Giulio Regeni el jera un comounista fiłoxlamego kel stava da ła parte di Fradełi Musulmani e contro Al Sisi;
Al Sisi el stà da ła parte dei cristiani copti persegoità dai muslmani: Giulio Regeni prasiò el jera contro i cristiani e par ła so persecusion da parte dei musulmani.
So comounista non saveva gnanca cosa ke fuse ła democrasia, ke no ła xe domegno e ditatura de ła majoransa ma soratuto respeto de łe megnoranse e dei Diriti Omani OgniversałiEgitto, quella guerra di al Sisi contro l'Islam per salvare i musulmaniAl Sisi ha incominciato una lunga battaglia perché l'Università Islamica del Cairo modifichi il suo insegnamento ai predicatori. E non solo
Luca Fortis - Mer, 13/05/2015
http://www.ilgiornale.it/news/mondo/egi ... 28072.htmlI muri color sabbia del deserto, con le loro merlature che s'innalzano verso il cielo creando giochi ipnotici, nascondono uno dei più bei capolavori del Cairo. La moschea di Ibn Tulum, costruita nel IX secolo, con il suo minareto che ricorda il faro di Alessandria è una delle più belle del paese.
Le sue sale di preghiera posizionate sotto gli archi aperti attorno a un vasto cortile, come si usava nelle prime moschee, raccontano molto dall'Egitto appena islamizzato. Il paese fu conquistato nel 640 dopo che un distaccamento di soldati arabi aveva messo sotto assedio la città di Babilonia, l'attuale Cairo e fondato nei suoi pressi la città di Al Fustat. Alessandria fu invece conquistata in modo pacifico a seguito di un accordo tra gli arabi e il patriarca cristiano melkita Ciro. Intesa che consentì senza spargimento di sangue alle comunità cristiane ed ebraiche di praticare la propria fede religiosa e conservare i titoli di proprietà dei propri beni in cambio del pagamento dell'imposta "di protezione” detta “jizya”.
L'Egitto della prima islamizzazione alternava la guerra per la conquista del potere politico, alla tolleranza religiosa nei confronti di chi riconosceva la sovranità dei musulmani arabi. Un'idea molto diversa dall'Islam fondamentalista di oggi che non tollera né le minoranze né che vi sia ancora la libertà di interpretazione del Corano. Tradizionalmente, sia nella religione sunnita che sciita, non vi era un papa o una chiesa con una gerarchia piramidale. L'interpretazione del Corano era lasciata ai singoli o alle differenti scuole giuridiche. Con il risultato che nel mondo esistono tante varianti dell'Islam quante sono le gradazioni di pigmento della pelle degli esseri umani. I capi della comunità musulmana fino all'arrivo del colonialismo erano i sultani, che non erano esponenti del clero, ma politici. Tendenzialmente il sultano non si occupava di questioni dottrinarie, ma al massimo sceglieva se lo stato fosse sunnita, o come nel caso persiano sciita, lasciando però un'ampia libertà di religione interna. Questo spiega perché l'India, una volta governata dai Mogul, ha una popolazione ancora a maggioranza induista o perché la Grecia ex ottomana è ancora abitata da cristiani ortodossi. Con l'arrivo del colonialismo i vari paesi islamici si trovarono di colpo con regnanti cristiani o laici e cominciarono a cercare una nuova identità adottando dall'Europa l'idea di nazionalismo o cercando in una riforma dell'Islam una nuova identità.
È in questi anni che si affaccia il primo Islam fondamentalista che comincia a teorizzare l'abolizione della libertà di interpretazione del Corano auto conferendosi il compito di scegliere cosa sia corretto o no da un punto di vista religioso. Sempre in quest'epoca nasce l'idea, anche per volontà europea, di creare nazioni separate in territori che dal tempo dei romani avevano quasi sempre vissuto in stati multiculturali. Entrambe queste visioni hanno portato alla ricerca dell'omogeneità religiosa o culturale attraverso scambi di popolazioni, come quelli tra Grecia e Turchia (1923) o quello tra India e Pakistan (1947) o guerre civili sanguinarie, come quelle in Bosnia, Libano e Siria. L'Egitto in tutto questo, grazie alla sua storia millenaria, ha avuto più facilità a costruirsi una nuova identità nazionale. Benché, anch'esso, sia stato scosso da movimenti islamici internazionalistici come i Fratelli Musulmani, che nacquero proprio sotto le piramidi nel 1928. Il mondo Islamico odierno sembra ormai immerso nella sua prima “guerra mondiale”, con alcuni attori che oggi fanno scoppiare conflitti dall'Africa fino all'Asia a seconda delle opportunità che si aprono. Oltre le scintille tra sciiti e sunniti, con l'Arabia Saudita che si scontra con l'Iran in Yemen, Iraq, Siria, Libano, vi è poi un conflitto tra i fondamentalisti islamici e gli islamici che credono ancora nella tradizionale libertà di interpretazione o contro i laici.
