Jihad o goera "santa" xlamega on cremene contro l'omanedà

Jihad o goera "santa" xlamega on cremene contro l'omanedà

Messaggioda Berto » ven nov 13, 2015 2:03 pm

Il terrorista arrestato dai carabinieri dei Ros reclutava jihadisti in un appartamento di Merano
Abdul Rahman Nauroz forniva anche appoggio a terroristi islamici di passaggio in Italia. Faceva parte di una cellula internazionale che stava progettando attentati in Europa. Merano crocevia del reclutamento degli estremisti

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... -Allah.jpg

12 novembre 2015

http://altoadige.gelocal.it/bolzano/cro ... 1.12432721

Merano. Abdul Rahman Nauroz, arrestato nel blitz antiterrorismo del Ros a Merano, è risultato «particolarmente attivo nell'attività di reclutamento», «sia attraverso internet, sia attraverso "lezionì" che teneva nel proprio appartamento di Merano, luogo di riunioni segrete e crocevia di aspiranti jihadisti»
Lo scopo, sottolineano i carabinieri, era quello di «convincere i suoi allievi, e tra questi in particolare Hasan Saman Jalal (arrestato - ndr), a partecipare ad azioni armate di guerra o terroristiche pianificate come suicide». Però, mentre l'intenzione di Hasan Saman Jalal «non si è mai tradotta in azione», altri membri di Rawti Shax, l'organizzazione facente capo al Mullah Krekar, sono riusciti a raggiungere il teatro siro-iracheno per combattere.


Terrorismo, 17 arresti. Dalla Norvegia progettavano attentati in Europa
Merano considerata crocevia di aspiranti jihadisti. I presunti terroristi sono 16 curdi e un kosovaro
13 Novembre 2015

Tra questi Ali Mohammed Ali, membro della cellula finlandese, presente in Siria fin dalla metà del 2013 tra le fila dell'Isis e verosimilmente ucciso il 27 marzo 2014 in combattimento; Ali Mohammad, che dopo aver militato in Siria con l'Isis ed essere stato respinto dalle autorità finlandesi, il 15 luglio 2014 era giunto in Italia dove aveva ricevuto supporto a Merano da Abdul Rahman Nauroz.
Per quanto riguarda l'Italia, il ruolo di 'Rawti Shax' quale «filiera di facilitazione per la Siria» è emerso in particolare nella vicenda che ha riguardato il cittadino di origine kosovara Hodza Eldin, pure lui indagato e destinatario di misura cautelare.
Gli investigatori infatti spiegano che la rete di 'Rawti Shax', tramite Abdul Rahman Nauroz, si è adoperata per realizzare il proposito di Hodza di partire per la Siria, finanziando il viaggio in aereo per Istanbul con 780 euro forniti da due degli indagati, responsabili delle cellule finlandese e svizzera. La partenza di Hodza è avvenuta il primo gennaio 2014 e l'intero suo viaggio per la Turchia è stato monitorato dagli investigatori del Ros. Hodza Eldin è quindi riuscito a passare il confine e ad essere accettato in un campo di addestramento «sotto la bandiera nera» dell'Isis. A metà febbraio 2014, l'uomo è però precipitosamente rientrato in Italia attraverso la Svizzera, anche se poi ha maturato nuovamente l'intenzione di partire per la Siria, condividendo con la cellula italiana la sua esperienza terroristica sul campo e diventando un «esempio da seguire».


I terroristi islamici arrestati erano pagati dallo Stato - Blitz anti-terrorismo in Europa: dalla Norvegia piani contro l'Italia

http://www.liberoquotidiano.it/news/ita ... agati.html

I terroristi islamici arrestati nell'operazione dei Ros erano pagati dallo Stato. Uno, infatti, prendeva il sussidio familiare - 2mila euro al mese per cinque figli - all'altro venivano versati i soldi per la casa grazie alla concessione dell'asilo politico. I due jihadisti che organizzavano attentati dall'Alto Adige ed erano comandati da Mullah Krekar, in carcere in Norvegia, vivevano a spese nostre.
Abdul Rahman Nauroz viveva in a casetta di Merano ed era "particolarmente attivo nell'attività di reclutamento". L'uomo agiva "sia attraverso internet sia attraverso lezioni che teneva nel proprio appartamento, luogo di riunioni segrete e crocevia di aspiranti jihadisti". Avrebbe più volte cercato di convincere i suoi allievi "a partecipare ad azioni armate di guerra o terroristiche pianificate come suicide". Il fondamentalista aveva ottenuto la protezione sussidiaria raccontando di minacce nei suoi confronti in Iraq da parte di Ansar Al Islam, l'organizzazione terroristica di cui lui stesso faceva parte, e grazie a questa situazione non pagava neanche l'affitto.
Un altro arrestato, Hasan Saman, riceveva mensilmente 2mila euro perché padre di cinque figli (anche se voleva arruolarli con gli uomini di Al Baghdadi). I due ora sono in carcere: pianificavano attentati in Norvegia, alle ambasciate occidentali fuori dall'Europa, operazione di rapimento tra i diplomatici inglesi. E davano opspitalità ad aspiranti martiri della Jihad il cui unico obiettivo era farsi saltare in Siria e in Iraq.
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Messaggioda Berto » sab nov 14, 2015 8:02 pm

Straje ixlamega de Parixi

viewtopic.php?f=188&t=1994

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... lamici.jpg


Arresto di Abdeslam, musulmani contro la Polizia “Andate via”.
«Andatevene, qui non c’è posto per voi». Ci sono delle donne velate e dei ragazzi in tuta nera che inveiscono oltre il cordone di Polizia. A a Molenbeek sono cresciuti e pasciuti almeno 6 degli stragisti di Parigi.

http://www.imolaoggi.it/2016/03/19/arre ... -via-video

No se pol parmetar ste robe ente la capital d'Ouropa.

http://www.ilmattino.it/primopiano/este ... 21623.html


Belgio: arrestato il terrorista Salah Abdeslam. Fu la mente degli attentati di Parigi
Blasting News

http://it.blastingnews.com/cronaca/2016 ... 38977.html

È rimasto nascosto per quattro mesi Salah Abdeslam, una delle menti degli attacchi del 13 novembre a Parigi nonché l'unico del commando ad essere uscito vivo da quei giorni di terrore. Dopo una prima irruzione in un'abitazione del quartiere Forest, a Bruxelles, dove erano già state rivenute le impronte del terrorista in fuga, la polizia belga è riuscita a catturare Abdeslam a Molenbeek, nel quartiere diventato il simbolo dei giovani radicalizzati del Vecchio Continente. È finita così, in un appartamento della periferia di Bruxelles, la fuga dell'uomo più ricercato d'Europa.

Nel corso dell'assalto all'appartamento di Molenbeek, Abdeslam sarebbe rimasto ferito. Si trovava insieme a lui anche un altro ricercato, a sua volta ferito durante l'attacco e poi fermato dagli agenti.

L'operazione

L'assalto in rue des Quatre-vents era stato inizialmente programmato per oggi ma il ritrovamento delle impronte di Abdeslam nell'appartamento di Forest perquisito dalle forze dell'ordine belghe nei giorni scorsi - e la conseguente fuga di notizie - ha portato gli agenti ad anticipare le loro mosse. Durante il blitz dello scorso martedì, che avrebbe permesso anche di raccogliere delle importanti tracce di dna, era rimasto ucciso anche un altro terrorista. L'uomo era di origine algerina e si faceva chiamare Samir Bouzid. Il suo vero nome, invece, pare essere Mohamed Belkhaid.

