Fratellanza mussulmana

Fratellanza mussulmana

Messaggioda Berto » gio gen 21, 2016 6:04 pm

Giza, paura alle piramidi: attaccato pullman di turisti israeliani
In Egitto attacco terroristico dei Fratelli Musulmani contro un bus di turisti israeliani. Non ci sarebbero vittime
Giulia Bonaudi - Gio, 07/01/2016

http://www.ilgiornale.it/news/cronache/ ... 10864.html


Un gruppo di 15 militanti dei Fratelli musulmani è responsabile dell'attacco avvenuto oggi contro un bus turistico di fronte a un albergo a Giza, nei pressi delle piramidi.

Lo ha reso noto un portavoce del ministero dell'Interno. Gli islamisti stavano inscenando una manifestazione di protesta nelle vicinanze quando un ordigno artigianale lanciato dal corteo ha colpito il bus con a bordo dei turisti israeliani. L'esplosione è stata talmente forte che ha danneggiato la facciata dell'albergo e del bus, ma non avrebbe causato vittime. Inizialmente la stampa locale aveva riferito di un attacco a colpi d'arma fuoco, mentre ora le autorità parlano invece di "fuochi d'artificio e petardi". Uno dei presunti assalitori è stato arrestato.

I Fratelli musulmani costituiscono una delle più importanti organizzazioni islamiste internazionali con un approccio di tipo politico all'Islam. Furono fondati nel 1928 da al-Ḥasan al-Bannāʾ aIsma'iliyya (Egitto), poco più d'un decennio dopo il collasso dell'Impero Ottomano. Il gruppo, che è considerato fuorilegge dalle autorità egiziane, ha invitato i suoi sostenitori a scendere in piazza per deporre il "regime" del presidente Abdel Fatah al Sisi in occasione nel quinto anniversario della rivoluzione del 25 gennaio.

I turisti, che sono di nazionalità israeliana, sono stati presi di mira da militanti islamisti davanti a un hotel nel governatorato di Giza. Lo riferisce il quotidiano locale al Masry al Youm. Almeno due uomini a volto coperto hanno lanciato degli ordigni esplosivi contro un convoglio turistico non lontano dall'area delle piramidi. Secondo quanto si apprende dalla stampa locale, l'attacco non avrebbe prodotto vittime. Le forze di sicurezza avrebbero inoltre arrestato uno degli assalitori, mentre l'altro sarebbe fuggito.

Sempre il quotidiano filo-statale al Ahram, intanto, riferisce che almeno nove militanti islamisti, probabilmente affiliati ai Fratelli musulmani hanno vandalizzato tre automobili e lanciato petardi contro un altro albergo a Omrania, un luogo non lontano al primo attacco. I due episodi potrebbero avere un collegamento.
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Re: Fradełansa muxlim - Fratellanza mussulmana

Messaggioda Berto » gio gen 21, 2016 6:19 pm

"Vi spiego perché ho lasciato i Fratelli Musulmani"
di Valentina Colombo21-01-2016 AA+A++
Mohammed Louizi

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-vi- ... -15015.htm


Nel momento in cui le istituzioni italiane ed europee, le istituzioni religiose aprono sempre più alle organizzazioni islamiche legate alla Fratellanza musulmana, l’intervista qui presentata rappresenta un ulteriore spunto di riflessione sui processi di radicalizzazione e sull’operato dell’islam politico. Mohammed Louizi, di origine marocchina, ma residente a Lille in Francia, è un ex Fratello musulmano che ha vissuto la Fratellanza sia in Marocco che in Francia, come Presidente dell’organizzazione Etudiants Musulmans de France, membro del Forum delle Organizzazioni Giovanili e Studentesche Europee (FEMYSO) di cui fanno parte anche i Giovani Musulmani d’Italia (GMI). Louizi ha avuto il coraggio non solo di lasciare gli incarichi e l’affiliazione alla Fratellanza, ma anche di denunciarne il progetto globale. Questa lunga intervista si propone di contribuire al dibattito, arduo e delicato, della rappresentanza dei musulmani in Italia e in Europa che molto spesso è monopolizzata dall’islam politico a scapito dell’islam politico cui richiama Louzi nel proprio saggio.

Il Suo libro autobiografico Pourquoi j’ai quitté les Frères Musulmans. Retour éclairé vers un islam apolitique (Perché ho abbandonato i Fratelli musulmani. Ritorno illuminato verso un islam apolitico, Michalon, Parigi 2016) è la storia del vostro rapporto con l'Islam da un lato e l'Islam politico dei Fratelli Musulmani dall’altro. Quali sono le principali differenze tra i due?

Il mio saggio è la storia di una vita pressoché normale, la mia, che è ruotata dai 13 ai 28 anni, intorno a una versione particolare della fede musulmana, ovverosia la narrazione ideologica dei Fratelli Musulmani. Vorrei innanzitutto fare una precisazione. Al pari dello studioso Reza Aslan nel suo libro Il Misericordioso, faccio la distinzione vitale tra “fede” e “narrazione della fede”. “La religione - ha affermato Aslan - non è la fede, ma la narrazione della fede.”
Se “la fede” resta “misteriosa e ineffabile”, la religione, l'islam nel mio caso, è una "narrazione della fede", o di più fedi, attraverso le varie dottrine, l’istituzionalizzazione di simboli, miti, rituali, pratiche, per dare un senso all'esistenza di una comunità che condivide la stessa fede musulmana, e causando, talvolta, conflitti intra- ed extra-comunitari.
Detto questo, la narrazione dei Fratelli Musulmani, e quella dell'islam politico in generale, oltre a “rapire” la fede, la strumentalizza per offrirsi al potere politico e militare con lo scopo di dominare e sottomettere l'altro: sia l'altro, all'interno di questa comunità virtuale, che non condivide la stessa narrazione dei Fratelli Musulmani sia l'altro, all’esterno, che non si riconosce in questa narrazione, poiché fedele di un'altra religione oppure estraneo a tutte le religioni e con una vita senza Dio né padrone. In questo senso, una delle principali differenze tra “islam" e "islam politico" risiede in questa necessità di maggiore differenziazione. Mentre l'islam, oserei dire gli islam al plurale, è un insieme di narrazioni, radicate nella storia dopo l'avvento del Profeta Maometto, che in alcuni casi include la politica come elemento endogeno alla religione (l’islam politico) e, in altri casi, la considera un elemento esogeno (l'islam sociale e il sufismo), l'islamismo cancella queste sfumature e differenze per imporre la propria visione totalitaria e la propria dottrina politico-religiosa oppressiva, inserendosi purtroppo in una continuità storica, che affonda le radici negli eventi immediatamente successivi alla morte del Profeta nel 632 d.C. Nel mio saggio, ho illustrato questa e altre differenziazioni, mettendole a confronto con un'altra visione illuminata, un'altra narrazione assolutamente apolitica della fede musulmana i cui ingredienti principali sono la semplicità, l'umanità, la non violenza e una certa idea di progresso che concilia fede e ragione, il dubbio e la verità, la natura umana, la conoscenza e la pace.

Ha vissuto i Fratelli Musulmani in Marocco e in Francia e nel Suo saggio sottolinea la differenza dei loro scopi ovvero da un lato la “presa di potere” e dall’altro “l’integrazione” che corrisponde all’infiltrazione istituzionale…

In tutti i paesi in cui sono presenti i Fratelli Musulmani, in Oriente così come in Occidente, il progetto islamista non è mutato dal momento in cui il movimento è stato fondato da Hasan Al-Banna nel 1928. L’obiettivo è quello di riportare il califfato islamico ai suoi confini storici, compresi i luoghi in cui l'islam si era insediato Europa. Questo progetto ha un nome: tamkin, “messa in atto”. Nel mondo arabo-musulmano, le esperienze di questo movimento passano attraverso alti e bassi. Talvolta è riuscito a sfondare. Talaltra è stato messo in difficoltà. Ma non è mai scomparso. I Fratelli musulmani stessi descrivono la loro influenza come una successione di fasi e cicli: nascita, ascesa, apogeo, declino, latenza e poi nuovamente ascesa e così via. Qui, in Europa e in Occidente, la situazione è diversa. Infatti, se il mondo arabo-musulmano è già considerato un “territorio” acquisito, questo non è certamente il caso dell’Occidente. I Fratelli Musulmani stanno operando dagli inizi degli anni Ottanta nel Vecchio continente per acquisire diversi “territori” privati al fine di introdurre, nel corso del tempo, la loro narrazione islamista come elemento della narrazione nazionale di ciascun paese europeo. Questa operazione si chiama tawtin, ovvero “diventare cittadini, integrarsi”, e viene attuata con la costruzione di moschee-cattedrali, svariate e differenziate acquisizioni immobiliari, la costruzione di scuole private e così via. Questo perché senza tawtin, il progetto del tamkin non può essere portato a compimento in modo efficace. Se il tawtin è l'obiettivo territoriale di una tappa, il tamkin è l'obiettivo finale affinché la legge di Allah, così come intesa dagli ideologi e dagli ulema della Fratellanza, domini l'Europa per annetterla allo Stato islamico tanto agognato dai Fratelli. Chakib Benmakhlouf, ex presidente della FOIE (Federazione delle Organizzazioni Islamiche in Europa) cui appartiene la Lega Islamica in Italia e cui fa riferimento anche l’UCOII, ha dichiarato in un'intervista rilasciata il 20 maggio 2008 al quotidiano arabo Asharq Al-Awsat quanto segue: “all'interno della FOIE abbiamo un piano d'azione, abbiamo un piano d'azione su vent’anni; un piano nel breve, medio e lungo termine. Alcuni eventi, purtroppo, che hanno di volta in volta luogo, influenzano negativamente il progresso del nostro operato. Alcuni musulmani sono stati ben presto sentiti attratti da scontri marginali e tutto ciò ha turbato il nostro piano d’azione globale.”

Sono i Fratelli musulmani a scegliere chi è entra a fare parte dell’organizzazione e non viceversa. E’ vero?

La coppia predatore/preda consente di assicurare l'equilibrio delle piramidi alimentari di un ecosistema. Il predatore sceglie la preda secondo i criteri dettati dalla natura. La piramide dei Fratelli Musulmani, quella che descrive le fasi del tamkin, ha anche i suoi “predatori”, che selezionano le prede in base a criteri dettati dall'ideologia e dalle esigenze di risorse umane del progetto globale del tamkin. Nei Fratelli Musulmani, colui che aderisce al progetto non sceglie l'associazione. E’ quest’ultima che, come una setta oscura, lo sceglie, e sono i suoi membri più anziani che lo cooptano al termine di un percorso iniziatico molto particolare.

Qual è il significato del giuramento alla Fratellanza che rappresenta il momento finale della iniziazione?

Il progetto del tamkin ha bisogno, oltre che di un territorio, di una “base” umana solida. Si tratta di un concetto ideologico, spesso usato negli scritti di Sayyid Qutb, uno dei principali ideologi della Fratellanza, soprattutto nella sua esegesi delle sure coraniche VIII e IX. Secondo Qutb la creazione di uno Stato islamico in qualsiasi territorio ha un preliminare educativo, ideologico e organico superiore che è quello di costituire innanzitutto una base umana solida composta da persone, fratelli e sorelle, altamente istruiti e convinti dell'idea e dalla necessità della creazione dello Stato islamico per essere pronti, in qualsiasi momento, a sacrificare tutto, compresa la loro vita, per concretizzarla e difenderla nel bene e nel male. Qutb cita l'esempio del profeta Maometto e il fatto che sia riuscito a costituire alla Mecca una “base” umana di Compagni convinti, prima di emigrare e insediarsi a Medina, il suo nuovo territorio per stabilire il primo stato islamico conquistatore, secondo l'interpretazione politica di questo ideologo della Fratellanza. I Fratelli-predatori si adoperano al fine di identificare le reclute per formare questa “base” solida e zoccolo duro in ogni paese. Al termine di un'iniziazione ideologica, durante la quale vengono illustrati i dieci pilastri del giuramento di fedeltà, così come previsti da Hasan al-Banna, ovverosia “la comprensione, la sincerità, l'azione, il jihad, il sacrificio, la totale obbedienza, la persistenza, la fedeltà all'impegno, la fraternità e la totale fiducia”, il/la candidato/a che rispondono agli standard ideologici passano alla fase del giuramento di fedeltà in cui lui/lei s’impegna esplicitamente ripetendo la seguente dichiarazione: “Mi impegno innanzi ad Allah, l'Onnipotente, a osservare rigorosamente le disposizioni e i precetti dell'islam e condurre il jihad per difendere la sua causa. Mi impegno innanzi a Lui a rispettare le condizioni della mia fedeltà ai Fratelli Musulmani e adempiere ai miei doveri nei confronti della nostra confraternita. Mi impegno innanzi a Lui a obbedire ai suoi dirigenti nei momenti di prosperità e nei momenti difficili, al limite delle mie forze, nella misura in cui gli ordini che sono impartiti non mi obbligano a commettere un peccato. Presto giuramento di fedeltà e Allah ne è testimone.” Da quell’istante la nuova recluta ha la missione di lavorare per il progetto del tamkin, illuminata dal leggendario motto del movimento: "Allah è il nostro obiettivo finale, il Messaggero è il nostro esempio e la nostra guida, il Corano è la nostra costituzione, il jihad è la nostra via, morire sulla via di Allah è la nostra più alta speranza"!

Il giuramento di fedeltà è indispensabile oppure esistono diversi livelli di appartenenza alla Fratellanza, soprattutto in Europa?

Un osservatore esterno dell'operato dei Fratelli Musulmani in Francia penserebbe che ci siano decine di migliaia di sorelle e fratelli attivi. Ma la realtà dei numeri è diversa. Il loro numero totale non supera, ragionando per eccesso, le mille persone disseminate in tutta Francia. E’ decisamente poco rispetto al peso che hanno in seno comunità fede musulmana, ma è sufficiente per costituire la “base” solida intorno alla quale fanno gravitare altre reti, altre strutture associative, apparentemente indipendenti. I Fratelli Musulmani sono un'organizzazione che ha ininterrottamente modernizzato la propria azione strategica per ben 88 anni. Inizialmente la diffusione dell'ideologia si faceva secondo un modello arcaico simile a una “ragnatela” correndo il rischio di indebolirsi o addirittura scomparire, in caso di un contraccolpo poiché tagliare la testa del ragno della Fratellanza - in questo caso la Guida Suprema che ufficialmente si trova al Cairo – corrispondeva a decapitare l’intera struttura dei Fratelli Musulmani. Oggi questo modo di operare è ormai superato. Le organizzazioni della Fratellanza assomigliano a una “stella marina” alla quale si possono tagliare le braccia, ma non muore, anzi ricresce un nuovo braccio. Meglio ancora, quando si taglia il braccio nasce una nuova stella autonoma e così via, in una sorta di moltiplicazione impressionante e infinita. Se in ogni stella, i Fratelli posizionano uno o più membri portatori del virus islamista, è sufficiente a contaminare tutti coloro che li circondano. Così, i Fratelli puntano a garantire una “base” umana ultra-indottrinata al fine di diffondersi e infiltrarsi in tutte le strutture, con un colpo solo che porta grande benefici, comprese quelle che non hanno alcun legame organico con la casa madre.

L’intellettuale saudita Turki al-Hamad ha dichiarato in un'intervista recente che i giovani arabi “sono cresciuti con una overdose di religione” che ha portato alcuni di loro a radicalizzarsi. Le organizzazioni dei Fratelli Musulmani possono essere identificate con questa “overdose di islam”?

La nozione di “globalità” dell’islam della Fratellanza, è sufficiente per avvallare l’affermazione di Turki al-Hamad. L’islam della Fratellanza si prende cura di tutto, dalla nascita alla morte. Nessun momento, nessun gesto, nessun pensiero, nessun un sogno deve sfuggire questo islam totalizzante e totalitario. Ma al di là di questo aspetto quantitativo molto pesante, c'è un altro aspetto qualitativo ancora più potente e più pericoloso. Si tratta del contenuto ideologico dell’indottrinamento. Un contenuto che crea la rottura sentimentale ed emotiva tra il soggetto e l’ambiente da cui proviene. Due esempi. Quando i Fratelli insegnano dogma teologico detto al-walà wa-al-barà, ovverosia “fedeltà [a tutto ciò che è islamico] e disapprovazione [di ciò che non lo è], insinuano nello spirito di un giovane una logica binaria mortale, ovvero che all'interno della società, esiste un “noi” e un “loro”. “Noi”, il gruppo salvato, e “loro”, il gruppo maledetto. “Noi”, le vittime, e “loro”, i carnefici. “Noi”, la comunità migliore, e “loro”, la comunità perversa. Peggio ancora, si trasmette al giovane che in nome dell'islam è vietato amare “loro” e che, in nome della fede, dobbiamo odiare “loro”. L'odio nei confronti dell’altro diventa un atto di fede, un atto di adorazione. Nel programma educativo dei Fratelli, c'è un capitolo fondamentale intitolato "Amare per Allah e odiare per Allah." Il secondo esempio è la costruzione ideologica intorno al jihad armato. I Fratelli considerano questo jihad come un obbligo religioso per tutti i musulmani fino all'Ultimo giorno. Tutto è strumentalizzato per mantenerne accesa la fiamma nella mente. Lascio al lettore la traduzione della Lettera del jihad di Hassan Al-Banna che ho scoperto in Francia, quando ero un Fratello musulmano.

Si tende a credere che i Fratelli Musulmani si occupino solo di religione, ma nel Suo libro lei spiega che c'è anche del business e del denaro che proviene dall'estero ...

I Fratelli musulmani considerano il denaro come una potente arma per il progetto tawtin e per l'acquisizione di nuovi territori privati che fungono da punti di appoggio per il progetto stesso. Hanno dei business molto redditizi. Ad esempio, il presidente dell’UOIF gestisce o co-gestisce diverse aziende di trasporto e società immobiliari. Contano sul denaro dei fedeli ingannati delle moschee colonizzate dai Fratelli. Ma tutto questo non è sufficiente. Prima dell'11 settembre 2001, facevano molto affidamento su donatori sauditi. Negli ultimi anni, contano sui finanziamenti della Qatar Charity e donatori kuwaitiani. Inoltre, i Fratelli in Francia e in altri paesi beneficiano di sovvenzioni pubbliche. In Francia, la retribuzione degli insegnanti e dei membri di gestione di quattro scuole private, nelle quali l’UOIF conta di islamizzare e indottrinare le risorse umane del futuro, proviene dalle casse dello Stato.

Quali sono i libri e i testi che sono studiati dai membri della confraternita? Che ruolo svolge oggi il pensiero di Hasan al-Banna?

I Fratelli non leggono né scrivono molto. A parte gli scritti di Tariq Ramadan, non sono in grado di elencare altri membri dell’UOIF che abbiamo scritto qualcosa, tranne rare eccezioni. Inoltre, i Fratelli predicatori leggono solo Fratelli e le loro fonti ancestrali e contemporanee. Non so se leggono il Corano. Tra gli antichi, troviamo al-Bukhari, Ibn Taymiyah e al-Ghazali. Tra i moderni e contemporanei, Muhammad Ibn Abd al-Wahhab, Hasan al-Banna, Sayyid Qutb e Qaradawi. Tuttavia la letteratura dei Fratelli musulmani, tra cui alcune lettere di Hasan al-Banna, è essenziale e fondamentale.

Quali organizzazioni e quali individui dei Fratelli Musulmani in Europa la preoccupano maggiormente?