Questo scontro tra due diverse visioni religiose ha partorito attacchi terroristici dalla Nigeria fino alla Cina o nuove entità statuali come lo Stato Islamico tra Iraq e Siria. Inoltre, vi è una guerra per procura tra le tre potenze sunnite, Arabia Saudita, Qatar e Turchia, che pur essendo tutte alleate degli Stati Uniti si combattono in Siria, Libia, e in modo più sporadico in Egitto e Palestina per la supremazia nel mondo sunnita. In tutto questo il governo egiziano del feldmaresciallo Al Sisi, pur con le sue ombre sui diritti umani, sta tentando di fare un lavoro molto interessante di riposizionamento della società civile islamica. Il presidente egiziano, che ha deposto i Fratelli Musulmani nell'ultima sanguinosa onda della rivoluzione egiziana nel luglio del 2013, ha più volte dichiarato che non sta affatto portando avanti una guerra contro l'Islam, ma una guerra per salvare l'Islam da false interpretazioni che offendono la religione. Al Sisi oltre ad aver proibito i partiti islamici, pur mantenendo una certa tolleranza nei confronti dei salafiti, ha incominciato una lunga battaglia perché Al Azhar, l'Università Islamica del Cairo, controllata dallo stato, modifichi il suo insegnamento ai predicatori. Il nuovo governo ha anche affiancato al consueto concorso sulla conoscenza del Corano, uno sull'interpretazione del vero spirito della religione islamica. L'Egitto ha inoltre iniziato un lungo percorso per modificare i libri di scuola, con lo scopo di formare milioni di poveri con idee meno bigotte. Anche se alcuni zelanti esecutori delle decisioni governative hanno pensato bene di bruciare i vecchi libri di scuola dando una pessima immagine del nuovo ordine del paese.
Questo cambiamento nelle tradizionali politiche egiziane sta avvenendo grazie ai finanziamenti dei sauditi, il che potrebbe apparire contraddittorio, visto che i wahabiti hanno negli ultimi decenni finanziato i salafiti più conservatori in mezzo mondo. Rimane però il fatto che in mezzo a questo esplodere di radicalismo islamico nel mondo, uno dei paesi arabi più importanti sta finalmente tentando di far comprendere alla propria gente che il fondamentalismo islamico è una finta ideologia che allontana dalla vera religione. Le vecchie chiese e una bella sinagoga appaiono qua e là tra i vicoli della Cairo copto. L'atmosfera ha un che di antico, i gatti passeggiano assonati e le buganvillee trionfano nei loro mille colori diversi. I cristiani copti in Egitto sono ancora dieci milioni su una popolazione di novanta e dopo anni di turbolenze politiche hanno incominciato un percorso di riavvicinamento con i musulmani grazie alle politiche del nuovo governo egiziano. Il presidente al Sisi è andato a parlare in una chiesa per il natale ortodosso e da tempo spiega che i cristiani sono fratelli dei musulmani. Il percorso sarà ancora lungo e irto di ostacoli. Incominciando dalla tentazione egiziana di combattere l'islamismo fondamentalista dei Fratelli Musulmani con pene draconiane, facendo vittime anche tra i ragazzi laici che protestano contro la legge che mette paletti stringenti sulle manifestazioni.
Ma sui diritti umani l'opinione politica europea più che sbattere in faccia la porta all'Egitto, dovrebbe avviare un dialogo franco, capendo che la politica di Al Sisi di trasformare l'Egitto in un grande paese musulmano moderato, possa aprire molte opportunità e chiedendo allo stesso tempo al nuovo presidente di moderare certe sentenze della magistratura con decisioni politiche. In fondo basta leggere la trilogia del Cairo del premio nobel Naguib Mahfuz per rendersi conto che l'Egitto, fino cinquant'anni fa, non era solamente il paese in cui molte donne erano ancora segregate nelle case, ma era anche un luogo, dove con il calar della notte, si consumavano i vini zibibbi, dove le ballerine imprenditrici di se stesse diventavano le amiche e amanti dei nobili o degli esponenti della borghesia commerciale, dove fiorivano passioni omosessuali, in cui regnavano intrighi umani e psicologici di ogni genere. Il tutto senza che nessuno ne mettesse in dubbio “l'islamicità”.