L'uomo, oltre ad aver preso parte all'organizzazione logistica degli attentati del 13 novembre - avrebbe infatti fatto un bonifico ad Hasna Ait Boulahcen, la cugina di Abdelhamid Abaaoud - si sarebbe fatto passare come finto migrante per poi essere identificato come Samir Bouzid. Una volta in Ungheria, di lui si sarebbe occupato proprio Salah Abdeslam. I due avrebbero viaggiato insieme per poi essere controllati, senza colpo ferire, alla frontiera austriaca. Queste prime indiscrezioni, diffuse dalla radio pubblica belga, sarebbero poi state confermate dalla procura federale del Belgio.
François Hollande: 'Non è finita qui'

Il primo a lasciare il vertice Ue-Turchia - in corso in questi giorni a Bruxelles - è stato il premier belga, Charles Michel, subito dopo aver avuto notizia del primo blitz. L'arresto di Salah Abdeslam è stato poi comunicato anche dal segretario di stato del Belgio per l'asilo e le politiche migratorie, Theo Francken, che su Twitter si è limitato a scrivere tre parole: "We hebben hem". Ovvero "lo abbiamo". François Hollande, però, durante la conferenza stampa tenutasi a Bruxelles non ha perso occasione per sottolineare come la battaglia contro il terrorismo non finisce con l'arresto di Abdeslam. L'arresto, infatti, "è una tappa importante della lotta ma non è la conclusione della vicenda - ha affermato Hollande -. Domani convocherò il Consiglio di Difesa, i ministri che si occupano di sicurezza e i sevizi segreti per continuare la battaglia contro il terrorismo". Il presidente francese ha poi fatto sapere che verrà chiesta l'estradizione per Abdeslam.

Così, dove tutto è iniziato, tutto finisce. In quella Molenbeek passata alla ribalta internazionale come covo europeo dell'Islam radicale.



"Bruxelles, blitz condotto in maniera dilettantesca"
di Lorenzo Lamperti
twitter11@LorenzoLamperti

http://www.affaritaliani.it/cronache/br ... 12537.html

Alfredo Mantici, ex capo del dipartimento Analisi del Sisde, analizza in un'intervista ad Affaritaliani.it le clamorose lacune del blitz antiterrorismo a Bruxelles.

Alfredo Mantici, come giudica l'operazione antiterrorismo di Bruxelles?

Dalle notizie confuse che arrivano sembra che per l'ennesima volta le forze di polizia belghe abbiano dimostrato scarsa professionalità. Non ci dimentichiamo quanto successo dopo il Bataclan. Purtroppo hanno una normativa super permissiva secondo la quale la Polizia non può fare perquisizioni tra le nove di sera e le sei del mattino. Il risultato è che avevano circondato il quartiere di Molenbeek ma durante la notte Salah è riuscito a fuggire nascosto dentro un armadio.

Quali sono stati gli errori del blitz di Forest?

Solo il fatto che sono stati feriti quattro agenti di Polizia dimostra che c'è stato un approccio dilettantesco. Quando si conducono operazioni di questo tipo bisogna sempre tenere in considerazione il "worst case scenario". Bisogna usare sempre molta prudenza ed entrare in una casa presumibilmente vuota come se potenzialmente potesse essere piena di terroristi. Non è che si bussa alla porta e si entra così. Ritengo che il bilancio poteva essere anche molto peggiore. Il Belgio ha un sistema di sicurezza troppo garantista, inadeguato a far fronte alla minaccia terroristica. Anche perché ormai stiamo parlando di una composizione sociale andata molto al di là dei controlli.

Si riferisce a Molenbeek?

Certo, si è lasciato crescere un quartiere mostro dove vivono centomila islamici, una popolazione pari alla città di Livorno. Come si pensa di poterla tenere interamente sotto controllo? Basta una percentuale di estremisti dello 0,5% per creare una situazione drammatica.

Tornando al blitz, anche dal punto di vista informativo sembra ci siano molte lacune. Prima era stato annunciato l'arresto dei fuggiaschi, poi è stato smentito.

C'è grande confusione, ancora non sappiamo esattamente che cosa è successo. In Belgio si fanno spesso grandi interventi eclatanti come accaduto qualche mese fa quando fu recintata la Grand Place di Bruxelles ma poi nei fatti si arriva sempre dopo o si conclude poco. La colpa è anche di norme che appesantiscono l'operatività della Polizia e non consentono un'azione antiterrorismo efficace.

Secondo alcuni analisti, il Belgio è diventato una sorta di "zona franca" del terrorismo islamico. E' una descrizione che corrisponde alla realtà?

E' un dato di fatto che i fuggiaschi degli attentati di Parigi si siano rifugiati in Belgio. Le armi per l'attentato arrivavano da lì. Evidentemente in Belgio, contrariamente che in Italia, non è difficile procurarsi kalashnikov e armi da guerra.

Venendo a temi di casa nostra, si parla di Saltalamacchia come possibile prossimo direttore dell'Aisi, nonostante al momento non abbia i requisiti per la nomina. Che cosa ne pensa?

Per quanto riguarda i nomi che circolano non solo sull'Aisi ma anche sugli altri apparati di sicurezza posso dire che, da Parente a Delle Femmine, si tratta di nomi di grande esperienza. Per quanto riguarda invece Saltalamacchia non posso dire nulla perché non lo conosco. Posso solo dire che non credo che il suo non essere generale di Corpo d'armata possa rappresentare un particolare handicap. Ricordo che con la pressione dell'allora sottosegretario Enrico Letta venne nominato Gabrielli direttore del Sisde quando era appena questore. La mattina stessa venne nominato prefetto e l'ostacolo fu aggirato. Potrebbe accadere di nuovo la stessa cosa.
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Messaggioda Berto » lun nov 23, 2015 6:11 pm

I pentiti di al Baghdadi
Spulciando le testimonianze del processo per terrorismo in corso in Belgio si scopre come funziona il califfato, come cambia e perché di altri pentiti ce ne saranno pochi
di Daniele Raineri | 07 Novembre 2014
http://www.ilfoglio.it/articoli/2014/11 ... e_c210.htm

La prima settimana di ottobre, è cominciato ad Anversa un processo contro 46 cittadini belgi membri di un gruppo islamista chiamato Sharia4Belgium, che si è sciolto nel 2012. Gli uomini sono accusati di essere andati negli anni scorsi in Siria ad arruolarsi nello Stato islamico, il gruppo armato estremo che conta decine di migliaia di combattenti e sta facendo una guerra di espansione su più fronti in Iraq e in Siria. In alcuni casi questo processo per terrorismo in Belgio si basa sulle testimonianze di alcuni imputati che sono tornati e si sono pentiti. Le loro sono le prime voci a raccontare com’è lo Stato islamico visto da dentro e a descrivere il grande flusso verso la Siria dei muhajirin, che è una parola araba per indicare coloro che fanno la hijra, ovvero la migrazione, in questo caso con lo scopo di fare la guerra. Una parte delle informazioni di questo articolo arriva da un giornalista che lavora per il quotidiano belga Het Laatste Nieuws e ha passato al Foglio un fascicolo con le deposizioni degli imputati.

Hakim Eloussaki ha compiuto 22 anni il mese scorso ed è il fratello minore di Houssein, capo di Sharia4Belgium (modellato sul gruppo inglese Sharia4UK, ormai sciolto pure quello. Houssien è morto in combattimento). E’ andato in Siria alla fine del 2012 per seguire il fratello, è tornato pochi mesi dopo, a marzo 2013, perché è stato ferito alla testa da una granata. Al ritorno è stato ricoverato in un ospedale del Belgio, ad aprile è stato arrestato e la polizia gli ha fatto sentire una telefonata intercettata in cui parla con la sua ragazza. “Sai che c’è – dice lui – oggi ho ucciso un uomo. Era un infedele che era stato catturato da un bel po’. La sua famiglia aveva raccolto soltanto trentamila euro per lui, e invece il prezzo stabilito era di settantamila. L’ho ucciso con un colpo alla testa. Bang! Volevo fare il video, ma la mia camera era messa male e il video non è venuto”.

Durante gli interrogatori Hakim ha negato di avere ucciso qualcuno, ha detto che voleva soltanto impressionare la sua ragazza e ha insistito fino a settembre, quando ha confessato alla polizia che l’ha fatto, per paura. Se non avesse ucciso il prigioniero e avesse ignorato gli ordini del suo comandante avrebbe firmato la sua condanna a morte.

