma. La vittoria di Dodik non creerebbe comunque velleità separatiste, almeno non nell’immediato.

Ma anche in questo caso il voto rappresenta più di uno sberleffo all’Ue: Dodik infatti, in seno al consiglio di presidenza, può orientare la linea internazionale del paese verso rotte diverse da quelle dell’integrazione all’Ue. Se il successo all’interno della comunità serba viene confermato, allora le novità volute da Dodik a Banja Luka potrebbero essere portate direttamente a Sarajevo.

Le elezioni tra i bosniacchi ed i croati

Confusione, accuse di brogli ed incertezza anche nelle altre due entità al voto domenica. In tanti parlano di ritardo nei conteggi, persino di mancato aggiornamento delle liste elettorali. Come riportato da AgenziaNova, alcuni attivisti rilevano da alcune settimane la presenza di migliaia di centenari tra chi ha il diritto di voto, segno di disorganizzazione nella gestione delle elezioni oppure di volontà di creare maggiore confusione. Faticano ad arrivare dati certi anche dalle consultazioni bosniacche e croate, si parla al momento solo di indiscrezioni.

Tra i bosniacchi la vittoria sarebbe andata al conservatore Safik Dzaferovic, leader del partito di centro – destra bosniaco. Tra i croati invece a spuntarla dovrebbe essere stato il socialdemocratico Zeljko Komsic: se confermato, questo sarebbe un risultato ben distinto da quello serbo, visto che Komsic avrebbe sconfitto il nazionalista Dragan Covic. A prescindere comunque dai risultati, l’unica cosa certa è che a Sarajevo a regnare sarà la confusione: in Bosnia si prospetta ancora poca stabilità e molta diffidenza tra le tre principali etnie.
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Re: Boxnia e Kosovo cavałi o navi de Troia de l'Ixlam ?

Messaggioda Berto » sab ott 20, 2018 9:44 pm

Il Kosovo istituisce esercito nazionale. Ira di Belgrado
Gerry Freda - Ven, 19/10/2018

http://www.ilgiornale.it/news/mondo/kos ... 90296.html

La Nato ha subito dichiarato che, con la nascita dell’esercito nazionale kosovaro, la propria presenza militare nel Paese balcanico potrebbe essere “ridotta”

Il parlamento del Kosovo ha approvato l’istituzione di un esercito nazionale, decisione che ha subito riacceso le tensioni tra l’ex provincia serba e Belgrado.

La Serbia ha infatti definito “atto ostile” il voto dell’assemblea legislativa di Pristina e ha quindi accusato le autorità del Paese vicino di volere adoperare il neonato dispositivo militare per “condurre espansioni territoriali”.

98 deputati kosovari su 120 hanno in questi giorni votato a favore dell’istituzione di un esercito nazionale, diretto a sostituire la Kosovo Security Force, corpo di polizia fondato nel 2009 con compiti limitati: tutela dell’ordine pubblico, pronto intervento anti-incendi, soccorso alle popolazioni colpite da eventi atmosferici avversi. La neonata forza armata avrà invece il mandato di “proteggere l’integrità territoriale del Kosovo dalle minacce esterne” e sarà inizialmente composta da 5mila effettivi e 3mila riservisti. Ramush Haradinaj, Primo ministro del Paese balcanico, ha fortemente voluto l’istituzione di un dispositivo militare kosovaro, considerato dal premier come un “attributo imprescindibile per uno Stato autenticamente sovrano”.

All’interno del parlamento di Pristina, l’iniziativa dell’esecutivo Haradinaj è stata criticata con forza dai deputati espressione della minoranza serba stanziata in Kosovo. Ad avviso di questi ultimi, la formazione di un’armata nazionale avrebbe dovuto essere preceduta da una revisione della Costituzione del Paese, la quale attribuisce il compito di difendere la popolazione esclusivamente alla Kosovo Security Force e ad altri corpi di polizia, non a personale militare. I deputati hanno poi accusato il premier di volere “compromettere” le già difficili relazioni diplomatiche tra Pristina e Belgrado e di avere ceduto a “pulsioni guerrafondaie”. La Serbia ha reagito al voto dell’assemblea legislativa kosovara definendolo un’“inaccettabile provocazione” e ribadendo la propria volontà di “vigilare” sul rispetto, da parte del governo Haradinaj, dei diritti della minoranza ortodossa. Il Ministero degli Esteri di Belgrado, in una nota, ha quindi esortato Pristina a recedere da qualsiasi “progetto espansionista” e a impiegare il proprio esercito esclusivamente in funzione difensiva.

All’indomani dell’istituzione della forza armata del Kosovo, la Nato, presente nella repubblica balcanica con più di 4mila soldati, ha dichiarato di essere in procinto di vagliare l’ipotesi di una riduzione di tale contingente. L’organizzazione, tramite un comunicato, ha precisato: “Il ritiro delle truppe Nato presenti in Kosovo non è al momento all’ordine del giorno. Tuttavia, la recente decisione delle autorità di Pristina diretta a rafforzare l’autosufficienza militare del Paese produrrà inevitabilmente conseguenze sul nostro contingente stanziato in territorio kosovaro.”
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Re: Boxnia e Kosovo cavałi o navi de Troia de l'Ixlam ?