EGITTO, PERCHE’ I CRISTIANI COPTI STANNO CON AL-SISI?Simone Cantarini
http://erebmedioriente.tumblr.com/post/ ... stanno-conTenuti in disparte per oltre 3 decenni da Hosni Mubarak e bollati come infedeli dai Fratelli Musulmani, i cristiani d’Egitto (circa il 10% della popolazione) hanno scelto di stare dalla parte dell’ex generale Abdel Fattah al-Sisi, il nuovo leader d’Egitto, nonostante molti lo accusino di aver ordito un colpo di Stato a danno degli islamisti e di tramare per dividere il Paese e aumentare così il potere dei militari.
Per molti cristiani in Egitto la dipartita dei Fratelli Musulmani dal governo del Paese è una ragione sufficiente per essere fiduciosi rispetto al futuro. La recente decisione del generale Abdel Fattah Al- Sisi di candidarsi alle prossime elezioni presidenziali è stata accolta negli ambienti della minoranza religiosa con fiducia e soddisfazione.
Lo stesso patriarca Tawadros II non ha avuto remore a definire un “dovere” la candidatura di al-Sisi, sottolineando che molti egiziani considerano l’ormai ex generale un “salvatore”, eroe della rivoluzione del 30 giugno contro Mohamed Morsi.
In una intervista televisiva, il capo della Chiesa copta ortodossa ha affermato che “dal 30 giugno, l’Egitto ha iniziato perseguire regolarmente una strada verso il futuro, iniziata con la scrittura della nuova costituzione e continuata attraverso le elezioni presidenziali”. Secondo il patriarca la popolazione considera quella data come una pietra miliare nella lotta contro il fanatismo”. “Il 30 giugno – ha affermato – non è stato un giorno qualsiasi per egiziani, cristiani e musulmani. Ho visto la nascita di un nuovo consenso ed è stato attraverso la solidarietà che la popolazione ha mostrato il suo desiderio di liberarsi dell’egemonia dei Fratelli Musulmani”. Ricordando le immagini delle manifestazioni, Tawadros II ha sottolineato la presenza “di religiose che camminavano sotto la bandiera egiziana a fianco a donne velate dal hijab”, definendo quel quadro come “uno dei momenti più decisivi della storia del Paese”.
Le dichiarazioni del patriarca copto segnano anche una presa di posizione contro l’opinione dei governi occidentali che nel 2013 hanno bollato la Rivoluzione del 30 giugno come un colpo di Stato ordito dai militari. Tawadros ha citato la persecuzione patita dai cristiani durante il governo di Mohamed Morsi e culminata con gli attacchi contro chiese e proprietà avvenuti fra il14 e il 15 agosto 2013: “Abbiamo visto le chiese e monasteri distrutti, mentre i media occidentali falsificano i fatti e inoltravano notizie distorte”. Il patriarca ha evidenziato anche il problema dei sequestri di persona, divenuti una vera piaga per le popolazioni cristiane dell’Alto Egitto. In meno di una settimana 10 persone, fra cui cinque medici, sono stati rapiti nel governatorato di Minya. La polizia continua a definirli come casi isolati, ma per i cristiani questo è una conseguenza dovuta alla cacciata degli islamisti, che a causa delle posizioni pro-militari vedono nei copti il capro espiatorio del loro fallimento.
I fatti avvenuti in questi giorni nel quartiere di Aim Shams al Cairo confermano tale tesi. Lo scorso 28 marzo migliaia di manifestanti pro-morsi hanno assaltato la chiesa della Vergine Maria, sparando colpi di pistola con l’intento non solo di spaventare i fedeli riuniti per la messa, ma di ucciderli. Nell’assalto hanno perso la vita Mary Sabeh, copta ortodossa, e al giornalista musulmana Mayada Ashraf, e altre due persone. La chiesa si trova a poca distanza da uno dei quartier generali della Fratellanza e in questi mesi è stata presa d’assalto decine di volte. L’avvocato cristiano Romany Micheal, afferma ad Mcn direct che lo scorso 28 marzo “i Fratelli Musulmani hanno organizzato una marcia, scandendo slogan contro l'esercito e la polizia che ha provocato scontri anche con gli abitanti del quartiere di Saab Saleh”. Secondo il legale i dimostranti hanno allestito barricate bruciando copertoni davanti alla chiesa della Vergine e San Michele Arcangelo. Essi hanno circondato l’edificio, impedendo a sacerdoti e fedeli di uscire”.