Per la procura si è trattato di una sorpresa positiva. La collaborazione degli imputati è rara e gli inquirenti stanno facendo affidamento soprattutto sulle intercettazioni telefoniche e su alcuni video di pessima qualità girati in Siria, roba fatta in fretta con i telefonini, per provare davanti al giudice le accuse contro i muhajirin belgi. Cose del tipo: “Non ho mai imbracciato un fucile quando ero in Siria”, e invece poi spunta un video con un kalashnikov. Gli omicidi sono stati separati dagli altri reati, per essere l’oggetto di altre indagini e di un altro processo che comincerà più tardi.

Questa di Hakim è una situazione, una soltanto tra le migliaia che si sono create in Siria: un sequestro di persona per estorsione da parte di un gruppo armato, finito con un omicidio, di un “infedele”, quindi un appartenente a una minoranza siriana (alawita o cristiana). In Belgio, l’avvocato di Hakim sta lavorando per fare dichiarare invalida la confessione, perché il giovane ha il cervello irrimediabilmente danneggiato dalla ferita di granata – come è stato pure attestato da una commissione di medici. L’avvocato sta anche cercando di fare accorpare il giudizio per omicidio a quello per terrorismo, perché dice che i due reati sono naturalmente interconnessi.

Le deposizioni dei pentiti potrebbero diventare più rare, perché da qualche mese abbandonare lo Stato islamico è diventato più difficile di prima. Il gruppo di Abu Bakr al Baghdadi è circondato da nemici su tutti i suoi confini e le fazioni rivali non sono tenere con i jihadisti catturati e “però io stavo lasciando la guerra” non è una scusa accettata. Inoltre il gruppo stesso punisce i disertori con violenza definitiva e ci sono storie su ex volontari che vorrebbero tornare a casa ma non possono perché temono di essere uccisi (e se pure riuscissero a eludere la sorveglianza dovrebbero fronteggiare poi un’accusa per terrorismo).

Il processo di Anversa accenna inoltre a un aspetto per lo più ignorato: l’incontro tra i giovani cresciuti tra gli agi dell’occidente e il jihad in Siria e Iraq, un teatro di guerra atroce, e la loro reazione all’impatto tra i due mondi, quello che si portano addosso dalla nascita e quello che scoprono dopo la hijra. Un giorno passi il tuo tempo nel Belgio indolente e assai premuroso con i suoi cittadini, un altro giorno vivi ormai a contatto diretto con la morte, sei a tiro dell’artiglieria nemica, mangi assieme a veterani del jihad che torturano, tagliano la testa ai prigionieri, partono per missioni senza ritorno su camion-bomba. Alcuni si adattano alla nuova condizione e diventano parte della scena, come per esempio “John”, il protagonista incappucciato nei video delle uccisioni degli ostaggi occidentali. Altri scoprono di non essere tagliati per la guerra in medio oriente e tentano di dare una seconda svolta alla propria vita, di tornare alla condizione di prima, all’occidente.

C’è un’immagine stereotipata dei muhajirin di ritorno dalla Siria come di fanatici programmati invariabilmente per uccidere. Ci sono infinite e penose gradazioni minori che arrivano fino al pentimento reale. In mezzo c’è chi rimane incastrato in un limbo indefinito: con gli amici vuole ancora apparire un veterano della guerra santa, davanti alla polizia, come Hakim, cerca di mettere distanza tra sé e quello che ha visto e fatto.

Contattare i belgi in Siria non era così difficile nel 2012. Il Foglio ricorda di avere visto una proposta per giornalisti da parte di un combattente belga che apparteneva a un altro gruppo, Suqur al Sham, e che offriva un viaggio nel nord del paese, nell’agosto 2012. Nessun reporter a quanto si sa ha accettato, per l’impostazione ideologica, per la pericolosità in generale e perché il belga chiedeva soldi: cinquemila dollari.

Dalle carte del processo di Anversa viene fuori che i volontari belgi erano una gamba di un gruppo chiamato “Majlis Shura Mujaheddin”, che poi sarà integrato dentro lo Stato islamico con un giuramento a partire dal maggio 2013. Anzi, si può dire che è proprio grazie a questo gruppo che lo Stato islamico è arrivato ed è diventato così forte nel nord della Siria. Majlis Shura vuol dire in arabo “assemblea del consiglio” e mujaheddin “combattenti del jihad”. E’ lo stesso nome composto che aveva in Iraq prima del 2006 il gruppo comandato dal giordano Abu Musab al Zarqawi, che è stato il volto del jihad contro le truppe americane e gli sciiti iracheni (Zarqawi è il fondatore ideologico dello Stato islamico comandato oggi da Abu Bakr al Baghdadi). Il nome di quel gruppo in Siria era un omaggio chiaro a Zarqawi.

I ventenni europei che arrivavano a partire dal 2012 in avanti e andavano a ingrossare il Majlis sono stati testimoni forse senza rendersene conto di un pezzo di storia del jihad. Il loro capo era un siriano (anche lui abbastanza giovane, del 1979) e si chiama Amr al Absi, nom de guerre: “Abu Athir al Halabi”.

Abu Atheer al Halabi, un leader di alto livello dello Stato islamico.

Verso la fine del 2012 Abu Athir contatta con un messaggio al Baghdadi in Iraq e lo invita in Siria, gli chiede di espandere il suo gruppo nel paese in rivolta e gli offre la propria fedeltà. Fa anche da mediatore fra Baghdadi e i gruppi di combattenti islamisti del Caucaso che hanno formato una brigata tutta per loro e sono diventati lo spauracchio dei soldati del presidente Bashar el Assad nel nord (nota: in realtà sono pochi quelli davvero ceceni, molti sono georgiani, daghestani, tagiki, ma l’aggettivo ceceno, “shishani”, funziona come un marchio e incute timore).

Abu Athir è il tessitore, il negoziatore, garantisce a Bagdhadi che i caucasici sono con lui se vorrà fondare un supergruppo in Iraq e in Siria (il futuro Isis). Nell’aprile 2013, il leader iracheno annuncia la nascita dello Stato islamico anche in Siria – e questo provoca la scissione con Jabhat al Nusra, un gruppo jihadista siriano che conta migliaia di uomini. Lo scisma potrebbe essere la rovina di Baghdadi, e invece non lo è perché lui ha dalla sua parte il gruppo di Abu Athir (belgi inclusi) e il gruppo dei ceceni, che riempiono i vuoti lasciati dagli scissionisti. Il siriano viene nominato Wali, governatore dello Stato islamico, per la città di Aleppo, come ricompensa da parte di Baghdadi (ora non lo è più).

Walid Lakdim è stato in Siria dal novembre 2012 al gennaio 2013. “Il nostro gruppo era formato soltanto da combattenti che parlavano olandese, che erano arrivati dal Belgio e dall’Olanda. Il nostro capo era un siriano, Abu Athir. A parte il gruppo di lingua olandese, comandava anche un altro gruppo di arabi, soprattutto siriani. Stavano in un’altra casa. Noi eravamo chiamati i muhajirin, loro erano chiamati gli Ansar (i partigiani, ndr). Abu Athir spesso ci dava lezioni religiose. Houssein Eloussaki era il leader del nostro gruppo perché era arrivato in Siria per primo (settembre 2012, è morto in Siria un anno dopo, ndr). Quando c’ero io, il gruppo che parlava olandese era formato da 35, 40 combattenti, soprattutto dal Belgio. Combattevamo assieme a Jabhat al Nusra, all’esercito libero siriano e ad Ahrar al Sham. Ma il nostro obiettivo era la creazione di uno stato islamico”.

Telefonata intercettata tra Ines el Hendi, fidanzata di Houssein Eloussaki, capo dei muhajirin, e Leila Serraf, fidanzata del fratello Hakim, che si chiedono perché Houssein è diventato “emiro” del gruppo. Leila: “E’ strano, è così giovane. Forse lo hanno fatto leader perché è stato il primo ad arrivare”. Ines: “Sì, penso anch’io. Dev’essere per questo”.