Messaggioda Berto » dom ott 28, 2018 6:31 pm

Il quartier generale fortificato dei mujaheddin iraniani in Albania
Giovanni Giacalone
28 ottobre 2018

http://www.occhidellaguerra.it/quartier ... ni-albania

Lo scorso febbraio gli Occhi della Guerra avevano trattato il trasferimento in Albania di 3500 mujahideen del Mek precedentemente stazionati in una base nei pressi di Baghdad. Si era tra l’altro fatto riferimento a un vero e proprio quartier generale in costruzione a Manez, nei pressi di Durazzo; oggi emergono ulteriori elementi d’interesse che sembrano confermare il progetto ed anche molto altro, ma andiamo con ordine.


Cos’è il Mek

L’organizzazione Mek nasceva nel 1963 in Iran con l’obiettivo di opporsi all’influenza occidentale nel Paese e di combattere il regime dello Shah. Nel 1979 il Mek partecipava alla Rivoluzione guidata da Khomeini ma l’ideologia divulgata, un incrocio di marxismo, femminismo e islamismo, si scontrava con quella degli Ayatollah e veniva messo al bando.

Nel 1981 il Mek si trasferiva a Parigi dove fondava il proprio quartier generale e cinque anni dopo si spostava a Camp Ashraf, a nord di Baghdad, da dove supportava la guerra di Saddam Hussein contro l’Iran ed anche la repressione dei curdi. Nel 2003 il Mek veniva disarmato dagli americani e spostato a Camp Liberty. Il Mek ha continuato a svolgere un ruolo di primo piano nell’attività politica e diplomatica contro il regime di Teheran e continua a farlo ancora oggi.

In precedenza l’organizzazione era inserita nella lista nera non solo da Iran e Iraq, ma anche da Unione Europea, Gran Bretagna, Usa e Canada, per poi venire “sdoganata” tra il 2008 e il 2012. Un articolo del New York Times del 21 settembre 2012 illustrava come l’allora Segretario di Stato, Hillary Clinton, avesse deciso di sdoganare il Mek , facendolo togliere dalla “black list” per poterlo poi ricollocare lontano dalla portata degli agenti di Teheran, in un Paese disposto ad accoglierli, in questo caso l’Albania. L’obiettivo appare più che evidente: utilizzare il Mek per sostenere un cambio di regime a Teheran. Ma perché proprio in Albania? Che sia un “pegno” da pagare per l’ingresso in Europa e nella Nato?

Oggi è Maryam Rajavi a guidare il Mek dopo la misteriosa scomparsa del marito Massoud che coincide con l’invasione americana dell’Iraq nel 2003. Alcune fonti parlano di un possibile decesso mentre altre affermano che l’ex leader si sarebbe nascosto per sfuggire agli agenti di Teheran.


Gli appoggi politici a livello internazionale

Il Mek ha incassato il supporto di diversi esponenti politici internazionali tra cui l’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani, l’ambasciatore americano all’Onu John Bolton ed Emma Bonino in veste di vice-presidente del Senato, nel giugno del 2012. Il New York Times faceva notare che diversi esponenti del Congresso erano divenuti convinti sostenitori del movimento che, se una volta era marxista-islamista, si è poi ricreduto trasformando la propria lotta e diventando il principale movimento organizzato contro la teocrazia iraniana.

Sempre secondo il quotidiano newyorchese, tra i sostenitori del Mek ci sarebbero R. James Woolsey e Porter J. Goss, ex direttori della Cia; Louis J. Freeh, ex direttore dell’Fbi; Tom Ridge, ex segretario della Homeland Security sotto la presidenza George W. Bush; il procuratore generale Michael B. Mukasey e il consigliere per la sicurezza nazionale, il Generale James L. Jones, operativo sotto l’amministrazione Obama.

Nell’ultimo anno sono state diverse le prese di posizione a favore del Mek da parte di esponenti del panorama politico nazionale e internazionale. A metà settembre una delegazione ufficiale del Partito Radicale Italiano e dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” ha visitato il quartier generale dei mujahidin in Albania. La delegazione includeva Elisabetta Zamparutti, Sergio D’Elia, Rita Bernardini, Mattia Moro, Maria Antonietta e Luca Coscioni; fonti albanesi dichiarano che i membri del Mek avrebbero fornito un resoconto delle violazioni dei diritti umani messe in atto dal regime di Teheran.

Lo scorso 30 giugno era invece stato l’ex ministro degli esteri del governo Monti, Giulio Terzi, a parlare a una riunione del Mek dove, davanti a migliaia di manifestanti anti-Teheran aveva annunciato il suo “appoggio incondizionato al Mek ”, definendo i suoi militanti “combattenti per la libertà” (freedom fighters) e affermando che “un’ampia parte della società italiana è convinta che stare dalla vostra parte significa stare dalla parte giusta della storia”. Il discorso per intero veniva pubblicato dal sito del Mek e può essere visualizzato qui.

Anche l’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, nel 2018 si è espresso almeno in un paio di occasioni a favore del Mek con affermazioni del tipo: “Il popolo iraniano ne ha avuto abbastanza di questo regime che sarà rovesciato…Non abbiamo alcun dubbio che la coalizione del Mek possa far fronte a questo regime”.

