I crimini de l'Ixlam (el nasixmo połedego-rełijoxo)

Re: I crimini de l'Ixlam (el nasixmo rełijoxo contro l'omane

Messaggioda Berto » gio feb 05, 2015 9:37 pm

Il charge d’affaires dell’ambasciata libica presso la Santa Sede chiede scusa per le espulsioni e gli espropri degli ebrei libici
"I Love Libia", pièce autobiografica di un rifugiato ebreo libico è occasione di dialogo e speranza per la riconciliazione


http://www.lastampa.it/2015/01/09/ester ... agina.html


09/01/2015 lisa palmieri-billig (vatican insider)

Il Ministro Mustafa Rugibani, Incaricato D'Affari e Ministro Plenipotenziario dell’Ambasciata Libica presso la Santa Sede, è un diplomatico musulmano la cui fede nella democrazia, l'uguaglianza e la libertà lo ha portato ad opporsi alla dittatura di Muammar Gheddafi. Di conseguenza, ha dovuto vivere in esilio per oltre trent'anni, senza essere potuto tornare in Libia nemmeno per il funerale di suo padre.

Questa settimana al Teatro Argentina di Roma, il Ministro Ragibani ha raccontato la storia della sua vita ad una platea composta da oltre 700 cittadini romani, per lo più ebrei, per lo più di origine libica, per lo più familiari e discendenti dell’esodo di massa del 1967 da Tripoli e Bengasi che seguì alle rivolte, gli omicidi, le espropriazioni e l'espulsione dei cittadini ebrei della Libia.

L'occasione scelta è stata “I Love Libia”, one-man-show autobiografico dello psicologo Junghiano David Gerbi - italiano, libico, ebreo - portato in scena per commemorare la "Giornata della memoria dei profughi ebrei dai paesi arabi".

Nel secolo scorso, circa 800.000 rifugiati arrivarono sulle sponde del Mediterraneo in Italia, in Israele e in altri paesi, in varie ondate migratorie, quando furono espropriati di tutti i loro averi e costretti a fuggire dalle ripetute persecuzioni e dai massacri perpetrati dalle popolazioni arabe, rese inferocite dalla propaganda anti-israeliana e anti-ebraica.

La platea ha potuto ascoltare i calorosi messaggi inviati dal Dott. Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma, e da Naor Gilon, Ambasciatore di Israele in Italia (entrambi in Israele questi giorni). L’Ambasciatore Gilon ha ricordato la generosa accoglienza ricevuta dai profughi libici ebrei in Italia, la loro completa integrazione, e i loro "grandi contributi alla vita economica, sociale, culturale, intellettuale, artistica e scientifica" del loro paese di recente adozione.
Purtroppo, ha ricordato, le antiche comunità ebraiche risalenti ad oltre 2500 anni fa, la cui cultura era anteriore a quella Cristiana e quella Islamica, sono finite in maniera traumatica "nel giro di soli pochi decenni - in Iraq, Iran, Siria, Libano, Egitto, Libia, Tunisia, Marocco...".

Non ci sono ebrei rimasti in Libia, ma le vittime della violenza crescono di numero di giorno in giorno. Nella Libia di oggi le vittime sono i cristiani copti, i musulmani sufi, gli amazigh e le altre minoranze religiose ed etniche, gravemente perseguitate e sottoposte a rapimenti ed omicidi.
Come spesso accade, questi eventi nefasti sono solo l'ennesimo risultato di una crescente spirale di violenza i cui primi segni - i massacri degli ebrei nel 1945, nel 1948 e nel 1967 - furono ricevuti perlopiù con indifferenza nel resto del mondo. Folle di cittadini arabi diedero fuoco alle case ed ai negozi degli ebrei, uccidendo tutti gli uomini, le donne e i bambini che capitavano loro sotto tiro. In seguito, Gheddafi espulse tutti gli ebrei espropriando i loro beni, le loro sinagoghe, i loro cimiteri.
Nel 1969 la Libia è diventata "Judenfrei."


La fiamma millenaria della convivenza pacifica tra i Libici musulmani, cristiani e la minoranza ebraica è stata spenta. Oggi, quarantaquattro sinagoghe vuote e fatiscenti, alcune colme di detriti, restano in piedi in silenziosa testimonianza della fu popolazione ebraica, un tempo comunità fiorente di circa 40.000 anime.

David Gerbi, autore ed unico attore dello spettacolo "I Love Libia" utilizza la sua storia personale di emigrazione, di molteplici identità ed il desiderio di un ritorno alla coesistenza pacifica quale veicolo in cui i sentimenti sommersi della comunità ebraica libica emigrata possano risuonare ed esprimersi, ma anche come simbolo universale delle storie di tutti i profughi nel mondo di oggi. Come libico, italiano, ebreo che ama anche Israele, la sua storia personale diventa la storia di tutti, e tocca sensibilità profonde sollecitando una risposta corale in chi tra il pubblico ha vissuto simili esperienze.

Ed infatti quando durante la narrazione nel Teatro Argentina Gerbi ha recitato dal palco le familiari preghiere, i suoi compatrioti gli si sono uniti a gran voce, partecipando con lacrime, grida e ripetuti applausi.

David Gerbi ha raccontato la sua vita, l'esilio, e una serie di ritorni pieni di emozioni in Libia nel 21° secolo. Nel 2002 ha scoperto che una anziana zia ottantenne, Rina Debash, creduta da tutti morta da tempo, era in realtà l'ultima ebrea superstite in Libia, e che viveva in stato comatoso in un ospizio di Tripoli. Ha ricevuto da Gheddafi il permesso di farle visita. "E' stato un vero miracolo", dice ora. "Era in coma da 35 anni, non reagiva nè diceva una parola a nessuno, ma quando le ho sorriso, l’ho toccata, le ho parlato e le ho dati i fiori ed i cioccolatini da parte di mia madre, e quando ho messo intorno al suo collo una catenina con la stella di David e la parola “sciadai” – il Nome di Dio” -- si è svegliata chiedendomi in lingua araba cosa gli avevo portato; e dopo più di un anno di intensivi negoziati diplomatici internazionali, ho potuto imbarcarla su un volo per Roma per riunirla con i membri superstiti della sua famiglia".

Nel 2011, Gerbi è tornato varie volte a Bengasi e Tripoli per aiutare a curare le vittime della sindrome da stress post-traumatico (PTS), oltre che in qualità di delegato dell'Organizzazione Mondiale degli ebrei libici (WOLJ) e della minoranza Amazigh invitato da Mustafa Abdul Jalil, il presidente del Consiglio Transitorio Nazionale, a far parte del futuro governo democratico della Libia.

Trovandosi a Tripoli durante il periodo del Kippur (la più importante ricorrenza ebraica) si è recato a pregare nella sinagoga abbandonata di Dar Bishi - la sinagoga della sua infanzia. Ma quando ha poi raccolto un badile per ripulire la spazzatura, una folla furiosa gli si è radunata intorno impugnando cartelli e gridandogli «Vattene David", "Qui non c’è posto per gli ebrei o per il sionismo". Era in pericolo di vita.

E’ stata quella circostanza a sigillare la sua amicizia con Mustafa Ragibani, allora Ministro del Lavoro della Libia. Fu Il Ministro Ragibani infatti a fare in modo che David Gerbi potesse ritornare in albergo, contribuendo poi ad organizzare, tramite le Ambasciate dell’Italia e degli USA, un volo militare che lo riportò a Roma.