Dipende da che cosa si intende per pericolosità. Quello che posso confermare è che nelle moschee colonizzate dai Fratelli, non ci sono nascondigli di armi, che io sappia. In assenza di un pericolo immediato relativo al jihad armato, c’è il pericolo ideologico legato all'indottrinamento dei giovani musulmani, in particolare, per asservire un progetto totalitario. Dobbiamo continuare a chiudere gli occhi e nutrire il mostro con denaro pubblico? Dobbiamo continuare ad aprire le porte delle istituzioni europee ai rappresentanti della Fratellanza? Dobbiamo continuare a facilitare la marcia dell'islamismo, il tamkin globale? In questo senso, unitamente a quanto ho spiegato circa la diffusione dell'ideologia islamista in forma più modernizzata, circa l’esempio della stella marina, e non potendo grado di identificare tutte le “stelle” della Fratellanza, non è difficile individuare le principali strutture dei Fratelli Musulmani impegnate a formare e mantenere la “base” non solo in tutta Europa, ma anche in ogni paese, a partire dalla Federazione delle Organizzazioni Islamiche in Europa (FOIE), l’Institut Européen de Sciences Humaines (IESH) e il Consiglio Europeo per la Fatwa e la Ricerca e tutte le organizzazioni che fanno loro riferimento o che ne sono membri.

Il governo britannico ha pubblicato un sunto di un rapporto sulle attività dei Fratelli musulmani nel Regno Unito in cui si afferma che l'ideologia della Fratellanza rappresenta un terreno fertile per la radicalizzazione. Avete suggerimenti per le istituzioni europee che hanno progetti e rapporti con organizzazioni legate alla Fratellanza?

La risposta a livello di sicurezza contro la radicalizzazione è necessaria, ma non sufficiente. Bisognerà forse iniziare a considerare ai più alti livelli europei l'ideologia dei Fratelli Musulmani, oltre alla ideologia wahhabita e a quella jihadista, come un generatore a medio e lungo termine di radicalizzazione. L'Europa dovrebbe monitorare il flusso di denaro in entrata e uscita verso o dagli islamisti. I paesi europei dovrebbero stabilire regole di trasparenza per quanto riguarda la raccolta di denaro nei luoghi di culto musulmano. Si dovrebbero riclassificare alcune organizzazioni come “sette” e, qualora necessario, scioglierle per proteggere i giovani e le persone più vulnerabili. Se non è possibile vietare alla Fratellanza di aprire scuole private, si dovrebbe per lo meno smettere di sovvenzionarle con il denaro dei contribuenti. L'Europa dovrebbe redigere una lista nera di tutti i leaders internazionali della Fratellanza, noti per incitare il jihad, per la loro misoginia e impedire di risiedere o agire sul proprio territorio.
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Re: Fradełansa muxlim - Fratellanza mussulmana

Messaggioda Berto » dom gen 24, 2016 2:24 pm

???

Gamal e la “nuova visione dell’Islam”
23 gennaio 2016
PASQUALE HAMEL

http://www.siciliainformazioni.com/pasq ... -dellislam

Riproporre quelle che sono le parti forti del pensiero di Gamal al-Banna, intellettuale e mistico egiziano fratello di quell’Hasan al-Banna tristemente noto come fondatore dei Fratelli Musulmani, è costata sicuramente notevole fatica ad Amal Hazeen, autrice del volume “Gamal al-Banna, Una nuova visione dell’Islam”, pubblicato dalle edizioni La Zisa. Fatica per il doversi confrontare con uno studioso puntiglioso e pignolo, autore di numerosissimi testi in materia religiosa e sociale, che utilizza una versione molto particolare dell’arabo classico. Una fatica, tuttavia, compensata dalla soddisfazione di offrire, in un momento in cui se ne discute tanto, e troppo spesso senza cognizione di causa, un’originale e, perfino, sconvolgente approccio all’Islam.

Gamal, rivendicando, com’è naturale per un musulmano, la originalità dello stesso Islam che considera superiore ad ogni altra fede religiosa, respinge tuttavia l’ancoraggio ad un sistema statico che fissa la storia umana in quei trecento anni che seguono la rivelazione coranica. Per Gamal il Corano, più volte definito nobile, “è una volontà di cambiamento schiacciante che l’umanità non ha mai conosciuto prima”.

Da questo il rifiuto, esegesi coranica alla mano, delle sovrastrutture che il mondo islamico stesso ha costruito attorno al testo sacro.
Per Gamal, che guarda con attenzione i progressi dell’Occidente apprezzandone arte e scienza, bisogna tornare al Corano sfrondandolo di quanto non si correla alla storia, “dunque quando il progresso ha superato taluni aspetti, anche le disposizioni che il Corano aveva dato di essi vengono superate.
Una visione rivoluzionaria quella di mettere in discussione da musulmano lo stesso Corano, un passaggio dalla visione di testo increato a testo creato.
Per Gamal il Corano è soprattutto “un libro d’arte e il suo più grande miracolo è quello di mettere la lingua e le parole al servizio dell’arte stessa”.

A questo punto, profondamente compenetrato nella lettura intellettuale e spirituale del testo, lancia al mondo islamico una provocazione per ritrovare la verità attraverso una rifondazione che punti su tre pilastri, appunto il Corano come fonte, l’Uomo come foce, il tempo come categoria fondamentale dell’incarnazione della parola.

In merito al Corano, Gamal richiama il mondo islamico a tornare all’origine rifiutando le interpretazioni che sono state finora adottate che risentono dell’esegesi elaborate nei primi tre secoli dell’Islam e che, a suo dire, hanno deformato lo spirito del libro.
L’autore, in poche parole, nega che il Corano a cui fanno riferimento i musulmani sia il testo rivelato al profeta.
Egli considera il Corano uno scrigno da scoprire e quindi da attualizzare.

L’altro pilastro è l’uomo, il soggetto destinatario del messaggio.
Nel mondo islamico vale la regola del “l’uomo per il Corano” mentre in realtà, è questo il discorso di Gamal, bisogna ricordare che Allah ha rivelato il Corano per l’uomo, differenza non da poco perché, come è intuibile, ribalta il paradigma religioso è fa protagonista l’uomo, con le sue debolezze ma anche con le sue, giuste libertà.
L’uomo sarebbe l’asse su cui ruota il progetto divino, ed è l’uomo che Dio vuole salvare. L’uomo non è dunque il sottomesso ma l’interlocutore di Dio.
Dentro questa concezione dell’uomo sta la garanzia della sua dignità, la sacralità della conoscenza e dell’istruzione, la libertà, anche quella di scegliere un altro credo religioso.

L’ultimo pilastro e il tempo.
Il tempo per i musulmani tradizionali non avrebbe senso, per Gamal il tempo è invece fondamentale categoria da prendere in considerazione. L’uomo infatti è legato inestricabilmente ad un quadro temporale, non si può dunque prescindere da esso. L’avere fissato tutto ad aeternum, per cui la narrazione di quei tre primi secoli diventa paradigma imprescindibile in termini comportamentali, strumentali e, in poche parole, culturali, è un errore che emargina l’Islam e non lo fa seriamente protagonista della storia.
L’Islam deve invece confrontarsi con la storia per scoprire che le sue fonti possono reggerne il confronto.
Il volume analizza nello specifico i vari termini di quella che possiamo chiamare la drammatica questione islamica e offre quella via d’uscita dalla gabbia nella quale la stessa si è chiusa. Una via d’uscita che, allo stato dei fatti, mi sembra, che nessuno nella galassia islamica, e parlo anche di gente di buona volontà, vuole realmente praticare.
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Re: Fradełansa muxlim - Fratellanza mussulmana

Messaggioda Berto » sab feb 06, 2016 3:42 pm

Dietro all'assassinio di Giulio Regeni c'è l'Egitto dilaniato da povertà e islam
di Magdi Cristiano Allam 06/02/2016

http://www.magdicristianoallam.it/edito ... islam.html

(Il Giornale, 6 febbraio 2016) - L'Egitto, la culla della civiltà dell'uomo, la “Madre del mondo” come si celebrano orgogliosamente gli egiziani, si rivela sempre più un gigante dai piedi d'argilla. Pressato al suo interno da una popolazione dalla crescita incontenibile, a cui fa da riscontro una povertà dilagante, l'Egitto deve fronteggiare sia l'attività della criminalità comune organizzata sia la violenza del terrorismo islamico dei Fratelli Musulmani e di “Ansar Bait al-Maqdes” (Partigiani di Gerusalemme) legati all'Isis.

Quando nacqui al Cairo nel 1952, c'erano 2 milioni di abitanti, mentre l'Egitto ne contava 20. Quando mi trasferii in Italia nel 1972, il Cairo era diventata una metropoli di 5 milioni di abitanti e l'Egitto era balzato a quota 30 milioni. Oggi il Cairo è una megalopoli da circa 20 milioni di abitanti mentre l'Egitto ha sfondato la soglia di 90 milioni. Una massa umana schiacciata all'interno dello stesso 5 per cento di superficie fertile del Delta e lungo i bordi del Nilo, che portarono Erodoto nel quarto secolo a.C. a definire l'Egitto il “dono del Nilo”, quando l'intera popolazione era di circa 1 milione di abitanti.

Il Nilo, al pari del pozzo d'acqua in mezzo al deserto, ha plasmato la struttura politica e la cultura della società egiziana. La simbologia della piramide, ovvero un vertice che sovrasta e domina una massa costretta a compattarsi per poter beneficiare dell’unica linfa vitale, è una realtà che ha sempre forgiato la mentalità degli egiziani, imponendo una rigida gerarchia sociale così come avveniva 6 mila anni fa. La figura del faraone, un autocrate che incarna i massimi poteri e che finisce per essere idolatrato come un essere superiore dai comuni mortali, è una costante nella storia egiziana al di là delle forme esteriori che accompagnano l’evoluzione dei tempi.

In questo contesto l'Egitto è sprofondato in una crisi economica strutturale. I dati ufficiali indicano che il Prodotto interno lordo è di circa 324 miliardi di dollari, inferiore a quello della Lombardia, mentre il Reddito pro-capite è di appena 3,7 dollari. Il 45% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà con meno di 2 dollari al giorno, mentre il 30% della popolazione è analfabeta. Ufficialmente ci sono almeno 20 milioni di disoccupati, ma la gran parte dei giovani sono inoccupati e, non essendo mai entrati nel mercato del lavoro, non risultano nella statistica dei disoccupati. Le riserve di valuta straniera si sono dimezzate, creando seri problemi per l'acquisto di cibo e di prodotti petroliferi raffinati. Il turismo ha subito un drastico tracollo dopo la strage dell'aereo russo sui cieli di Sharm el Sheikh con 224 morti lo scorso 31 ottobre.

Il 70% della popolazione è formata da giovani con meno di 30 anni, ogni anno oltre 1 milione di giovani richiedono un nuovo posto di lavoro. Questi giovani, che non hanno la possibilità di metter su la propria famiglia, rappresentano una bomba sessuale letale. È al Cairo, durante la cosiddetta “Primavera araba” nel 2011, che si registrò il fenomeno del “Taharrush gamai”, la violenza sessuale di massa, orde di giovani che rapiscono e stuprano le ragazze in luoghi pubblici, così come si è ripetuto nella notte di Capodanno a Colonia e in altre 6 città tedesche, in Svezia, Austria e Svizzera.

Dopo la sconfitta subita nel 1967 nella “Guerra dei sei giorni” contro Israele, la società egiziana si è sempre più islamizzata e polarizzata: l'elite laica e benestante si è affidata alle caserme dell'Esercito, la massa religiosa e non abbiente si è rivolta alle moschee dei Fratelli Musulmani e di altre sigle estremiste islamiche. Ma anche lo stesso potere dei militari è stato man mano contaminato dall'islam. La sharia è la principale fonte della legislazione. Le questioni familiari e patrimoniali sono regolate da tribunali islamici, che attribuiscono alla donna uno status inferiore. L'apostasia del musulmano è sanzionata con la condanna a morte. I cristiani sono tradizionalmente discriminati e oggetto di persecuzioni.

A fronte di questo quadro preoccupante, dobbiamo dare atto al presidente Al Sisi che si sta prodigando per laicizzare, stabilizzare e sviluppare l'Egitto. Guai se il barbaro assassinio di Giulio Regeni dovesse incrinare i proficui rapporti dell'Italia con l'Egitto. Al Sisi rappresenta un baluardo nella lotta contro il terrorismo islamico. L'esercito egiziano è l'unico in grado di operare sul terreno per sconfiggere l'Isis e ripristinare la sicurezza e la sovranità della Libia. L'alleanza con l'Egitto di Al Sisi per l'Italia è obbligatoria e irrinunciabile.



Su Giulio i segni delle torture: "Forse tradito dai suoi contatti"
Polizia e procura si contraddicono. Sul corpo bruciature e ferite: non regge la pista dell'incidente Regeni vicino ad attivisti per i diritti umani e giornalisti scomodi. Agli amici scriveva: "Ho paura"
Fausto Biloslavo - Ven, 05/02/2016

http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 20612.html

Gli italiani che lavorano sulla brutale fine di Giulio Regeni temono che il giovane ricercatore trovato morto al Cairo mercoledì notte sia stato tradito dai contatti che aveva sul telefonino.

Il connazionale di Fiumicello, in provincia di Udine, sarebbe stato fermato dalle forze di sicurezza egiziane il 25 gennaio, giorno della sua scomparsa, nella zona super blindata della capitale per il quinto anniversario della rivoluzione di piazza Tahrir. Dal suo telefonino aveva mandato un sms ad un amico per raggiungere da quell'area una festa di compleanno, prima che il cellulare venisse spento per sempre. Chi lo avrebbe preso in custodia, come avviene per prassi, si sarebbe messo a controllare numeri di telefono e messaggi di Regeni. In Egitto era in contatto con ambienti di «sinistra», degli attivisti dei diritti umani e dei lavoratori, che non vanno a genio né al governo, né agli islamici. E conosceva giornalisti scomodi già arrestati al Cairo dai servizi egiziani. Il saper parlare arabo, per un europeo che vive in Egitto grazie ad un dottorato di ricerca, agli occhi di chi potrebbe averlo interrogato avrebbe destato sospetti nella psicosi dell'antiterrorismo e degli stranieri fomentatori. Le forze di sicurezza egiziane non vanno per il sottile e l'interrogatorio potrebbe essersi trasformato in brutale violenza, fino alla morte del povero Regeni. Poi avrebbero fatto ritrovare il corpo cercando di accreditare la pista dell'incidente, della criminalità comune o dei «motivi personali». Tutte piste che sono state fatte circolare.Qualcosa, però, è andato storto. Il cadavere del giovane è stato ritrovato mercoledì notte ai margini dell'autostrada tra il Cairo e Alessandria. Secondo il procuratore capo, Ahmad Nagi, il corpo «presenta segni di tortura, bruciature di sigaretta, percosse, escoriazioni, un orecchio tagliato ed è nudo nella metà inferiore».In precedenza il generale Khaled Shalabi, capo degli investigatori della polizia a Giza, aveva dato una versione completamente diversa sostenendo che la morte sarebbe stata provocata «da un incidente d'auto». Più tardi è sceso in campo Ashraf al Anany, direttore dell'ufficio stampa del ministero dell'Interno egiziano, assicurando «l'assenza di segni di tortura». Ulteriori indiscrezioni, però, parlano di «morte lenta e colpi inferti con strumenti taglienti». Non a caso il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ha chiesto «fermamente al governo egiziano di consentire alle autorità italiane di collaborare alle indagini. Vogliamo che emerga la verità fino in fondo». I primi investigatori dovrebbero arrivare oggi. Lo stesso presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha parlato al telefono con il capo dello stato egiziano, Abdel Fattah al-Sisi.La sera prima della scomparsa di Regeni, le autorità egiziane avevano arrestato uno studente americano accusato di «incitare le proteste» in occasione dell'anniversario di piazza Tahrir. Un amico dell'italiano ucciso ha raccontato al quotidiano filo governativo Al Ahram, che il dottorando voleva intervistare «attivisti dei sindacati» per la sua ricerca sull'economia egiziana. Regeni criticava duramente «le politiche neo liberiste» e come copertina del profilo Facebook, cancellato del tutto nei contenuti, aveva una foto in bianco e nero di Enrico Berlinguer.
Ieri il giornalista Giuseppe Acconcia ha rivelato che il ricercatore italiano scriveva sul Manifesto con uno pseudonimo.
Non firmava gli articoli con il vero nome «perché aveva paura per la sua incolumità».
Acconcia è stato arrestato dal Mukabarat, i servizi egiziani, durante la rivolta di piazza Tahir nel 2011. E ha intervistato l'ex presidente Mohammed Morsi dei Fratelli musulmani deposto dal generale Al Sisi e condannato a morte. Se Regeni aveva nella rubrica del cellulare il contatto di Acconcia sarebbe bastato a far scattare un interrogatorio. Il giovane friulano si era avvicinato alle battaglie per i diritti sociali e civili in Egitto facendo riferimento alle posizioni dell'ex ministro del Lavoro, Ahmed el Borai cacciato da Al Sisi.
Nessuna colpa, ma agli occhi di zelanti e primitivi agenti dell'antiterrorismo, magari di livello inferiore, potrebbero essere diventati indizi di chissà cosa. Nelle scorse settimane lo stesso presidente al Sisi è intervenuto pubblicamente «per condannare la brutalità» delle forze dell'ordine.



Giulio Regeni, l’amico egiziano: “Torturato con l’elettricità come me”. “Volevano rivelasse contatti e fonti”
La salma in volo verso l'Italia. Secondo alcune fonti il ricercatore friulano è stato fermato il 25 gennaio dalla polizia politica o dai servizi segreti insieme ad una quarantina di oppositori del regime di Al Sisi. Poi le sevizie per strappargli nomi e informazioni. L'ambasciatore italiano al Cairo: "Segni evidenti di percosse e torture". La testimonianza di un medico che lo conosceva: "E' successo anche a me". E intanto sono stati rilasciati i due sospetti fermati
di F. Q. | 6 febbraio 2016

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/02 ... ti/2438086

“Credo che siamo lontani dalla verità“, dice il ministro degli esteri, Paolo Gentiloni, nel giorno in cui la salma di Giulio Regeni arriva in Italia dal Cairo. La verità ufficiale di sicuro non è vicina. Le testimonianze degli amici egiziani del 28enne friulano, sul cui corpo ci sono chiari indizi di tortura, e le ricostruzioni fatte finora dagli investigatori italiani arrivati venerdì in Egitto puntano verso un’unica direzione. L’ipotesi prevalente è che il giovane ricercatore, che aveva rapporti con l‘opposizione politica e sindacale al regime di Abd al-Fattah al-Sisi e il 14gennaio aveva scritto un articolo sotto pseudonimo per Nena news, sia stato sottoposto a un interrogatorio brutale e non ne sia uscito vivo. Intanto alcuni quotidiani egiziani, tra i quali al-Masry al-Youm, citando fonti della Direzione della sicurezza di Giza smentiscono la notizia che si era diffusa venerdì dell’arresto di due presunti sospetti. Oggi è arrivata infatti la conferma del loro rilascio mentre questa mattina, poi, le autorità hanno convocato per interrogatori i tre coinquilini di Regeni, due uomini e una donna.