Il caso di Aim Shams è solo l’ennesimo atto di rappresaglia contro i cristiani da parte degli islamisti in particolare i Fratelli Musulmani. Le ragioni di questo odio sono varie e non risiedono solo nello scontro fra cristiani e musulmani, ma anche nella storia politica dell’Egitto dove il patriottismo che include anche i cristiani ha radici antiche. Il concetto di watan,[1] (patria) risale al XIX secolo quando lo sceicco Rifa’a[2] scrive le poesie patriottiche cantando le lodi dell’Egitto, del soldato e dell’esercito egiziano, dove “l’amore per il proprio Paese è parte della fede”. Nel 1888 l’inizio dell’occupazione britannica dà un poderoso slancio a questa nuova ideologia e idea di Stato presa in prestito dall’occidente e riadattata al mondo arabo musulmano, facendo breccia anche fra i cristiani che in Egitto erano e sono una consistente minoranza, la seconda dopo il Libano, e detentori della memoria della cultura antica cancellata dall’arrivo dei musulmani dall’Arabia nel VII secolo. Il primo a formulare la frase “l’Egitto agli egiziani” è il giornalista cristiano Selim Naqqas. Tale espressione contro i colonizzatori inglese viene divulgata dal polemista ebreo Abu Naddara e messa in pratica dal militare musulmano Urabi Pasha. Nei decenni che hanno seguito la creazione della Repubblica araba egiziana fondata nel 1952 da Gamal Abdel Nasser viene ripreso questo concetto ed allargato alla formazione della grande nazione araba insieme alla Siria, che nonostante la prevalenza musulmana include al suo interno anche il resto dei popoli arabi non islamizzati.
In maniera ideale tali valori hanno influenzato anche le manifestazioni contro Mubarak. Un esempio sono le immagini di piazza Tahrir che mostrano centinaia di migliaia di persone sventolanti bandiere nazionali con i simboli della croce e della mezzaluna, e la famosa frase: “cristiani e musulmani una sola mano”.
I Fratelli Musulmani, movimento fondato negli anni ’20 dall’insegante di scuola secondaria Hasan al-Banna, ha invece proprio nell’islam il punto di partenza e di ritorno: partire dall’islam per riformare la società e ridare vita all’antico progetto di diffusione della vera fede nel mondo, attraverso la politica e l’eliminazione di quei leader che fuoriescono dai dettami della sharia. Per definizione la Fratellanza esclude sul piano politico nazionalismi e patriottismi, considerando le masse non musulmane alla stregua di dhimmi, sottomessi.
L’attuale demonizzazione del movimento ha molti precedenti. Le condanne a morte per 523 esponenti dei Fratelli Musulmani, l'incarcerazione di Mohamed Morsi e della guida suprema Badie non devono sorprendere. Nel 1948 la Fratellanza viene messa al bando in Egitto da Nuqrasi Pasha, primo ministro, che aveva intuito le intenzioni dei combattenti affiliati ad al-Banna di ritorno dalla guerra di Palestina: fare un colpo di Stato contro la monarchia e l’esercito e instaurare uno Stato teocratico. Nel 1952 è il turno di Nasser, che pur avendo militato fra le fila della Fratellanza mette al bando il movimento nel 1954 in seguito a un fallito attentato. Nel 1954 l’università di Al-Azhar, il più importante ateneo dell’islam sunnita, accusa l’organizzazione di “aver superato i limiti fra il bene e il male fissati da Dio nella rivelazione”.[3]
L’odierna lotta fra i militari del generale al-Sisi e i Fratelli Musulmani di Mohamed Morsi ha nell’antico scontro fra apparato statale di stampo occidentale e Stato teocratico le sue basi. L’unica possibilità per i cristiani è trovare spazio fra i primi, perché all’interno delle logiche della Fratellanza per loro non vi è mai stato posto.