E ancora: “I mullah se ne devono andare, gli ayatollah se ne devono andare e devono essere rimpiazzati da un governo democratico che la signora Rajavi rappresenta”, come riportato dal Guardian.

Insomma, un ennesimo tentativo di rovesciamento di governo per esportare la “democrazia”, un film già visto e rivisto.

Lo scorso 26 settembre il giornalista albanese Kastriot Myftaraj, durante la trasmissione televisiva “Ju flet Moska”, aveva criticato le recenti invocazioni alla rivolta in Iran fatte dalla leader del Mek, Maryam Rajavi, tirando in ballo l’articolo 221 del codice penale albanese che punisce l’incitamento all’insurrezione con pene che vanno dai 15 anni in su.

Andrebbero poi presi in considerazione anche gli articoli 265 b/c del codice penale albanese che proibiscono il coinvolgimento in operazioni militari e azioni violente in Paesi esteri.


Il quartier generale di Manez

Numerose fonti internazionali hanno documentato la presenza di un grande complesso nei pressi del villaggio albanese di Manez che funge da base mondiale del Mek, complesso già abitato anche se tutt’ora in fase di completamento. Diversi reporter locali hanno testimoniato la presenza di guardie armate private all’esterno del complesso, barriera e ulteriori guardie disarmate all’interno.

Il noto giornalista investigativo albanese Gjergj Thanasi era stato tra i primi ad accorgersi della presenza di Manez e ne aveva mostrato le dinamiche agli Occhi della Guerra lo scorso febbraio:

“Il Consiglio dell’Organizzazione del Territorio (Keshilli i Rregullimit te Territorit) ha la responsabilità per l’emissione dei permessi per la costruzione di opere pubbliche e di edifici privati (fabbriche, hotel, scuole, strade ecc). Questo Consiglio aveva pubblicato un elenco dei permessi rilasciati per una serie di opere e tra queste ne figurava uno nei confronti di una ONG denominata F.A.R.A. Il permesso era del 16 ottobre 2017 e indicava l’autorizzazione per “un complesso residenziale e servizi per la comunità iraniana in Albania”. A quel punto ho indagato su questa F.A.R.A che, stranamente e contrariamente alla legge albanese, non risultava registrata presso l’Ufficio delle Imposte e non aveva neanche una partita Iva, cosa vietata in Albania.

Ho allora proseguito l’indagine presso l’ufficio urbanistico del comune di Durazzo (che conosco molto bene avendo vissuto qui per 52 anni); là mi mostravano una richiesta scritta della F.A.R.A. nella quale veniva chiesto il permesso per la creazione di un cantiere (recinto, collegamenti d’acqua, elettricità, container ecc.) ed emergeva che il Municipio non aveva rilasciato alcun permesso. La lettera di richiesta non aveva un’intestazione, non era presente alcun indirizzo o recapito telefonico. A questo punto mi sono recato a Manez (nella prima settimana di novembre 2017) per vedere cosa stava succedendo e mi sono trovato davanti a un recinto finito, a una rete elettrica già installata, e a dei canali in costruzione, per la rete idrica. C’era anche un container con degli uffici all’interno della recinzione. Intorno al cantiere c’erano guardie e anche tre agenti con la divisa della Polizia di Stato”.

Il sito sarebbe stato localizzato precisamente tra i villaggi di Kulles e Manez e-Vieter, con ingresso sulla strada Rruga Lalezit e del complesso esistono diverse immagini aeree e filmati.

Lo scorso 10 agosto la giornalista britannica Lindsey Hilsum di Channel 4 si era recata all’esterno del complesso di Manez per documentarne l’esistenza e veniva fisicamente aggredita da alcuni membri del Mek.

Secondo quanto riportato dai media albanesi, alcuni testimoni hanno dichiarato che le guardie di sicurezza hanno cercato di strappare e rompere la videocamera della troupe mentre alcuni membri del Mek hanno colpito la Hilsum e preso per il collo il suo accompagnatore. A quel punto sono giunti sul posto degli agenti della polizia albanese che hanno fermato l’aggressione e hanno accompagnato in caserma i due aggrediti.

In seguito un portavoce del Mek ha dichiarato ai media albanesi che i giornalisti britannici sono in contatto con i servizi segreti iraniani e che non erano stati avvisati del loro arrivo.
Il caso di Somaya Mohammadi e le interviste ai dissidenti

Un altro caso che sta facendo molto discutere in Albania è quello di Mostafa Mohammadi, padre della 38enne Somaya, andatasene da casa quando ne aveva 16 assieme a una donna militante del Mek.

Mostafa spiegava di essere immigrato in Canada con la famiglia nel 1994 e di essere entrato nell’orbita del Mek, aiutandoli a raccogliere fondi ma nel frattempo l’organizzazione avrebbe fatto il lavaggio del cervello a sua sorella, convincendola anni dopo a trasferirsi in Iraq, precisamente a Camp Ashraf, per combattere il regime iraniano e sarebbe morta in loco, forse giustiziata. Anni dopo una militante del Mek avrebbe avvicinato la figlia Somaya, dicendole che aveva conosciuto sua zia (con cui la ragazzina aveva uno stretto legame) e che le avrebbe fatto piacere mostrarle dove era stata e cosa aveva fatto. Le due sono così partite per un viaggio che doveva durare soltanto due settimane ma Somaya non ha fatto più rientro a casa, interrompendo tutti i contatti con la propria famiglia.