La presenza del Ministro Ragibani ad "I Love Libia" è stata anche una celebrazione di questa amicizia. Dopo lo spettacolo, ha preso posto sul palco un gruppo composto da Giulio Terzi di Sant'Agata, ex Ministro degli Esteri d'Italia e già Ambasciatore in Israele; Lillo Naman, un esponente della Comunità ebraico-libica di Roma il cui padre Shmuel fondò e costruì nel 1968 la prima Sinagoga ebraica libica di Roma; Roberto Catalano, Direttore per il dialogo interreligioso del Movimento dei Focolari; il Dott. Luigi De Salvia, Segretario Generale di "Religioni per la Pace / Italia"; Cenap Ayden, Direttore dell’Istituto Tevere, centro di dialogo Turco Musulmano; la sottoscritta, in rappresentanza dell’AJC (l'American Jewish Committee); e il Ministro Mustafa Ragibani - rappresentante dell’Ambasciata Libica presso la Santa Sede.

Tutti hanno parlato del messaggio universale e del significato attuale della pièce di Gerbi, della grande importanza odierna del dialogo interreligioso (dimostrata dall’impegno di ogni membro del gruppo), e dell'importanza strategica per il Mediterraneo e per il mondo intero di aiutare la Libia a costruire la democrazia.

Quest'ultimo punto è stato sottolineato in particolar modo dall'ex Ministro degli Esteri Giulio Terzi e ripetuto dal Ministro Ragibani in un appassionato appello per il sostegno italiano ed europeo per combattere la minaccia terroristica e porre fine agli orribili atti di violenza che si susseguono in Libia.

Il Ministro libico ha parlato al pubblico col cuore in mano, emozionando profondamente la platea, la cui diffidenza iniziale alla presenza di un Ministro del Paese che li aveva espulsi, è svanita completamente alla fine della serata.

Ragibani ha voluto chiedere alla comunità ebraica libica emigrata, in nome della Libia, “perdono per le tante sofferenze causate dal mio Paese agli ebrei libici”. Ha aggiunto che "la Libia ha bisogno che i suoi ebrei ritornino, perché il paese ha bisogno del loro aiuto per costruire una nuova democrazia insieme, in cui tutte le minoranze religiose ed etniche possano avere gli stessi diritti". Ha ricordato che David Gerbi ha ricevuto mandato dal WOLJ e dalla minoranza tribale Amazigh a rappresentarli e che gli "è stato chiesto di essere il loro delegato in un futuro parlamento libico appena al paese ritorni la stabilità". Ha ripetuto che il terrorismo islamista è "una grande e crescente minaccia per il futuro della Libia" ed ha chiesto un aiuto maggiore dall’Italia per contrastare questa minaccia. Ha detto che il suo esilio forzato lo aveva sensibilizzato "al dolore duraturo della separazione che provano i profughi ebrei libici". Ha espresso inoltre la forte speranza che la Libia divenga una vera democrazia "con pieni ed eguali diritti per tutte le minoranze".

Quando l'altro ospite musulmano, il Prof. Cenap Ayden, ha ricordato che "speranza" in italiano è "Hatikvah" in ebraico - che è anche il nome dell’inno nazionale di Israele - l'intero auditorium, palco compreso, si sono alzati spontaneamente in piedi per cantare questa ammaliante melodia!

Ragibani, Terzi e gli altri ospiti sono rimasti poi a "spezzare il pane" insieme in segno di amicizia ed hanno partecipato al rinfresco offerto al termine dello spettacolo. Molti pregiudizi e diffidenze sono stati superati, con la speranza (Hatikvah) che questi gesti molto personali possano portare a ulteriori passi di riavvicinamento e di pace, magari attraverso la diplomazia del dialogo interreligioso - riconosciuto anche da Papa Francesco come dal Ministero degli Esteri italiano di importanza strategica nei processi di pace nella situazione mondiale odierna.
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Re: I crimini de l'Ixlam (el nasixmo rełijoxo)

Messaggioda Berto » ven feb 06, 2015 10:08 am

Leje Mancino

http://it.wikipedia.org/wiki/Legge_Mancino

La legge 25 giugno 1993, n. 205 è una norma della Repubblica Italiana che sanziona e condanna gesti, azioni e slogan legati all'ideologia nazifascista, e aventi per scopo l'incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali. La legge punisce anche l'utilizzo di simbologie legate a suddetti movimenti politici.
Emanata con il decreto legge 26 aprile 1993 n. 122 - convertito con modificazioni in legge 25 giugno 1993, n. 205 - è nota come legge Mancino, dal nome dell'allora Ministro dell'Interno che ne fu proponente (il democristiano Nicola Mancino).
Essa è oggi il principale strumento legislativo che l'ordinamento italiano offre per la repressione dei crimini d'odio.
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Re: I crimini de l'Ixlam (el nasixmo rełijoxo)

Messaggioda Berto » sab feb 07, 2015 1:34 pm

La Giordania contro l'Isis, i piloti scrivono sui missili: "Per voi, nemici dell'Islam"

Continuano i raid giordani contro il Califfato: i piloti vogliono vendicare il commilitone arso vivo, mentre re Abdallah si fa fotografare in divisa da aviatore.
Ivan Francese - Ven, 06/02/2015 - 15:31


http://www.ilgiornale.it/news/mondo/gio ... 90498.html


La Giordania prosegue la propria guerra contro l'Isis. Non solo con le armi convenzionali, bombardamenti e raid aerei, ma anche con quelle più sottili della guerra psicologica.

Proprio ieri l'aeronautica giordana ha pubblicato un video su YouTube in cui si propagandano gli effetti dei primi attacchi contro lo Stato Islamico, iniziati dopo la barbara esecuzione del pilota Muath Kasasbeh. Nel filmato si vedono diversi piloti d'aereo, uomini e donne, che scrivono messaggi in arabo sui missili destinati a Isis: con i gessetti scrivono frasi come "Questa è per voi, nemici dell'Islam".

Un altro pilota viene filmato a bordo del caccia mentre mostra un foglio scritto in arabo indirizzato all'Isis e tratto da un passaggio del Corano: "Non pensiate voi malfattori che Dio non sappia ciò che state facendo."

Nel frattempo anche re Abdallah - che ha prestato servizio nell'aeronautica giordana - si è fatto ritrarre in tenuta mimetica, per rinsaldare lo spirito nazionale intorno alla nuova guerra intrapresa dal suo regno. Le voci circolate nei giorni scorsi circa un suo possibile impegno bellico in prima persona sono però state smentite.

La televisione di Stato giordana ha inoltre trasmesso un messaggio per i jihadisti del Califfato: "Scoprirete presto chi sono i giordani.

Questo è solo l'inizio, smetteremo solo quando vi avremo distrutti". Il ministro degli Esteri giordano Nasser Judeh ha dichiarato che i raid aerei proseguiranno sia in Siria che in Iraq e che colpiranno tutti i territori controllati dai terroristi.

L'operazione di rappresaglia contro i terroristi ha preso significativamente il nome di "Operazione martire Muath", che, in un comunicato delle forze armate giordane, si propone di "far pagare gli uomini del Califfato per ogni capello del pilota arso vivo". Dopo la spedizione punitiva sui territori di Isis, i caccia giordani hanno sorvolato in segno di omaggio la città natale di Kasasbeh. I familiari del pilota giustiziato sul rogo, inoltre, hanno ricevuto la visita della regina giordana Rania.

Dallo stato maggiore giordano, peraltro, non si esclude nemmeno l'eventualità di un'operazione militare che coinvolga anche l'impiego di forze di terra. L'emittente araba Al-Jazeera già riferisce di movimenti di unità giordane al confine con l'Iraq: in particolare nella zona della provincia di Anbar, dove più forte sarebbe la presenza dei jihadisti.