Abdel Fattah al Sisi, il “Leone d’Egitto” che sfida i capi della umma e pretende una «rivoluzione religiosa» dell’islamgennaio 18, 2015 Leone Grotti
Ritratto del generale musulmano che ha messo fine con la forza alla deriva estremista della “primavera araba”. Il suo scopo? «Dimostrare che democrazia e islam sono compatibili»
http://www.tempi.it/abdel-fattah-al-sis ... dell-islam«Ora mi rivolgo ai religiosi e agli imam. È inconcepibile che il pensiero che noi riteniamo più sacro faccia dell’intera umma (comunità musulmana mondiale, ndr) una causa di ansietà, pericolo, morte e distruzione per il resto del mondo». Dopo la strage parigina compiuta all’interno della redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo, tutti sanno quanto fegato ci voglia a parlare in questo modo dell’islam, del Corano e dei testi della tradizione islamica. Soprattutto se l’uditorio non è composto da occidentali islamofobi ma dal gran consesso di imam, ulema e studiosi dell’università di Al Azhar. Queste parole, pronunciate l’1 gennaio, assumono ancora più valore se si considera che a pronunciarle è stato un musulmano sunnita. E non uno qualsiasi, ma il presidente dell’Egitto: «Questo pensiero – e non sto parlando di “religione” ma di “pensiero” –, questo corpo di testi e di idee che abbiamo sacralizzato nel corso dei secoli, fino al punto che separarsene è diventato quasi impossibile, si sta inimicando il mondo intero. Si sta rendendo nemico il mondo intero! È mai possibile che 1,6 miliardi di persone (i musulmani, ndr) vogliano uccidere i restanti sette miliardi di abitanti del mondo per poter vivere? No, questo non è possibile».
Durante il suo discorso, Abdel Fattah al Sisi, sposato e padre di quattro figli, eletto l’8 giugno 2014, non ha tradito alcun segno di nervosismo e questo atteggiamento è perfettamente in linea con il modo in cui viene descritto da coloro che l’hanno conosciuto: una persona sicura di sé, tranquilla, di poche parole e schiva. Diceva di lui il cugino Ali Hamama quando Al Sisi, fino a pochi anni fa militare sconosciuto alla stragrande maggioranza degli egiziani e del mondo, ha cominciato a diventare protagonista della vita politica del paese: «Non ci sono storie interessanti risalenti a quand’era bambino. Era sempre così serio. Abdel Fattah amava gli scacchi e si allenava sollevando pesi. Giocare a nascondino? Mai».
L’intervento con cui il presidente dell’Egitto ha chiesto ai responsabili più autorevoli del mondo islamico sunnita niente meno che una «rivoluzione religiosa» non è un’improvvisata, ma una conferma del percorso dell’ex generale, che ha un preciso obiettivo: mostrare che l’islam, al pari del cristianesimo, è compatibile con la democrazia. Il problema è: quale islam e quale democrazia? Al Sisi, infatti, prima di essere eletto presidente ha deposto con un colpo di Stato il suo predecessore dei Fratelli Musulmani Mohamed Morsi, ha dichiarato la Fratellanza un’organizzazione terroristica, mettendola fuori legge, non ha impedito la condanna al carcere di centinaia di suoi membri e viene visto da molti reduci della cosiddetta “Primavera araba” come il nuovo Faraone.
La carriera militare
Nessuno a Gamaleya, cuore pulsante della vecchia Cairo islamica, nel centro della capitale egiziana, a poche dozzine di metri dalla moschea di Al Azhar, si sarebbe mai immaginato che quel ragazzo di quartiere, nato nel novembre del 1954, secondo di otto fratelli, sarebbe diventato un giorno l’uomo più importante del paese. Cresciuto in una famiglia molto religiosa, Al Sisi dopo la scuola si recava tutti i giorni a lavorare nella bottega di artigiani di famiglia, situata nel bazaar di Khan el Khalili, la meta turistica più visitata dopo le Piramidi. Realizzava arabeschi e a sentire il cugino sapeva come farli «ed era anche molto bravo». Disciplinato, «quasi apatico», devoto e riservato, «di famiglia ricca ma sempre umile», il destino del giovane Abdel Fattah non era però l’artigianato ma la carriera militare. Iscritto in una scuola secondaria e poi all’accademia, si è laureato nel 1977 e tra gli anni Ottanta e Novanta ha scalato i gradi nelle brigate di fanteria meccanica, dove tutti si sono accorti che nonostante il carattere apparentemente docile, aveva le stimmate della leadership.
Manifestazione Al Cairo degli studenti contro il regime militareNegli ultimi anni del regime di Hosni Mubarak, Al Sisi è stato trasferito nell’intelligence militare, uno dei tanti organismi accusati dal popolo egiziano di svariati crimini. Questa militanza non ha giovato alla sua immagine, così come il rifiuto di criticare completamente l’ex raìs, ma l’uomo che nel giro di tre anni, dalle prime proteste di piazza Tahrir, è diventato il generale più giovane dell’esercito, capo del Consiglio supremo delle forze armate, ministro della Difesa e poi presidente, ha dimostrato di saperci fare anche con la politica. La “Primavera araba” ha segnato una svolta nella sua vita e in quella di tutto il paese, e la sua elezione a presidente è frutto tanto della sua capacità di leggere la volontà degli egiziani e di agire rapidamente, quanto dell’incapacità, della divisione e dell’assenza di alternative fornite dai giovani che hanno posto fine al regime di Mubarak.