“Dai segni lasciati sul suo corpo riconosco una firma nota”, racconta a La Stampa un giovane medico di El Fayoun che era amico di Regeni. “Sono simili a quelli che ho io. Giulio è stato ucciso così”. Il ragazzo egiziano riferisce di essere stato arrestato più volte, l’ultima pochi mesi fa, e di essere stato torturato in una caserma con scariche elettriche perché si rifiutava di parlare dei suoi “contatti” con l’opposizione. “Mi hanno portato in una cella sotterranea dove sono rimasto al buio per altri 8 giorni e lì si sono tolti i guanti. Hanno usato l’elettricità perché sotto gli 80 volt lascia meno segni e giacché io avevo contatti con i media sapevano che avrebbero dovuto ammazzarmi perché una volta libero non li mostrassi. Quando usano il taglierino vuole dire che hanno deciso che non esci vivo da lì”.

Scosse che gli hanno provocato ferite simili a quelle di Giulio, viste anche dall’ambasciatore italiano in Egitto Maurizio Massari, che al Corriere riferisce di “segni evidenti di percosse e torture”, “ferite, ecchimosi e bruciature”. “Non c’è alcun dubbio che il ragazzo sia stato duramente picchiato e seviziato“. Su tutto questo potrà fare chiarezza l’autopsia che è stata disposta per oggi, poco dopo il rientro della salma che è partita dall’aeroporto internazionale del Cairo a bordo di un volo Egyptair con a bordo i parenti. Ad attenderli a Fiumicino ci sarà il ministro Orlando.

Secondo l’Huffington Post, i responsabili vanno cercati “negli ambienti più oscuri e violenti della polizia politica o dei servizi segreti egiziani, il famigerato Mukhabarat”, che avrebbero agito all’insaputa del presidente. Forse per screditare il regime, per sabotare le relazioni con l’Italia e il ruolo di Roma nel negoziato libico, è una delle ipotesi. Giulio, stando alla ricostruzione del quotidiano online, è stato fermato il 25 gennaio, quinto anniversario delle proteste di piazza Tahrir, insieme ad una quarantina di oppositori dell’attuale governo. Poco dopo è stato trasferito con tutti gli altri in una caserma della polizia o in una delle sedi del Mukhabarat. Visto che parlava l’arabo, è possibile che sia stato ritenuto “in grado di rispondere alle domande” e quindi di “fornire nomi e informazioni” sulle altre persone che si trovavano insieme a lui. Di qui l’interrogatorio e le violenze, andate avanti per almeno 36 ore, forse due giorni.


Giulio Regeni, il dolore dei compagni «Era un piccolo principe idealista»
Il ricordo degli amici e dei compagni del 28enne friulano trovato morto nella capitale egiziana. «Amava Pasolini. E alla piazza preferiva i libri»
di Andrea Pasqualetto, inviato a Fiumicello
4 febbraio 2016

http://www.corriere.it/esteri/16_febbra ... 46a7.shtml

FIUMICELLO - Pasolini, Spinoza, Subsonica e il grande sogno di un mondo più equo. «Era un pragmatico idealista, un razionalista, un amabile pacifista rock», lo dipinge il vecchio amico di Fiumicello, Fabio Lungo, suo vicino di casa e compagno di classe fino alla seconda liceo. Fino a quando cioè Giulio Regeni passò al «collegio del mondo unito», una scuola indipendente con sede a Duino che fa parte di un movimento internazionale per la pace e la cooperazione.

«Poi è partito per il New Mexico e ci sentivamo di tanto in tanto. Ci si vedeva quando tornava, un caffè, una birra e giù a parlare di politica internazionale, di ingiustizie, un po’ come ai tempi del liceo quando il viaggio quotidiano per Trieste, prima in treno e poi in autobus, era un confronto continuo sui temi del lavoro, del sindacato, su Berlusconi. Aveva un amore: Pasolini». Duino, New Mexico, Cambridge, ma anche Damasco e Il Cairo.

Dal Nord Est di Fiumicello, terra di frutteti e di attività associative (ce ne sono 50 per cinquemila abitanti), all’America dei college di Santa Fe, all’Europa universitaria di Cambridge per studiare le politiche mediorientali con l’occhio del ricercatore allo sviluppo economico dell’area delle primavere arabe. «Al liceo veniva un po’ spettinato, ha avuto anche un periodo rasta, diciamo che non si preoccupava del suo look. Già allora cercava altro e con grande impegno. Era eccellente nelle materie umanistiche. La cultura anglosassone l’ha poi reso razionale e non ideologico. Giulio era di sinistra, un pacifista, alla piazza preferiva i libri», prosegue Fabio che oggi fa l’avvocato. «Era contrario ai regimi e sicuramente alla politica del generale Al Sisi. Io ho il forte sospetto che si sia trattato di un delitto politico, non di criminalità comune». Giulio collaborava con il Manifesto usando uno pseudonimo, pare per paura di ritorsioni. «Non era uno sprovveduto».

A Fiumicello, dove sono state sospese tutte le feste carnevalesche dal 9 febbraio al 14, lo ricordano quand’era Sindaco del Governo dei giovani, fascia tricolore, il piglio di chi vuole cambiare le cose. «Ha fatto un mandato, io ero consigliere in quello precedente ma lui aveva una marcia in più». Mille passioni: la politica, il basket, il teatro. Ha giocato con la squadra giovanile di pallacanestro, ha recitato per il gruppo teatrale del paese dove insegnava Michela Vanni che pensa a lui con le lacrime agli occhi. «E la morte nel cuore perché Giulio era un puro ed è rimasto tale. Ragazzo dolcissimo, di grande apertura mentale e preparazione, di vasti orizzonti, più maturo della sua età. Ogni tanto capitano queste perle e quando non sono più alunni diventano amici. Ci mancherà molto».

Con lei c’è il suo compagno, l’assessore Bruno Lasca, ex preside della scuola media di Giulio, che ricorda l’ultimo regalo del giovane compaesano: «Ci ha portato El Principito, la versione spagnola del Piccolo Principe che lui aveva interpretato da ragazzo nel ruolo di aviatore adulto. Questo per dire della sensibilità». Le foto di quella recita sono una poesia. «C’è un fiore da me… credo che mi abbia addomesticato», sono le parole di Antoine de Saint-Exupéry che incorniciano il suo volto adolescenziale dove splendono due occhi neri lucidi come chicchi d’uva. «In ciascun destino tutto è particolare…», c’è scritto in un’altra foto dell’epoca che oggi suona come un brutto presagio.

La sorella minore Irene, che si sta per laureare in Chimica, non riesce a dire nulla. L’amico pittore Ivan Bidoli, che con la moglie Wanda l’hanno visto per l’ultima volta su Skype, sospira: «Veniva sempre a trovarmi, parlavamo per ore di pittura. L’ho perso per sempre, non doveva succedere». Sul tavolo comunale di Fiumicello il preside Lasca mostra una foto dell’«aviatore adulto» Giulio Regeni, atterrato in Africa e morto con i suoi sogni in un fosso del Cairo.



Al Sisi, «il minore dei due mali» non onora la rivolta anti-Mubarak
Il presidente egiziano ignora la sollevazione popolare che cinque anni fa, in piazza Tahrir, provocò la caduta di Hosni Mubarak. In Egitto regna un sistema autoritario e liberticida appoggiato da una porzione significativa della popolazione. Tacciono gli intellettuali che agli islamisti cacciati dal golpe militare del 2013 preferiscono il pugno di ferro del presidente
Michele Giorgio
24.01.2016

http://ilmanifesto.info/al-sisi-il-mino ... ti-mubarak

Sarebbe ingiusto attribuire agli intellettuali egiziani, come lo scrittore Alaa Aswani, responsabilità eccessive per il silenzio che oggi, tranne poche voci dissidenti, regna in Egitto – a cinque anni dalla rivolta popolare del 25 gennaio che fece cadere Hosni Mubarak – sul sistema a dir poco autoritario, dittatoriale secondo molti, imposto dal colpo di stato militare del 2013 e dal presidente Abdel Fattah al Sisi. Eppure pesano ancora, e tanto, le considerazioni che fece Aswani, storico oppositore di Mubarak, che alle presidenziali del 2012 aveva appoggiato il candidato progressista Hamdin Sabahi, a favore del governo militare. È il “minore dei due mali” spiegò lo scrittore per giustificare la rimozione dell’ex presidente e leader dei Fratelli Musulmani Mohamed Morsi (poi condannato a morte) e l’uccisione di centinaia, forse migliaia, di suoi sostenitori da parte delle forze di sicurezza in piazza Rabia al Adawiyya. Come Aswani troppi, anche a sinistra, scelsero «il minore dei due mali». Così oggi l’Egitto è una dittatura, mascherata da consultazioni elettorali o da attività parlamentari, peggiore di quella di Mubarak. Perchè l’ex presidente crollato cinque anni fa sotto lo slogan incessante “Ash-shab yurid isqat an-nizam” (Il popolo vuole far cadere il regime) scandito da due milioni di egiziani radunati in piazza Tahrir, era odiato da gran parte della sua gente. Al Sisi al contrario gode dell’appoggio aperto o non dichiarato di molti egiziani (e dei leader occidentali) che pur di tenere lontano dal potere gli islamisti hanno rinunciato a democrazia e rispetto dei diritti umani.

Piazza Tahrir ieri non era il simbolo della rivolta che travolse Mubarak e che per qualche tempo spalancò le porte di un futuro migliore davanti al popolo egiziano. Piuttosto ha ben rappresentato l’Egitto di Abdel Fattah al Sisi, della scelta del “minore dei due mali”, del dominio del liberismo economico, della miseria ancora più diffusa. Le strade principali, i ponti sul Nilo, i mercati del Cairo e dell’Egitto sono rimasti presidiati da ingenti forze di intervento rapido di polizia ed esercito, anche ad Alessandria e in altre province, per prevenire raduni e manifestazioni per il quinto anniversario dell’inizio della rivolta anti-Mubarak. Lo scopo ufficiale sarebbe stato quello di impedire le proteste dei “terroristi”, ossia i Fratelli musulmani (messi al bando), come quelle dei due anni passati funestate da scontri con decine di morti. In realtà il divieto a manifestare di fatto è costante e vale per tutti, gli islamisti come i socialisti e tutti coloro che furono protagonisti del 25 gennaio 2011.

In Egitto, scrive Amnesty International nel suo rapporto 2014-15, «il generale militare che aveva guidato la destituzione del primo presidente post-rivolta del paese nel 2013 ha assunto la presidenza dopo le elezioni e ha continuato un’ondata di repressione che ha preso di mira non soltanto i Fratelli musulmani e i loro alleati ma anche attivisti di molte altre affiliazioni politiche, oltre che operatori dell’informazione e attivisti dei diritti umani, con migliaia di persone incarcerate e centinaia di altre condannate a morte». Tra queste c’è Alaa Abd El Fatah, uno dei protagonisti della rivolta di Piazza Tahrir, condannato l’anno scorso a 5 anni di carcere per aver organizzato manifestazioni senza l’autorizzazione della polizia. Qualche giorno fa Mohamed Soltan, un egiziano con cittadinanza americana, ha raccontato alla tv al Jazeera i due anni trascorsi, tra torture e abusi, nelle prigioni di al Sisi.

In nome della lotta al terrorismo, quello reale e sanguinoso dell’Isis, che dal Sinai minaccia l’Egitto, e quello (mai dimostrato) dei Fratelli Musulmani, ieri Abdel Fattah al Sisi, ha rivolto un appello agli egiziani a difendere e proteggere il Paese. Appello lanciato non per l’anniversario della rivolta. Per il presidente al Sisi il 25 gennaio è il “Giorno della Polizia”, proprio come lo era durante i 30 anni di potere di Hosni Mubarak. Per questo, durante la cerimonia all’Accademia di Polizia del Cairo, ha ricordato i 40 agenti uccisi un anno fa dai jihadisti. Ha deposto una corona di fiori al monumento dedicato ai martiri della polizia. «Li vendicheremo, non li dimenticheremo mai», ha detto. Neanche una parola per le centinaia di egiziani uccisi (dalla polizia) nel 2011 e per le altre centinaia di vittime del 2013. Il “male minore” onora solo i suoi morti.



Giramondo e marxista. Il web s'innamora di Giulio Regeni
Social scatenati: "Amava il teatro, era ghiotto di salmone"
Luigi Guelpa - Sab, 06/02/2016

http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 20975.html

Quando una parte della società si appropria di un moderno referente simbolico significa che ne ha bisogno più per tendenza che per reale necessità. Se poi il referente è scomparso in circostanze tragiche farne un novello re Artù, che ritornerà un giorno a ristabilire libertà e giustizia, diventa quasi naturale.

È una consuetudine deplorevole, che aveva già travolto Vittorio Arrigoni, l'attivista e pacifista italiano ucciso a Gaza cinque anni fa. Neppure il povero Giulio Regeni è riuscito a salvarsi dalla trappola della canonizzazione. Social e parte dei media si sono cimentati in un'autentica gara di articoli dedicati alla scomparsa del giovane ricercatore utilizzando una melassa incline allo spirito di beatificazione. Stiamo assistendo a slanci di necrofilia che ricordano quelli vergati ai tempi della scomparsa di Lady Diana, laddove qualcuno arrivò a scrivere che «era leggera», e che «il suo cadavere pesava appena. Sarà ascesa direttamente al cielo».

Per ora l'hashtag carico di speranze #WhereisGiulio? si è trasformato nel più malinconico #GiulioisEverywhere.
In effetti Giulio è ovunque, soprattutto sulle prime pagine di tutti i giornali che cercano di comprendere chi e perché l'abbia assassinato. Tra i parecchi punti oscuri emerge un elemento inconfutabile: Giulio era impegnato politicamente verso una sinistra non propriamente moderata. Lo si evince dall'immagine di copertina di Enrico Berlinguer sul suo profilo Facebook, dalle collaborazioni con il Manifesto, e soprattutto dallo stretto rapporto con i rappresentanti del sindacato Centre for Trade Union and Worker Services (Ctuws), Centro sindacale e di servizi al lavoratore, organizzazione indipendente dei lavoratori in Egitto. Giulio Regeni condivideva gli ideali del suo leader, Kamal Abbas, incarcerato per i disordini di piazza Tahrir nei mesi della Primavera Araba egiziana.

L'interesse per Ctuws, organizzazione che è stata estromessa dal presidente Al Sisi da qualsiasi tavolo di concertazione sindacale, era nata nel 2011 dopo l'incontro in Italia con Fathy Tamer, uno dei leader di Ctuws vicino al Partito Libertà e Giustizia, movimento «benedetto» dalla Fratellanza Musulmana che portò all'elezione di Mohamed Morsi.

Tamer è sempre stato sostenitore della linea dura e dopo l'insediamento di Al Sisi aveva dichiarato al quotidiano Al Ghomouria: «Dobbiamo scioperare, a oltranza. Se i lavoratori si rifiutano di lavorare bloccano il Paese e il governo dovrà fare un passo indietro, fino a dimettersi».

Frequentazioni di sicuro impegnative quelle di Giulio Regeni, viaggiatore, intellettuale e ricercatore. Chi oggi racconta, ipnotizzato dalla «necrofama», che odiava il ketchup sulla pizza e che era ghiotto di salmone cotto al forno, che leggeva Pasolini e ascoltava i Subsonica, o che recitava a teatro ed era stato una promessa del basket, si tiene alla larga dal ricordare che nei giorni precedenti alla sua scomparsa aveva preso parte a una riunione con persone legate alla Fratellanza Musulmana, dichiarata il 25 dicembre 2013 dal Consiglio dei Ministri egiziano «organizzazione terroristica». Tutto questo ovviamente non giustifica nella maniera più assoluta il barbaro assassinio, maturato forse nel suo desiderio di conoscere, condividere e sposare cause rischiose in un paese difficile come l'Egitto. Di sicuro era un ragazzo molto coraggioso e maturo nonostante la giovane età.

A 17 anni aveva lasciato il liceo Petrarca di Trieste per andare a studiare a Santa Fe, nel New Nexico. Si era poi trasferito in Inghilterra, ma aveva nel cuore il Medio Oriente. Parlava fluentemente l'arabo, era stato in Siria e più volte in Egitto. Ufficialmente era tornato al Cairo per la tesi di politica economica all'università di Cambridge, dipartimento di politica e studi internazionali. Amava il Cairo, agli antipodi della natia Fiumicello (in provincia di Udine), e ben sapeva che in arabo al-Qahira significa «la soggiogatrice», ma forse non immaginava che sarebbe stato lui stesso a dover pagare il caro prezzo della sottomissione.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Fradełansa muxlim - Fratellanza mussulmana

Messaggioda Berto » sab feb 06, 2016 9:08 pm

Anca sti ki łi xe co i muxlim entegrałisti e deocrateghi; contro i cristiani ma co i muxlim.


Giulio Regeni: scusaci, avrai solo omertà
di Guido Rampoldi
Il Fatto Quotidiano, 6 febbraio 2016

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/02 ... ta/2438767

Tutto come prevedibile. Il regime egiziano, et voilà, arresta in un battibaleno gli assassini di Giulio Regeni, lo studente della Cambridge university prima torturato e poi ucciso al Cairo nell’anniversario del golpe. Trattasi, ovviamente, di malavitosi che nulla hanno a che fare con gli svariati centri della repressione, i quali, manco a dirlo, mai si sono serviti di criminali comuni. Esaurite le 24 ore del Facite la faccia feroce il governo italiano smorza i toni e ritrae quel tono esigente e imperativo che aveva puntato sulle autorità del Cairo nelle prime ore.

I siti informano che Renzi “chiede chiarezza”, e nessuno, giornalista o politico, chiede a lui di fare chiarezza sulle dichiarazioni di fraterna amicizia rivolte in varie occasioni al generale al Sisi, parole smodate che hanno impressionato giornalisti di quotidiani autorevoli come il Guardian ma non i giornalisti italiani, di destra o di sinistra. Oggi si chiude. Stamane leggeremo le oneste prose di qualche opinionista ancora dotato di senso dell’onore e di rispetto per se stesso: e con queste foglie di fico sulle proprie vergogne il circo dei media riprenderà lo spettacolo. Verrebbe da dire: perdonaci Giulio. Perdona questo Paese cui non assomigliavi affatto.

A Giulio vorremmo promettere questo: noi non dimenticheremo. Innanzitutto non dimenticheremo il tuo coraggio. Eri dentro un percorso universitario di grande prestigio, un itinerario accademico che porta lontano, che schiude carriere e accessi privilegiati. Eppure la curiosità o la passione civile, o entrambe, ti hanno condotto a misurare sul terreno le teorie apprese in una tra le migliori università del mondo. Per condividere le tue scoperte hai fatto quel che i giornalisti italiani spesso non fanno: hai fatto giornalismo. Al livello più alto: eri nel posto dove bisognava essere e avevi gli strumenti concettuali per capire. Se avessimo un’informazione capace di altrettanto, forse non saremmo un Paese così sgangherato.

Probabilmente non sapremo mai con certezza chi abbia deciso la tua morte. Sappiamo però che quel che dirà in proposito il regime avrà un’attendibilità pari a zero. I centri della repressione sono diversi e scollegati, ma tutti mentono per riflesso condizionato. In settembre in un appartamento del Cairo una qualche unità di polizia ha arrestato e liquidato sul posto nove notabili dei Fratelli musulmani, tra i quali un noto legale; e malgrado le ferite rivelassero che i colpi erano stati sparati a brevissima distanza, la versione ufficiale li ha dichiarati morti in un conflitto a fuoco. Nessuno ha contestato queste bugie: chi osa rischia la vita, non solo la galera.