Trasformata in scudo umano per farci vacillare -
Gian Micalessin - Sab, 07/02/2015 - 10:47

Il gesto mediatico dell'Isis che accusa la Giordania di aver ucciso Kayla Jean Muller mira a dividere il fronte avversario.
http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 90812.html

Forse già oggi qualche anima bella ci racconterà come la morte di Kayla Jean Mueller sia la conseguenza della risposta eccessivamente bellicosa e violenta della Giordania.

Balle. Kayla Jean Mueller era già morta da mesi. Da quando lo stato islamico ha adottato la sua spietata politica degli ostaggi.

Una politica che non prevede pietà o compassione, ma solo il patibolo preceduto da una cinica e spregiudicata manipolazione del prigioniero. Da questo punto di vista la fine di Kayla Jean Mueller non è diversa da quella del suo connazionale James Foley e degli altri ostaggi ammazzati dall'Isis.

Anche il suo cadavere serve al Califfato e ai suoi agit prop per insinuare la paura nel cuore di un Occidente inerte, radicalizzare la lotta e attirare a se tutti i fanatici islamisti convinti che la «guerra santa» non debba prevedere esclusioni di colpi. Per capirlo basta scorrere il comunicato in cui viene annunciata la sua morte. Leggendolo apprendiamo che sotto le macerie della prigione bombardata dagli aerei giordani è morta solo lei. I suoi carcerieri, gli aguzzini che l'avevano in custodia, sono invece scampati alla morte. Nessun mujahed, spiega infatti il comunicato dell'Isis, è stato ferito o ucciso.

A questo punto tutto è chiaro. Con l'avvicinarsi degli aerei giordani la povera Kayla è stata trasformata da ostaggio a scudo umano.
Un inconsapevole scudo umano abbandonato dentro una prigione senza più secondini e uomini armati.

Uno scudo umano condannato a morire per dimostrare alla Giordania, agli Stati Uniti, all'Europa in genere che colpire l'Isis significa subire contraccolpi difficili da sopportare per il debole stomaco delle democrazie occidentali.
Ma accusare la Giordania di aver causato la morte di Kayla non è solo una scusa per la nostra inerzia.
È anche il segno della miopia di chi ignora i rischi corsi dal regno hashemita. Da quel regno sono usciti oltre 2500 jihadisti diventati miliziani del Califfato. Tra i giovani delle tribù giordane, ormai sempre più svincolati dagli insegnamenti degli anziani e degli sceicchi tradizionali, i proclami del Califfato fanno sempre più adepti.
A Zarqa, cittadina 13 chilometri a nord di Amman, iniziò, del resto, la sinistra parabola del decapitatore Abu Musab Zarqawi il fondatore di quell'«Al Qaida Iraq» ribattezzata Isis dal suo successore Al Baghdadi.

Ecco perché Amman non può limitarsi a piangere il pilota bruciato vivo dall'Isis, ma deve portare alle estreme conseguenze quella lotta che Washington e i suoi hanno continuamente rinviato.
A differenza del Qatar, della Turchia e dell'Arabia Saudita - i nostri finti e infidi amici sempre pronti ad agevolare sottobanco l'Isis e le altre formazioni jihadiste - la Giordania rischia di diventare con Siria ed Iraq la terza nazione bersaglio dell'Isis.
Per questo non può permettersi il lusso di sottostare ai suoi ricatti e alla sue menzogne. Né di adeguarsi alle croniche ed estenuanti esitazioni di noi occidentali.
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Re: I crimini de l'Ixlam (el nasixmo rełijoxo)

Messaggioda Berto » ven feb 13, 2015 8:55 pm

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Re: I crimini de l'Ixlam (el nasixmo rełijoxo)

Messaggioda Berto » dom feb 15, 2015 11:44 am

Silvana De Mari – Nel giorno di San Valentino il mio ricordo di un ragazzo ebreo che per amore finì torturato, mutilato, sgozzato da una banda di islamici a Parigi

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... alimi-.jpg


https://www.facebook.com/MagdiCristiano ... 9435687980

Gentilissima Signora Halimi, oggi è San Valentino e come ogni giorno di San Valentino io penso a suo figlio, e penso a lei. Tutti gli anni a San Valentino penso a lui, Ilan Halimi, ragazzo ebreo francese ucciso il 13 febbraio 2009, dopo essere stato torturato in maniera atroce per 24 giorni da una banda di islamici autodefinitasi con orgoglio la “Banda dei Barbari”, torturato per 24 giorni in un condominio di 11 piani dove tutti hanno finto di non sentire le sue urla. Ci penso il giorno di San Valentino, il giorno successivo a quello della sua morte, perché è una festa un po’ ingenua, che, però, ai ragazzi piace e lui era un ragazzo. Oltretutto nella trappola maledetta è stato attirato da una ragazza, dal sogno di una storia. Ogni anno a San Valentino penso a lui e penso lei, sua madre. Io la porto nel cuore signora Halimi, a suo figlio ho dedicato un libro, che ha un titolo tremendo, La realtà dell’orco.

Per coloro che non conoscono questa storia, i media non ne hanno parlato molto, e quelli francesi ancora meno dei nostri, riporto l’articolo pubblicato sul FOGLIO del 03/07/2010, con il titolo "Auschwitz a Parigi", di Alessandro Schwed, che racconta l'assassinio di Ilan Halimi, dopo l'uscita in italiano del libro "24 giorni, la verità sulla morte di Ilan Halimi".