Lo scorso luglio Mostafa Mohammadi si è recato a Tirana per cercare di sollevare il caso ed entrare in contatto con sua figlia, a suo dire trattenuta contro la propria volontà all’interno del quartier generale di Manez ed ha accusato alcuni membri del Mek di averlo aggredito, come riportato da Shqiptarija e Gazeta Impakt che ha anche pubblicato un filmato.

La magistratura canadese, quella irachena e quella albanese si sono però espresse contro le accuse di Mohammadi, dichiarando che la ragazza è volontariamente membro dell’organizzazione ed essendo maggiorenne è in grado di prendere le proprie decisioni in autonomia e libertà.

Il 25 luglio 2018 Somaya rilasciava un’intervista dove rigettava le accuse lanciate da suo padre, affermando di essere volontariamente membro del Mek e accusando suo padre di collaborare con i servizi segreti iraniani. Un caso controverso le cui dinamiche sono ancora poco chiare.

Il programma investigativo albanese Fiks Fare è invece riuscito a mettersi in contatto con tre dei circa 200 dissidenti fuggiti dal MEK e ad intervistarli, come riportato anche dal Prishtina Post.

Tutti e tre hanno confermato che i mujahideen ospitati nel campo sono tutti combattenti ben preparati alla guerriglia e che è severamente vietato mantenere contatti con le proprie famiglie.

Il primo intervistato, Sadala Sefi, ha spiegato di essere nato nel 1969 e di essere entrato a far parte del Mek volontariamente a 21 anni per motivi economici. Sefi spiegava che inizialmente il Mek parla di libertà, ma nei fatti è “un’organizzazione spaventosa” con tanti agenti che obbligano i propri adepti a fare quello che dice il leader ed è severamente vietato avere una famiglia. Secondo Sefi il problema principale di chi vorrebbe uscire dal Mek è che in Albania non hanno uno status, non possono lavorare e non hanno soldi per vivere.

Il secondo intervistato, Hasan Bidi, ha confermato la preparazione militare dei mujahidin, aggiungendo di aver imparato molto su armi e loro utilizzo; Bidi ha inoltre affermato che il Mek a suo tempo infiltrava uomini in Iran per piazzare bombe e condurre assalti.

Il terzo intervistato, Manucer Habdi, 55 anni di cui 13 nel Mek, ha puntualizzato che in Albania l’organizzazione sta cercando di ricostruire il medesimo contesto che era presente nella base irachena.

Sulla preparazione militare Habdi ha affermato: “Quando facevo parte dell’organizzazione ero membro di un gruppo che virtualmente si collegava con giovani in Iran e insegnava loro a combattere, perché bisogna sapere che tutti in questa organizzazione sanno come combattere per uccidere, siamo preparati militarmente, sappiamo tutto sulle armi”.

Per quanto riguarda l’ambito familiare, l’intervistato ha reso noto che a Camp Ashraf erano proibite le visite dei familiari e che egli stesso non ha potuto avere contatti con sua figlia. Una situazione che è presente anche in Albania in seguito ad accordi presi con il governo di Tirana.
In conclusione

Cos’è dunque il Mek? Un gruppo di dissidenti e perseguitati dal regime iraniano? Una forza di opposizione settaria composta da elementi militarmente addestrati e pronti a rovesciare il regime? Un’organizzazione terroristica? (Secondo quanto affermato da Teheran). Da dove arrivano poi i finanziamenti al Mek?

In geopolitica è noto come un’organizzazione possa essere considerata “terroristica” o “movimento di resistenza” in base agli interessi di chi la cataloga e lo si è visto con tante altre organizzazioni, dai Fratelli Musulmani a Hizbullah, dall’Olp alla “resistenza” siriana. Certo è che risulta difficile combattere il terrorismo quando non si riesce neanche a trovare una definizione universalmente condivisa del termine.

Intanto però la presenza in Albania del Mek non fa altro che aggravare ulteriormente la delicatissima situazione nei Balcani dove sono già presenti in forze gruppi jihadisti e islamisti. L’area balcanica sembra sempre più una zona logistica e di transito in supporto alle politiche di guerra in Medio Oriente e tutto ciò a discapito della stabilità regionale, Italia inclusa



https://english.mojahedin.org/i/giulio- ... iran-rally



Quei 3500 mujahideen che fanno base in Albania Giovanni Giacalone
5 febbraio 2018

http://www.occhidellaguerra.it/quei-350 ... se-albania

È stata segnalata in Albania la principale base del gruppo d’opposizione iraniana Mujahideen e-Khalq (MEK), organizzazione bollata come terrorista da Iran e Iraq. Nei pressi di Durazzo sarebbe in costruzione un loro campo di addestramento.