Malgrado la menzogna sia sistematica, non v’è giornalista o politico italiano cui sia difficile conoscere la verità. Basta affacciarsi nel web e leggere quel che Sarah Leah Whitson, direttore per il Medio Oriente di Human Right Watch, ha detto al Congresso americano nel novembre scorso (ecco una cosa su cui riflettere: il Congresso l’ha convocata per sapere cosa sta accadendo in un Paese per gli Stati Uniti remoto; non risulta che il nostro Parlamento abbia di queste curiosità, malgrado l’Egitto sia vicino).

Non meno istruttiva è la relazione della Federazione internazionale per i Diritti Umani, dove si afferma che il regime usa sistematicamente lo stupro (“La diffusione delle violenze sessuali durante l’arresto o la detenzione, la somiglianza tra i metodi usati e l’impunità di cui godono i colpevoli indicano una cinica strategia politica per paralizzare la società civile e ridurre al silenzio l’intera opposizione”).

Malgrado questa facilità di accesso alle fonti, in Italia la gran parte dell’informazione non ha mai considerato rilevante quel che sta avvenendo nel Paese di cui siamo il primo partner commerciale. Quasi si potesse liquidare il massacro come “cose tra arabi”.

La Whitson ha concluso così la sua relazione al Congresso: è sorprendente che Paesi occidentali che si dichiarano campioni dei diritti umani non sentano alcun disagio per quel che sta accadendo in Egitto. Che questa fosse o no la sua intenzione Giulio Regeni rappresentò un Occidente diverso.



Vi racconto cosa succede davvero nell’Egitto di Al-Sisi
Luca Fortis Feluche

http://formiche.net/2016/02/06/egitto-a ... geni-islam

Il caso di Giulio Regeni, ritrovato morto in Egitto, non può che scuotere le coscienze. Senza voler entrare troppo nel caso specifico – saranno gli inquirenti, sia italiani che egiziani, e il tempo, a chiarire cosa sia davvero accaduto – è possibile però fare qualche riflessione.

Dopo anni di viaggi in Egitto e in Medio Oriente, mi sono reso conto di come l’ambiguità sia la parola chiave per capire il mondo islamico oggi.

In Egitto si trova tutto e il contrario di tutto. Attivisti per i diritti umani, concerti in cui si cantano canzoni che raccontano amori omosessuali, islamisti rivoluzionari e alleati con il presidente Abdel Fattah Al-Sisi e un potere che lascia certe forme di libertà, ma che poi diventa implacabile se si sorpassa una sottile linea rossa, non sempre chiaramente identificabile.

Al Sisi è riuscito a stabilizzare il Paese, lasciando qualche piccolo spiraglio di democrazia, ma non ha saputo evitare una notevole militarizzazione che spesso confonde la semplice opposizione con terroristi, che pur non mancano. Non è raro che qualche poliziotto o squadrone paramilitare perda il controllo, commettendo atti di violenza mentre arresta persone che protestano, per poi tentare di nascondere l’accaduto.

Essendo il Medio Oriente precipitato in una guerra generalizzata, è facile ipotizzare che anche il governo egiziano sia cascato nella trappola di vedere i giornalisti, le organizzazioni per i diritti umani e i semplici ragazzi che protestano nelle università come fattori di destabilizzazione durante la guerra per stabilizzare i confini con la Libia ed il controllo del Sinai.

Un errore che avrebbero potuto evitate e che probabilmente tra dieci anni, quando la gente sarà meno spaventata per la crisi economica e percepirà il Paese come più stabile, lascerà ferite importanti nella società.

Come detto, ho sempre pensato che l’ambiguità sia la parola giusta per descrivere la situazione del governo egiziano e del mondo islamico in generale.

Vista la situazione della regione, Al-Sisi ha stabilizzato abbastanza il Paese e ha tenuto in piedi le elezioni. Consultazioni elettorali molto lontane dall’essere perfette, ma sempre miracolose se si pensa a quelle di tanti nostri alleati nella regione che, Turchia, Tunisia e Libano a parte, non le contemplano proprio.

Ha commesso però errori inutili e gravi sulla libertà di stampa e di protesta. Errori drammatici se comparati con i sogni di piazza Tahrir, ma “normali” se confrontati alla realtà di tutti i Paesi del Medio Oriente.

Esclusi forse Libano e Tunisia, le carceri mediorientali divorano esseri umani. Perfino la Turchia, che fa parte della Nato ed è in trattativa per entrare nell’Unione Europea, ormai imprigiona i giornalisti. Dall’Afghanistan alla Nigeria c’è un conflitto generalizzato in cui alcuni attori giocano due o tre guerre parallele su scacchieri diversi.

Oltre le scintille tra sciiti e sunniti, con l’Arabia Saudita che si scontra, con le armi o politicamente, con l’Iran in Yemen, Iraq, Siria e Libano, vi è poi un conflitto tra islamici fondamentalisti e quelli che credono ancora nella tradizionale libertà di interpretazione: una guerra che travolge anche tutti i laici e le minoranze religiose come i cristiani. Questo scontro tra due diverse visioni religiose e di società ha partorito attacchi terroristici dalla Nigeria fino alla Cina o nuove entità statuali come lo Stato Islamico tra Iraq e Siria, o in parti della Libia.

Inoltre, vi è una guerra per procura che coinvolge le tre maggiori potenze sunnite del mondo arabo – Turchia, Arabia Saudita e Qatar – che, pur essendo tutte alleate degli Stati Uniti, si combattono in Libia e in modo più sporadico in Egitto e Palestina per la supremazia nel mondo sunnita. L’Arabia Saudita appoggia una strana alleanza tra salafiti e militari laici, come Al-Sisi in Egitto e il generale Khalifa Haftar in Libia, e si oppone ai Fratelli Musulmani sostenuti da Qatar e Turchia.

In pratica, qualunque Paese islamico viene visto come fragile, perché al suo interno vi sono molte minoranze religiose o gruppi tribali, e viene fatto piombare in una guerra civile da una di queste forze per farlo divenire un nuovo campo di battaglia.

Al-Sisi, avendo capito questo, mostra i muscoli per far capire che l’Egitto è stabile e per questo è un naturale alleato dell’Occidente. Il presidente egiziano sta inoltre tentando di fare un lavoro di riposizionamento della società civile islamica. Al Sisi, che ha deposto i Fratelli Musulmani nell’ultima onda della rivoluzione egiziana nel luglio del 2013, ha più volte dichiarato che non sta affatto portando avanti una guerra contro l’Islam, ma una guerra per salvare l’Islam da false interpretazioni che offendono la religione.

Il presidente oltre ad avere proibito i partiti islamici (pur mantenendo una certa tolleranza nei confronti dei salafiti), ha incominciato una lunga battaglia perché Al Azhar, l’Università Islamica del Cairo, controllata dallo Stato, modifichi il suo insegnamento ai predicatori. Il nuovo governo ha anche affiancato al consueto concorso sulla conoscenza del Corano uno sull’interpretazione del vero spirito della religione islamica. L’Egitto ha inoltre iniziato un lungo percorso per modificare i libri di scuola, con lo scopo di formare milioni di poveri con idee meno bigotte. Anche se alcuni zelanti esecutori delle decisioni governative hanno pensato bene di bruciare i vecchi libri di scuola, dando secondo molti osservatori una tragica immagine del nuovo ordine del Paese.

Al-Sisi è appoggiato dalla classe meno abbiente e dalla maggioranza dei ricchi con più di trent’anni, ma compie l’errore di inimicarsi, nel lungo periodo, i tanti giovani, democratici e borghesi, delle città egiziane, che protestano per avere lavoro e più libertà. Sono una minoranza che però potrebbe essere sua naturale alleata nella lotta contro gli islamisti. Anche per questo è un errore metterli in carcere.

Ma non è solamente l’Egitto a compiere questo sbaglio: esclusi Tunisia e Libano, praticamente tutti i Paesi confinanti lo commettono. La situazione diventa ancor più drammatica se si guarda alla Siria e all’Iraq, dove chi la pensa in modo diverso viene ucciso o schiavizzato sessualmente dall’Isis e dove vi sono alcuni veri e propri tentati genocidi, come nel caso degli yazidi e dei cristiani.

Il governo ufficiale della Siria non uccide interi gruppi etnici o religiosi, anzi è espressione delle minoranze, ma di certo anch’esso, pur di rimanere al potere, non si fa problemi a uccidere i propri nemici e i civili che gli stanno attorno. Le opposizioni siriane appoggiate dall’Occidente, a parte quelle curde ostacolate dalla Turchia, non sembrano però, fino a oggi, aver mai fatto nulla per salvare le cospicue minoranze religiose, islamiche o di altre religioni dal fondamentalismo, anzi appartengono loro stesse a questi gruppi. Questo sembra spiegare perché Bashar Al Assad non cade. Le minoranze religiose preferiscono lui, con tutte le sue ombre, agli altri. Per questo l’Occidente dovrebbe ricominciare a parlare con il governo ufficiale.

Perfino l’Europa, di fronte all’islamismo e a questo conflitto generale, sta mettendo in dubbio alcuni dei suoi pilastri. Per esempio sotto pressione delle migrazioni di massa mette in discussione Shenghen e subisce altri scossoni.

Quello che mi sembra manchi oggi nel mondo islamico è il riconoscimento reciproco dell’altro e la libertà di interpretazione del Corano. Molti osservatori sottolineano che sono stati Paesi come l’Arabia Saudita e il Qatar, grazie ai soldi del petrolio, a finanziare in mezzo mondo associazioni caritatevoli che, in in cambio di lavoro e soldi, hanno fatto aderire al wahabitismo, forma estremista dell’Islam che non accetta la libera interpretazione del Corano.

Tradizionalmente l’Islam, che non ha una figura come il Papa, ha sempre goduto di una certa libertà di interpretazione. Basta conoscere i primi califfati di Damasco e Baghdad: i musulmani dell’epoca d’oro non convertirono i cristiani e non buttarono giù i templi di Palmira. Baghdad, conquistata nel VII secolo dopo Cristo, rimase a maggioranza cristiana fino al’XI e, sino alla caduta di Saddam Hussein, nel Paese esistevano ancora quasi un milione di cristiani e tantissime altre minoranze. La città degli Abbasidi era poi considerata uno dei maggiori centri per lo studio della filosofia nel mondo.

Ci vorranno decenni perché il mondo islamico riesca a ritrovare la sua anima. In attesa che gli islamici trovino i loro Gandhi, Mandela e Lutero, mentre i templi di Palmira vengono fatti saltare in aria, l’Europa dovrà tentare di affrontare queste crisi senza che, i necessari compromessi, la distruggano.



Giulio Regeni: idee, articoli e paure
Alma Pantaleo Feluche

http://formiche.net/2016/02/05/giulio-r ... ieri-paure

Un dottorato in corso alla Cambridge University. Una laurea conseguita a Oxford. Un periodo di studi in New Mexico al Collegio del Mondo Unito, quando aveva solo 17 anni. Due premi vinti al concorso internazionale dell’Istituto regionale studi europei sul Medio Oriente di cui uno, nel 2012, sul tema dell’impatto che le rivolte arabe hanno avuto sulla popolazione tunisina ed egiziana. Aveva solo 28 anni, Giulio Regeni – il dottorando trovato morto alla periferia del Cairo, il corpo martoriato, con segni che fanno pensare a torture subite – ma poteva già vantare un curriculum rilevante.

I TEMI AFFRONTATI PER “IL MANIFESTO”

Tra le tante attività che puntellavano la vita di Regeni c’era anche una collaborazione con Il Manifesto, per cui aveva scritto più volte raccontando del regime e dell’opposizione ad Al-Sisi, della disoccupazione e degli effetti della crisi sulla società egiziana. Articoli che trattavano soprattutto di movimenti operai e di sindacalismo indipendente. «Temi a noi cari» spiega ai microfoni di Radio Popolare Giuseppe Acconcia, collaboratore del quotidiano, che conosceva bene Giulio.

I CONTATTI CON L’OPPOSIZIONE EGIZIANA E I TIMORI PER LA SUA INCOLUMITÀ

Occupandosi di queste tematiche, Regeni «aveva contatti con l’opposizione egiziana». Motivo per cui forse, spiega il giornalista, «mesi fa aveva chiesto più volte, per la pubblicazione dei suoi articoli, di non essere citato o di poter usare uno pseudonimo». Una scelta dettata «da motivi di incolumità e sicurezza, probabilmente anche per proteggere le sue fonti». Con la redazione – a cui aveva espresso i suoi timori anche in alcune email – si erano sentiti pochi giorni prima del 25 gennaio in cui è sparito. «Data evocativa – continua Acconcia - , perché coincideva con il quinto anniversario delle proteste di piazza Tahrir».

L’ULTIMO ARTICOLO, SCRITTO QUALCHE GIORNO PRIMA DELLA MORTE

In quell’occasione aveva inviato un articolo sui movimenti operai egiziani che, per questioni di spazio, non era ancora stato pubblicato. Il Manifesto lo ha pubblicato oggi, in apertura di giornale, come aveva preannunciato ieri sera il tweet di Simone Pieranni, che al desk del quotidiano si occupa di Esteri.



Cosa pensava Giulio Regeni dell’Egitto di Al-Sisi
Rossana Miranda Feluche
05/02/2016

http://formiche.net/2016/02/05/giulio-r ... to-al-sisi

“Al-Sisi ha ottenuto il controllo del Parlamento con il più alto numero di poliziotti e militari della storia del Paese mentre l’Egitto è in coda a tutte le classifiche mondiali per rispetto della libertà di stampa”. È questo l’incipit dell’articolo inviato da Giulio Regeni alla redazione del Manifesto a metà gennaio. Il giovane ricercatore aveva chiesto, anche quella volta, di pubblicarlo con uno pseudonimo. Ma oggi, all’indomani del ritrovamento del suo cadavere in un fosso vicino al Cairo, il giornale ha deciso di pubblicarlo con il vero nome. “Sfidare lo stato di emergenza e gli appelli alla stabilità e alla pace sociale giustificati dalla ‘guerra al terrorismo’ – è la conclusione dell’articolo – significa oggi, pur se indirettamente, mettere in discussione alla base la retorica su cui il regime giustifica la sua stessa esistenza e la repressione della società civile“.

SFIDE SOCIALI

L’ultimo articolo di Regeni racconta lo stato dei sindacati indipendenti in Egitto, in un contesto non poco convulso: “Negli ultimi due anni, repressione e cooptazione da parte del regime hanno seriamente indebolito queste iniziative, al punto che le due maggiori federazioni (la Edlc ed Efitu) non riuniscono la loro assemblea generale dal 2013”.

Molte anche le sue valutazioni e le critiche alle misure prese dal governo di Al-Sisi: “Sfidare lo stato di emergenza e gli appelli alla stabilità e alla pace sociale giustificati dalla ‘guerra al terrorismo’, significa oggi, pur se indirettamente, mettere in discussione alla base la retorica su cui il regime giustifica la sua stessa esistenza e la repressione della società civile”.

IL CONVEGNO CTUWS

L’articolo di Regeni si sofferma sull’incontro tra i sindacati indipendenti al Centro Servizi per i Lavoratori e i Sindacati (Ctuws). “Sebbene la sala più grande del Centro abbia un centinaio di posti a sedere - è scritto - la sera dell’incontro non riusciva a contenere il numero di attiviste e attivisti sindacali giunti da tutto l’Egitto…”.

Regeni spiega che Ctuws non è rappresentativo della complessa costellazione del sindacalismo indipendenti egiziano, ma l’appello è stato raccolto da un numero molto significativo di sindacati: “L’esigenza di unirsi e coordinare gli sforzi però è molto sentita, e lo testimonia la grande partecipazione all’assemblea, oltre ai tanti interventi che hanno puntato il dito contro la frammentazione del movimento”.

ALLA RICONQUISTA DI DIRITTI

Tra le conclusioni dell’assemblea c’è stata la decisione di formare un comitato rappresentativo con l’obiettivo di porre le basi per una campagna nazionale sui temi di lavoro e delle libertà sindacali: “L’agenda sembra decisamente ampia, e include tra gli obiettivi fondamentali quello di contrastare la legge 18 del 2015, che ha recentemente preso di mira i lavoratori del settore pubblico, ed è stata duramente contestata nei mesi passati”. Regeni racconta che in diverse regioni ci sono stati scioperi di lavoratori del settore tessile, cemento e costruzioni per rivendicare “l’estensione di diritti salariali e indennità riservate alle società pubbliche”. Benefici che i lavoratori egiziani hanno smesso di godere dopo le privatizzazioni dell’ultimo periodo dell’era Murabak, sottolinea l’articolo del Manifesto.

I GIUDIZI SU AL-SISI

Secondo Regeni, gli scioperi “contestano il cuore della trasformazione neoliberalista del Paese, che ha subito una profonda accelerazione dal 2004 in poi, e che le rivolte popolari esplose nel gennaio 2011 con lo slogan ‘Pane, Libertà, Giustizia sociale non sono riuscite sostanzialmente a intaccare”. L’altro aspetto, invece, riguarda “il contesto autoritario e repressione dell’Egitto dell’ex generale al-Sisi (…) Il semplice fatto che vi siano iniziative popolari e spontanee che rompono il muro della paura rappresenta di per sé una spinta importante per il cambiamento”.



Giulio Regeni: al Sisi, l”alleato’ con la coscienza sporca
di Fabio Marcelli | 6 febbraio 2016

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/02 ... ca/2435029

Dubbi sulle circostanze della morte al Cairo del giovane ricercatore italiano Giulio Regeni ce ne possono essere davvero pochi. Giulio è stato con ogni evidenza ucciso, mediante tortura efferata, da qualche organo di polizia agli ordini del dittatore del Paese, generale Sisi.

Quest’ultimo fa del resto fin dalla sua instaurazione, aperto ricorso a instrumenta regni come torture e sparizioni. Secondo l’organizzazione Egytpian Commission for Rights and Fredoms sono stati solo nel 2015, oltre 1.500 i casi di sparizioni di oppositori imputabili agli organi di “sicurezza”. Il giorno della sparizione di Giulio erano in corso manifestazioni nell’anniversario della rivolta del 2011 e non mancano testimoni oculari che affermano di aver assistito al fermo di uno straniero in quelle ore. Il fatto che stavolta ci sia andato di mezzo un cittadino italiano dipende da un lato dalla rozzezza degli apparati repressivi del regime e dall’altro dall’arroganza dello stesso, convinto della sostanziale impunità garantita dai suoi cospicui appoggi internazionali a partire dall’Arabia Saudita, perno di ogni politica reazionaria nella regione.

Sarà interessante verificare quale sarà la risposta di Renzi e Gentiloni a questo crimine tremendo, che ha soppresso la giovane vita di un brillante e coraggioso ricercatore italiano che abbinava, com’è sempre giusto, anzi doveroso fare, impegno scientifico e militanza per i diritti umani, soprattutto quelli dei lavoratori.

Diritti che al Sisi ha violato e continua a violare evidenziando la brutale natura di classe del suo regime. Nell’articolo pubblicato ieri dal manifesto, giornale con cui collaborava sotto pseudonimo, Giulio Regeni racconta con precisione ed entusiasmo lo svolgimento di un’assemblea sindacale nazionale, il vero pericolo, molto più degli islamisti, della dittatura repressiva e neoliberista al potere in Egitto. Come scrive oggi sempre sul manifesto l’ottimo Acconcia “le rivolte del 2011 sono state una rivoluzione proletaria che poteva mettere in discussione l’assetto del capitalismo egiziano fondato sulla proprietà delle fabbriche da parte dell’élite militare”.