Finalmente esce in Italia per Salomone Belforte, antica casa editrice ebraica, il libro che racconta uno dei più atroci casi del presente antisemita: “24 giorni, la verità sulla morte di Ilan Halimi”. Quasi un diario postumo del rapimento, narrato dalla madre di Ilan, Ruth, ebraica mater dolorosa, la cui voce è rielaborata con discrezione da Emilie Freche. Ne esce un racconto in prima persona del rapimento del figlio, della sua disumana prigionia, della ferocia delle trattative. 20 gennaio, 13 febbraio 2006: ventiquattro giorni in cui Ilan “vive” nell’appartamento-mattatoio di un gruppo di orchi metropolitani che battono bandiera nazi-islamica, che leggono documenti di Hamas, sono in cerca di soldi facili e facile sangue juive. Intorno, una Francia inerte e complicemente sorda. E allora, c’è Ilan, sefardita parigino di ventitré anni, la famiglia di origine marocchina e di modesta condizione. Vivono in tre stanze di un quartiere popolare misto dell’est parigino. Lui fa il commesso in un negozio di telefonia della banlieue, sul boulevard Magenta. La banda di rapitori lo individua come ebreo, dunque un ricco da sequestrare. Lo sceglie dopo un tentativo analogo e a vuoto con un altro ebreo, dunque ricco e da sequestrare anche lui, che fa il commesso nello stesso negozio. Scatta il sequestro. Una bella ragazza bruna travestita da cliente entra nel negozio e prende al laccio Ilan. Ne scaturisce un appuntamento. Si incontrano di sera, a un bar. La ragazza dice di andare da lei per un ultimo bicchiere. Lasciano la macchina vicino alla facoltà Jean Monnet, a Sceaux. Camminano nel parco dell’edificio universitario. Si saprà che a un certo punto lei pronuncia la parola “chiave” e dai cespugli sbucano tipi col passamontagna, e saltano addosso a Halimi. Il sequestro ha inizio.
Sono ventiquattro giorni di inutili trattative. La famiglia è povera, la polizia contraria a trattare e convinta di intrappolare i rapitori. Il ragazzo intanto è in manette, la bocca incerottata. Poi nudo, con profondi tagli di coltello sul volto, nutrito con una cannuccia; fotografato simulando una violenza col manico di una scopa, in modo da terrorizzare la famiglia. Da ultimo, il capo-banda Fofana lo mette in un sacco e lo porta in un bosco. Qui lo accoltella ripetutamente, recide la carotide, inonda il suo corpo con una tanica di benzina, lo dà alle fiamme. Pare che Ilan avesse gli occhi scoperti e lo fissasse. Il corpo testardamente in vita viene lasciato lungo dei binari.
Prima di questo, una distrazione di ventiquattro giorni: la sordità del grande condominio dove si trova la prigione di Ilan, l’apatia della polizia, l’incomprensibile negazione dell’evidenza da parte della procura, la smisurata assenza della classe politica. Da ultimo, la cronaca al silenziatore dei media, che raccontano la morte di Ilan come un normale episodio di cronaca nera, alla stregua di un pieno di benzina, finito invece che in una macchina sopra il corpo di un ebreo marocchino. Cose di tutti i giorni in una megalopoli – e ognuno e tutti, lo Stato e i media, tesi a smorzare lo sputtanante orrore nel cuore del paese. I rapitori sono la cosiddetta Banda dei Barbari, originari della Costa d’Avorio. Vestono trendy, da rapper, come in un fumetto iperrealista.
Al processo, conclusosi con l’ergastolo al capobanda Youssouf Fofana, l’omicida entra in aula urlando che Allah vincerà. Alla domanda di prammatica di quando e dove lui sia nato, l’imputato risponde ieratico di essere nato nel giorno e nel luogo dell’omicidio: “Il 13 febbraio 2006, a Sainte- Geneviève-des-Bois”. Se da una parte il rapimento di Ilan traccia il profilo di un antisemitismo tribale per cui gli ebrei sono Israele e Israele gli ebrei, e tutti gli ebrei da abbattere, dall’altra il sequestro di Halimi avviene in una inquietante assenza del potere politico e mediatico, paurosamente girato da un’altra parte, mentre gli ebrei lasciano la Francia. I “pacifisti” negano che tale fenomeno sia in atto, dicono che è una menzogna lanciata da Ariel Sharon e da lui ritirata (ti pareva non fosse colpa sua anche questo). Ma se uno si legge il libro e come si sviluppi la continuata assenza di indagini vere sul rapimento di Ilan, il clima corrisponde esattamente a una situazione dove esistono due giungle sovrapposte, in mezzo alle quali vivono, credo con una certa apprensione, gli ebrei francesi: da una parte una giungla antisemita con aggressioni islamiste a chi porta la kippà, poi le sinagoghe imbrattate e talora incendiate, i cimiteri violati; dall’altra la giungla di uno Stato semigirato da un’altra parte, sospettabile di reticenze e manipolazioni.

Andiamo al punto, il caso raccontato nel libro su Ilan. Intanto, nel corso di quel rapimento i criminali – già denunciati per tentati sequestri di altri cinque ebrei e niente affatto indagati quanto al rapimento di Halimi, passeggiano spudoratamente impuniti nel quartiere dove tengono il prigioniero; secondo, appena emerge che Ilan è ebreo, ma ci vogliono tre giorni, il comandante della polizia minimizza il possibile movente antisemita con l’umile famiglia nordafricana, masticata da un razzismo al cubo, sia tribale che educatamente locale. E da questo inizio, vediamo la solitudine ebraica di una famiglia ebraica di origine marocchina – fragilità nella fragilità. Tra gli psicologi della polizia, i commissari, i magistrati, nessuno fa alcunché. E’ sciopero generale contro gli umili. E dunque, che gli Hilami siano ebrei, è giudicato ininfluente. Nella vantata società multietnica francese, gli ebrei sono ombre, gli ebrei marocchini, ombre di ombre. Esagerazione?

Vediamo l’indagine, dettagliatamente descritta dal libro: la polizia sa che poco tempo prima i rapitori di Ilan hanno tentato, a Parigi, non in Alaska, analoghi sequestri di medici ebrei, adescati anche loro da donne che conducevano le vittime dai rapitori – l’indizio, macroscopico, è ignorato come se negli archivi non esistesse una memoria delle indagini, i nomi dei criminali. Eppure, a suo tempo, la polizia ha schedato i criminali, esistono foto segnaletiche, c’è una denuncia nei loro confronti, la magistratura li indaga. Non basta: a causa dei tentati sequestri ebraici precedenti, dicasi ebraici, i rapitori di Ilan sono stati recentemente ospiti nelle celle dei commissariati dove la loro detenzione non è ricordata, e infatti non si sa a cosa servano gli schedari. Non basta ancora: quando ha inizio il rapimento di Halimi e vengono disegnati gli identikit, prima quello della donna adescatrice, poi del messaggero che invia tutte le sgrammaticate email sempre dai numerosi internet bar del quartiere (la prima, sadicamente firmata col cognome sacerdotale di Cohen), gli identikit non sono mai trasmessi ai commissariati locali; né avviene un riscontro sulle liste- viaggiatori delle compagnie aeree che operano tra Parigi e la Costa d’Avorio, da cui provengono le chiamate del capo-banda su un cellulare “pubblico” di uso comune in quel paese. Sarebbe bastato, penserà la madre di Ilan nel doloroso dopo, vagliare le liste dei viaggiatori e il cognome di Youssouf sarebbe emerso: piccolo criminale, accento africano, vive a due passi, è schedato. Questo sarebbe bastato, pensa Ruth, e adesso suo figlio sarebbe vivo. Invece, mentre le trattative si prolungano goffamente inutili, allo scopo mai raggiunto di intrappolare i rapitori, per venti giorni Ilan è nel mattatoio con il corpo a disposizione degli orchi. Fa freddo, e viene tenuto nudo. E’ stato totalmente rasato – cioè privato di identità. Gli occhi e la bocca sono incerottati. E’ coperto di tagli, inciso come i cadaveri alla facoltà di medicina, solo che è vivo. Nel grande condominio di Parigi, i rapitori sono a proprio agio. Grazie a un accordo col portiere in cambio di qualche migliaio di euro, sono installati in un appartamento vuoto. Qui, di giorno e di notte, “in mezzo” a centinaia di inquilini, Ilan viene sfregiato, gli spezzano le dita. E sulle scale, in ascensore, nessuno sente. Più tardi si verrà a sapere che le grida erano altissime. Intanto, probabilmente, la funzione reale della polizia non è trovare Ilan, ma insonorizzare l’accaduto e gestire la semplicità di una povera famiglia marocchina. Lungo le tre settimane, i due psicologi della polizia messi per fini pedagogici alle spalle del padre di Ilan – sempre al telefono coi rapitori – dirigono la trattativa come un ventriloquo che dia la voce a un pupazzo. Il solo fine, gli ripetono robotici, è che i sequestratori riconoscano chi è il più forte, e lui, ammaestrano, è chiaramente il più forte. E ciò, sino a smarrire la sola esigenza della famiglia – che il ragazzo rimanga vivo. Infatti, morirà. E grazie al protrarsi della trattativa a vuoto, morirà in una lunga macellazione progressiva.

???Quanto alla matrice “ideologica” del sequestro non è antisemita, spiega il procuratore della Repubblica ai familiari di Ilan, in una demenziale lezione a degli ebrei su cosa sia l’antisemitismo – i cui familiari nel frattempo non solo ricevono dai rapitori decine di email antisemite, ma sentono al telefono le urla di Ilan a cui viene bruciata la pelle, mentre una voce recita versi del Corano. I rapitori, spiega kafkianamente il funzionario, non possono essere antisemiti dato che “si trovano al grado zero del pensiero”.???