Tutti si chiedono se l’uomo che oggi guida l’Egitto sia un dittatore, un islamista, un rivoluzionario, un nazionalista o la combinazione di tutte queste cose. E nessuno sa darsi una risposta perché Al Sisi cita spesso il Corano a memoria ma ha messo al bando i Fratelli Musulmani. Non può che essere considerato un uomo della vecchia guardia ma parteggia per la democrazia e nella nuova Costituzione che ha fatto approvare, viene garantito un livello di libertà (anche religiosa) mai conosciuto prima. Ha le idee più chiare Sherifa Zuhur, docente americana del presidente egiziano quando questi, nel 2005-2006, è stato inviato negli Stati Uniti, in Pennsylvania, a perfezionare gli studi militari. È di quegli anni un saggio di 11 pagine scritto da Al Sisi dal titolo: “Democrazia in Medio Oriente”. «Al Sisi non è un islamista segreto: non lo è mai stato e non penso lo sia ora», afferma Zuhur. «È invece un pragmatico: discutendo di califfati e islamizzazione delle istituzioni, vista la grande religiosità della maggior parte degli egiziani, vuole mostrare che l’islam può essere compatibile con la democrazia». Più precisamente: «Il punto che vuole sottolineare nel suo saggio è che non si può parlare di democrazia puramente secolare in Medio Oriente» e che allo stesso tempo «non si può monopolizzare la scena politica (…) impossessandosi di una religione».
Come si sfrutta una petizione
Alla luce di queste parole non stupisce che Al Sisi, il 3 luglio 2013, dopo aver portato in piazza i carri armati, abbia annunciato in diretta televisiva che Mohamed Morsi, eletto nel 2012 con il partito Libertà e giustizia, braccio politico dei Fratelli Musulmani, non era più il presidente dell’Egitto. L’allora ministro della Difesa e capo delle Forze armate ha saputo sfruttare una petizione firmata da oltre 20 milioni di egiziani che chiedevano le dimissioni di Morsi e ha capito che era arrivato il momento di prendersi il paese. Gli egiziani hanno perdonato ad Al Sisi la strage di Fratelli Musulmani del 14 agosto e la loro messa al bando per un solo motivo, come ricordato da Tewfik Aclimandos, ricercatore egiziano al Cairo dal 1984 al 2009: «Gli egiziani si sono stufati della Fratellanza perché questa ha compiuto attentati terroristici in tutto il paese. Nessuno in Egitto vuole più morire in un attentato. Ora c’è bisogno di uno Stato forte, di sicurezza, democrazia e giustizia sociale».
In un paese che ha avuto quattro presidenti della Repubblica tra il 1953 e il 2011, e altri quattro tra il 2011 e il 2014, Al Sisi ha compreso il bisogno di stabilità del popolo, ha cercato di rilanciare l’occupazione sfruttando l’amicizia dell’Arabia Saudita, tagliando i sussidi che rovinano l’economia del paese e rilanciando al contempo all’Occidente una proposta che non si può rifiutare: fermare il terrorismo islamico in Iraq, Siria e Libia. Questo ha ripetuto in occasione della sua visita in Italia e in Vaticano di fine novembre, sottolineando al Corriere della Sera «quanto sia importante la stabilità dell’Egitto» in un Medio Oriente e Nord Africa che bruciano.
Nel mezzo di questo percorso di cambiamento del paese, a 60 anni tondi, Al Sisi ha preso la parola davanti agli imam di Al Azhar e ha dichiarato: «Quello che vi sto dicendo, voi non potete comprenderlo se rimanete intrappolati nella vostra mentalità. (…) Ho detto, e ripeto, che noi abbiamo bisogno di una rivoluzione religiosa. Voi, imam, siete responsabili davanti ad Allah. Il mondo intero, lo ripeto ancora, il mondo intero sta aspettando una vostra mossa… perché l’intera umma musulmana viene lacerata, viene distrutta, si sta perdendo. E si sta perdendo per opera delle nostre stesse mani».