Con la superficialità e mancanza di conoscenze e sensibilità che lo contraddistingue Renzi ebbe a definirlo “un grande statista”. Un atteggiamento del resto comune all’insieme dell’Unione europea e dell’Occidente più in generale, che oscillano costantemente fra l’appoggio ai peggiori dittatori, da Erdogan al regime oscurantista saudita al sistema israeliano dell’apartheid, ad, appunto, al Sisi e promozione delle guerre civili come in Siria e in Libia. Una politica destabilizzatrice e schizofrenica che causa enormi sofferenze per le popolazioni vittima di guerra e repressione e rischi crescenti per la pace.

Accogliendo il lascito intellettuale di Giulio, bisognerebbe invece puntare su di una terza via, quella del rafforzamento delle società civili e dei movimenti popolari. Tale scelta richiede evidentemente un fermo atteggiamento di riprovazione e condanna e il blocco immediato quantomeno dei rapporti relativi alla vendita di armi, alla cooperazione militare e a quella fra organi di polizia, in mancanza del quale i governi occidentali continuerebbero a rendersi complici dei crimini commessi da tali regimi. La questione della lotta al terrorismo, che essi invocano pretestuosamente per legittimare le loro sanguinose repressioni, va affrontata su ben altre basi, abbinando l’intervento militare concertato in sede internazionale per debellare Isis e simili alla promozione della democrazia, che non può essere esportata ma deve essere agevolata in primo luogo non collaborando con chi, come i terroristi, gli spietati dittatori o i regimi razzisti come quello israeliano, la soffoca ogni giorno nel sangue insieme alla vita e alla libertà dei popoli.

L’illusione tragica dei governanti occidentali è come sempre quella di avvalersi di questi impresentabili regimi autoritari per controllare i popoli e continuare a conservare le proprie posizioni di predominio. Per questo hanno fatto di tutto per fermare le rivoluzioni arabe negando ogni più elementare richiesta di libertà e giustizia proveniente da quei popoli, trattati alla stregua di eterni immaturi e sottosviluppati da affidare a qualche spietato dittatore pur di salvaguardare gli interessi commerciali e di altro genere. Per non parlare della lotta al terrorismo che questi regimi, anziché sconfiggere, alimentano con la loro odiosa e indiscriminata repressione. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ora le mani del generale Sisi e dei suoi complici occidentali sono sporche, oltre che del sangue di decine di migliaia di egiziani, anche di quello di un nostro giovane e valoroso concittadino.


Anca sti ki łi xe co i muxlim entegrałisti e deocrateghi; contro i cristiani ma co i muxlim.
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Re: Fradełansa muxlim - Fratellanza mussulmana

Messaggioda Berto » dom feb 07, 2016 7:04 am

Giulio Regeni: giusto fare chiarezza sulla sua morte ma anche sulle sue attività in Egitto
Feb 6, 2016
Scritto da Antonio M. Suarez

http://www.rightsreporter.org/giulio-re ... -in-egitto

Mano a mano che le indagini sulla morte di Giulio Regeni, barbaramente ucciso in Egitto, vanno avanti emerge sempre di più quello che appare un omicidio legato alle attività del giovane italiano in Egitto e in particolare a quelle attività legate ai suoi contatti con ambienti vicini alla Fratellanza Musulmana considerata dal Governo egiziano un gruppo terrorista.

Al di la del fatto che nessuno merita di essere ucciso in quel modo, a prescindere che si tratti di un italiano o di una persona di qualsiasi altra nazionalità, e che non c’è nessuna giustificazione a una simile violenza, dando per scontato che sull’accaduto il Governo italiano deve pretendere piena chiarezza da quello egiziano, il fatto che Giulio Regeni si trovasse in Egitto, cioè in un Paese in stato di guerra contro il terrorismo islamico, e che intrattenesse contatti con ambienti vicini al terrorismo islamico che fa capo alla Fratellanza Musulmana (sindacati e altri enti sociali) non può essere messo in secondo piano anche perché quasi certamente è il fatto all’origine del suo omicidio.

Se vai in Egitto e ti metti a fare l’oppositore al Governo, se crei una rete di informatori vicini alla Fratellanza Musulmana e ti metti a scrivere articoli critici su Al-Sisi su vari giornali che trattano di Medio Oriente, anche se nascosto da uno pseudonimo, non ti puoi aspettare che ti lascino fare quello che vuoi. L’Egitto non è Israele e i servizi segreti egiziani non sono come quelli occidentali. A loro se sei un italiano, un inglese o un cinese non gliene importa nulla. Se ti schieri con le opposizioni e in particolare con quelle vicine alla Fratellanza Musulmana sei un nemico e come tale ti trattano, a prescindere dalla tua nazionalità. Se evitiamo di considerare questo fatto riguardo alla morte di Giulio Regeni commettiamo un peccato di ipocrisia.

Giulio Regeni era perfettamente cosciente del rischio che correva tanto che su Nena News scriveva i suoi articoli usando uno pseudonimo. Certo, non poteva immaginare una simile violenza che, a scanso di equivoci, non ha nessuna giustificazione, ma indubbiamente sapeva perfettamente quello che stava facendo e i rischi che correva.

Oggi vediamo alcuni giornali di sinistra usare la morte di Giulio Regeni come un ariete contro il Governo di Abd al-Fattah al-Sisi. Sono gli stessi giornali che esultavano all’avvento della Fratellanza Musulmana e di tutto l’orrore che questo comportava. Quindi non possono certo dare lezioni di Diritti Umani a nessuno. E’ vero, il Governo di Al-Sisi non è un campione di democrazia, ma giudicarlo senza tenere in considerazione la situazione in Egitto non solo è stupido, è fuorviante. Abd al-Fattah al-Sisi è l’unico che combatte duramente l’estremismo islamico, cosa impossibile da fare in un Paese musulmano usando i guanti bianchi. Ben inteso, nessuna giustificazione alle violazioni dei Diritti Umani, ma questo fatto e la situazione egiziana meritano una analisi bel più approfondita e onesta rispetto a quella che certi media fanno.

Forse sarà troppo freddo e pragmatico, ma se vogliamo veramente far luce sulla morte di Giulio Regeni non possiamo evitare di guardare con occhio distaccato la situazione in Egitto e quello che il ragazzo italiano stava facendo in quel contesto. Giusto quindi pretendere chiarezza dal Governo egiziano, ma è altrettanto giusto valutare tutto il contesto altrimenti sarà solo una verità a metà.



Giulio Regeni era un agente dell’Aise?
5 febbraio 2016
Marco Gregoretti in Complotti, Storie, Terrorismo

http://www.marcogregoretti.it/complotti ... e-dellaise

La notizia che arriva al mio blog è piuttosto circostanziata: Giulio Regeni, il ricercatore universitario di 28 anni, scomparso il 25 gennaio e trovato morto in un burrone al Cairo la sera del tre febbraio scorso, era un agente dell’Aise (Agenzia informazione sicurezza esterna), il servizio segreto italiano che si occupa di “minacce provenienti dall’estero”. In pratica l’intelligence che ha preso il posto del vecchio Sismi. Dunque tutto quello che riguarda terrorismo internazionale, Isis, Califfo, Al Qaeda, Abu Sayaf, Boco Haram, narcotraffico, traffico di organi, di essere umani e di armi, passa attraverso l’Aise.

A quanto risulta a questo blog, Regeni era stato arruolato qualche anno fa quando i servizi segreti italiani cominciarono a fare campagna pubblica per arruolare nuovi operatori chiedendo il curriculum. Quello di Regeni, a quanto pare, sarebbe stato in linea con le aspettative: buone conoscenze informatiche e dimestichezza con le lingue straniere, master vari. Era stato inviato in Usa prima e a Londra dopo. Poi, con la scusa della tesi di laurea, da sei mesi si trovava in Egitto. E la sua collaborazione giornalistica con il Manifesto, come successe anche per altri nel recente passato, funzionava da perfetta copertura.

Secondo le informazioni che ho raccolto i motivi della sua morte, oramai è appurato che sia stato ucciso, sarebbero da ricercare proprio nella sua azione in Egitto. Al suo arrivo al Cairo si sarebbe subito messo in contatto con organizzazioni anti Abdel Fattah al Sisi, il Presidente egiziano. I servizi segreti egiziani lo tenevano d’occhio da tempo in quanto “fomentava l’opposizione”. Il 25 gennaio sarebbe stato “catturato” dall’antiterrorismo egiziano che lo avrebbe torturato, menomato, tagliandogli le orecchie e il naso, violentato e ucciso. Secondo alcune fonti la morte di Regeni sarebbe da interpretare come una sorta di avvertimento ai servizi italiani: “Non ingerite maldestramente”.

Una minaccia che arriva in un momento particolarmente delicato della nostra intelligence dopo la conferma che per la liberazione delle due cooperanti Greta e Vanessa sarebbe stato pagato dall’Italia un cospicuo riscatto. Si è parlato di dodici milioni di euro. In realtà sarebbero stati 13, ma uno sarebbe rimasto attaccato a qualche manina italica. Chi si è fregato un milione di euro? Questa situazione poco chiara ha provocato anche un terremoto all’interno dei servizi segreti italiani: 86 operatori, compresi alcuni in posizioni apicali, sono stati “licenziati”. Alla luce di tutto ciò quella telefonata di Al Sisi al Presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi :”Perseguiremo ogni sforzo per togliere ogni ambiguità e svelare tutte le circostanze”, non fa dormire sonni tranquilli ai nostri governanti. Qualcuno dall’interno dice: “Si sono mossi Mattarella e Renzi. Sono tutti con il pepe al culo”.




La primavera araba raccontata da Giulio Regeni
Il testo di una delle tracce che erano state proposte al concorso dell’Irse “Europa e giovani 2012”
04 febbraio 2016

http://messaggeroveneto.gelocal.it/udin ... 1.12897208

Venti dal Mediterraneo. I venti rivoluzionari che hanno investito i Paesi del Nord Africa hanno modificato gli scenari sociopolitici del Mediterraneo, mettendo anche in risalto la necessità di un ruolo da protagonista dell'Unione Europea. Approfondisci il percorso storico, politico e sociale di almeno due Paesi e traccia auspicabili sviluppi futuri.

Questo il tema della tesina che aveva vinto il concorso oragnizzato dall'Irse. Questa la motivazione:

"A Giulio Regeni di Fiumicello, MPHIL in Development Studies, Università di Cambridge. Dalla decolonizzazione alle “rivolte arabe”, l’autore ricostruisce il percorso dei popoli nordafricani, nello specifico quello tunisino ed egiziano, verso la conquista dei diritti civili e del benessere socioeconomico. Per costruire un nuovo patto sociale che garantisca la stabilità della regione, viene proposto un intervento dell’UE che abbandoni le spinte neoliberiste e favorisca una crescita armonica delle economie arabe. Ampia bibliografia. Sintesi e videopresentazione in inglese"
di Giulio Regeni

Introduzione

Gli eventi improvvisi che hanno spazzato via i dittatori del Nord Africa sono oggetto di un intenso dibattito all'interno della comunità accademica internazionale. Invece di definirli come una “primavera araba” o delle “rivoluzioni arabe”, il professore di studi islamici dell'Università di Oxford Tariq Ramadan preferisce chiamarli più cautamente delle “rivolte arabe”. Questa scelta è dettata dal fatto che i cambiamenti occorsi sin dal gennaio del 2011 lungo le coste meridionali del Mediterraneo rappresentano un processo di cambiamento il cui risultato rimane incerto.

Per di più, le cause stesse di queste rivolte sono oggetto di intensi dibattiti. In questo saggio intendo presentare una chiave di lettura delle rivolte in Egitto e Tunisia che prenda in considerazione le realtà storiche di queste società arabe, dalla liberazione dal giogo coloniale europeo all'attuale era della globalizzazione. Il mio obiettivo sarà quello di dimostrare che le recenti rivolte popolari non sono un fenomeno nuovo e che rappresentano la progressiva rottura di un patto sociale tra gli autoritari governanti nordafricani ed i loro popoli sottomessi.

Tale spaccatura è dovuta alla trasformazione del ruolo dello Stato da uno di tipo populista (basato sulla distribuzione di benefici sociali alla popolazione) ad uno di stampo neoliberista (basato sulla ritrazione dal ruolo precendente e sulla privatizzazione dell'economia). Quest'analisi è di particolare rilievo per l'Unione Europea e le politiche estere comunitarie, poiché è solamente attraverso la realizzazione di un nuovo patto sociale in grado di affrontare le problematiche sociopolitiche della regione che si getteranno le basi per un rapporto stabile, duraturo e vantaggioso tra i Paesi del bacino del Mediterraneo.

Decolonizzazione e Stato populista

La fine del periodo coloniale rappresentò per molti Paesi del mondo arabo un momento liberatorio pieno di speranze e di voglia di cambiamento, dopo anni di lotte nazionalistiche. In Egitto, l'indipendenza fu raggiunta il 23 luglio 1952 attraverso il colpo di stato architettato dai Liberi Ufficiali dell'esercito, capitanati dal Colonnello Gamal Abdel Nasser, che portò alla fine della presenza inglese in Egitto e della monarchia. Nasser divenne il primo egiziano a tutti gli effetti alla guida del Paese dopo 2.500 anni.

Nonostante il suo regime assunse sin da subito un carattere autoritario, il suo carisma, i miglioramenti nella qualità della vita della popolazione, una politica estera incentrata sull'unità araba ed il suo ruolo nel movimento non allineato durante la guerra fredda conferì all'Egitto un ruolo di spicco negli affari internazionali.

Il socialismo arabo promosso da Nasser venne adottato anche dal leader tunisino Habib Bourguiba che usci vittorioso dalla lotta d'indipendenza contro i francesi, grazie al supporto dell'Unione Generale dei Lavoratori Tunisini (UGTT), oltre che dei proprietari terrieri e dei commercianti. In entrambi i Paesi, il movimento di liberazione nazionale era strettamente collegato a quello dei lavoratori, dal momento che scioperi, occupazioni ed altre azioni di protesta facevano parte del repertorio di lotta contro la dominazione europea.

Il risultato di tale coalizione fu la creazione di un'ideologia nazionalista e populista basata sul supporto delle masse dei lavoratori, dei contadini e della piccola borghesia, in un processo di sviluppo mirato a raggiungere la piena indipendenza economica.

Una differenza rilevante tra i due Paesi è data dal rapporto che si instaurò tra Stato e movimento sindacale. Mentre l'UGTT crebbe sino a diventare la più potente forza d'opposizione al potere autoritario di Bourguiba, i lavoratori egiziani non ebbero mai una struttura sindacale di riferimento indipendente dal sistema di potere.

Lo studioso Robert Bianchi spiega che, mentre prima del 1952 il movimento dei lavoratori egiziano era organizzato su una base pluralista e sprovvisto di una struttura gerarchica, in seguito lo Stato cooptò le associazioni dei lavoratori tramite la loro corporativizzazione. In cambio del supporto al regime, l'influenza dei movimenti operai crebbe notevolmente e nel 1957 venne creato un sindacato generale, la Federazione Egiziana dei Sindacati (ETUF), con l'obiettivo di rappresentare i lavoratori all'interno della macchina statale.

Sia per Bourguiba che per Nasser il supporto di questa categoria dei lavoratori era indispensabile ai fini di lanciare un progetto ambizioso di politica industriale che facesse raggiungere alle nazioni arabe i livelli di progresso dei Paesi occidentali.

E' attraverso quest'ottica che va esaminato il patto sociale che venne ad instaurarsi tra io Stato populista di quegli anni e le classi sociali meno abbienti. Infatti, il supporto dei lavoratori era reso possibile dal monopolio statale sulla retorica della giustizia sociale e sull'assegnazione di benefici quali aumenti di paga, sussidi, istruzione gratuita e la certezza di un lavoro.

Questo rapporto padronale è conosciuto in arabo come dTmuqratiyyat al-khubz (democrazia del pane), dove il termine "pane" sta ad indicare un'economia morale del poveri, ovvero una situazione nella quale il regime autoritario può contare sul supporto popolare solo finché è in grado di provvedere alle necessità essenziali della popolazione.

Tuttavia, Il punto debole del modello arabo-socialista, e nella fattispecie di quello egiziano e tunisino, fu proprio quello di distribuire le già scarse risorse finanziarie su due fronti: sulla realizzazione delle aspirazioni delle classi popolari e sulla trasformazione del settore industriale legato agli schemi dello sviluppo capitalista.

L'incapacità dello Stato di incanalare le proprie risorse in maniera produttiva e con una visione strategica a lungo termine determinò il collasso del sistema populista. In ogni caso, dal punto di vista dei lavoratori, l'importanza di questo esperimento stava nel fatto che per la prima volta poterono conoscere e godere dei diritti di cittadinanza universali.

Con questa maturata consapevolezza poi, nel corso degli anni, i lavoratori risposero con violente reazioni popolari al mancato rispetto dei patti sociali da parte dei regimi nordafricani, com'è il caso anche delle recenti rivolte in Egitto e Tunisia.

Austerità e rivolte popolari

Il catastrofico risultato della guerra tra Egitto ed Israele del 1967 aprì un margine per la riconsiderazione del sistema socialista e per la prima espressione di malcontento popolare dal raggiungimento dell'indipendenza. Il 30 marzo del 1968 Nasser rettificò le sue precedenti politiche per mezzo di un manifesto che prometteva soluzioni tecnocratiche al malessere economico del Paese. La morte di Nasser nel 1970 e l'arrivo di Anwar Sadat alla guida dell'Egitto misero in moto un processo di avvicinamento agli interessi strategici statunitensi e di allontanamento da quelli sovietici.

Sia in Tunisia che in Egitto gli anni 70 furono caratterizzati dal ripiegamento dello Stato dalle sue precedenti responsabilità sociali, nel tentativo di ridurre i pesanti deficit accumulatisi negli anni dell'esperimento socialista, per mezzo di politiche di austerità. L'insieme delle politiche adottate in questa fase di svolta sono conosciute come Infitah (apertura), un processo inteso ad aumentare il flusso di investimenti stranieri nell'economia attraverso la deregolamentazione del mercato interno e la privatizzazione delle industrie statali.

L'applicazione di politiche di libero mercato in Tunisia ed in Egitto in quegli anni aumentò drasticamente la loro dipendenza verso l'importazione di prodotti alimentari dall'estero e portò ad un ulteriore indebitamento nei confronti dei Paesi creditori. Il venir meno dello Stato al suo precedente ruolo di pacificatore sociale comportò l'aumento delle diseguaglianze sociali e della disoccupazione.

Così, con la progressiva alienazione delle classi sociali subalterne, le stesse che avevano inizialmente dato supporto ai regimi, si portò a compimento una prima fase di ridefinizione del precendente patto sociale. Il risultato di tale politiche sarà l'esplosione di rivolte del pane (intifàdàt al-khubz), contro i governanti e le loro nuove politiche di austerità, che provocheranno la reintroduzione dei diritti precedentemente raggiunti dalla popolazione.

Ai fini di facilitare la transizione da un'economia pianificata ad un'economia di mercato, il governo egiziano chiese l'aiuto del Fondo Monetario Internazionale (FMI). In cambio del proprio supporto, l'istituto finanziario impose tagli alla spesa del budget ed in particolare dei sussidi alimentari su cui dipendevano molte delle famiglie egiziane. Il 17 gennaio 1977 il governo annunciò il dimezzamento dei sussidi sui beni di consumo di base da 554 a 276 sterline egiziane.