Questo leggiamo, domandandoci se allora i nazisti non si siano resi conto di che stessero facendo perché leggevano troppo. Eppure, è così: nella città dove il popolo ha assaltato la Bastiglia in nome di una società più giusta, regna il fallimento della Storia. Tutto questo ci parla. E’ come se l’uscita italiana del libro, nella sorvegliata traduzione di Barbara Mella, Elena Lattes e Marcello Hassan, sia reclamata dall’urgenza della cronaca antisemita dopo il boicottaggio delle Coop, dopo l’incidente della flottiglia e la successiva perdurante aggressione antiebraica di media e “pacifisti”, che ristagna nei social forum della rete, al grido di “voi ebrei”, “genocidi” e, naturalmente, “nazisti”.
In realtà, oltre alla realtà delle indagini a vuoto della polizia, alle trattative a vuoto coi rapitori, oltre a Ilan, ostaggio dei criminali, oltre ai suoi cari, anche loro come ostaggi ma della polizia – la quale non indaga, non vuole che si tratti e ha la pretesa di far fallire la trattativa – oltre dicevo a questa desolazione, si vede il pericolo di essere ebrei in una città francese che potrebbe essere olandese o tedesca: con gli ebrei attaccati perché girano con la kippà, le sinagoghe imbrattate, e talora date alle fiamme, i loro cimiteri profanati. E se qualcuno pensasse che siamo di fronte a un crimine antisemita – osserva Bernard- Henri Lévy in un suo veemente articolo apparso sul Corriere della Sera nel luglio 2009, poco prima della sentenza (articolo posto in apertura del libro) – questo qualcuno bada solo a togliersi l’idea dell’antisemitismo da davanti agli occhi.
Eppure, come nel corso di una guerra invisibile di cui si sente il rombo, tali possono essere le condizioni ebraiche nell’Europa multietnica. Giulio Meotti del Foglio scrive nella sua nitida introduzione che Ilan Halimi fu prigioniero in un campo di concentramento fatto in casa. E nelle prime pagine, Pierluigi Battista, editorialista del Corriere, ricorda un episodio di qualche anno fa, quando il ghetto di Roma fu messo sotto assedio da una manifestazione filo-palestinese in cui dei manifestanti si erano camuffati da “martiri”, con finte cinture di esplosivo. “… Cordoni di polizia erano schierati a difesa degli ebrei (…) il valore simbolico dell’assedio a quelle stesse case che avevano conosciuto l’infamia del rastrellamento e della deportazione del 16 ottobre del ’43, passò quasi inosservato. Quella volta, confesso, un po’ mi vergognai di essere italiano”.
Di questo, parla “24 giorni”: della saldatura strisciante tra l’Occidente e la società multietnica, contra iudeos: alleanza tra islamismo e media, islamismo e un quartiere, tra un mondo che elettoralmente pesa e la polizia, il governo, le istituzioni. Halimi non è stato semplicemente sacrificato da una banda naziislamica, nel cuore del XIX arrondissement: è morto in piena Francia, senza che nessuno ci facesse caso. Quanto ai media, a una certa omertà sociale verso l’islamismo, ci viene in soccorso un suggerimento su Facebook di Vanni Frediani da Israele, che rielaboriamo così: la casta culturale e politica che per anni ha utilizzato l’esistenza dell’Urss come contrappeso generale alla visione americana oggi ha intimamente sostituito l’Urss con l’Iran. Tale è la vertigine del mondo alla rovescia. Tuttavia non basta. Il libro scoperchia la verità quando i rapitori interpellano un rabbino perché trovi i 450.000 euro del riscatto con l’aiuto della comunità ebraica. Allora, il rabbino racconta, senza fare i nomi, un analogo caso di sequestro ebraico, risolto in modo incruento, probabilmente grazie all’esborso del riscatto. E la verità esplode come una polveriera con la semplice domanda su quante volte sia accaduto in modo sommerso e impaurito ad altri ebrei francesi di vivere pressioni, ricatti, oltraggi mai confessati o venuti a galla, nella Francia degli ultimi anni – la Francia, dico, la nazione da cui gli ebrei stanno andandosene nel silenzio d’Europa – dove molti dicono che non è vero, gli ebrei francesi stanno benissimo. Quando giunge l’ora tremenda di Ilan Halimi, la madre, Ruth della Francia ebraica, si sveglia nella notte con un soprassalto. Il cuore le tambureggia la verità: il suo agnello è stato sacrificato. Fuori, il silenzio della megalopoli è un potere occulto. Quando la banda abbandona il covo perché arrivano i veri inquilini, e a notte fonda deve traslocare a qualche centinaio di metri, e per le strade si snoda una placida processione che in un sacco reca in spalla il corpo tagliuzzato di Ilan – Parigi dorme. Il branco passeggia per la periferia deserta, Ilan viaggia gettato in spalla al capo degli orchi. Sono le quattro del mattino, e dalle finestre, dagli incroci, da una macchina che sarà pure passata, nessuno vede niente. Così come nessuno vedeva che dalle ciminiere di Auschwitz uscisse cenere o sentiva come l’aria fosse satura di quell’odore. L’ignoranza dei fatti non venne esibita durante il nazismo, ma dopo. Quando tutti sentimmo dire: non sapevo. Era la solita distrazione.
E dato che per Ruth i ventiquattro giorni del rapimento dureranno tutta la vita, vorremmo farle un poco compagnia. E con lei riconsiderare i fatti attraverso quelle sue domande sempre più stanche e senza risposta; e come lei ha dovuto aspettare il momento fatale, quasi passivamente, in taluni momenti anche a noi sembra che siamo qui ad aspettare una sconosciuta ora nefasta. “24 giorni, la morte di Ilan Halimi” è un libro-bomba a orologeria, leggiamo e intanto il contenuto sta per scoppiare. Tuttavia. La mattina del 13 febbraio 2006, a scorgere il corpo di Ilan che rantola lungo la ferrovia dove è gettato come una lattina vuota, è una donna francese di colore che si ferma mentre sta andando in macchina a lavorare. Telefona alla polizia, sta con Ilan che in un certo senso è vivo. Gli tiene compagnia sino all’arrivo dei soccorsi. Nel mondo non c’è solo odio.

L’articolo è lungo, ma vi prego leggetelo. Lo dobbiamo a questo ragazzo, lo dobbiamo a sua madre, e lo dobbiamo a noi, che non siamo Eurabia e non lo diventeremo. La folle storia di Ilan Halimi non è un crimine islamico, è un crimine eurabico, un crimine di Eurabia. Il non trovarlo è stato un crimine, il non cercarlo nemmeno è stato un crimine, il non mostrare le foto del suo corpo torturato fatte dagli stessi torturatori, il non compiangerlo, il non ricordarlo, il non andare tutti al suo funerale, tutti, gente comune e capi di stato.

Je suis Ilan Halimi.

Le mie condoglianze signora. Sto pregando per suo figlio e per lei. È tutto quello che posso fare, ma questo lo posso fare e per nulla al mondo rinuncerei a farlo. Sto pregando perché gli orchi si fermino e che gli uomini d'onore risorgano e ritrovino il coraggio.

Je suis Ilan Halimi.

Je ne suis pas Eurabia.

Io non sono Eurabia, e non lo sarò mai.

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Re: I crimini de l'Ixlam (el nasixmo rełijoxo)

Messaggioda Berto » dom mar 15, 2015 11:40 am

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La via egiziana per sconfiggere i terroristi islamici: far prevalere l’identità laica dello Stato e lo spirito nazionalista

Giancarlo Matta
https://www.facebook.com/MagdiCristiano ... 6722454918

I Copti sono alleati preziosi di “contro-jihad” in quanto autentici egiziani autoctoni, pertanto legittimi discendenti delle antiche dinastie faraoniche e sperimentatori , vittime e testimoni della oppressione islamista gravante sulla loro terra dalla metà del VII Secolo.