Pochi giorni dopo, la sera del 6 gennaio, in occasione del Natale dei copti ortodossi, ha partecipato al Cairo alla Messa solenne presieduta dal patriarca Tawadros II (prima assoluta per un capo di Stato egiziano) e ha detto: «È importante che oggi il mondo guardi gli egiziani. Avrete notato che ho usato solo la parola “egiziani”», non musulmani o cristiani, perché «noi siamo tutti egiziani». Un concetto inedito in un paese dove i cristiani, il 10 per cento circa della popolazione, sono perseguitati e considerati cittadini di serie B. Ma il coraggio è il minimo che ci si possa aspettare dal “Leone d’Egitto”, uomo che rilascia dichiarazioni di questo calibro: «Il nostro esercito potrebbe annientare lo Stato islamico in poche settimane».
Copti: Al Sisi e la libertà di culto19/02/2015 Sbloccate le domande per costruire nuove chiese in Egitto. Le rinnovate speranze anche dei cattolici.
http://www.famigliacristiana.it/articol ... culto.aspxIn Egitto sono tutti d’accordo. Cattolici, Copti ortodossi e Protestanti ritengono che il nuovo Egitto di Abd al-Fattah al Sisi stia dando segnali importanti sull’ampliamento della libertà di culto e sulla possibilità di intervenire nel dibattito pubblico da parte dei cristiani.
Quello più importante è la decisione del Cairo di varare una nuova legge per la costruzione delle Chiese e a questo proposito la presidenza egiziana ha chiesto alle comunità cristiane un contributo. Intanto sono state sbloccate, in segno di buona volontà, le domande per costruire nuove Chiese al Cairo e nell’Alto Egitto per la comunità copta. Le domande giacevano al ministero dell’Edilizia da 8 anni. Ma si tratta di una piccola parte di quelle che si sono accumulate negli anni del presidente Moubarak, a cui il rais non aveva mai dato risposte.
La legge sulla costruzione di nuove Chiese in Egitto risale al periodo ottomano e prevede molti impedimenti e lascia ampie interpretazioni. In attesa della nuova legge il ministero dell’Edilizia, per venire incontro ad esigenze pastorali delle Chiese cristiane, ha messo a disposizione un terreno di 30 ettari del Patriarcato copto per costruire uffici e strutture collegati alla cattedrale si San Marco al Cairo. Altre tre chiese, due copte ortodosse e una copta evangelica, verranno costruire in altrettanti quartieri del Cairo.
Anche padre Rafic Greiche, portavoce della Chiesa cattolica, sottolinea la presenza di “un nuovo corso” nelle relazione tra le Chuiese e il nuovo governo di al-Sisi: “ Quello sull’edilizia di culto è un primo passo importante che sottrae la costruzione di chiese ad ogni tipo di arbitrio”.
Sarebbe interessante conoscere il pensiero di Giulio Regeni sulla condizione dei cristiani perseguitati e dei Diritti Umani in Egitto e nei paesi teocratici islamici. La democrazia non è tanto "il potere o la dittatura della maggioranza" ma piuttosto la tutela delle minoranze e dei Diritti Umani Universali. Il regime di Al Sisi per i cristiani d'Egitto era ed è il male minore; se vi fosse la Dittatura della maggioranza islamica dei Fratelli Mussulmani, i cristiani copti d'Egitto che sono i veri egiziani autoctoni, forse starebbero molto peggio. Chissà se Giulio si preoccupava di loro?Giulio Regeni: un nuovo martire per l'opinione pubblicaData: 08 febbraio 2016
http://www.informazionecorretta.com/mai ... E.facebookCari amici,
condivido la scelta di Informazione Corretta di non entrare nella discussione dei media - che più che discussione vera e propria è stato un coro - sulla vicenda del giovane Regeni, ucciso la settimana scorsa in Egitto, che a causa della sua morte è diventato una star mediatica, tanto da essere chiamato per nome, lui è i suoi genitori, da tutta la stampa, anche quella che normalmente evita queste modalità da gossip. Ma credo che sia anche il caso di chiarire alcune cose che i media evitano di dire.
Abdel Fattah Al Sisi
Faccio una premessa: non conosco gli scritti del giovane ucciso, ma mi sembra di aver capito di essere al polo opposto delle sue idee, che in rete appaiono spesso definite “comuniste” e della sua evidente simpatia politica per il mondo arabo e l'islamismo (
http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 20975.html). Questo non mi impedisce affatto di condannarne l'uccisione e il modo particolarmente barbaro con cui è stata realizzata. E' ovvio che si tratta di un crimine efferato, e che i colpevoli dovrebbero essere scoperti e puniti.
I giornali italiani hanno già fatto il processo per conto loro e hanno deciso che si tratta della polizia del generale Al Sisi e su questo non posso essere d'accordo.