Quest'azione avrebbe determinato aumenti sul prezzo del pane (50%), dello zucchero (25%), del tè (35%) e del gas (50%), oltre che ad aumenti sui prezzi del riso, dell'olio da cottura, della benzina e delle sigarette. In risposta all'azione del governo, i lavoratori delle fabbriche di Hilwan e gli autotrasportatori di Alessandria diedero il via a dei disordini che si diffusero tramite il passaparola in tutto il Paese.

Le proteste dirette contro il regime ed il FMI comportarono l'uccisione di 79 dimostranti e l'arresto di altri 1200 da parte delle forze di polizia, e raggiunsero una tale intensità da costringere Sadat a ripristinare immediatamente i precedenti sussidi. Di particolare rilievo risultò essere il carattere spontaneo ed autonomo di queste furiose proteste, che si sparsero a macchia d'olio senza alcun contributo organizzativo da parte dei sindacati, degli islamisti o di movimenti d'altro tipo. Una reazione popolare cosi radicale non si faceva sentire dal rogo del Cairo del 26 gennaio 1952, in reazione alle violenze perpetrate degli occupanti inglesi.

Per quel che riguarda la Tunisia, si scatenarono una serie di dinamiche simili con l'attuazione di politiche di aggiustamento del deficit all'inizio degli anni '80. Verso la fine del 1983, il governo tunisino decise di implementare una serie di riforme di austerità con l'obiettivo di migliorare la propria performance economica, in seguito a pressioni ricevute dal FMI ed altri creditori. Come risultato, il prezzo dei beni di consumo essenziali quali il pane e la farina più che raddoppiarono.

Quest'azione generò risentimento e rabbia popolare determinati da questioni di disuguaglianza sociale, disoccupazione e povertà, oltre che da un senso di margìnalizzazione politica enfatizzata dalla nuova realtà dello Stato neoliberista. Nei primi giorni di gennaio del 1984, le proteste raggiunsero un tale livello da ingolfare completamente il Paese, che vide la partecipazione di un nuovo gruppo sociale: quello dei giovani disoccupati. Fu la loro presenza alle proteste che allarmò di più il governo e che espose agli occhi dei tunisini i punti deboli dello Stato autoritario.

Dapprima il governo rispose alle rivolte come sempre aveva fatto, causando almeno 50 morti tra i dimostranti. In seguito, il 6 gennaio 1984 Bourguiba apparve in televisione e promise la cancellazione dell'aumento sui prezzi e la reintroduzione dei precedenti sussidi. Come nel caso dell'Egitto queste rivolte seguirono una tendenza del tutto spontanea, senza l'intervento di alcuna forza politica antagonista al regime.

Il traguardo raggiunto dalla popolazione tunisina fu ben più consistente di un semplice ritorno ai benefici stabiliti tramite un sorpassato patto sociale. Infatti, i tunisini ottennero a breve la riconfigurazione del sistema politico con l'assunzione del ruolo di Presidente da parte di Zine El-Abidine Ben Ali e l'apertura del Parlamento a nuovi partiti. Quindi, le rivolte del pane del 1984 dovrebbero venir interpretate come la rivendicazione dell'autonomia politica ed economica del popolo tunisino, tanto dai tiranni interni quanto da inferenze politiche esterne. Ciò che è ulteriormente importante è l'inserimento di tali eventi all'interno di un'ottica globale.

John Walton e David Seddon calcolano che tra il 1976 ed il 1994, un totale di 146 proteste esplosero contro l'attuazione di riforme di austerità in 39 dei paesi in via di sviluppo più indebitati, raggiungendo un picco tra il 1983 ed il 1985. E' quindi evidente che le riforme introdotte dal FMI in gran parte del Sud del mondo abbiano generato reazioni di rigetto molto forti, di cui i governi in carica della loro implementazione divennero il massimo bersaglio.

Rivolte orientali e Unione Europea

Gli ultimi 25 anni videro l'accelerazione di riforme di mercato in Nord Africa in un contesto di stagnazione politica. A tal riguardo, la studiosa Michelle Angrist argomenta che i cambiamenti politici apportati da Ben Ali al sistema politico tunisino nella fase di transizione degli anni '80 furono di carattere puramente estetico.

Di fatto, solamente i partiti politici "moderati", cioè sottomessi alla volontà del partito dominante furono inclusi nel sistema elettorale, mentre gli "estremisti" islamici furono prima esclusi dal sistema politico e poi perseguitati. A questo quadro profondamente antidemocratico si aggiunse l'implementazione del primo Piano di Aggiustamento Strutturale (PAS) del 1986, fortemente voluto dalla Banca Mondiale.

Tale accordo portò all'ulteriore integrazione della Tunisia nell'economia globale ma anche alla crescente polarizzazione della società tunisina tra ricchi e poveri e alla sempre minore autosufficienza economica.

In Egitto, in seguito all'assassinio di Sadat nel 1981, Hosni Mubarak divenne il nuovo Presidente in carica. Sotto la sua guida lo Stato si distanziò sempre di più dalle politiche welfaristiche che avevano contraddistinto il regime di Nasser, mantenendo però il carattere corporativo di un autoritarismo che si faceva forte del proprio controllo sulla società civile e sulle istituzioni statali. Inoltre, a causa della fine del boom petrolifero nel 1984, insorse la difficoltà del governo a finanziare importazioni essenziali quali il grano.

Fu in questo scenario di crisi debitoria che il governo egiziano accettò il PAS della Banca Mondiale e del FMI in cambio della ristrutturazione del debito, una decisione che comportò riforme quali la liberalizzazione del commercio, la privatizzazione del settore pubblico e la riduzione della spesa pubblica.

Il politologo Nazih Ayubi considera che la privatizzazione del'ampio settore pubblico in Tunisia ed Egitto, in seguito ai PAS, non segui ad una valutazione empirica dello stato d'efficienza economica o a pressioni esercitate da imprenditori locali. Piuttosto, la privatizzazione delle aziende pubbliche fu il risultato della crisi fiscale dello Stato e delle pressioni degli istituti finanziari ad adeguarsi alle aspettative internazionali. Le conseguenze di ciò furono tra le cause principali delle rivolte che portarono alla capitolazione dei dittatori nordafricani.

In Egitto, il periodo tra il 2004 ed il 2011 vide l'accelerazione delle politiche neoliberiste associate agli istituti finanziari internazionali sotto la guida di un governo capeggiato dal figlio di Hosni Mubarak, Gamal, e da altri uomini d'affari.

La vendita di importanti aziende statali (ben al di sotto del valore di mercato) ed il licenziamento di molti lavoratori, portarono ad un aumento esponenziale di scioperi, sit-ins ed altre forme di protesta da parte di settori economici sempre più ampi, sia pubblici che privati.

Lo storico Joel Beinin calcola che, dal 1998 al 2011, circa 2 milioni di lavoratori (e lavoratrici) presero parte a scioperi generali che riguardarono quasi tutti i rami dell'economia, articolando richieste di giustizia sociale e riforma politica. Questa esplosione di partecipazione democratica avvenne nel contesto di uno Stato autoritario in cui persino i sindacati fungevano da strumento di controllo del regime.

La normalizzazione del concetto di protesta, poi, portò all'emergenza di movimenti politici giovanili acclamati dai media internazionali, quali Kifaya e Aprii 6 (quest'ultimo prende nome da un sciopero operaio violentemente represso nel 2008). Fu in quest'atmosfera di mobilitazione popolare generalizzata che si accesero i recenti eventi di protesta oramai impressi nella memoria collettiva; che non vanno letti come la prova di un "risveglio" del mondo arabo ma bensì come l'evoluzione di un ciclo storico di proteste intese a liberare il popolo arabo da governanti autoritari ed intromissioni esterne.

Questi fatti impongono una riconsiderazione del ruolo che l'Unione Europea (UE) dovrebbe giocare nelle sue politiche verso il Nord Africa, viste le vicinanze culturali e geografiche che da sempre accomunano le due sponde del Mediterraneo, in tal senso, l'UE potrebbe svolgere una funzione strumentale nel supportare un modello di sviluppo che tenga in considerazione i grandi cambiamenti in corso nella regione.

Leggendo i working papers divulgati dalla Commissione Europea negli ultimi anni, risulta chiaro che l'Europa stia portando sempre maggiore attenzione al Nord Africa per mezzo della propria Politica europea di vicinato e di vari progetti di cooperazione allo sviluppo, stilati per rispondere alle esigenze più impellenti dei popoli egiziano e tunisino.

Tuttavia, ora che una finestra di opportunità si è aperta per una democratizzazione reale della regione, l'UE dovrebbe assistere questi Paesi non solo attraverso politiche di alleviamento della povertà ma anche garantendo loro una piena indipendenza economica, che vada al di là delle interferenze occorse in passato da parte dei grandi istituti finanziari. Economisti dello sviluppo quali Ha-Joon Chang e Robert Wade enfatizzano l'importanza che una politica industriale incentrata sulla protezione delle industrie nascenti ricopre per i Paesi emergenti, all'interno del processo di integrazione nel mercato globale.

Tale considerazione è suffragata dal fatto che quasi tutti i Paesi avanzati dei giorni nostri (includendo l'Italia, gii USA, la Gran Bretagna e la Germania) adottarono con successo politiche protezionistiche per promuovere le loro industrie strategiche nel corso del proprio sviluppo. Questa libertà decisionale è imprescindibile dalla libertà conquistata dal mondo arabo con l'eliminazione dei propri tiranni. In questa svolta dalle politiche neoliberiste starebbe l'atto di solidarietà più significativo verso l'emancipazione del mondo arabo; e ciò rappresenterebbe un vero vento di cambiamento in tutto il Mediterraneo. ???



Sto Giulio Regheni nol se ga mai enteresà e preocupà de come ke stava ła megnoransa creistiana in Ejito e de ła so persecusion da parte dei musulmani, del rejime statal e da parte de ła Fradełansa Muxlim.
Nol se ga gnanca mai dimandà come ke se posa susidiar ła xente sensa laorar, fando debeto e sensa xvilupar el laoro e l'economia.
Sto "studente studioxo" nol se ga mai dimandà se łe ditature, i reximi statałi deograteghi xlameghi ił posa o łi podarà mai esar democrateghi.
Sto toxato el jera malà en testa envaxà de marxixmo e comounixmo.
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Re: Fradełansa muxlim - Fratellanza mussulmana

Messaggioda Berto » dom feb 07, 2016 9:26 am

Regeni, autopsia: "Morto per frattura vertebra cervicale dopo un colpo alla testa. Sul corpo segni di un violento pestaggio"
Egitto, Giulio Regeni: il ricercatore trovato morto al Cairo

http://www.repubblica.it/esteri/2016/02 ... -132827256


Al Cairo, davanti all'ambasciata italiana, egiziani e italiani, ma anche cittadini di altre nazionalità, mostrano cartelli, depongono fiori e candele a terra. Sulla pagina Facebook, creata dal gruppo the Januarians, gli organizzatori avevano descritto la manifestazione con queste parole: "Giulio Regeni è uno di noi. È morto uno di noi. Ci raccoglieremo con fiori per Giulio questo sabato alle 16".

Molti i giovani presenti, in gran parte donne. C'è anche Laila Soueif, la madre di Alaa Abd El Fatah, attivista che nel 2015 è stato condannato a 15 anni di carcere a seguito delle rivolte del 2011 contro Hosni Mubarak. Ci sono le madri di altri attivisti in carcere, c'è Khaled Awad, del partito Dustur, e molti rappresentanti di sindacati indipendenti, che erano oggetto dello studio e dell'interesse di Regeni al Cairo. "Giulio uno di noi - si legge su uno dei cartelli lasciati tra i fiori e le candele - per questo è stato ucciso come noi". Dall'altra parte del Nilo, descrive una giornalista il cui articolo è stato ri-postato dagli amministratori della pagina, c'è stata una dimostrazione "simbolica per tutti quelli che sono stati rapiti e torturati".

Giulio "era sempre più preoccupato dai frequenti arresti di giovani egiziani" da parte delle forze di sicurezza, ha detto in condizioni di anonimato, un amico del giovane italiano presente alla cerimonia. "Giulio è morto per una causa che ci riguarda tutti, la libertà di pensiero, di parola, di manifestazione". "Ciò che mi fa più male - ha proseguito - è il pensiero che sia stato ucciso per l'amore che aveva per noi egiziani". Secondo l'amico, Giulio Regeni "non aveva alcun legame con alcun gruppo violento".

Il servizio di medicina legale egiziano ha "cominciato a esaminare campioni prelevati dal corpo" di Giulio Regeni e i "rapporti definitivi saranno completati alla fine del mese in corso" ha annunciato, in dichiarazioni a media riprese da diversi siti egiziani, il ministro aggiunto della Giustizia per la medicina legale egiziano, Shabane el Shami. I medici legali hanno prelevato "campioni per il Dna e campioni di diverse parti del corpo per esaminarli", riferisce tra gli altri il sito del'autorevole quotidiano Al Ahram citando la dichiarazione del viceministro.

Domenica a Fiumicello si terrà la fiaccolata in ricordo di Giulio. L'appuntamento è nel pomeriggio alle 18 con partenza da piazzale dei Tigli sotto il municipio e arrivo in piazzale Falcone Borsellino, dove ha sede il Governo dei Giovani, di cui Regeni aveva fatto parte. Oltre al sindaco, Ennio Scridel, che ricorderà Giulio, è previsto anche un intervento del parroco, don Luigi Fontanot, che leggerà un messaggio dell'arcivescovo Carlo Roberto Maria Redaelli. In mattinata durante le funzioni religiose, il parroco rivolgerà anche un pensiero alla famiglia Regeni. La giunta comunale si è riunita per decidere se eseguire il funerale con una partecipazione pubblica oppure in forma privata. Ogni decisione verrà assunta con la famiglia. Per domani a Fiumicello è stato proclamato il lutto cittadino.



Sel stava a caxa sua e l lotava par l'endependensa de ła so tera furlana nol saria morto par gnente.
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Re: Fradełansa muxlim - Fratellanza mussulmana

Messaggioda Berto » lun feb 08, 2016 7:10 am

Capuozzo, la verità sull'omicidio di Giulio: "Vi dico io chi può averlo ucciso" - Esteri - Libero Quotidiano
06 Febbraio 2016
Adriano Scianca

http://www.liberoquotidiano.it/news/est ... refresh_ce

Non è stato un omicidio di Stato, il colpevole va cercato negli ambienti fondamentalisti. Sull' omicidio di Giulio Regeni, il giornalista Toni Capuozzo ha una tesi ben precisa. «La mia», spiega, «è una conclusione logica: il regime non aveva interesse a compiere questa uccisione. Sapremo mai la verità? Dipende da quanto la cercheremo. Ma siamo pur sempre il Paese che lascia due soldati all' India per quattro anni...». La morte di Giulio Regeni è ricca di lati oscuri.

Quante possibilità ci sono di arrivare alla verità, secondo lei?
«Io credo che al-Sisi abbia tutto l' interesse a collaborare. L' Egitto ha bisogno del sostegno occidentale, è lo Stato che riceve maggiori armamenti dagli americani. Se Regeni è stato attenzionato da ambienti dissidenti, il regime avrà tutto l' interesse a far luce sulla vicenda. Ovviamente il fatto che la verità venga a galla dipende molto da quanto la si cerca».

Insomma, dipende più dall' Italia che dall' Egitto?
«Sì, dipende da quanto l' Italia investirà in questa ricerca della verità. In fin dei conti abbiamo scoperto chi c' era dietro alcuni rapimenti avvenuti in Siria, che è un teatro di guerra, possiamo scoprire la verità anche su questo omicidio, se vogliamo. Certo, l' Italia è lo Stato che ha lasciato per quattro anni due suoi soldati nelle mani della giustizia indiana...».

Perché è convinto che gli autori dell' omicidio vadano cercati negli ambienti fondamentalisti?
«La mia è una conclusione logica, ovviamente non ho alcuna informazione supplementare su questo caso. Penso solo che i più imbarazzati di tutti, per questo omicidio, siano i funzionari del regime. Mi sembra improbabile che sia stato un omicidio di Stato».

In base a cosa lo dice?
«Vede, qualche giorno fa le autorità egiziane hanno arrestato un vignettista molto noto, nel Paese. Evidentemente le autorità avevano un conto da regolare con questa persona. Dopo qualche giorno, tuttavia, è stato rilasciato. Perché uno studente di 28 anni doveva rappresentare una minaccia maggiore?».

Forse per il suo impegno giornalistico, politico e sindacale.
«Sono problemi che l' Egitto poteva risolvere con un visto negato o un' espulsione. Francamente il regime mi sembra abbastanza solido da non essere messo in discussione da Giulio Regeni. No, credo che i colpevoli vadano ricercati altrove».

Dove?
«I dettagli dell' omicidio raccontano di un interrogatorio condotto con odio e volontà punitiva. Mi pare più probabile che alcuni gruppi organici ai Fratelli musulmani o comunque all' opposizione fondamentalista ad al-Sisi lo abbiano scambiato per una spia.
Giulio era un occidentale, frequentava l' università americana, faceva domande in giro: evidentemente qualcuno lo ha scambiato per ciò che non era e lo ha interrogato, torturandolo, affinché confessasse cose che in realtà non sapeva.
Poi l' ha lasciato in condizioni tali da imbarazzare il regime. Viceversa, anche il peggiore squadrone della morte al servizio di al-Sisi lo avrebbe fatto sparire senza lasciare tracce».

Anche qualche organo di stampa italiano ha ipotizzato rapporti fra il ragazzo e l' intelligence, tant' è che i nostri servizi hanno dovuto smentire ogni legame. Lei che ne pensa di queste teorie del complotto?
«Francamente troverei preoccupante se la nostra intelligence dovesse affidarsi a uno studente di 28 anni.
Mi sembrano ipotesi del tutto campate in aria».

Altri hanno mosso l' obiezione opposta: si tratterebbe del solito italiano ingenuo che va in giro per il mondo senza valutare i rischi. È d' accordo?
«Io penso che l' ingenuità non sia una colpa. Intanto spesso l' ingenuità si accompagna all' innocenza. E poi anche certi giornalisti che cadono nelle mani di bande terroristiche sono stati "ingenui" nel valutare questo o quel contatto, questa o quella situazione. E parliamo di persone forse più avvertite ed esperte di Regeni. Il quale, peraltro, aveva espresso perplessità e timori sulla propria incolumità, sia pur senza entrare nel dettaglio di quale fosse il pericolo che più temeva. Lui era uno studioso, purtroppo ci sono luoghi in cui anche la curiosità scientifica può essere mal vista. C' è stata ingenuità? Probabilmente sì, ma come ce n' è stata nei casi dei rapimenti in teatri di guerra dei giornalisti Mastrogiacomo o Quirico».



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Re: Fradełansa muxlim - Fratellanza mussulmana

Messaggioda Berto » lun feb 08, 2016 10:51 am

Trasformare drammi alla Giulio Regeni in martirii della nostra cattiva coscienza di occidentali
Non mi sembra pietoso nel discorso intorno a questi ragazzi il minimalismo del buon cuore
di Giuliano Ferrara | 05 Febbraio 2016

http://www.ilfoglio.it/esteri/2016/02/0 ... e_c484.htm

Non esiste un buon uso della crudeltà, della violenza e della morte. Ma dal modo in cui le racconti ti dirò che cosa vale la tua pietà. Quando tornano a casa lasciandosi indietro riscatti o vittime, come a Falluja o a Baghdad con Giuliana Sgrena e le due Simone (Torretta e Pari), o quando non tornano e scompaiono o vengono ritrovati martoriati, come è successo a Enzo Baldoni, a Vittorio Arrigoni, a Giulio Regeni, subito scatta il riflesso dell’icona prestampata. L’immagine è quella vera ed è a suo modo immagine sacra, perché spesso quando parliamo di questi ragazzi e ragazze si tratta della professione di capire e informare addentrandosi nei territori del male o di arginare il disastro di civiltà con interventi umanitari, ed è vero che c’è uno speciale eroismo della curiosità antropologica, dell’avventura orientalista, perfino un eroismo dell’ideologia della pace, perché no? Ma il santino no, lì si sente irrimediabilmente un che di pregiudiziale se non di falso.