Attualmente in Egitto vivono circa settanta milioni di musulmani e dodici milioni di cristiani (Copti). Questi ultimi non hanno vita facile nel loro Paese.

Oggi si delinea forse una nuova figura di Capo egiziano il quale, lungi dal perseguire le ambizioni tiranniche e barbare dell’islam, “gli allori ne sfronda e alle genti svela di che lacrime grondi e di che sangue” … È un patriota ?
Devo alla attenzione del presidente e portavoce della folta e ottimamente integrata Comunità Copta torinese, Sherif Azer, se quanto detto dal Presidente egiziano in carica, Abdel Fattah al-Sisi il ventotto dicembre dello scorso anno presso la Università cairota di Al-Azhar (discorso che ha destato in Occidente e in Italia ben poca attenzione) ci giunge (ben tradotto da S. Azer) nel suo senso sostanziale :

“Dovremmo forse uccidere sette miliardi persone? L'islam non può odiare tutti…”
“Siamo al punto che questa ideologia è divenuta ostile al mondo intero. Come è possibile che la religione islamica sia percepita come fonte di ansia, pericolo, morte e distruzione dal resto del mondo? L’islam ha bisogno di una rivoluzione per estirpare il Jihad (...).”


Ecco poi quanto ha detto pochi giorni dopo, precisamente il 6 gennaio di quest’anno durante la sua visita ufficiale alla Cattedrale Copta di San Marco al Cairo (visita che MAI prima alcun capo egiziano aveva compiuto: siccome la legge islamica vieta di presentare auguri ai non musulmani particolarmente in ambito delle loro celebrazioni religiose e in osservanza ad essa tutti i precedenti presidenti egiziani Nasser, Sadat, Mubarak, e naturalmente Morsi, MAI seguirono la messa del natale dei Copti):

“Per millenni l’Egitto ha portato un messaggio umanistico e civilizzatore al mondo, e siamo qui oggi per confermare che siamo in grado di fare così di nuovo. Sì: un messaggio umanistico e civilizzatore dovrebbe emanare di nuovo dall’Egitto. Noi dobbiamo chiamarci vicendevolmente nient’altro che “egiziani”. … Felice Anno a Voi tutti, a tutti gli Egiziani!”

Forse dagli sviluppi della situazione egiziana, dalle scelte e dal comportamento della sua attuale dirigenza autocratica “illuminata”, potrebbero derivare conseguenze assai sgradite agli islamisti.
E’ pur vero che il poco noto al-Sisi era stato nominato Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate da Morsi: quindi si potrebbe ritenere che fosse (e che ancora sia?) un “vero islamico”. E che abbia liquidato il suo superiore semplicemente per ambizioni personali di potere.
Allora : al-Sisi è un “duro” che si finge “moderato” o un “moderato” che è costretto, se vuol sopravvivere, a fare il “duro” ?
Purché, a torto o a ragione, il presidente egiziano ora al potere non sia un “tisico in terzo grado” dentro quel calderone infernale di violenza islamista che è complessivamente il Nord-Africa.

E che non gli preparino la fine tragica di uno dei suoi predecessori, Sadat. Vedremo.
Per le male-intenzionate potenze islamiste principali (Arabia Saudita e Iran: “Stati-Canaglia”) ora al- Sisi potrebbe rappresentare -pur indirettamente- il principio della fine.

I conti saranno regolati, per ciò che riguarda l’Occidente, tra quelle e : USA, Gran Bretagna, Francia.
Noi italiani, secondo il solito, staremo probabilmente a guardare.
Tuttavia, chissà, per questa volta almeno, essere i “fanali di coda” del Mondo Libero potrebbe rivelarsi posizione privilegiata.

Noi praticamente non abbiamo grossi “panni sporchi” coloniali, non abbiamo passati di sfruttamento verso “territori d’oltre mare”, non abbiamo armato “movimenti di liberazione” a casa altrui… . (In compenso abbiamo, oltre ai filo-arabi di democristiana memoria, molti fifo-islamici… )
E potendo ora assistere alla diffusione della piaga sociale islamista all’interno di quelle pur evolute e “LIBERE” Società, abbiamo modo di vedere o meglio di guardare con attenzione come faranno poi i loro dirigenti a liberarsene. (Per poterlo fare, potrebbero. Ammesso che lo vogliano.)
La Nemesi storica a carico della resuscitata barbarie islamista del XXI Secolo forse uscirà dall’Egitto, dove ancora durante gli anni Sessanta moltissime ragazze e donne passeggiavano tranquillamente indossando la minigonna e le magliette attillate.


Eretica, Ayaan Hirsi Ali torna a far discutere: “L’Islam va riformato: non è una religione di pace”
di Davide Turrini1 luglio 2015
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/07 ... ta/1832163

“La religione islamica è a un bivio – scrive l'ex deputata olandese – I musulmani, non a decine o a centinaia, ma a decine e centinaia di milioni, dovranno decidersi consapevolmente ad affrontare, dibattere e in ultima istanza respingere gli aspetti violenti contenuti nella loro fede”

L’Islam non è una religione di pace e per questo va riformata. Lo spiega in un ficcante e denso saggio “illuminista” – Eretica – Cambiare l’Islam si può (Rizzoli) – l’ex deputata olandese di origine somala, oggi giornalista, Ayaan Hirsi Ali. La 46enne che collaborò anche con l’artista Theo Van Gogh, ucciso da un estremista islamico ad Amsterdam nel 2004, si è gettata a capofitto nel tema a lei più caro: la violenza e la brutalità insita nei versetti coranici trasformata in dettame politico della quotidianità di molti stati islamici, nonché di una fetta di musulmani che in nome del Corano decapitano e uccidono in mezzo mondo.

Già nella precedente autobiografia – Infedele (2007) – aveva raccontato la sua storia di ragazzina somala ricoperta fino alla punta del naso con hijab, guantini e attivista dei Fratelli Musulmani, prima di migrare in Europa e negli Usa. Ora, però, non è più tempo dell’epica del passato o della sensibilizzazione sull’oppressione della donna nel mondo islamico: “Senza la radicale alterazione di alcune delle concezioni fondamentali dell’Islam, non potremo risolvere lo scottante e sempre più globale problema della violenza politica perpetrata in nome della fede”, spiega la donna. Ed è un parlare fuori dai denti, nella speranza che qualcuno la segua in questo ribaltamento organico del dogma criticato: “È sciocco dire, come fanno spesso i nostri leader politici occidentali, che le azioni violente degli islamisti radicali possano essere separate dagli ideali religiosi che li ispirano. Dobbiamo invece riconoscere che tali azioni sono mosse da un’ideologia politica, un’ideologia insita nello stesso Islam e nel suo libro sacro, il Corano, come pure nella vita e negli insegnamenti del Profeta Maometto, contenuti negli ahadith”. Tra l’altro, Eretica è un libro, a detta proprio dell’autrice, che vuole scuotere anche molte certezze dei liberali occidentali, quelli che l’hanno accusata di “islamofobia” e che le hanno revocato una laurea ad honorem nel 2014 all’università Brandeis negli Usa: “Cerco di mettere in discussione l’idea, quasi universalmente condivisa tra i liberali d’occidente, che la motivazione per la quale sempre più musulmani si stiano unendo alla frange più violente dell’Islam, risieda nei problemi economici e politici del mondo musulmano.