In precedenza MEK era inserita nella lista nera anche da Unione Europea, Gran Bretagna, Usa e Canada, per poi venire “sdoganata” tra il 2008 e il 2012. L’organizzazione nasceva nel 1963 in Iran con l’obiettivo di opporsi all’influenza occidentale nel Paese e di combattere il regime dello Shah. Nel 1979 il MEK partecipava alla Rivoluzione guidata da Khomeini ma l’ideologia divulgata, un incrocio di marxismo, femminismo e islamismo, si scontrava con quella degli Ayatollah e veniva messo al bando.

Nel 1981 il MEK si traferiva a Parigi dove fondava il proprio quartier generale e cinque anni dopo si spostava a Camp Ashraf, a nord di Baghdad, da dove supportava la guerra di Saddam Hussein contro l’Iran. Il Campo ha continuato a svolgere un ruolo di primo piano nell’attività politica e diplomatica contro il regime di Teheran ed ha anche incassato il supporto di diversi esponenti politici internazionali tra cui l’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani, l’ambasciatore americano all’Onu John Bolton ed Emma Bonino in veste di vice-presidente del Senato, nel giugno del 2012.

I leader dell’organizzazione sono i coniugi Massoud e Maryam Rajavi; Massoud non si mostra in pubblico dal 2003, ovvero da quando venne meno la protezione datagli da Saddam Hussein e vive oggi in una località segreta per timore di attacchi da parte di Teheran.

Le controversie

“Organizzazione terroristica” basata sul “culto della personalità dei propri leader” nonché “registi e responsabili di attentati ed atti di violenza politica” secondo Teheran; “principale forza di opposizione promotrice di democrazia e laicità in Iran” per gli Stati Uniti. Tutto ciò è espresso chiaramente in un articolo del New York Times del 21 settembre 2012 che spiega come l’allora Segretario di Stato, Hillary Clinton, avesse deciso di “sdoganare” il MEK facendolo togliere dalla lista nera delle organizzazioni terroriste del Dipartimento di Stato.

Il New York Times faceva notare che diversi esponenti del Congresso erano divenuti convinti sostenitori del movimento che, se una volta era marxista-islamista, si è poi ricreduto trasformando la propria lotta e diventando il principale movimento organizzato contro la teocrazia iraniana.

Sempre secondo il quotidiano newyorchese, tra i sostenitori del MEK ci sarebbero R. James Woolsey e Porter J. Goss, ex direttori della CIA; Louis J. Freeh, ex direttore dell’FBI; Tom Ridge, ex segretario della Homeland Security sotto la presidenza George W. Bush; il procuratore generale Michael B. Mukasey e il consigliere per la sicurezza nazionale, il Generale James L. Jones, operativo sotto l’amministrazione Obama.
Il trasferimento del MEK dall’Iraq all’Albania

Nel 2003 l’esercito statunitense aveva assunto il controllo di Camp Ashraf, disarmando i miliziani del MEK e trasferendoli a Camp Liberty, nei pressi dell’aeroporto di Baghdad. L’allora governo iracheno in mano sciita manteneva legami stretti con Teheran e i membri del MEK si sentivano minacciati in seguito alla caduta del regime di Saddam Hussein, era dunque fondamentale trovare una nuova collocazione ai circa 3,500 miliziani anti-Ayatollah.

Il New York Times ipotizzava la decisione della Clinton come parzialmente legata alla chiusura di Camp Ashraf: per trasferire i “mujahideen” era necessario toglierli dalla lista nera. Si pensò dunque a una ricollocazione lontana dalla lunga mano degli agenti iraniani; bisognava soltanto trovare un Paese disposto ad accoglierli, ovviamente con tutti i relativi rischi.
L’8 gennaio scorso il quotidiano online “Balkanspost” pubblicava, un articolo di Anne Khodabandeh, esperta di de-radicalizzazione che ha più volte criticato il MEK, avendone fatto parte in passato. Lo stesso giorno la Khodabandeh rilasciava anche un’intervista a Sputnik dove descriveva i dettagli della sua esperienza negativa nel MEK.

Nell’articolo veniva denunciato il trasferimento dell’intero MEK in Albania: è qui dunque che l’amministrazione USA ha deciso di trasferire gli alleati anti-Teheran, con pieno appoggio del governo Rama.

Il trasferimento sarebbe avvenuto alla fine del 2016, indicato come “intervento umanitario”, con la supervisione dello UNHCR e con un finanziamento di almeno venti milioni di dollari. In aggiunta, veniva reso noto che a breve l’Albania avrebbe ospitato anche vedove e orfani di jihadisti dell’Isis uccisi in battaglia. L’accordo sarebbe stato stretto nel 2013 tra l’esecutivo albanese e l’amministrazione Obama.
La presenza del MEK in suolo albanese

Nonostante il profilo relativamente basso mantenuto dal MEK in Albania, la sua presenza non è passata in osservata sia all’interno dell’edificio di un’ex università privata a Tirana e sia in un vero e proprio fortino a Manez, piccolo comune a pochi chilometri da Durazzo, tutt’ora in costruzione, scoperto dal giornalista investigativo Gjergj Thanasi, il quale ha illustrato agli Occhi della Guerra il suo operato.