Non mi sembra pietoso nel discorso intorno a questi ragazzi il minimalismo del buon cuore, l’idea che in quanto vittime sono vittime non dell’Esercito dell’islam (al Qaida, Baldoni), non delle spie di Falluja, non dei ricattatori che ci costringono a trattare con loro indecenti riscatti (caso Sgrena e Calipari), non dei mozzorecchi di Gaza (Vittorio Arrigoni), non degli squadroni della morte (Regeni, il Cairo), ma sempre e sistematicamente martiri della nostra cattiva coscienza di occidentali, alleati di tiranni, cercatori di rogna e di petrolio post coloniale. D’altra parte scrivono sul manifesto, collaborano al Diario di Deaglio, sono a posto con la linea e parlano del “valoroso popolo iracheno”, e per tutti è pronto uno storytelling, così lo chiamano, pieno di gatti, di dolcezze, di amicizie, di privatezze disperse nei fumi spietati della guerra, e il lavoro al Cairo è così lontano dalle ricerche a Oxford. Viene da piangere al solo pensare al prelevamento, alla tortura, all’insieme di ottuse e troppo umane ferinità che portano gli artigli dello stato di polizia o dei suoi corpi paralleli a lacerare il corpo di un giovane italiano che al massimo aveva preso dei contatti compromettenti anni dopo la primavera di piazza Tahrir e ne riferiva con linguaggio dignitoso e serio, sotto pseudonimo, sul giornale della sinistra antimperialista. Viene da piangere, ma non è la pietà lo stampo di cui è fatta la notizia. Non c’è titolo di giornale e comparsata tv che non alludano eccitati a responsabilità politiche presunte, a trivellazioni dell’Eni, ad alleanze indicibili con tiranni ineffabili, e dunque a quanto debba pesare la morte dei giovani idealisti, degli esploratori del bene in terra straniera, nell’idea di sé di chi è restato a casa o si è tenuto con prudenza professionale al di qua della zona di rischio e di condivisione della miseria brutale che dilaga in quei paesi.

Troppo facile e troppo complicato. La pietà è per sua natura una virtù semplice. Una militante egiziana ha postato dal Cairo la sua opinione con senso del vero dramma e con molta umanità: state lontani, amici stranieri, ragazzi che ci credete, da un paese che è ormai una gabbia di fantasmi, dove la sola esistenza individuale è sottoposta all’arbitrio e alla più inumana delle crudeltà, quella di uno stato tirannico. Non è seppellendo con rito inter-religioso la ragazza falcidiata al Bataclan, né aggrovigliando il mito di un occidente buono che si inoltra di là dai confini di incerte primavere, che non esistono e non sono mai esistite, non è multiculturalizzando come fosse in gioco il martirologio di una generazione Erasmus di amici dei dannati della terra, non è così che si denuncia lo scandalo della tortura. E nemmeno confondendo le acque e costruendo nuovi capri espiatori o rovistando introno alla discarica della ragion di stato. “State lontani da questa peste”, il messaggio della militante egiziana, per quanto disperato, ha un accento più vero della nostra fumettistica liturgia delle vittime.
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Re: Fradełansa muxlim - Fratellanza mussulmana

Messaggioda Berto » lun feb 08, 2016 12:44 pm

Giulio Regeni el jera un comounista fiłoxlamego kel stava da ła parte di Fradełi Musulmani e contro Al Sisi;
Al Sisi el stà da ła parte dei cristiani copti persegoità dai muslmani: Giulio Regeni prasiò el jera contro i cristiani e par ła so persecusion da parte dei musulmani.
So comounista non saveva gnanca cosa ke fuse ła democrasia, ke no ła xe domegno e ditatura de ła majoransa ma soratuto respeto de łe megnoranse e dei Diriti Omani Ogniversałi



Egitto, quella guerra di al Sisi contro l'Islam per salvare i musulmani
Al Sisi ha incominciato una lunga battaglia perché l'Università Islamica del Cairo modifichi il suo insegnamento ai predicatori. E non solo
Luca Fortis - Mer, 13/05/2015

http://www.ilgiornale.it/news/mondo/egi ... 28072.html

I muri color sabbia del deserto, con le loro merlature che s'innalzano verso il cielo creando giochi ipnotici, nascondono uno dei più bei capolavori del Cairo. La moschea di Ibn Tulum, costruita nel IX secolo, con il suo minareto che ricorda il faro di Alessandria è una delle più belle del paese.

Le sue sale di preghiera posizionate sotto gli archi aperti attorno a un vasto cortile, come si usava nelle prime moschee, raccontano molto dall'Egitto appena islamizzato. Il paese fu conquistato nel 640 dopo che un distaccamento di soldati arabi aveva messo sotto assedio la città di Babilonia, l'attuale Cairo e fondato nei suoi pressi la città di Al Fustat. Alessandria fu invece conquistata in modo pacifico a seguito di un accordo tra gli arabi e il patriarca cristiano melkita Ciro. Intesa che consentì senza spargimento di sangue alle comunità cristiane ed ebraiche di praticare la propria fede religiosa e conservare i titoli di proprietà dei propri beni in cambio del pagamento dell'imposta "di protezione” detta “jizya”.

L'Egitto della prima islamizzazione alternava la guerra per la conquista del potere politico, alla tolleranza religiosa nei confronti di chi riconosceva la sovranità dei musulmani arabi. Un'idea molto diversa dall'Islam fondamentalista di oggi che non tollera né le minoranze né che vi sia ancora la libertà di interpretazione del Corano. Tradizionalmente, sia nella religione sunnita che sciita, non vi era un papa o una chiesa con una gerarchia piramidale. L'interpretazione del Corano era lasciata ai singoli o alle differenti scuole giuridiche. Con il risultato che nel mondo esistono tante varianti dell'Islam quante sono le gradazioni di pigmento della pelle degli esseri umani. I capi della comunità musulmana fino all'arrivo del colonialismo erano i sultani, che non erano esponenti del clero, ma politici. Tendenzialmente il sultano non si occupava di questioni dottrinarie, ma al massimo sceglieva se lo stato fosse sunnita, o come nel caso persiano sciita, lasciando però un'ampia libertà di religione interna. Questo spiega perché l'India, una volta governata dai Mogul, ha una popolazione ancora a maggioranza induista o perché la Grecia ex ottomana è ancora abitata da cristiani ortodossi. Con l'arrivo del colonialismo i vari paesi islamici si trovarono di colpo con regnanti cristiani o laici e cominciarono a cercare una nuova identità adottando dall'Europa l'idea di nazionalismo o cercando in una riforma dell'Islam una nuova identità.

È in questi anni che si affaccia il primo Islam fondamentalista che comincia a teorizzare l'abolizione della libertà di interpretazione del Corano auto conferendosi il compito di scegliere cosa sia corretto o no da un punto di vista religioso. Sempre in quest'epoca nasce l'idea, anche per volontà europea, di creare nazioni separate in territori che dal tempo dei romani avevano quasi sempre vissuto in stati multiculturali. Entrambe queste visioni hanno portato alla ricerca dell'omogeneità religiosa o culturale attraverso scambi di popolazioni, come quelli tra Grecia e Turchia (1923) o quello tra India e Pakistan (1947) o guerre civili sanguinarie, come quelle in Bosnia, Libano e Siria. L'Egitto in tutto questo, grazie alla sua storia millenaria, ha avuto più facilità a costruirsi una nuova identità nazionale. Benché, anch'esso, sia stato scosso da movimenti islamici internazionalistici come i Fratelli Musulmani, che nacquero proprio sotto le piramidi nel 1928. Il mondo Islamico odierno sembra ormai immerso nella sua prima “guerra mondiale”, con alcuni attori che oggi fanno scoppiare conflitti dall'Africa fino all'Asia a seconda delle opportunità che si aprono. Oltre le scintille tra sciiti e sunniti, con l'Arabia Saudita che si scontra con l'Iran in Yemen, Iraq, Siria, Libano, vi è poi un conflitto tra i fondamentalisti islamici e gli islamici che credono ancora nella tradizionale libertà di interpretazione o contro i laici.

Questo scontro tra due diverse visioni religiose ha partorito attacchi terroristici dalla Nigeria fino alla Cina o nuove entità statuali come lo Stato Islamico tra Iraq e Siria. Inoltre, vi è una guerra per procura tra le tre potenze sunnite, Arabia Saudita, Qatar e Turchia, che pur essendo tutte alleate degli Stati Uniti si combattono in Siria, Libia, e in modo più sporadico in Egitto e Palestina per la supremazia nel mondo sunnita. In tutto questo il governo egiziano del feldmaresciallo Al Sisi, pur con le sue ombre sui diritti umani, sta tentando di fare un lavoro molto interessante di riposizionamento della società civile islamica. Il presidente egiziano, che ha deposto i Fratelli Musulmani nell'ultima sanguinosa onda della rivoluzione egiziana nel luglio del 2013, ha più volte dichiarato che non sta affatto portando avanti una guerra contro l'Islam, ma una guerra per salvare l'Islam da false interpretazioni che offendono la religione. Al Sisi oltre ad aver proibito i partiti islamici, pur mantenendo una certa tolleranza nei confronti dei salafiti, ha incominciato una lunga battaglia perché Al Azhar, l'Università Islamica del Cairo, controllata dallo stato, modifichi il suo insegnamento ai predicatori. Il nuovo governo ha anche affiancato al consueto concorso sulla conoscenza del Corano, uno sull'interpretazione del vero spirito della religione islamica. L'Egitto ha inoltre iniziato un lungo percorso per modificare i libri di scuola, con lo scopo di formare milioni di poveri con idee meno bigotte. Anche se alcuni zelanti esecutori delle decisioni governative hanno pensato bene di bruciare i vecchi libri di scuola dando una pessima immagine del nuovo ordine del paese.

Questo cambiamento nelle tradizionali politiche egiziane sta avvenendo grazie ai finanziamenti dei sauditi, il che potrebbe apparire contraddittorio, visto che i wahabiti hanno negli ultimi decenni finanziato i salafiti più conservatori in mezzo mondo. Rimane però il fatto che in mezzo a questo esplodere di radicalismo islamico nel mondo, uno dei paesi arabi più importanti sta finalmente tentando di far comprendere alla propria gente che il fondamentalismo islamico è una finta ideologia che allontana dalla vera religione. Le vecchie chiese e una bella sinagoga appaiono qua e là tra i vicoli della Cairo copto. L'atmosfera ha un che di antico, i gatti passeggiano assonati e le buganvillee trionfano nei loro mille colori diversi. I cristiani copti in Egitto sono ancora dieci milioni su una popolazione di novanta e dopo anni di turbolenze politiche hanno incominciato un percorso di riavvicinamento con i musulmani grazie alle politiche del nuovo governo egiziano. Il presidente al Sisi è andato a parlare in una chiesa per il natale ortodosso e da tempo spiega che i cristiani sono fratelli dei musulmani. Il percorso sarà ancora lungo e irto di ostacoli. Incominciando dalla tentazione egiziana di combattere l'islamismo fondamentalista dei Fratelli Musulmani con pene draconiane, facendo vittime anche tra i ragazzi laici che protestano contro la legge che mette paletti stringenti sulle manifestazioni.

Ma sui diritti umani l'opinione politica europea più che sbattere in faccia la porta all'Egitto, dovrebbe avviare un dialogo franco, capendo che la politica di Al Sisi di trasformare l'Egitto in un grande paese musulmano moderato, possa aprire molte opportunità e chiedendo allo stesso tempo al nuovo presidente di moderare certe sentenze della magistratura con decisioni politiche. In fondo basta leggere la trilogia del Cairo del premio nobel Naguib Mahfuz per rendersi conto che l'Egitto, fino cinquant'anni fa, non era solamente il paese in cui molte donne erano ancora segregate nelle case, ma era anche un luogo, dove con il calar della notte, si consumavano i vini zibibbi, dove le ballerine imprenditrici di se stesse diventavano le amiche e amanti dei nobili o degli esponenti della borghesia commerciale, dove fiorivano passioni omosessuali, in cui regnavano intrighi umani e psicologici di ogni genere. Il tutto senza che nessuno ne mettesse in dubbio “l'islamicità”.


EGITTO, PERCHE’ I CRISTIANI COPTI STANNO CON AL-SISI?
Simone Cantarini

http://erebmedioriente.tumblr.com/post/ ... stanno-con

Tenuti in disparte per oltre 3 decenni da Hosni Mubarak e bollati come infedeli dai Fratelli Musulmani, i cristiani d’Egitto (circa il 10% della popolazione) hanno scelto di stare dalla parte dell’ex generale Abdel Fattah al-Sisi, il nuovo leader d’Egitto, nonostante molti lo accusino di aver ordito un colpo di Stato a danno degli islamisti e di tramare per dividere il Paese e aumentare così il potere dei militari.

Per molti cristiani in Egitto la dipartita dei Fratelli Musulmani dal governo del Paese è una ragione sufficiente per essere fiduciosi rispetto al futuro. La recente decisione del generale Abdel Fattah Al- Sisi di candidarsi alle prossime elezioni presidenziali è stata accolta negli ambienti della minoranza religiosa con fiducia e soddisfazione.

Lo stesso patriarca Tawadros II non ha avuto remore a definire un “dovere” la candidatura di al-Sisi, sottolineando che molti egiziani considerano l’ormai ex generale un “salvatore”, eroe della rivoluzione del 30 giugno contro Mohamed Morsi.

In una intervista televisiva, il capo della Chiesa copta ortodossa ha affermato che “dal 30 giugno, l’Egitto ha iniziato perseguire regolarmente una strada verso il futuro, iniziata con la scrittura della nuova costituzione e continuata attraverso le elezioni presidenziali”. Secondo il patriarca la popolazione considera quella data come una pietra miliare nella lotta contro il fanatismo”. “Il 30 giugno – ha affermato – non è stato un giorno qualsiasi per egiziani, cristiani e musulmani. Ho visto la nascita di un nuovo consenso ed è stato attraverso la solidarietà che la popolazione ha mostrato il suo desiderio di liberarsi dell’egemonia dei Fratelli Musulmani”. Ricordando le immagini delle manifestazioni, Tawadros II ha sottolineato la presenza “di religiose che camminavano sotto la bandiera egiziana a fianco a donne velate dal hijab”, definendo quel quadro come “uno dei momenti più decisivi della storia del Paese”.

Le dichiarazioni del patriarca copto segnano anche una presa di posizione contro l’opinione dei governi occidentali che nel 2013 hanno bollato la Rivoluzione del 30 giugno come un colpo di Stato ordito dai militari. Tawadros ha citato la persecuzione patita dai cristiani durante il governo di Mohamed Morsi e culminata con gli attacchi contro chiese e proprietà avvenuti fra il14 e il 15 agosto 2013: “Abbiamo visto le chiese e monasteri distrutti, mentre i media occidentali falsificano i fatti e inoltravano notizie distorte”. Il patriarca ha evidenziato anche il problema dei sequestri di persona, divenuti una vera piaga per le popolazioni cristiane dell’Alto Egitto. In meno di una settimana 10 persone, fra cui cinque medici, sono stati rapiti nel governatorato di Minya. La polizia continua a definirli come casi isolati, ma per i cristiani questo è una conseguenza dovuta alla cacciata degli islamisti, che a causa delle posizioni pro-militari vedono nei copti il capro espiatorio del loro fallimento.

I fatti avvenuti in questi giorni nel quartiere di Aim Shams al Cairo confermano tale tesi. Lo scorso 28 marzo migliaia di manifestanti pro-morsi hanno assaltato la chiesa della Vergine Maria, sparando colpi di pistola con l’intento non solo di spaventare i fedeli riuniti per la messa, ma di ucciderli. Nell’assalto hanno perso la vita Mary Sabeh, copta ortodossa, e al giornalista musulmana Mayada Ashraf, e altre due persone. La chiesa si trova a poca distanza da uno dei quartier generali della Fratellanza e in questi mesi è stata presa d’assalto decine di volte. L’avvocato cristiano Romany Micheal, afferma ad Mcn direct che lo scorso 28 marzo “i Fratelli Musulmani hanno organizzato una marcia, scandendo slogan contro l'esercito e la polizia che ha provocato scontri anche con gli abitanti del quartiere di Saab Saleh”. Secondo il legale i dimostranti hanno allestito barricate bruciando copertoni davanti alla chiesa della Vergine e San Michele Arcangelo. Essi hanno circondato l’edificio, impedendo a sacerdoti e fedeli di uscire”.

Il caso di Aim Shams è solo l’ennesimo atto di rappresaglia contro i cristiani da parte degli islamisti in particolare i Fratelli Musulmani. Le ragioni di questo odio sono varie e non risiedono solo nello scontro fra cristiani e musulmani, ma anche nella storia politica dell’Egitto dove il patriottismo che include anche i cristiani ha radici antiche. Il concetto di watan,[1] (patria) risale al XIX secolo quando lo sceicco Rifa’a[2] scrive le poesie patriottiche cantando le lodi dell’Egitto, del soldato e dell’esercito egiziano, dove “l’amore per il proprio Paese è parte della fede”. Nel 1888 l’inizio dell’occupazione britannica dà un poderoso slancio a questa nuova ideologia e idea di Stato presa in prestito dall’occidente e riadattata al mondo arabo musulmano, facendo breccia anche fra i cristiani che in Egitto erano e sono una consistente minoranza, la seconda dopo il Libano, e detentori della memoria della cultura antica cancellata dall’arrivo dei musulmani dall’Arabia nel VII secolo. Il primo a formulare la frase “l’Egitto agli egiziani” è il giornalista cristiano Selim Naqqas. Tale espressione contro i colonizzatori inglese viene divulgata dal polemista ebreo Abu Naddara e messa in pratica dal militare musulmano Urabi Pasha. Nei decenni che hanno seguito la creazione della Repubblica araba egiziana fondata nel 1952 da Gamal Abdel Nasser viene ripreso questo concetto ed allargato alla formazione della grande nazione araba insieme alla Siria, che nonostante la prevalenza musulmana include al suo interno anche il resto dei popoli arabi non islamizzati.

In maniera ideale tali valori hanno influenzato anche le manifestazioni contro Mubarak. Un esempio sono le immagini di piazza Tahrir che mostrano centinaia di migliaia di persone sventolanti bandiere nazionali con i simboli della croce e della mezzaluna, e la famosa frase: “cristiani e musulmani una sola mano”.

I Fratelli Musulmani, movimento fondato negli anni ’20 dall’insegante di scuola secondaria Hasan al-Banna, ha invece proprio nell’islam il punto di partenza e di ritorno: partire dall’islam per riformare la società e ridare vita all’antico progetto di diffusione della vera fede nel mondo, attraverso la politica e l’eliminazione di quei leader che fuoriescono dai dettami della sharia. Per definizione la Fratellanza esclude sul piano politico nazionalismi e patriottismi, considerando le masse non musulmane alla stregua di dhimmi, sottomessi.