Il caso Arrigoni, quello di Giuliana Sgrena, rapita in Iraq, e di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, catturate in Siria, mostrano abbondantemente che non basta sentirsi “progressisti” e “dunque” dalla parte degli islamisti per sottrarsi alle loro azioni criminali; l'attentato in cui esplose qualche mese fa un aereo russo sul Sinai, fra cento altri episodi del genere, fa vedere anche che costoro non hanno remore a prendersela con gente innocente pur di danneggiare governi e stati che considerano nemici.
Ed è chiaro che questa morte danneggia il governo egiziano, nemico degli islamisti che Regeni frequentava e di cui si fidava, come a suo tempo Arrigoni a Gaza, ben più di un normale attentato.
La logica del “cui prodest” punterebbe dunque ai nemici di Al Sisi più che sul governo egiziano.
Non vi dico queste cose per convincervi di una mia verità. Io naturalmente non so come sia andata, come non lo sapete voi e i giornalisti che sdottoreggiano sugli alleati impresentabili e la dittatura che c'è in Egitto. La differenza è che io vi suggerisco di non andare subito alle conclusioni, perché al momento si sa solo che il giovane italiano è stato ammazzato da sconosciuti. Soprattutto mi sembrerebbe sbagliato trarre da questo oscuro giallo delle conclusioni sulla politica da tenere rispetto all'Egitto. La ragione è presto detta. Nell'intero Medio Oriente esistono oggi tre tipi di stati: quelli completamente falliti, in cui regna la guerra civile e la legge della giungla; le dittature violente più o meno mascherate, in cui fare l'opposizione è pericolosissimo e gli stati normali, democratici, in cui vige la legge. Questi ultimi sono facilissimi da elencare, perché nei 10 mila chilometri che separano il Marocco dal Pakistan ce n'è solo uno, che si chiama Israele. Gli stati falliti sono parecchi, Libia, Yemen, Siria, Iraq, Libano. Le dittature, che talvolta si travestono da democrazie anche tenendo le elezioni (Turchia, Iran) o da monarchie autoritarie ma benevole (Marocco, Giordania) sono tutti gli altri. E in questi posti spesso non ci sono alternative democratiche, nel senso che opposizione e governo concordano su una cosa sola: guai ai vinti, chi comanda ammazza tutti gli altri. Così è in Siria: come si fa a stare per Assad o per lo Stato Islamico? Se bisogna scegliere non è certo per la speranza che uno sia meno repressivo dell'altro.
Sostenitori della Fratellanza Musulmana in Egitto
E così è anche per l'Egitto. Mubarak, dittatore corrotto, fu abbattuto da una rivoluzione che alcuni osservatori molto ideologici si ostinano a chiamare democratica; ma questa fu presto presa in mano dai Fratelli Musulmani, che presero il potere barando alle elezioni, iniziarono subito a distruggere quel tanto di democrazia che si era affermata, e furono poi eliminati da un altro colpo di stato dell'esercito. Credere che l'alternativa al governo di Al Sisi sia la restaurazione del potere della Fratellanza Musulmana è follia, sia perché i fratelli musulmani hanno dimostrato ampiamente il loro carattere violento e oppressivo dovunque si siano insediati (per esempio a Gaza con Hamas, che ne è un ramo), sia perché la loro ideologia è molto simile a quella dell'Isis e di Al Queida, che si differenziano per dettagli tattici e per la volontà di affermazione personale e di gruppo, non certo per il rapporto con la democrazia o la tolleranza. Insomma sia Al Sisi sia la Fratellanza Musulmana sono dittatoriali; il problema è che la Fratellanza è ben più pericolosa per il suo integralismo religioso, per l'odio verso l'Occidente e l'antisemitismo, per la contiguità col terrorismo. Non si tratta del fatto che il primo sia come dicevano una volta gli americani “our son of a bitch”, il nostro figlio di buona donna. Il punto è chi è più pericoloso per il mondo e su questo non vi è il minimo dubbio.
Chi vuole combattere o danneggiare Al Sisi sta in realtà appoggiando la Fratellanza Musulmana, cioè vuole l'islamismo al potere in Egitto, con la conseguenza di stragi di cristiani e della guerra (almeno fredda) con Israele dell'appoggio a Hamas, della saldatura dell'islamismo egiziano con quello libico. Era questa fino a un paio d'anni fa la posizione di Obama, che poi fu costretto a lasciarla cadere per la sua impraticabilità. Prendere oggi a pretesto l'omicidio di Regeni per questa linea è una politica folle e suicida. Che la appoggi il solito coretto degli estremisti, dal Manifesto in giù, non fa meraviglia.