Ciò significa attribuire un’importanza eccessiva a forze esogene, come la politica estera occidentale”. L’ex deputata scrive dopo l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo, dopo le stragi di Parigi, in Nigeria, in Australia, i morti in Danimarca, tanto che nella prima pagina del libro, quando lascia spazi bianchi tra le righe di un simil lancio d’agenzia che descrive un attacco terroristico islamico sembra di scorgere tutte quelle funeste tappe appena passate, ma anche le più vicine, tragiche e recenti avvenute in Tunisia e nel sud est della Francia: “Dopo gli attentati a Parigi il portavoce della Casa Bianca si è dato gran pena di distinguere tra una “religione pacifica” e i “messaggi violenti ed estremisti dell’ISIL (…) ma se la premessa fosse sbagliata? Perché non sono solo Al-Qaeda e l’IS a mostrarci il volto efferato della fede e della pratica dell’Islam” – spiega Ayaan Hirsi Ali. E via con tutti quegli stati come il Pakistan (“dove la blasfemia è punita con la morte”); l’Arabia Saudita (“dove chiese e sinagoghe sono considerate fuori legge e la decapitazione è una pena come le altre al punto che nell’agosto 2014 ce n’è stata una al giorno”); all’Iran (“dove la lapidazione è considerata accettabile e e gli omosessuali vengono punti con l’impiccagione”) e il Brunei (“dove il sultano sta reintroducendo la sharia e la pena di morte per gli omosessuali”).

Tre le categorie di musulmani distribuite in percentuali differenti tra stati islamici e non, l’autrice ne delinea tre: i “musulmani di Medina”, “i musulmani della Mecca” e i dissidenti, “i musulmani in trasformazione”. I primi, non proprio un’irrisoria minoranza (“48 milioni”) sono quelli “che considerano un dovere religioso l’imposizione con la forza della sharia e sono a favore di un Islam immutato rispetto a ciò che era nel settimo secolo”; i secondi “la netta maggioranza”, quelli “che vivono uno stato di difficoltosa tensione con la modernità” e che stando in Occidente dove l’Islam è una religione minoritaria vivono quello che “si potrebbe definire uno stato di dissonanza cognitiva”. Ed è con questi ultimi che i musulmani “in trasformazione”, gli eretici di cui Ali dice di far parte, vorrebbero dialogare. Cinque i punti della riforma sui precetti religiosi che la scrittrice mette sulla pubblica piazza: “Le personalità religiose dell’Islam devono riconoscere che il Corano è solo un libro; devono ammettere che tutto ciò che facciamo nella nostra vita terrena è infinitamente più importante di qualunque cosa possa accaderci dopo la morte; che la sharia ha un ruolo circoscritto ed è subordinata alle legge delle nazioni in cui il musulmano risiede; devono porre fine alla pratica di imporre per legge ciò che è giusto e ciò che è sbagliato che infligge il conformismo a spese della modernità; devono respingere in toto il concetto di jihad inteso alla lettera come chiamata alle armi contro i non musulmani e musulmani considerati eretici o apostati”.

“L’Islam è a un bivio – conclude l’autrice – I musulmani, non a decine o a centinaia, ma a decine e centinaia di milioni, dovranno decidersi consapevolmente ad affrontare, dibattere e in ultima istanza respingere gli aspetti violenti contenuti nella loro religione”. Un processo che per essere realizzato ha bisogno di una leadership di dissidenti “con il sostegno degli stati occidentali”: “Immaginiamo cosa sarebbe cambiato se durante la guerra fredda l’Occidente avesse dato appoggio non ai dissidenti dell’Est europeo – come Havel e Walesa – ma all’Unione Sovietica, in quanto rappresentativa dei comunisti moderati”.
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Re: I crimini de l'Ixlam (el nasixmo rełijoxo)

Messaggioda Berto » ven set 25, 2015 9:54 pm

TERRORISMO ISLAMICO: NUOVA GUERRA CONTRO BLOGGER E SCRITTORI. INTERVISTA ESCLUSIVA A MAGDI CRISTIANO ALLAM
Di Claudio Gori, direttore di http://www.irog.it

https://www.facebook.com/MagdiCristiano ... 80866891:0

Il terrorismo di stampo islamico sembra aprire nuovi scenari, precedentemente non immaginabili ma praticabili con estrema rapidità da killer senza scrupolo o valore per l’altrui vita.
Lunedì sera sono stati arrestati in Bangladesh tre sospetti terroristi islamici che hanno contribuito all’omicidio brutale di quattro giovani blogger nel 2015:

Avijit Roy, ucciso a Dacca con coltelli e machete, la sera del 26 febbraio 2015; era giunto per una fiera libraria in cui presentare due saggi di suo pugno, “Biswaser Virus” (“Il virus della fede”) e “Sunyo theke Mahabiswa” (“Dal vuoto al grande mondo”), in contrasto con alcune posizioni islamiche; fondò il blog “Mukto-Mona” (“Libera mente”; https://mukto-mona.com/) con contributo di attivisti e intellettuali del sud-est asiatico, a favore della libertà di espressione e pubblicazioni concettualmente atee;

Washiqur Rahman, ucciso il 30 marzo 2015 a Dacca con mannaie e coltelli in una strada affollata, mentre si recava al lavoro in una agenzia turistica; un “free thinker” che ha pagato con la vita le sue pubblicazioni contro l’intolleranza religiosa e islamica; era solito bloggare sotto lo pseudonimo Kucchit Hasher Channa, or Ugly Duckling (Brutto Anatroccolo);

Ananta Bijoy Das, bengalese ucciso il 13 maggio 2015 a colpi di mannaia mentre andava al lavoro in località Sylhet; aveva ricevuto più volte minacce da fondamentalisti islamici e scriveva sul blog Mukto-Mona, fondato da Avijit Roy;

Niloy Neel, ucciso il 7 agosto 2015 a Dacca con colpi di machete nella sua abitazione nella provincia di Goran; una voce forte contro l’estremismo religioso e islamico, soffocata con efferatezza da sospetti militanti islamici in Bangladesh.

Una escalation di omicidi a sfondo religioso che potrebbe essere inarrestabile e contagiosa, anche fuori dai confini del territorio asiatico.
Secondo la CNN, il gruppo militante Ansarullah Bangla ha pubblicato una lista di nominativi di blogger e scrittori da colpire a morte, anche in Europa e Nord America. La lista conterrebbe i nominativi di nove persone nel Regno Unito, otto in Germania, uno in Svezia ed uno in Canada.

Lo scorso anno Reporters Without Borders ha affermato che un gruppo in azione e sotto il nome di Islam Bangladesh di Al di Ansar ha pubblicato una lista degli scrittori che hanno assunto posizioni contrarie all’islam: alcuni sono stati uccisi, altri hanno subito tentativi di attacco fisico alla persona.

Lo scorso mese le forze di polizia del Bangladesh avevano arrestato altri membri ritenuti appartenenti al gruppoAnsarullah Bangla: uno era cittadino britannico e coinvolto negli omicidi dei due blogger Avijit Roy ed i Anant Bijoy Das.

L’Italia non crediamo sia esente da eventuali simili pericoli; questo pomeriggio abbiamo intervistato telefonicamente Magdi Cristiano Allam che ben conosce le realtà nazionali e internazionali in materia di integralismo islamico e persecuzione.

In esclusiva abbiamo ricevuto risposta.