Altre deposizioni raccontano che i siriani prendono dimora in un palazzo a Kafr Hamra, periferia occidentale di Aleppo, e gli stranieri europei in una villa distante cinque minuti a piedi. Entrambe le residenze sono consegnate al gruppo dai ribelli nazionalisti dell’esercito libero – gli stessi che oggi sono allo sbando, condannati a morte e combattuti dalle fazioni più grandi del jihad. I belgi hanno un istruttore che si chiama Abu Mushab e ha fatto parte delle forze speciali egiziane. Hanno anche un altro addestratore che è un giovane siriano, studiava Fisica all’università e parla un inglese perfetto.

Il testimone chiave nel processo di Anversa è Jejoen Bontinck, un giovane belga di origine araba che più assimilato di così non si poteva. Prima dei sedici anni Jejoen era un appassionato di danza hip hop ed era così bravo da essere finito in qualche video musicale. A quindici si è infatuato di una ragazza marocchina e si è convertito all’islam (per usare il termine islamico giusto: è tornato all’islam, perché secondo la dottrina tutti vaghiamo in una situazione umana opaca e confusa fino a quando non riscopriamo la nostra condizione originale di fedeli). Jejoen ha cominciato a vestirsi da islamico, a predicare in pubblico agli angoli delle strade e a frequentare il gruppo estremo Sharia4Belgium.

Il padre di Jejoen si chiama Dimitri, avverte le autorità ma si sente rispondere che non c’è nulla da fare: la legge non proibisce a un ragazzo di essere membro di quell’organizzazione, “ci sono la libertà di espressione e la libertà di culto e di associazione”. Jejoen nel 2012 chiede il permesso di andare a studiare arabo al Cairo, lo ottiene. Il giorno del compleanno della sorella non telefona per farle gli auguri. Il padre si insospettisce, fruga su Facebook, trova foto degli amici del figlio, sono tutti a combattere in Siria. Non vede Jejoen, ma capisce che anche lui è con loro.

Dimitri va anche lui in Siria, si fa accompagnare da un fotoreporter che c’è già stato. Viene preso da Jabhat al Nusra, che lo crede un agente della Cia – il tipo di paranoia in alcuni casi con esito mortale che accompagna ogni occidentale che viaggia nelle zone fuori dal controllo del governo di Damasco. Viene pestato e tenuto prigioniero, ma riesce infine a far capire il motivo del suo viaggio. I guerriglieri gli danno da mangiare, vestiti, cominciano a fargli da scorta, a garantire per lui e lo aiutano a trovare il figlio.

Jejoen nel frattempo ha detto ai compagni, dentro il suo gruppo, che vuole lasciare e tornare in Belgio. Lo bendano, lo ammanettano, lo buttano in una prigione per mesi. A un certo punto è trasferito nei sotterranei dell’ospedale pediatrico di Aleppo, dove lo Stato islamico tiene anche gli altri prigionieri occidentali. Conosce in cella James Foley, il freelance americano ucciso ad agosto davanti a una telecamera per ritorsione contro i raid aerei americani in Iraq. Conosce anche John Cantlie, il reporter inglese che oggi è ancora ostaggio dello Stato islamico ed è il protagonista di alcuni video di propaganda (l’ultimo è arrivato due settimane fa da Kobane, il cantone curdo sotto assedio). Bontinck promette di contattare le famiglie dei due se sarà rilasciato, cosa che avviene. E’ restituito al padre. Oggi è probabile che sarebbe molto più difficile, soprattutto per le informazioni di cui è in possesso. Per esempio: il giovane ex ballerino di hip hop ha parlato direttamente con Abu Obaida al Maghribi, un leader di origini marocchine e passaporto olandese che ha accesso diretto a Baghdadi ed è il capo della sicurezza dello Stato islamico nell’area di Aleppo. Al Maghribi è un elemento poco conosciuto nella catena di comando, ma essenziale.

In Siria i superstiti del gruppo belga si vendicano di chi parla. Elias Taketloune è tornato in Belgio nel maggio 2013 per la nascita del suo primo figlio (chiamato Shahid, martire) e si è consegnato alla polizia. Dice di avere avuto soltanto incarichi umanitari, non militari, ma gli ex compagni per ritorsione hanno messo su internet un video di lui con un fucile e sostengono che abbia partecipato a “numerose decapitazioni”.
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Messaggioda Berto » mer gen 06, 2016 8:23 pm

“Serve una riforma teologica dell’Islam perché i giovani non diventino estremisti”
Realizzato da Valérie Gauriat

04/01/2016

http://it.euronews.com/2016/01/04/serve ... estremisti

Nei pressi della moschea di Walthamstow, a est di Londra, questo centro giovanile è noto a tutti. Si tratta della Fondazione Active Change, un’associazione che opera contro la radicalizzazione dei giovani britannici, la violenza di bande e l’estremismo religioso.

Qui Javid, arrivato sette anni fa dall’Afghanistan, ha trovato rifugio: “Mi hanno aiutato con l’istruzione, la vita sociale, il college, l’università. Con tutto. Mi hanno aiutato a stare lontano dai recrutatori..sai, dai gruppi estremisti.”

Il responsabile della fondazione ci invita a seguirlo. Al telefono, il padre di un jihadista britannico partito per la Siria gli racconta che il figlio vuole tornare.

“Quindi – dice Hanif Qadir – non è sicuro…ha lasciato Raqqa…lo sappiamo o no? Se riusciamo a fare in modo che raggiunga un luogo sicuro, diciamo la Giordania o un altro Paese confinante…Qui bisogna guardare in faccia la realtà: molte persone diffidano di qualsiasi individuo che voglia lasciare l’Isil, soprattutto ora”.

Da mesi, grazie all’intermediazione del padre, l’associazione trasmette al giovane messaggi che contrastano l’interpretazione che il sedicente Stato Islamico fa dell’Islam.

“Abbiamo raggiunto un risultato importante in questo caso – ci spiega Hanif Qadir – siamo riusciti a fare in modo che questa persona prendesse in considerazione metodi alternativi e guardasse alla religione in modo diverso. Con pazienza, se si trova il modo di far arrivare un’informazione adeguata a queste persone, se si dà loro il modo di pensare anche a se stessi, allora le cose possono cambiare”.

Hanif Qadir sa di cosa sta parlando. Nel 2002 entra nelle fila di al Qaeda, in Afghanistan, ma non riesce a sopportare le atrocità dei Taleban.

L’anno dopo crea la sua Fondazione e oggi è in prima linea nei cosiddetti programmi di deradicalizzazione, iniziati nel Regno Unito dopo gli attentati alla metropolitana di Londra nel 2005.

Obiettivo principale dello Stato Islamico, la capitale britannica è anche il primo luogo di reclutamento dell’organizzazione terroristica nel Paese.
Un doppio ruolo che non sorprende Adam Deen; ex appartenente del gruppo estremista islamico Al Muhajiroun, oggi fa parte della Fondazione Quilliam ed è un esperto riconosciuto della lotta al terrorismo e della deradicalizzazione.

“In un mondo in cui le persone sono insicure – ci racconta – in un mondo dove regna l’incertezza, il messaggio dell’Isis è rassicurante. Semplifica il mondo dividendolo in due: il bene e il male. Io ho incontrato questi estremisti. Per me erano diventati un’autorità, capivano la mia fede e mi hanno condotto attraverso un viaggio. Il viaggio verso l’estremismo. Per me era normale partecipare a una discussione durante la quale si parlava di organizzare un potenziale attacco terroristico a Londra. Se ora guardo indietro penso: che diavolo stavo facendo? Ma all’epoca mi sembrava del tutto normale. L’Occidente attaccava dei musulmani, quindi era il nostro nemico. Dobbiamo impedire alle persone d’intraprendere questo viaggio verso l’estremismo. E per questo è necessaria una riforma teologica. Il modo stesso di comprendere l’islam, di comprendere il mondo attraverso la lente dell’islam deve cambiare”.

In un luogo segreto della capitale britannica ci incontriamo con un altro transfuga di un gruppo estremista islamico, anch’egli diventato esperto nella deradicalizzazione. Per lui l’essenziale è smontare i discorsi dei gruppi terroristici.