In che modo si è accorto della crescente presenza del MEK a Durazzo, ma in particolare del fortino di Manez? “Il Consiglio dell’Organizzazione del Territorio (Keshilli i Rregullimit te Territorit) ha la responsabilità per l’emissione dei permessi per la costruzione di opere pubbliche e di edifici privati (fabbriche, hotel, scuole, strade ecc). Questo Consiglio aveva pubblicato un elenco dei permessi rilasciati per una serie di opere e tra queste ne figurava uno nei confronti di una ONG denominata F.A.R.A. Il permesso era del 16 ottobre 2017 e indicava l’autorizzazione per “un complesso residenziale e servizi per la comunità iraniana in Albania”. A quel punto ho indagato su questa F.A.R.A che, stranamente e contrariamente alla legge albanese, non risultava registrata presso l’Ufficio delle Imposte e non aveva neanche una partita IVA, cosa vietata in Albania.

Ho allora proseguito l’indagine presso l’ufficio urbanistico del comune di Durazzo (che conosco molto bene avendo vissuto qui per 52 anni); là mi mostravano una richiesta scritta della F.A.R.A. nella quale veniva chiesto il permesso per la creazione di un cantiere (recinto, collegamenti d’acqua, elettricità, container ecc.) ed emergeva che il Municipio non aveva rilasciato alcun permesso. La lettera di richiesta non aveva un’intestazione, non era presente alcun indirizzo o recapito telefonico.
A questo punto mi sono recato a Manez (nella prima settimana di novembre 2017) per vedere cosa stava succedendo e mi sono trovato davanti a un recinto finito, a una rete elettrica già installata, e a dei canali in costruzione, per la rete idrica. C’era anche un container con degli uffici all’interno della recinzione. Intorno al cantiere c’erano guardie e anche tre agenti con la divisa della Polizia di Stato”.

Da quanto tempo il MEK è presente in Albania e in che modo si è sviluppata questa presenza?
“I primi 14 mujahideen sono arrivati dall’Iraq a Tirana il 14 maggio 2013 e facevano parte di un gruppo di 210 persone trasferite qui poco dopo. Nel marzo 2016, dopo una visita in Albania dell’ex Segretario di Stato John Kerry, il governo Rama ha informato che stavamo per ospitare 2000 mujahideen. In teoria una parte doveva essere ospitata in Romania ma poi alla fine sono venuti tutti qui in Albania, ben 3500. Sono stati sistemati quasi tutti in un’ex edificio universitario nella zona di Tirana mentre i leader in delle villette limitrofe”.

Per quale motivo sono stati trasferiti proprio in Albania?

“Hanno scelto l’Albania perché nessun altro Paese li avrebbe presi, nemmeno l’isola Nauru o le isole Kiribati. Gli USA li hanno fatti trasferire in Albania perché le milizie sciite in Iraq erano pronte a massacrarli su ordine di Teheran”.
Conclusione

La presenza in Albania del MEK non fa altro che aggravare ulteriormente la delicatissima situazione nei Balcani dove sono già presenti in forze altri gruppi jihadisti e islamisti. Sembra quasi che l’area balcanica occidentale stia diventando una zona logistica e di transito in supporto alle politiche di guerra in Medio Oriente. In primis è fondamentale tener presente che da almeno un decennio in paesi come Albania, Kosovo, Bosnia e Macedonia è presente un’infiltrazione islamista sunnita/salafita che sta facendo breccia tra giovani e meno giovani, molti dei quali in difficili condizioni socio-economiche; non a caso sono più di mille i foreign fighters hanno lasciato i Balcani per arruolarsi nelle file dei jihadisti in Siria dal 2011; trattasi della più grande mobilitazione di musulmani balcanici per andare a combattere una guerra “esterna” nella storia di quell’area. Molti di questi jihadisti stanno rientrando nei propri Paesi d’origine, con tutti i relativi rischi.

Vi è poi un importante flusso di finanziamenti, da parte di Paesi e ONG del Golfo, nei confronti di centri culturali e moschee che divulgano l’ideologia wahhabita e salafita. La Bosnia in particolare sta risentendo pesantemente di quest’infiltrazione.
La diffusione dell’ideologia islamista radicale sta influenzando anche la diaspora balcanica in Europa, come dimostrano anche gli ultimi arresti e le ultime espulsioni in territorio italiano.

La collocazione in Albania dei mujahideen del MEK è interessante perché l’organizzazione condivide con le formazioni wahhabite e salafite la lotta contro i nemici sciiti (Iran in primis) e contro l’ Asse Sciita che da Teheran attraversa Iraq e Siria per raggiungere Hizbullah in Libano; Asse supportato da Mosca e uscito vittorioso dal conflitto siriano-iracheno. Il rischio di una sua presenza oltre-Adriatico rischia però di incrementare la destabilizzazione in un’area già caratterizzata da forti tensioni etnico-religiose, politiche e in difficili condizioni socio-economiche.
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Re: Boxnia e Kosovo cavałi o navi de Troia de l'Ixlam ?

Messaggioda Berto » gio dic 27, 2018 10:18 pm

Tentata strage in Germania, fermato un bosniaco. La polizia: "È uno squilibrato"

27 12 2018

http://www.secoloditalia.it/2018/12/ten ... ibrato/amp


Passata pressoché sotto silenzio in Italia, ha invece allarmato la Germania (l’agenzia Reuters ha evocato inquietanti similitudini con l’attacco terroristico al mercato di Natale di Berlino) la tentata strage di giovedì pomeriggio in alta Renania. Giovedì pomeriggio, nella città di Recklinghausen, un 32enne originario della Bosnia, senza patente, si è messo alla guida di una Ford Focus e l’ha diretta a folle velocità contro le persone a una fermata dell’autobus. Il tragico bilancio ha registrato un morto (una donna) e 14 feriti, di cui due gravissimi.