Magdi Cristiano Allam, una nuova forma di guerra islamica è in atto contro blogger e scrittori, tacciati di blasfemia in quanto contrari alla fede islamica. Lei, molto impegnato giornalisticamente e in letteratura, quanto si ritiene seriamente minacciato o teme per la sua vita?
“Io sono stato condannato a morte da Hamas nel 2003, da allora lo Stato Italiano mi ha sottoposto a regime di scorta; io vivo con la scorta. Non c’è paura, credo nella missione che adempio. Dobbiamo avere la capacità e il coraggio di affermare la verità e vivere in libertà in casa nostra. Sono certo che la maggioranza degli italiani la pensa come me, quindi mi sento confortato e incoraggiato ad andare avanti. Il problema si pone, invece, per le persone che vivono nei paesi islamici come il saudita Raif Badawi. Per loro la situazione è diversa perchè sono nelle mani di aspiranti carnefici che condannano a morte chiunque dal loro punto di vista oltraggia l’islam e il Corano. C’è una battaglia di libertà che dobbiamo sostenere ed è la libertà di criticare delle idee, delle religioni, senza che ciò si traduca in un reato o apologia di razzismo nei confronti delle persone. Bisogna distinguere tra persone e religioni: le religioni possono essere legittimamente criticate, contestate o condannate mentre le persone vanno rispettate”.

Lei ha pubblicato recentemente il libro “ISLAM SIAMO IN GUERRA”, il contenuto è riferibile ad una sua “missione”?
“Ho voluto chiarire che noi siamo a tutti gli effetti in una guerra che non dobbiamo dichiarare: è una guerra che stiamo subendo; una guerra promossa da terroristi islamici di tagliagole che sgozzano, che decapitano e massacrano. Una guerra sferrata da terroristi islamici che ci impongono di non dire, non fare nulla che possa essere considerato come offensivo dell’islam. Attraverso l’edificazione di moschee, attraverso enti assistenziali, finanziari ed economici hanno costruito all’interno di casa nostra una roccaforte islamica, che a tutti gli effetti è un cavallo di troia che finirà per sottometterci. Ho voluto ricordare, nella copertina del mio libro, quanto detto da un alto militare islamico turco ‘Grazie alle vostre leggi democratiche noi vi invaderemo, grazie alle nostre leggi religiose noi vi domineremo’. Questa è la strategia di islamizzazione da parte di quelli che normalmente vengono considerati mussulmani moderati”.

Un’ultima domanda: Lei pensa che la minaccia terroristico-islamica contro blogger e scrittori possa giungere a breve anche in Europa e in Italia?
“E’ una ipotesi reale che i movimenti islamici, cosiddetti moderati e capeggiati dai fratelli mussulmani che si presentano con sigle diverse nei diversi paesi, stanno operando in modo intenso per codificare il reato di islamofobia, dove per islamofobia si intende il divieto di criticare l’islam come religione; considerare l’islamofobia come una nuova forma di razzismo: si vorrebbe ritenere che, così come è razzismo, ad esempio, condannare i neri in quanto neri, sarebbe razzismo condannare l’islam in quanto religione. C’è una impropria, indebita sovrapposizione tra la dimensione delle idee e quella delle persone, ma soprattutto c’è una sorta di immaginazione che l’islam possa fare eccezione in un contesto dove chiunque può legittimamente criticare il cristianesimo, il comunismo senza che ciò dia adito a condanne di razzismo. Loro vorrebbero che questo si attui solo nei confronti dell’islam”.
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Re: I crimini de l'Ixlam (el nasixmo rełijoxo)

Messaggioda Berto » dom set 27, 2015 9:32 pm

Yazidi alla Corte Penale Internazionale contro ISIS
By Rights Reporter -
set 24, 2015
http://www.rightsreporter.org/yazidi-al ... ontro-isis

Due gruppi Yazidi hanno consegnato oggi alla Corte Penale Internazionale alcuni documenti che provano i reati di genocidio e di riduzione in schiavitù commessi dai miliziani del ISIS. Lo rende noto la AFP.
«I miliziani del ISIS hanno commesso gravi atrocità contro gli Yazidi» ha detto alla AFP Murad Ismael, leader di uno dei due gruppi Yazidi «tra questi quelli di genocidio, riduzione in schiavitù e stupro etnico-religioso, reati che rientrano nella competenza della Corte Penale Internazionale».
Qualche mese fa a una precisa domanda il Procurare Generale della Corte Penale Internazionale, Fatou Bensouda, aveva detto che la Corte non poteva perseguire i terroristi del ISIS in quanto né la Siria né l’Iraq erano firmatari dello Statuto di Roma. Tuttavia la denuncia presentata dai due gruppi Yazidi dovrebbe riuscire ad aggirare questo problema in quanto in essa sono contenuti almeno 200 nomi di miliziani del ISIS che provengono da Stati firmatari dello Statuto di Roma.
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Re: I crimini de l'Ixlam (el nasixmo rełijoxo)

Messaggioda Berto » mar set 29, 2015 7:15 am

Strangola la figlia 19enne che rifiuta il matrimonio combinato: si era innamorata di un non musulmano
di Federica Macagnone
Lunedì 28 Settembre 2015
http://www.ilmessaggero.it/PRIMOPIANO/E ... 2308.shtml

Un'onta, un disonore insopportabile: la figlia che avevano cresciuto sotto i rigidi dettami della religione musulmana era ormai vittima della cultura occidentale ed era stata sorpresa a rubare preservativi in un supermercato per far sesso con un ragazzo “proibito”. Una situazione intollerabile che Asadullah Khan, 51 anni, e la moglie Shazia, 41, hanno pensato di risolvere uccidendo la loro figlia maggiore, Lareeb, 19 anni, strangolandola nella notte nella loro casa di Darmstadt, in Germania.

A gennaio scorso la ragazza e il padre avevano avuto l'ennesimo litigio. Lareeb non indossava più da tempo il velo ed era rimasta a dormire per diverse notti fuori casa. Inoltre era stata sorpresa dalla polizia a rubare preservativi prima di incontrare il ragazzo che lei amava ma che i genitori non avevano mai accettato: per lei esisteva solo la possibilità di un matrimonio combinato in Pakistan, come quello che aveva unito la madre e il padre. E così, convinto che la figlia avrebbe arrecato solo ulteriore disonore alla famiglia, Khan si è intrufolato nella stanza di notte e l'ha strangolata davanti agli occhi della moglie. I due hanno vestito Lareeb con i tradizionali vestiti musulmani, hanno caricato il corpo in auto e lo hanno abbandonato in un terrapieno poco fuori la città di Darmstadt.

Una volta scoperto il cadavere, Khan, con le lacrime che gli rigavano il volto, ha ammesso l'omicidio: adesso lui e la moglie sono sotto processo per omicidio. Shazia in aula ha parlato di una situazione di oppressione in una casa dove il marito spadroneggiava. «Quella notte non sono riuscita a fermarlo – ha detto la donna – Ho i reumatismi e non ho avuto la forza di combattere. Volevo urlare, ma non ci sono riuscita».

Ma questa circostanza è stata presto smentita da Nida, 14 anni, sorella più piccola di Lareeb, che ha deciso di rompere i ponti con la famiglia dopo l'omicidio e ha descritto in aula una situazione in casa totalmente diversa. «Mia madre non era una donna oppressa da mio padre – ha raccontato l'adolescente – Poteva fare quello che le pareva ed era rigorosa tanto quanto mio padre. Aveva l'abitudine di picchiarmi con un bastone. Non ha mai permesso a mia sorella di parlarle del suo fidanzato. Mio padre diceva sempre che lei si sarebbe sposata forzatamente in Pakistan».

Il padre killer, che non parla tedesco, in aula ha semplicemente detto che amava sua figlia. Ma queste parole non lo salveranno da un processo e da una pena che dovrà rendere giustizia a una giovane vita spezzata.
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Re: I crimini de l'Ixlam (el nasixmo rełijoxo)

Messaggioda Berto » lun ott 12, 2015 6:50 am

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