“Una volta che sei in grado di analizzarli e di capire che l’ideologia è priva di senso, che la loro politica non ha nulla a che fare con la realtà, e che il discorso religioso è usato soltanto per giustificare delle posizioni ideologiche estreme – assicura Rashad Ali, Senior Fellow presso l’Istituto di Studi Strategici – allora puoi scindere simili discorsi dalle tue convinzioni religiose. Puoi capire che l’ideologia è fondamentalmente amorale. Questo ha permesso a me e a molti altri un allontanamento. Gli stessi ingredienti che spingono le persone a unirsi a simili gruppi, possono essere utilizzati per farle uscire”.

Un altro aspetto dei programmi per la lotta contro l’estremismo è la prevenzione e la segnalazione di individui giudicati a rischio. Dal 2006, più di 4000 persone sono state identificate come potenzialmente vicine ad ambienti estremisti.

Dopo le indagini il 20% è stato obbligato a prendere parte a questi programmi Il dispositivo è controverso: in molti denunciano la stigmatizzazione della comunità musulmana. Fa discutere soprattutto la segnalazione obbligatoria di alunni giudicati a rischio.

In questa scuola religiosa della città di Slough, a ovest di Londra, si privilegia la pedagogia e il dibattito. Zafar Ali ha il compito di formare gli insegnanti alla prevenzione della radicalizzazione nei complessi scolastici della regione.

“Formiamo lo staff – spiega Zafar Ali, Chair of Governors presso la IQRA School – spiegando cosa occorre fare, a cosa si deve prestare attenzione, come reagire e come non reagire in modo eccessivo. C‘è stato un bambino che dopo una lezione ha detto all’insegnante ‘Al Hamdullilah’, che significa ‘Grazie a Dio’. L’insegnante, pensando fosse una parola legata ai terroristi, ha chiamato la polizia. Il bambino e i suoi genitori sono stati interrogati. Il clima adesso è tale che molti giovani pensano che se esprimono il loro punto di vista, se discutono, verranno individuati, segnalati e considerati come estremisti. Questo è pericoloso perché spinge le persone alla clandestinità”.

Grazie alla propaganda, l’Isil ha reclutato più di 750 britannici; secondo il ministero dell’Interno britannico il 60% di loro è tornato. Ma altri sono pronti ad arruolarsi. Tra loro ci sono dei giovanissimi, come testimoniano le immagini di tre adolescenti britannici partiti lo scorso anno per la Siria.

L’associazione Football for Unity ha fatto del pallone un’arma contro il terrorismo. Diversi tra questi giovani sono stati avvicinati dall’Isil grazie ai social network. Shamender Talwar, psicologo e cofondatore del progetto iniziato un anno fa, prova a inculcare loro valori che fungano da catalizzatore.

“Ci sono dei musulmani – ci dice – Altri sono ebrei, altri cristiani. Altri ancora hindu o sikhs. Li abbiamo sostenuti e li abbiamo aiutati a deradicalizzarsi grazie al calcio. Che è un modo formidabile per unire tutte le culture. Abbiamo spiegato loro che lo Stato di diritto e i valori britannici sono molto importanti. Poco importa da dove arrivi, la tua identità resta britannica”.

Valori che hanno convinto Amina – uno pseudonimo – a non partire per la Siria. Contattata tramite i social network dall’Isil, la giovane non vuole parlare di questo, ma della sua esperienza nella fondazione che le ha tolto ogni dubbio: “Mi hanno dato un senso di appartenenza. Come giovani ci si sente sempre un po’ esclusi, hai un senso di ribellione. Ma in realtà hai solo bisogno di qualcuno che ti metta una mano sulla spalla e ti dica ‘va tutto bene, siamo al tuo fianco. Siamo qui per te’. Ed è quello che ci ha dato questa squadra. Ci ha dato un luogo dove andare ed è quasi come una famiglia”.

Si stima che l’Isil abbia reclutato in tutta Europa tra le cinquemila e le settemila persone.

Per Hanif Qadir, l’offensiva militare occidentale in Siria aggrava il fenomeno: “Isil, Al Qaeda e tutti gli altri gruppi estremisti sanno dove si gioca la vera battaglia. Il problema è che i nostri leader non lo sanno. E ripetiamo sempre gli stessi errori. Il risultato è che dal 2002 abbiamo creato più terrorismo di quanto avessimo mai immaginato. Il campo su cui dobbiamo combattere è composto dai cuori e dalle menti. Nelle nostre comunità, nelle nostre istituzioni. È lì che occorre combattere una guerra. Non attraverso campagne militari. Quelle uccidono dei terroristi ma non uccideranno le loro idee”.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Messaggioda Berto » mer gen 20, 2016 11:25 pm

Jihadi John, l'Isis conferma la morte del boia: ucciso in un raid aereo
Lo Stato islamico ha confermato traimte la propria rivista "Dabiq" la notizia dell'uccisione dell'autore di numerose decapitazioni
19 gennaio 2016

http://www.tgcom24.mediaset.it/mondo/ji ... 602a.shtml


00:30 - L'Isis ha ufficializzato la morte di Abu Muharib al-Muhajir, meglio noto a tutti come Jihadi John, il boia responsabile di numerose decapitazioni di prigionieri stranieri filmate e circolate sul web. La conferma è arrivata attraverso "Dabiq", la rivista dello Stato islamico.

In Dabiq #13, ISIS confirm death of "Abu Muharib al-Muhajir... who made headlines around the world as Jihadi John” pic.twitter.com/r4xnRYpcfw
— Lisa Daftari (@LisaDaftari) 19 Gennaio 2016

Il boia dello Stato islamico era stato dato per ucciso in un attacco americano contro i jihadisti a Raqqa, in Siria, lo scorso 13 novembre da fonti britanniche e del Pentagono.

Nell'ultimo numero di "Dabiq", la pubblicazione in inglese dell'Isis, Jihadi John è ricordato con un vero e proprio necrologio, accompagnato da una foto, nel quale viene chiamato Abu Muharib al-Muhajir. Nell'articolo si racconta che la madre del boia era yemenita e che lui era cresciuto a Londra, "un luogo che odiava come odiava i suoi infedeli abitanti".

Mohammed Emwazi era uno degli uomini piu' ricercati al mondo, da quando comparve la prima volta in video nell'agosto del 2014 per annunciare la decapitazione del giornalista americano James Foley. Seguirono i filmati delle macabre uccisioni di un altro giornalista Usa, Steven Sotloff, del cooperante americano Abdul-Rahman Kassig, dei britannici David Haines e Alan Henning e del giornalista giapponese Kenji Goto. Da allora, Emwazi è diventato l'obiettivo dei servizi segreti e degli attacchi delle forze americane in Siria.

Lo scorso novembre la notizia che un drone americano lo aveva colpito a morte a Raqqa, in Siria. Nessuna conferma ufficiale è mai arrivata né da Washington né da Londra anche se il Pentagono dichiarò che c'era la "ragionevole certezza che Jihadi John è morto" e il premier britannico David Cameron si affrettò a dire che l'attacco vicino alla roccaforte di Raqqa è stato uno sforzo congiunto di Gran Bretagna e Stati Uniti.
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Messaggioda Berto » mar feb 02, 2016 9:40 pm

Non pregate con chi vi decapita
Una risposta a Sant’Egidio sull’islam in armi e alcune miopi elusioni
di Carlo Panella | 30 Agosto 2014

http://www.ilfoglio.it/articoli/2014/08 ... e_c151.htm

Caro Andrea Riccardi, per difendere i cristiani d’oriente è indispensabile iniziare a capire quel che è avvenuto nel mondo musulmano negli ultimi decenni. Non disperdersi – come tu hai fatto ieri con la tua pur bella testimonianza sul Foglio – nei pericolosi meandri della geopolitica e nei miti sulle conseguenze dell’invasione dell’Iraq del 2003. Anche a costo di capovolgere la strategia verso il mondo musulmano – alta, affascinante, ma dagli esiti nulli – seguita sinora da Sant’Egidio e tanti altri nell’ambito cristiano. È indispensabile prendere atto che è tempo non più – non più solo – della ricerca del dialogo con i musulmani affini (spesso ininfluenti come gli ottimi ismailiti). Di fronte ai massacri di cristiani, sciiti e Yazidi del Califfato si impone la presa d’atto, la denuncia e il contrasto attivo degli scismi aggressivi e totalitari che caratterizzano l’islam contemporaneo. Scismi che dichiaratamente menano una “guerra di civiltà” contro ebrei e cristiani, nel nome di un jihad apocalittico che convince più menti di musulmani di quante non ne abbia convinto il dialogo interreligioso post conciliare.