Il pregiudicato bosniaco è stato ricoverato in un ospedale psichiatrico

Secondo la polizia locale il “gesto è stato volontario”, l’uomo ha rilasciato dichiarazioni che la polizia locale si è rifiutata di riportare, facendolo ricoverare in un istituto psichiatrico. Sull’uomo, che ha precedenti di polizia e viene ritenuto “instabile mentalmente”, non ci sono segni apparenti di uso di alcol o di droghe. L’appartamento dell’uomo è stato perquisito, ma non sono stati trovati indizi utili all’indagine. Oltre alla donna morta, sono rimaste ferite 14 persone di età compresa tra i 16 e i 67 anni, due di loro sarebbero in gravi condizioni. Secondo la ricostruzione del procuratore locale, così come riportato dalla Bild, l’uomo avrebbe fatto tutto questo «per tentare il suicidio». Una dinamica singolare (guidare un’auto contro la folla) per un tentato suicidio (l’uomo ha riportato lievi ferite), ma ogni altra pista, secondo le fonti ufficiali, sarebbe da escludere. L’uomo, di cui sono è stata resa l’identità, è stato ricoverato in un ospedale psichiatrico.
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Re: Boxnia e Kosovo cavałi o navi de Troia de l'Ixlam ?

Messaggioda Berto » mar gen 01, 2019 1:12 pm

La crociata del Califfo maledetto contro ebrei, cristiani e Natale
29 dicembre 2018
Roberta Polese

http://www.italiaisraeletoday.it/la-cro ... i-e-natale

È stata una lenta trasformazione quella che ha portato Caca Shaban, 38enne albanese, a radicalizzarsi sempre più e a cominciare la sua «crociata» contro il Natale, i cristiani e gli ebrei, trovando in un 30enne connazionale terreno fertile per fare proselitismo. La Digos di Padova ha espulso il maestro e ha avviato le pratiche per l’allontanamento dall’Italia del discepolo, entrambi residenti in città, perché ritenuti affiliati all’Isis e pericolosi per la sicurezza nazionale.

Inquietanti le frasi apparse nel profilo Facebook; una caricatura di Hitler che dice: «Ne ho lasciato vivo qualcuno così capiranno perché ne ho ammazzati così tanti». Le preghiere votate al califfato e l’opera di convincimento sul più giovane stavano portando a pericolosi risultati, come i molti «like» che il 30enne aveva posto sui Nasheed, le preghiere islamiche che i combattenti Isis intonano prima delle battaglie.

Massima attenzione Dopo l’attentato a Strasburgo la stretta sui controlli è diventata sempre più pressante e la collaborazione tra i servizi segreti interni e la polizia ha portato subito ad alzare l’attenzione sui due. L’espulsione ordinata dal prefetto di Padova Renato Franceschelli qualche giorno fa è stata fatta subito dopo la segnalazione del questore Paolo Fassari, che ha agito sulla base delle indagini della Digos avviate per alcune irregolarità nella carta di soggiorno di Shaban, operaio, senza lavoro stabile, residente in centro, spesso impegnato in viaggi tra Padova e l’Albania.

Dai jeans alla tunica Da poco aveva abbandonato le giacche in pelle e i jeans per indossare lunghe tuniche. Tutto questo unito alla lunga barba fatta crescere in osservanza delle regole del califfato, avevano indotto la polizia a concentrare su di lui l’attenzione.

Le indagini hanno rivelato che l’uomo era in contatto nel suo paese d’origine con alcuni combattenti kosovari radicalizzati e già arrestati, negli ultimi tempi la sua trasformazione era diventata visibile, come pure quella del suo allievo. Il 38enne è stato scortato nella sua città d’origine, Tirana. L’altro, richiedente asilo, è in un centro di permanenza per il rimpatrio, in attesa che la commissione si esprima sui rilievi della polizia. «Grazie alle forze dell’ordine. Nessuno spazio a chi vuol portare la guerra in casa nostra», dice il ministro dell’Interno Matteo Salvini
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Re: Boxnia e Kosovo cavałi o navi de Troia de l'Ixlam ?

Messaggioda Berto » mer mar 06, 2019 8:36 pm

Con la caduta di Baghouz finisce il Califfato ma non l'Isis
Paolo Mauri
5 marzo 2019

http://www.occhidellaguerra.it/baghouz- ... erra-siria

Sono le ultime ore di vita del Califfato dopo che le Sdf, le cosiddette Syrian Democratic Forces, supportate dall’appoggio aereo della Coalizione a guida Usa, stanno portando a termine l’offensiva sull’ultima roccaforte di quello che un tempo era un vero e proprio Stato che si estendeva tra la Siria e l’Iraq su una superficie, alla sua massima espansione nel 2015, di 270mila chilometri quadrati (quasi quanto l’Italia) e vedeva assoggettata una popolazione di 11 milioni di abitanti.