L’attuale demonizzazione del movimento ha molti precedenti. Le condanne a morte per 523 esponenti dei Fratelli Musulmani, l'incarcerazione di Mohamed Morsi e della guida suprema Badie non devono sorprendere. Nel 1948 la Fratellanza viene messa al bando in Egitto da Nuqrasi Pasha, primo ministro, che aveva intuito le intenzioni dei combattenti affiliati ad al-Banna di ritorno dalla guerra di Palestina: fare un colpo di Stato contro la monarchia e l’esercito e instaurare uno Stato teocratico. Nel 1952 è il turno di Nasser, che pur avendo militato fra le fila della Fratellanza mette al bando il movimento nel 1954 in seguito a un fallito attentato. Nel 1954 l’università di Al-Azhar, il più importante ateneo dell’islam sunnita, accusa l’organizzazione di “aver superato i limiti fra il bene e il male fissati da Dio nella rivelazione”.[3]

L’odierna lotta fra i militari del generale al-Sisi e i Fratelli Musulmani di Mohamed Morsi ha nell’antico scontro fra apparato statale di stampo occidentale e Stato teocratico le sue basi. L’unica possibilità per i cristiani è trovare spazio fra i primi, perché all’interno delle logiche della Fratellanza per loro non vi è mai stato posto.



Abdel Fattah al Sisi, il “Leone d’Egitto” che sfida i capi della umma e pretende una «rivoluzione religiosa» dell’islam
gennaio 18, 2015 Leone Grotti

Ritratto del generale musulmano che ha messo fine con la forza alla deriva estremista della “primavera araba”. Il suo scopo? «Dimostrare che democrazia e islam sono compatibili»

http://www.tempi.it/abdel-fattah-al-sis ... dell-islam

«Ora mi rivolgo ai religiosi e agli imam. È inconcepibile che il pensiero che noi riteniamo più sacro faccia dell’intera umma (comunità musulmana mondiale, ndr) una causa di ansietà, pericolo, morte e distruzione per il resto del mondo». Dopo la strage parigina compiuta all’interno della redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo, tutti sanno quanto fegato ci voglia a parlare in questo modo dell’islam, del Corano e dei testi della tradizione islamica. Soprattutto se l’uditorio non è composto da occidentali islamofobi ma dal gran consesso di imam, ulema e studiosi dell’università di Al Azhar. Queste parole, pronunciate l’1 gennaio, assumono ancora più valore se si considera che a pronunciarle è stato un musulmano sunnita. E non uno qualsiasi, ma il presidente dell’Egitto: «Questo pensiero – e non sto parlando di “religione” ma di “pensiero” –, questo corpo di testi e di idee che abbiamo sacralizzato nel corso dei secoli, fino al punto che separarsene è diventato quasi impossibile, si sta inimicando il mondo intero. Si sta rendendo nemico il mondo intero! È mai possibile che 1,6 miliardi di persone (i musulmani, ndr) vogliano uccidere i restanti sette miliardi di abitanti del mondo per poter vivere? No, questo non è possibile».

Durante il suo discorso, Abdel Fattah al Sisi, sposato e padre di quattro figli, eletto l’8 giugno 2014, non ha tradito alcun segno di nervosismo e questo atteggiamento è perfettamente in linea con il modo in cui viene descritto da coloro che l’hanno conosciuto: una persona sicura di sé, tranquilla, di poche parole e schiva. Diceva di lui il cugino Ali Hamama quando Al Sisi, fino a pochi anni fa militare sconosciuto alla stragrande maggioranza degli egiziani e del mondo, ha cominciato a diventare protagonista della vita politica del paese: «Non ci sono storie interessanti risalenti a quand’era bambino. Era sempre così serio. Abdel Fattah amava gli scacchi e si allenava sollevando pesi. Giocare a nascondino? Mai».

L’intervento con cui il presidente dell’Egitto ha chiesto ai responsabili più autorevoli del mondo islamico sunnita niente meno che una «rivoluzione religiosa» non è un’improvvisata, ma una conferma del percorso dell’ex generale, che ha un preciso obiettivo: mostrare che l’islam, al pari del cristianesimo, è compatibile con la democrazia. Il problema è: quale islam e quale democrazia? Al Sisi, infatti, prima di essere eletto presidente ha deposto con un colpo di Stato il suo predecessore dei Fratelli Musulmani Mohamed Morsi, ha dichiarato la Fratellanza un’organizzazione terroristica, mettendola fuori legge, non ha impedito la condanna al carcere di centinaia di suoi membri e viene visto da molti reduci della cosiddetta “Primavera araba” come il nuovo Faraone.

La carriera militare
Nessuno a Gamaleya, cuore pulsante della vecchia Cairo islamica, nel centro della capitale egiziana, a poche dozzine di metri dalla moschea di Al Azhar, si sarebbe mai immaginato che quel ragazzo di quartiere, nato nel novembre del 1954, secondo di otto fratelli, sarebbe diventato un giorno l’uomo più importante del paese. Cresciuto in una famiglia molto religiosa, Al Sisi dopo la scuola si recava tutti i giorni a lavorare nella bottega di artigiani di famiglia, situata nel bazaar di Khan el Khalili, la meta turistica più visitata dopo le Piramidi. Realizzava arabeschi e a sentire il cugino sapeva come farli «ed era anche molto bravo». Disciplinato, «quasi apatico», devoto e riservato, «di famiglia ricca ma sempre umile», il destino del giovane Abdel Fattah non era però l’artigianato ma la carriera militare. Iscritto in una scuola secondaria e poi all’accademia, si è laureato nel 1977 e tra gli anni Ottanta e Novanta ha scalato i gradi nelle brigate di fanteria meccanica, dove tutti si sono accorti che nonostante il carattere apparentemente docile, aveva le stimmate della leadership.

Manifestazione Al Cairo degli studenti contro il regime militareNegli ultimi anni del regime di Hosni Mubarak, Al Sisi è stato trasferito nell’intelligence militare, uno dei tanti organismi accusati dal popolo egiziano di svariati crimini. Questa militanza non ha giovato alla sua immagine, così come il rifiuto di criticare completamente l’ex raìs, ma l’uomo che nel giro di tre anni, dalle prime proteste di piazza Tahrir, è diventato il generale più giovane dell’esercito, capo del Consiglio supremo delle forze armate, ministro della Difesa e poi presidente, ha dimostrato di saperci fare anche con la politica. La “Primavera araba” ha segnato una svolta nella sua vita e in quella di tutto il paese, e la sua elezione a presidente è frutto tanto della sua capacità di leggere la volontà degli egiziani e di agire rapidamente, quanto dell’incapacità, della divisione e dell’assenza di alternative fornite dai giovani che hanno posto fine al regime di Mubarak.

Tutti si chiedono se l’uomo che oggi guida l’Egitto sia un dittatore, un islamista, un rivoluzionario, un nazionalista o la combinazione di tutte queste cose. E nessuno sa darsi una risposta perché Al Sisi cita spesso il Corano a memoria ma ha messo al bando i Fratelli Musulmani. Non può che essere considerato un uomo della vecchia guardia ma parteggia per la democrazia e nella nuova Costituzione che ha fatto approvare, viene garantito un livello di libertà (anche religiosa) mai conosciuto prima. Ha le idee più chiare Sherifa Zuhur, docente americana del presidente egiziano quando questi, nel 2005-2006, è stato inviato negli Stati Uniti, in Pennsylvania, a perfezionare gli studi militari. È di quegli anni un saggio di 11 pagine scritto da Al Sisi dal titolo: “Democrazia in Medio Oriente”. «Al Sisi non è un islamista segreto: non lo è mai stato e non penso lo sia ora», afferma Zuhur. «È invece un pragmatico: discutendo di califfati e islamizzazione delle istituzioni, vista la grande religiosità della maggior parte degli egiziani, vuole mostrare che l’islam può essere compatibile con la democrazia». Più precisamente: «Il punto che vuole sottolineare nel suo saggio è che non si può parlare di democrazia puramente secolare in Medio Oriente» e che allo stesso tempo «non si può monopolizzare la scena politica (…) impossessandosi di una religione».

Come si sfrutta una petizione
Alla luce di queste parole non stupisce che Al Sisi, il 3 luglio 2013, dopo aver portato in piazza i carri armati, abbia annunciato in diretta televisiva che Mohamed Morsi, eletto nel 2012 con il partito Libertà e giustizia, braccio politico dei Fratelli Musulmani, non era più il presidente dell’Egitto. L’allora ministro della Difesa e capo delle Forze armate ha saputo sfruttare una petizione firmata da oltre 20 milioni di egiziani che chiedevano le dimissioni di Morsi e ha capito che era arrivato il momento di prendersi il paese. Gli egiziani hanno perdonato ad Al Sisi la strage di Fratelli Musulmani del 14 agosto e la loro messa al bando per un solo motivo, come ricordato da Tewfik Aclimandos, ricercatore egiziano al Cairo dal 1984 al 2009: «Gli egiziani si sono stufati della Fratellanza perché questa ha compiuto attentati terroristici in tutto il paese. Nessuno in Egitto vuole più morire in un attentato. Ora c’è bisogno di uno Stato forte, di sicurezza, democrazia e giustizia sociale».

In un paese che ha avuto quattro presidenti della Repubblica tra il 1953 e il 2011, e altri quattro tra il 2011 e il 2014, Al Sisi ha compreso il bisogno di stabilità del popolo, ha cercato di rilanciare l’occupazione sfruttando l’amicizia dell’Arabia Saudita, tagliando i sussidi che rovinano l’economia del paese e rilanciando al contempo all’Occidente una proposta che non si può rifiutare: fermare il terrorismo islamico in Iraq, Siria e Libia. Questo ha ripetuto in occasione della sua visita in Italia e in Vaticano di fine novembre, sottolineando al Corriere della Sera «quanto sia importante la stabilità dell’Egitto» in un Medio Oriente e Nord Africa che bruciano.

Nel mezzo di questo percorso di cambiamento del paese, a 60 anni tondi, Al Sisi ha preso la parola davanti agli imam di Al Azhar e ha dichiarato: «Quello che vi sto dicendo, voi non potete comprenderlo se rimanete intrappolati nella vostra mentalità. (…) Ho detto, e ripeto, che noi abbiamo bisogno di una rivoluzione religiosa. Voi, imam, siete responsabili davanti ad Allah. Il mondo intero, lo ripeto ancora, il mondo intero sta aspettando una vostra mossa… perché l’intera umma musulmana viene lacerata, viene distrutta, si sta perdendo. E si sta perdendo per opera delle nostre stesse mani».

Pochi giorni dopo, la sera del 6 gennaio, in occasione del Natale dei copti ortodossi, ha partecipato al Cairo alla Messa solenne presieduta dal patriarca Tawadros II (prima assoluta per un capo di Stato egiziano) e ha detto: «È importante che oggi il mondo guardi gli egiziani. Avrete notato che ho usato solo la parola “egiziani”», non musulmani o cristiani, perché «noi siamo tutti egiziani». Un concetto inedito in un paese dove i cristiani, il 10 per cento circa della popolazione, sono perseguitati e considerati cittadini di serie B. Ma il coraggio è il minimo che ci si possa aspettare dal “Leone d’Egitto”, uomo che rilascia dichiarazioni di questo calibro: «Il nostro esercito potrebbe annientare lo Stato islamico in poche settimane».



Copti: Al Sisi e la libertà di culto
19/02/2015 Sbloccate le domande per costruire nuove chiese in Egitto. Le rinnovate speranze anche dei cattolici.

http://www.famigliacristiana.it/articol ... culto.aspx

In Egitto sono tutti d’accordo. Cattolici, Copti ortodossi e Protestanti ritengono che il nuovo Egitto di Abd al-Fattah al Sisi stia dando segnali importanti sull’ampliamento della libertà di culto e sulla possibilità di intervenire nel dibattito pubblico da parte dei cristiani.

Quello più importante è la decisione del Cairo di varare una nuova legge per la costruzione delle Chiese e a questo proposito la presidenza egiziana ha chiesto alle comunità cristiane un contributo. Intanto sono state sbloccate, in segno di buona volontà, le domande per costruire nuove Chiese al Cairo e nell’Alto Egitto per la comunità copta. Le domande giacevano al ministero dell’Edilizia da 8 anni. Ma si tratta di una piccola parte di quelle che si sono accumulate negli anni del presidente Moubarak, a cui il rais non aveva mai dato risposte.

La legge sulla costruzione di nuove Chiese in Egitto risale al periodo ottomano e prevede molti impedimenti e lascia ampie interpretazioni. In attesa della nuova legge il ministero dell’Edilizia, per venire incontro ad esigenze pastorali delle Chiese cristiane, ha messo a disposizione un terreno di 30 ettari del Patriarcato copto per costruire uffici e strutture collegati alla cattedrale si San Marco al Cairo. Altre tre chiese, due copte ortodosse e una copta evangelica, verranno costruire in altrettanti quartieri del Cairo.

Anche padre Rafic Greiche, portavoce della Chiesa cattolica, sottolinea la presenza di “un nuovo corso” nelle relazione tra le Chuiese e il nuovo governo di al-Sisi: “ Quello sull’edilizia di culto è un primo passo importante che sottrae la costruzione di chiese ad ogni tipo di arbitrio”.


Sarebbe interessante conoscere il pensiero di Giulio Regeni sulla condizione dei cristiani perseguitati e dei Diritti Umani in Egitto e nei paesi teocratici islamici. La democrazia non è tanto "il potere o la dittatura della maggioranza" ma piuttosto la tutela delle minoranze e dei Diritti Umani Universali. Il regime di Al Sisi per i cristiani d'Egitto era ed è il male minore; se vi fosse la Dittatura della maggioranza islamica dei Fratelli Mussulmani, i cristiani copti d'Egitto che sono i veri egiziani autoctoni, forse starebbero molto peggio. Chissà se Giulio si preoccupava di loro?


Giulio Regeni: un nuovo martire per l'opinione pubblica
Data: 08 febbraio 2016

http://www.informazionecorretta.com/mai ... E.facebook
Cari amici,

condivido la scelta di Informazione Corretta di non entrare nella discussione dei media - che più che discussione vera e propria è stato un coro - sulla vicenda del giovane Regeni, ucciso la settimana scorsa in Egitto, che a causa della sua morte è diventato una star mediatica, tanto da essere chiamato per nome, lui è i suoi genitori, da tutta la stampa, anche quella che normalmente evita queste modalità da gossip. Ma credo che sia anche il caso di chiarire alcune cose che i media evitano di dire.

Abdel Fattah Al Sisi

Faccio una premessa: non conosco gli scritti del giovane ucciso, ma mi sembra di aver capito di essere al polo opposto delle sue idee, che in rete appaiono spesso definite “comuniste” e della sua evidente simpatia politica per il mondo arabo e l'islamismo (http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 20975.html). Questo non mi impedisce affatto di condannarne l'uccisione e il modo particolarmente barbaro con cui è stata realizzata. E' ovvio che si tratta di un crimine efferato, e che i colpevoli dovrebbero essere scoperti e puniti.
I giornali italiani hanno già fatto il processo per conto loro e hanno deciso che si tratta della polizia del generale Al Sisi e su questo non posso essere d'accordo.
Il caso Arrigoni, quello di Giuliana Sgrena, rapita in Iraq, e di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, catturate in Siria, mostrano abbondantemente che non basta sentirsi “progressisti” e “dunque” dalla parte degli islamisti per sottrarsi alle loro azioni criminali; l'attentato in cui esplose qualche mese fa un aereo russo sul Sinai, fra cento altri episodi del genere, fa vedere anche che costoro non hanno remore a prendersela con gente innocente pur di danneggiare governi e stati che considerano nemici.
Ed è chiaro che questa morte danneggia il governo egiziano, nemico degli islamisti che Regeni frequentava e di cui si fidava, come a suo tempo Arrigoni a Gaza, ben più di un normale attentato.
La logica del “cui prodest” punterebbe dunque ai nemici di Al Sisi più che sul governo egiziano.

Non vi dico queste cose per convincervi di una mia verità. Io naturalmente non so come sia andata, come non lo sapete voi e i giornalisti che sdottoreggiano sugli alleati impresentabili e la dittatura che c'è in Egitto. La differenza è che io vi suggerisco di non andare subito alle conclusioni, perché al momento si sa solo che il giovane italiano è stato ammazzato da sconosciuti. Soprattutto mi sembrerebbe sbagliato trarre da questo oscuro giallo delle conclusioni sulla politica da tenere rispetto all'Egitto. La ragione è presto detta. Nell'intero Medio Oriente esistono oggi tre tipi di stati: quelli completamente falliti, in cui regna la guerra civile e la legge della giungla; le dittature violente più o meno mascherate, in cui fare l'opposizione è pericolosissimo e gli stati normali, democratici, in cui vige la legge. Questi ultimi sono facilissimi da elencare, perché nei 10 mila chilometri che separano il Marocco dal Pakistan ce n'è solo uno, che si chiama Israele. Gli stati falliti sono parecchi, Libia, Yemen, Siria, Iraq, Libano. Le dittature, che talvolta si travestono da democrazie anche tenendo le elezioni (Turchia, Iran) o da monarchie autoritarie ma benevole (Marocco, Giordania) sono tutti gli altri. E in questi posti spesso non ci sono alternative democratiche, nel senso che opposizione e governo concordano su una cosa sola: guai ai vinti, chi comanda ammazza tutti gli altri. Così è in Siria: come si fa a stare per Assad o per lo Stato Islamico? Se bisogna scegliere non è certo per la speranza che uno sia meno repressivo dell'altro.

Sostenitori della Fratellanza Musulmana in Egitto

E così è anche per l'Egitto. Mubarak, dittatore corrotto, fu abbattuto da una rivoluzione che alcuni osservatori molto ideologici si ostinano a chiamare democratica; ma questa fu presto presa in mano dai Fratelli Musulmani, che presero il potere barando alle elezioni, iniziarono subito a distruggere quel tanto di democrazia che si era affermata, e furono poi eliminati da un altro colpo di stato dell'esercito. Credere che l'alternativa al governo di Al Sisi sia la restaurazione del potere della Fratellanza Musulmana è follia, sia perché i fratelli musulmani hanno dimostrato ampiamente il loro carattere violento e oppressivo dovunque si siano insediati (per esempio a Gaza con Hamas, che ne è un ramo), sia perché la loro ideologia è molto simile a quella dell'Isis e di Al Queida, che si differenziano per dettagli tattici e per la volontà di affermazione personale e di gruppo, non certo per il rapporto con la democrazia o la tolleranza. Insomma sia Al Sisi sia la Fratellanza Musulmana sono dittatoriali; il problema è che la Fratellanza è ben più pericolosa per il suo integralismo religioso, per l'odio verso l'Occidente e l'antisemitismo, per la contiguità col terrorismo. Non si tratta del fatto che il primo sia come dicevano una volta gli americani “our son of a bitch”, il nostro figlio di buona donna. Il punto è chi è più pericoloso per il mondo e su questo non vi è il minimo dubbio.

Chi vuole combattere o danneggiare Al Sisi sta in realtà appoggiando la Fratellanza Musulmana, cioè vuole l'islamismo al potere in Egitto, con la conseguenza di stragi di cristiani e della guerra (almeno fredda) con Israele dell'appoggio a Hamas, della saldatura dell'islamismo egiziano con quello libico. Era questa fino a un paio d'anni fa la posizione di Obama, che poi fu costretto a lasciarla cadere per la sua impraticabilità. Prendere oggi a pretesto l'omicidio di Regeni per questa linea è una politica folle e suicida. Che la appoggi il solito coretto degli estremisti, dal Manifesto in giù, non fa meraviglia.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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