Di questo devi, dovete, dobbiamo prendere atto. Le preghiere in comune, nel campo musulmano nulla hanno prodotto. Tranne illusioni. Ammettilo, ammettetelo, con la franchezza lucida e coraggiosa di tutta la vostra opera e testimonianza. Da qui ripartite, ripartiamo, per un’operazione di comprensione e di verità indispensabile per impostare una strategia di difesa dei cristiani d’oriente (e degli ebrei, degli Yazidi, degli stessi sciiti) che metta a fuoco le origini del pensiero totalitario che oggi allarga a dismisura la sua forza nel mondo musulmano.

Il Califfato – va capito – non è una buffonata che ha spazio a causa del 2003 di Bush. Né ha senso proporre quella data come origine del disastro dei cristiani, come tu fai. La prova? Boko Haram a mille e mille miglia di distanza, in una Nigeria in cui mai gli Usa hanno messo bocca, segue lo stesso percorso di morte – innanzitutto dei cristiani – e inneggia al suo califfo nero.
Non la cronaca, ma una profonda trasformazione di parte dell’islam in nostro avversario nel nome di un nuovo totalitarismo che ottiene consensi popolari straordinari sono il tema dell’oggi.

Tutto quanto avviene è prodotto non dalla geopolitica, che tu ripercorri con inerziale pigrizia anti bushiana (che mi stupisce in te), ma dalla forza intrinseca – ahimè – che ha via via assunto lo scisma dentro l’islam iniziato con la rivolta del 1928-’29 degli Ikhwan (Fratelli) sauditi. Uno scisma dentro lo scisma wahabita. Uno scisma che ha visto un nipote di Ikhwan nel 1979 occupare la moschea della Mecca e che ha trovato nella vittoria degli odiati e apostati sciiti di Khomeini il combustibile per moltiplicarsi e radicarsi. Uno scisma – per apparente paradosso – che ha moltiplicato i suoi effetti dirompenti incrociandosi con lo scisma khomeinista che ha introdotto il “martirio” quasi come “sesto pilastro della fede”, come aspirazione massima, come dovere del musulmano.

Abu Bakr al Baghdadi è l’ultimo prodotto della rivolta degli Ikhwan che nel 1929 si ribellarono in nome della purezza wahabita ad Abdulaziz Ibn Saud, che con la loro forza avevano intronato a Riad. Da quella rivolta degli Ikhwan al Banna prende l’avvio per la sua Fratellanza. Da questa contiguità non solo lessicale iniziano i problemi dell’oggi.

Sayyid Qutb, venti anni dopo la sconfitta degli Ikhwan, ha definito la “teoria del jihad”, di cui fu prima vittima Anwar al Sadat, che fece la pace con gli ebrei. Teoria del jihad che da anni dà spessore, convince, attrae persino giovani europei.

Mentre Sant’Egidio lavorava al dialogo interreligioso, la massa critica dei seguaci di questo pensiero totalitario si è moltiplicata in misura geometrica. Ma gli stessi vostri interlocutori, pur condannandola – a volte – a parole non sapevano – non volevano – contrastarla alle radici. La ragione era ed è chiara: per sgretolare il pensiero totalitario strutturato da Sayyid Qutb sono necessarie le armi della esegesi coranica. Che l’islam, che i musulmani tutti (quasi), anche quelli con cui voi avete dialogato, rigettano come satanica. Perché molti di quelli con cui avete dialogato – mi spiace ricordarlo, ma è il momento di farlo – approvavano in pieno l’impiccagione, basata su una fatwa della “moderata” al Azhar, a Karthum nel 1985, del teologo Mohammed Taha che propugnava, appunto, la necessità di esegesi del Corano.

Non si può, lo sai bene, riferirsi a Ratisbona di Benedetto XVI senza rendere omaggio pubblico a chi per quelle stesse parole pagò il prezzo della forca. E se l’omaggio a Taha allontana tanti – quasi tutti – i dialoganti musulmani di Sant’Egidio, tanto meglio. Non si dialoga senza la chiarezza. Non si dialoga con le omissioni. Questo è il punto.

Oggi, se non ci dotiamo di strumenti che ci permettano di mettere a fuoco la dinamica del consenso al jihadismo, se non ne comprendiamo la scabrosa contiguità con l’ortodossia islamica, se non incalziamo i musulmani non solo a denunciare i jihadisti, ma a combattere per difendere cristiani ed ebrei (sì, ebrei) prima ancora che con le armi, con la dottrina, falliremo.

Il travaglio della questione della “guerra giusta” non può essere costretto nella contingenza drammatica della questione umanitaria (ovviamente cogente). Né si può continuare, come fanno tanti, troppi cardinali, a citare i tanti musulmani moderati, per relativizzare la forza e l’espansione nelle coscienze dei tanti musulmani jihadisti.

La “guerra giusta” deve essere oggi iniziata non solo per difendere le vittime del jihadismo, ma anche e insieme per chiedere con forza e finalmente ai musulmani di recedere dai capisaldi dogmatici a cui attingono i jihadisti. A iniziare dalla richiesta, a gran voce, qui e subito, della libertà di culto e di conversione dall’islam ad altra fede che in tutti i paesi dell’islam è punita, anche con la morte.

Come ben sai, nella condanna shariatica della conversione – che coinvolge tutti i musulmani moderati – sono contenuti tutti i princìpi di fede e dogmatici dell’islam a cui attingono le perversioni jihadiste. Non si può dialogare con il mondo islamico, e neanche combattere il jihadismo, se non si contrasta l’ossessione musulmana per la apostasia che li accomuna. Il feroce e perverso rito abramitico di cui è stato vittima Foley qui ha la sua genesi, la sua spaventosa profondità liturgica e di fede. Questo va compreso, non terrorismo, ma l’oscena rappresentazione di un Abramo che non sente la voce di Dio e sgozza il suo Isacco-cristiano.

Contrastare i jihadisti, senza combattere frontalmente, ad alta voce, in ogni occasione pubblica e privata, per la piena libertà di culto e di conversione in tutti i paesi musulmani, qui e subito, sarebbe un errore imperdonabile. E’ questo il baricentro, il dogma di fede che unisce jihadisti e “moderati”. La differenza è solo nei modi di applicazione. La crocifissione per i primi (peraltro prescritta da un Corano non interpretato, Sura quinta, versetto 33), la morte civile, la prigione o la forca per gli altri. Il nesso è chiaro e ineludibile. E’ un a priori indispensabile, con fermezza, a ogni dialogo, a ogni preghiera in comune. E francamente – ammirandovi – mi sono sempre chiesto perché l’avete sempre eluso.
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Messaggioda Berto » lun mar 21, 2016 10:49 am

Isis, svelati i dati personali di 22mila jihadisti: i documenti trafugati da un ex miliziano "pentito"
di Federica Macagnone
Giovedì 10 Marzo 2016

http://www.ilmessaggero.it/primopiano/e ... 01834.html

Nomi, indirizzi, numeri di telefono, contatti familiari, un archivio con 22mila dati personali di presunti jihadisti dell'Isis originari di 51 Paesi: migliaia di documenti sono stati consegnati a Sky News da un sedicente pentito dell'organizzazione indicato col nome di Abu Ahmed, un ex membro della polizia per la sicurezza interna del gruppo terroristico.