L’ultima resistenza dei terroristi islamici che hanno insanguinato il Medio Oriente – e non solo – negli ultimi 15 anni si sta consumando nel villaggio di al-Baghouz, nella regione di Deir Ezzor.


Lo scontro finale

La battaglia è cominciata nella notte tra venerdì e sabato scorsi quando le forze dell’Sdf hanno cominciato a stringere nella propria tenaglia gli ultimi combattenti dell’Isis – stimati tra le 1000 e 1500 unità secondo fonti curde – nel villaggio di al-Baghouz circondandolo da cinque direttrici diverse.

Le milizie sono state supportate negli aspri combattimenti porta a porta dall’aviazione della Coalizione che ha effettuato alcune operazioni di bombardamento sul villaggio. Sebbene il portavoce dell’Us Army, colonnello Sean Ryan non abbia detto nulla sulla natura e sul numero delle incursioni aeree effettuate, i media libanesi vicini ad Hezbollah riferiscono che gli aerei alleati avrebbero usato anche munizionamento al fosforo bianco.

Al-Manar Tv, citando l’agenzia siriana Sana, riferisce che nella giornata di sabato è stato effettuato almeno un attacco con questo tipo di munizionamento su di una fattoria nei sobborghi di al-Baghouz.

Dopo quindi sei mesi dal lancio dell’offensiva finale delle forze della Coalizione sull’ultimo fazzoletto di terra raccolto intorno al fiume Eufrate, il sedicente Califfato Islamico sembra essere consegnato ai libri di storia.

L’attacco finale ha rischiato però di trasformarsi in un massacro: i report che giungono dal fronte indicano infatti che nell’area di Baghouz siano stati radunati circa 10mila civili che sono stati usati dai terroristi come scudi umani. Negli ultimi 38 giorni, come riportato dal Jerusalem Post, convogli umanitari hanno permesso alla maggior parte di essi di abbandonare il territorio ma gli ultimi terroristi rimasti hanno trattenuto almeno 24 ostaggi tra cui figurerebbero anche occidentali.

Nelle ultime ore, infatti, del migliaio di combattenti e fiancheggiatori ancora presenti a Baghouz, circa 800 si sono arresi, compresi 150 jihadisti. Attualmente sembra siano in corso trattative tra le Sdf e i terroristi per il rilascio degli ostaggi tra cui, secondo fonti libanesi non confermate, potrebbe esserci anche Padre Dall’Oglio, il gesuita scomparso in Siria nel 2013, ed il giornalista inglese John Cantlie.


Finisce il Califfato ma non l’Isis

Non bisogna però illudersi che il terrorismo di matrice islamica sia stato eradicato dalla Siria e dall’Iraq: il Califfato ha solo cessato di esistere come entità territoriale ma i suoi membri si sono semplicemente dati alla macchia quando non sono rientrati in Europa attraverso la “via del terrore” che passa dalla Turchia e dal Kosovo.

Dove non esiste più un fronte ma continuano ad esistere i combattenti si passa infatti a situazioni di guerriglia.

Proprio mentre le Sdf conducevano l’ultimo decisivo attacco contro al-Baghouz, i jihadisti hanno colpito, sabato all’alba, posizioni dell’Esercito Siriano ad al-Masasneh, a nord di Hama, partendo dai territori soggetti all’accordo di de-escalation firmato tra Russia, Turchia e Iran ad Astana a maggio del 2017.

Nell’attacco sono state riportate alcune vittime tra l’Esercito Siriano che ha risposto con vigore infliggendo numerose perdite ai miliziani dell’Isis sempre secondo il media libanese al-Manar Tv.

Quello che ci aspetta nei prossimi mesi, quindi, sarà un lungo confronto che vedrà coinvolte le milizie dell’Sdf e l’Esercito Siriano in una difficile e sicuramente dispendiosa campagna di pacificazione, che potrebbe anche portare ad uno stillicidio di uomini e mezzi se i terroristi dell’Isis riuscissero a continuare ad ottenere rifornimenti di armi da parte di entità statuali che vedono di buon occhio una guerriglia continua in Siria che tenga impegnate Damasco, Teheran e Mosca in un confronto asimmetrico di non facile risoluzione.

Gli Stati Uniti in questo oscuro futuro potrebbero avere ancora una parte non del tutto secondaria, considerato che il Presidente Trump ha sì annunciato il ritiro delle truppe dalla Siria ma nello stesso tempo ha riferito l’intenzione di voler lasciare un contingente che varia tra le 200 e le 500 unità – presumibilmente composte da forze speciali come i Ranger – appunto per le operazioni di peacekeeping.

Operazioni che però, potrebbero essere del tutto inefficienti senza che si risolva il vero problema della Siria, ovvero la ri-definizione di una o più entità territoriali sovrane – non necessariamente sotto Damasco – che possano fungere da catalizzatore del malcontento popolare dopo anni di guerra per metabolizzarlo e conquistare “i cuori e le menti” di coloro che hanno supportato non solo l’Isis ma la ribellione anti Assad. Un problema sottovalutato in Afghanistan dove il ritiro americano e alleato, e la decisione di trattare coi Talebani, rappresenta una disfatta dei piani di Washington e dei suoi alleati.
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