L'uomo, inizialmente un ex combattente dell’Esercito Libero Siriano, uno dei gruppi ribelli più moderati che combattono il presidente siriano Bashar al Assad, ha poi deciso di entrare nelle fila dell'Isis. Tuttavia, dopo un periodo di militanza, pare che le sue aspettative siano state disattese dall'organizzazione: la delusione per quello che il Califfato è diventato nel corso del tempo lo ha spinto a passare le informazioni a Sky News attraverso una chiavetta Usb, consegnata, durante un incontro in Turchia, al giornalista dell'emittente Stuart Ramsay.

Secondo il Guardian, si tratterebbe degli stessi documenti ottenuti di recente dall'intelligence tedesca e la cui autenticità è stata confermata dal ministro dell'Interno tedesco, Thomas de Maizière, secondo cui l'acquisizione delle carte permetterà «indagini più veloci e chiare» oltre a «svelare la struttura dell’organizzazione terroristica». Un portavoce della polizia tedesca ha confermato che le autorità sono in possesso dei documenti originali, senza però spiegare come li abbiano avuti.

I documenti. I file contengono anche i questionari fatti compilare alle reclute una volta superato il confine siriano: 23 domande al quale il futuro jihadista deve rispondere rivelando, tra l'altro, il nome, la data e il luogo di nascita, il numero di telefono, il livello di istruzione, il gruppo sanguigno, il livello di conoscenza della sharia, il tipo di educazione ricevuta, le precedenti esperienze e se si ha l’intenzione di diventare un combattente o un attentatore suicida. Alcuni dei numeri telefonici nelle liste sono ancora attivi e potrebbero essere utilizzati dagli stessi jihadisti. Fra i file raccolti uno si intititola “martiri” e conterebbe i nomi dei kamikaze dell'Isis.

I nomi. Molti dei nominativi contenuti nei documenti sarebbero gli stessi diffusi in precedenza dal sito siriano Zaman Alwsl, che già a dicembre era entrato in possesso di materiale con i nomi di 122 “martiri”. Secondo l'analisi di Zaman Alwsl, i due terzi di tutti i miliziani dello Stato Islamico provengono dall’Arabia Saudita, dalla Tunisia, dal Marocco e dall’Egitto (il 25 per cento sono sauditi): i siriani sono solo l’1,7 per cento del totale dei combattenti, gli iracheni l’1,2 per cento.
Tra i nomi già noti anche quelli di foreign fighters come Abdel Bary, un rapper 26enne di Londra che si è unito all'Isis nel 2013, dopo essere stato in Libia, Egitto e Turchia. Ci sono anche i jihadisti uccisi dai raid dei droni occidentali, come Junaid Hussain, 21enne hacker di Birmingham che guidava il servizio informazioni e reclutamento dello Stato islamico in Siria. Lui e la moglie, Sally Jones, una ex punk del Kent che aveva scelto la via della jihad e si era trasferita in Medio Oriente, avevano pianificato attacchi terroristici nel Regno unito. Un altro è Reyaad Khan di Cardiff, ucciso nel corso di un attacco mirato della Raf nell'agosto 2015.

I servizi segreti. Richard Barrett, ex direttore delle operazioni antiterrorismo dei servizi segreti inglesi, ha detto che i file potrebbero rivelarsi il più grande passo in avanti fatto in questi anni nella lotta al terrorismo. «I documenti saranno una miniera d'oro di enorme importanza per molte persone, in particolare per i servizi di sicurezza e di intelligence».


I documenti trafugati sui combattenti dello Stato islamico sono attendibili?
Secondo alcuni analisti il leak di 22 mila file con i dati di migliaia di jihadisti sarebbe un "tesoro". Eppure, c'è più di qualcosa che non torna sulla loro autenticità. Un'infografica spiega la mappa dei miliziani del califfo secondo il carteggio allo studio dei servizi segreti occidentali
di Luca Gambardella | 11 Marzo 2016

http://www.ilfoglio.it/esteri/2016/03/1 ... e_c281.htm

I documenti trafugati sui combattenti dello Stato islamico sono attendibili?

Secondo alcuni analisti il leak di 22 mila file con i dati di migliaia di jihadisti sarebbe un "tesoro". Eppure, c'è più di qualcosa che non torna sulla loro autenticità. Un'infografica spiega la mappa dei miliziani del califfo secondo il carteggio allo studio dei servizi segreti occidentali

Un disertore dello Stato islamico ha fornito all'intelligence tedesca 22 mila file contenuti in una chiavetta Usb che si riferiscono a diverse centinaia di combattenti volontari dello Stato islamico. I file includono migliaia di pagine che riportano i dati personali degli aspiranti jihadisti: nome, cognome, data di nascita, paese di provenienza, lavoro, parenti, numeri di telefono. Per un totale di 23 voci compilate nel 2014 dall'ufficio dello Stato islamico che gestisce i transiti ai confini del Califfato.

Sono informazioni autentiche?

I dati sono arrivati ai media tedeschi, britannici e anche a una rivista basata in Qatar e vicina ai ribelli siriani, che li hanno pubblicati. Le informazioni diffuse sono ora al vaglio dell'intelligence tedesca, ma un funzionario di Berlino ha riferito alla Cnn che, a un primo studio, sembrano essere autentiche. Ieri però il Global Post aveva messo insieme diversi elementi che lasciavano trasparire più di qualche dubbio. Molti nominativi sembrano ripetersi riducendo così di molto il totale dei combattenti inseriti nella lista: di 22 mila file, solo 1.700 persone potrebbero essere identificate. Ricorrono anche altre anomalie: i loghi usati sarebbero inediti e, soprattutto, la dicitura araba per indicare lo Stato islamico compare in due modi diversi nel testo (e uno di questi non era mai stato riscontrato finora in altri documenti ufficiali del Califfato). Inoltre, i file includono i nominativi di 122 attentatori kamikaze deceduti, ma invece di identificarne la data del decesso con la dicitura consueta "data del martirio", nei documenti ricorre un semplice "data di morte". Secondo alcuni analisti citati dal Global Post potrebbe esserci una spiegazione per queste incongruenze: i documenti raccolti risalgono alla fine del 2013, quando il Califfato, inteso nella sua struttura burocratica, era ancora agli albori. La maggiore approssimazione e la minore attenzione al formato dei documenti potrebbero quindi essere imputabili alla scarsa dimestichezza dei funzionari che li hanno compilati.

Il Guardian ha verificato però che alcuni numeri di telefono riportati nei documenti appartengono effettivamente a combattenti dello Stato islamico o a loro famigliari. Altro dato che confermerebbe l'autenticità dei documenti è che molti dei jihadisti inseriti erano già noti ai servizi segreti occidentali. Ad esempio quello dell'ex rapper 26enne di Londra, Abdel Majed Abdel Bary; e ancora, quello di Reyyad Khan, ucciso in un bombardamento dell'aviazione britannica lo scorso agosto; o quello di Junaid Hussai, l'hacker 21enne di nazionalità britannica e considerato uno dei leader del servizio informazioni del Califfato.

Cosa dicono i dati e perché potrebbero essere importanti

Nonostante la mole imponente di documenti diffusi, le stime sulla composizione totale dei ranghi dello Stato islamico è ben superiore. Basti pensare che i file riportano i dati di soli 1.736 combattenti, mentre le stime recenti dell'istituto di ricerca Soufan Group parlavano di un numero compreso tra i 20 mila e i 30 mila uomini all'incirca. A ogni modo, come ha dichiarato a Wired Matthew Levitt, un analista del Washington Institute specializzato in controterrorismo, "questo tipo di informazioni sono un tesoro per gli analisti di intelligence". Le informazioni possono servire ai governi occidentali per tracciare i movimenti dei foreign fighter che si sono uniti allo Stato islamico, ad esempio seguendo le tracce lasciate dai cellulari usati dai miliziani.

Da dove vengono i miliziani dello Stato islamico

Nell'infografica sono evidenziate le nazionalità dei combattenti secondo i dati forniti dal leak. I miliziani provengono in totale da 51 paesi e due terzi di loro è originario di Arabia Saudita, Marocco, Tunisia o Egitto. Il 25 per cento è di nazionalità saudita e solo l'1,7 per cento è siriano. Appena l'1,2 per cento iracheno. Tra i foreign fighters i turchi, seguiti dai francesi, sono le nazionalità più rappresentate. Inoltre, due dei miliziani inseriti nell'elenco hanno avuto a che fare con l'Italia. Il primo è Rawaha al Itali, probabilmente il nome de guerre di Ana el Abboubi, un rapper bresciano di origini marocchine già indagato nel 2015 per un caso di reclutamento di terroristi. Il secondo è Abu Ishaq al Tunisi che, tra i vari paesi europei visitati negli ultimi anni, avrebbe vissuto per qualche tempo anche in Italia.
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Messaggioda Berto » gio mar 24, 2016 10:21 pm

Nigeria, il leader di Boko Haram in un video: “Arrendetevi, è finita”
https://youtu.be/8jvpAnkPQ1o

http://www.lastampa.it/2016/03/24/ester ... agina.html

Dopo 7 anni di guerriglia e attentati terroristici in nome della Jihad il leader del gruppo terrorista Boko Haram, Abubakar Shekau, in un video ha ordinato ai suoi combattenti di arrendersi. Il capo supremo dell’organizzazione fondamentalista che più ha ucciso nel 2015 nel mondo, 6.644 vittime secondo il Global Terrorism Index, tra Nigeria, Cameroon, Chad e Niger, riapparso con un video in arabo dopo oltre un anno di assenza ha chiesto a Dio di perdonare i peccati commessi durante gli ultimi anni in cui sono morte oltre 20mila persone.

Shekau, su cui si era più volto speculato su una sua possibile uccisione o fuga, sembra in salute, ma notevolmente debilitato e con un tono di voce quasi dimesso. Solo, con un kalashnikov appoggiato sulla spalla sinistra e una bandiera dello Stato Islamico a lato non sembra più incarnare quel leader che minacciava di uccidere tutti coloro che non avessero aderito al Califfato.

LA MAPPA Il terrore globale: solo a marzo 2016 almeno 138 vittime

Ancor nessun commento ufficiale da parte del Governo nigeriano, ma l’esercito ha confermato la veridicità del video di sette minuti e alcune fonti militari nei pressi di Maiduguri, roccaforte del gruppo terrorista, hanno lasciato trapelare che si tratterebbe di «un evidente messaggio di ritirata».

L’esercito nigeriano ha solo fatto sapere che le operazioni per smantellare i fondamentalisti proseguono e che i terroristi sono liberi di arrendersi. Nelle ultime settimane le operazioni dei militari nigeriani si erano intensificate e molti terroristi erano stati uccisi o catturati. Numerosi anche gli ostaggi liberati. Tuttavia la loro presenza sul territorio rimane forte. Nello stato di Adamawa, uno dei più colpiti dall’insorgenza che ha creato 2,5 milioni di sfollati, sono state rapite 16 donne.
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Messaggioda Berto » lun apr 04, 2016 9:48 am

Ixlam come mafia rełijoxa e jihad-Umma xlamega e jihad
viewtopic.php?f=188&t=2222
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Messaggioda Berto » mer apr 06, 2016 10:20 pm

Jesuis Cristiano - L'intraprendente
Corrado Ocone
Mercoledì, 06 Aprile, 2016

http://www.lintraprendente.it/2016/03/jesuiscristiano

La battaglia in corso è una guerra tra barbarie e cristianesimo. Inteso non solo come il mondo dei credenti, ma come la stessa civiltà liberale basata sul primato dell'uomo e della sua coscienza. L'esatto opposto dell'islamismo totalitario

Non è assolutamente vero che il terrorismo jihadistico sia cieco e irrazionale: esso non colpisce mai a caso. E anche quando colpisce in casa propria, cioè nei Paesi a maggioranza islamica, lo fa colpendo obiettivi ben scelti: o posti frequentati da occidentali, spesso luoghi di divertimento: oppure, come è accaduto l’altro giorno a Lahore, posti frequentati da “infedeli”, nella fattispecie dalle minoranze cristiane. Se ne deduce con tanta facilità che è la nostra civiltà, nella sua radice cristiana e/o liberale, l’obiettivo dei jihadisti, che sembra a dir poco surreale un’affermazione come quella fatta dal pontefice, sempre domenica scorsa, quando ha parlato di “insensatezza” dell’ultimo e di tutti gli episodi di terrorismo islamico.

Come ho già avuto modo di dire, la guerra contro il fondamentalismo islamico va combattuta su due fronti: uno esterno, uno interno. Va inoltre combattuta sul versante culturale non meno che su quello politico e militare. La battaglia sul fronte culturale deve servire da una parte a chiarirci bene sulla nostra identità, rinsaldandoci nelle nostre convinzioni o facendoci acquisire piena consapevolezza di chi siamo (i terroristi dimostrano di saperlo bene), dall’altra a capire ciò che è in gioco e l’obiettivo a cui il nemico mira. Ridotta al nocciolo, la battaglia in corso, pur molto diversa da quella che le democrazie occidentali combatterono nel Novecento contro i totalitarismi sorti nel proprio seno, è, al pari della precedente, una “guerra di civiltà”, una guerra fra cristianesimo e barbarie. Ove il cristianesimo identifica non solo o non esclusivamente il mondo di chi ha fede ed è credente, bensì, più in generale, la nostra stessa civiltà che è cristiana sia nelle strutture mentali che la reggono sia nei valori di fondo che la muovono.

La nostra civiltà è infatti basata sul valore centrale dell’uomo, inteso non come astratta e generica umanità ma come singolo uomo nella sua specifica datità o circostanza e in carne ed ossa considerato. Questo valore, su cui si fonda il liberalismo, ci è stato trasmesso (e lo abbiamo introiettato) proprio da quella rivoluzione promossa da Cristo che ha predicato il rapporto diretto e singolare fra la coscienza individuale e Dio. In questo modo si sono affermati universalismo o uguaglianza morale (che è poi uguaglianza nella diversità) degli individui: al di là di ogni specifica differenza di cultura, etnia, condizione sociale o genere di appartenenza.
E così si è anche affermato il carattere divino di ogni uomo, che è fatto ad immagine e somiglianza di Dio: suo figlio e fratello, per via di questa figliolanza, ad ogni altro uomo. La nostra civiltà è particolare proprio perché la sua religione è siffatta. E perciò non assimilabile ad altre, a cominciare da quella islamica, basate su un credo che stabilisce un rapporto di trascendenza assoluta fra Dio e le creature.

Tale trascendenza può quindi portare non solo a praticare la violenza in nome della religione (come è avvenuto in certi momenti, che andrebbero comunque contestualizzati, della storia del cristianesimo. Essa può arrivare anche a giustificarla. Lo ha notato, ad esempio, Benedetto XVI nel celebre discorso di Ratisbona: se Dio è al di là della nostra comprensione e ragione anche gli atti più violenti, se dettati da lui, non possono essere considerati irrazionali.
Il dio dell’islam non è il Dio dell’amore e della carità, ma quello appunto dell’assoluta trascendenza.

Ora, è chiaro che non c’è un rapporto diretto, di causa ed effetto, fra islam e terrorismo, nel senso che l’islam può avere subito processi di secolarizzazione e trasformazione storico-interpretativa anche netti. È tuttavia indubbio che il terrorista islamico trova nella sua religione un quadro di riferimento e di giustificazione che il terrorista cristiano (figura che pure storicamente è esistita) non trovava. Ne consegue che, al contrario di quanto dice ad esempio papa Francesco, non vale per il terrorismo islamico quel che vale per il terrorista cristiano: solo la violenza del secondo può essere considerata una deviazione e una perversione rispetto al vero dettato della religione. Questa considerazione batte in breccia ogni forma di ateismo o ideologismo illuministico che tende a vedere la violenza come un portato proprio di ogni monoteismo, e quindi anche di quello cristiano. Oltre a negare il rapporto di filiazione non solo ideale, ma anche storica e concreta fra cristianesimo e liberalismo. Ma qui il discorso si sposta sul fronte interno dell’attuale guerra, sui nemici endogeni dell’Occidente. Un discorso non meno essenziale dell’altro, ma lo affronteremo un’altra volta.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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