Fratellanza mussulmana

Fratellanza mussulmana

Messaggioda Berto » mer gen 20, 2021 9:08 pm

Chi ha fatto sparire Khashoggi?
Souad Sbai
17 ottobre 2018

https://www.opinione.it/esteri/2018/10/ ... musulmana/


Chi ha fatto sparire Khashoggi?

Che fine ha fatto Jamal Khashoggi? A questa domanda dovrebbe essere il Qatar a rispondere. Infatti, il giornalista saudita scomparso a Istanbul sembra essere rimasto vittima dell’ennesima trama imbastita dal regime di Doha con i suoi fedeli esecutori appartenenti all’internazionale islamista della Fratellanza Musulmana, che ha attualmente nella Turchia del Sultano Erdogan il suo principale avamposto geopolitico e la sua principale base operativa.

Che Khashoggi fosse ormai divenuto un puppet, un burattino nelle grinfie della Fratellanza Musulmana, è un dato di fatto che Khashoggi stesso non ha fatto nulla per smentire o nascondere. Basta leggere il suo editoriale di fine agosto pubblicato dal Washington Post. Prendendo spunto dall’uscita di un libro sulla caduta di Morsi e l’ascesa di Al Sisi in Egitto scritto dal collega del New York Times, David D. Kirkpatrick, l’ennesimo degli occidentali folgorati sulla via dell’islam politico, Khashoggi illustra chiaramente la propria visione fondata sul culto della Fratellanza Musulmana, utilizzando argomentazioni a dir poco speciose e insostenibili.

Identificare nella Fratellanza Musulmana la sola speranza di libertà e cambiamento in Medio Oriente dopo secoli di tirannia, come fa convintamente Khashoggi, può essere solo il frutto di una profonda manipolazione ideologica e psicologica: arte in cui i Fratelli Musulmani sono notoriamente maestri facendo parte del loro tipico modus operandi da quasi un secolo. La democrazia dell’alternanza, il pluralismo e persino lo stato laico, per i Fratelli Musulmani non sono altro che cavalli di troia per la conquista del potere, attraverso cui far scendere sulla società il velo della loro dottrina basata su un approccio ultraortodosso e fondamentalista alla religione islamica. A prova di ciò, non bisognava attendere che Morsi implementasse il progetto dei Fratelli Musulmani per l’Egitto: bastavano già il regime khomeinista in Iran, quello di Hamas a Gaza e la deriva turca sotto il giogo di Erdogan.

Il popolo egiziano, lo stesso popolo che era sceso in piazza contro Mubarak, ha agito prima che fosse troppo tardi, dando vita a quella che Khashoggi e compagni, indispettiti, hanno definito derogativamente una contro-rivoluzione. Nell’articolessa, il giornalista attacca persino Barack Obama per non aver supportato la Fratellanza Musulmana in Egitto: un falso storico vista la malcelata intesa tra la precedente amministrazione americana e gli “Ikhwan” nel contesto della cosiddetta Primavera Araba, e la freddezza dei rapporti tra Washington e Al Sisi dopo la caduta di Morsi. Nel mirino di Khashoggi finisce naturalmente anche l’amministrazione Trump, accusata di aver ceduto alle pressioni della “sua” Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, incrementando l’ostilità americana verso la Fratellanza Musulmana fino al punto da volerla dichiarare ufficialmente come organizzazione terroristica.

Quello di Khashoggi per i Fratelli Musulmani e l’islam politico è un innamoramento di lungo corso, risalente agli anni Ottanta quando il pensiero degli “Ikhwan” aveva preso il largo anche in Arabia Saudita. Khashoggi appartiene infatti alla stessa generazione di Bin Laden, che fu profondamente influenzato dalla Fratellanza Musulmana a partire dagli anni universitari fino alla creazione di Al Qaeda. Khashoggi ha sempre fatto sfoggio di stima e amicizia per Bin Laden, intervistato quando si trovava in Afghanistan, al punto da piangerne con immenso dolore la scomparsa con un tweet indelebile che non poteva non presagire la rottura che si sarebbe consumata qualche anno più tardi con l’Arabia Saudita.

Dallo scoppio della crisi nel Golfo, avvenuta nel giugno 2017, Khashoggi si è fatto portavoce della propaganda e delle narrative adottate dal Qatar, Al Jazeera e dall’esercito mediatico ed elettronico della Fratellanza Musulmana, criticando duramente l’embargo imposto dal Quartetto arabo contro il terrorismo nei confronti di Doha e l’intervento militare nello Yemen ad opera della Coalizione guidata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Riyadh e Abu Dhabi continuano a sostenere il governo yemenita legittimo e internazionalmente riconosciuto nella liberazione del paese dall’occupazione delle milizie Houthi armate e finanziate dal regime khomeinista iraniano, con il fiancheggiamento dell’intelligence qatarina e della Fratellanza Musulmana locale (il partito Al Islah).

In sostanza, prima della sua misteriosa scomparsa a Istanbul, Khashoggi militava a pieno titolo nello schieramento internazionale di giornalisti, esperti, diplomatici, uomini politici e d’affari sul libro paga del Qatar e sotto l’influenza dei Fratelli Musulmani. Questi erano divenuti letteralmente la nuova famiglia di Khashoggi. Tuttavia, la fidanzata islamista, nonché le amicizie con influenti esponenti dell’entourage di Erdogan e con il Sultano stesso, potrebbero aver fatto parte di un grande inganno volto a far deflagrare una potentissima bomba mediatica e diplomatica sulla nuova leadership saudita.

L’intelligence turca che all’aeroporto non intercetta il presunto commando proveniente da Riyadh per eliminare Khashoggi; il video che riprende gli spostamenti dei presunti esecutori di fronte all’ambasciata e al consolato dell’Arabia Saudita composto da immagini di vecchia data, secondo rivelazioni riportate dai principali media arabi; le manifestazioni di protesta contro l’Arabia Saudita inscenate, come da copione, da organizzazioni legate al Qatar e alla Fratellanza Musulmana; il sostegno offerto dall’emiro del Qatar, Tamim Al Thani, al “fratello” Erdogan per affrontare la crisi con l’Arabia Saudita: una sceneggiatura preconfezionata con vari attori e Khashoggi nella parte della vittima inconsapevole, vittima dei suoi stessi Fratelli Musulmani. La verità sul caso Khashoggi si trova a Doha ed è lì, più che a Istanbul o Riyadh, che andrebbe ricercata.



I nemici dei miei nemici
Niram Ferretti
27 Febbraio 2021

http://www.linformale.eu/i-nemici-dei-miei-nemici/

È passata agli annali la battuta di Donald Rumsfeld, ex Segretario alla Difesa di George W. Bush, quando, nel 1983, dopo un incontro con Saddam Hussein a Baghdad disse, “ze un figlio di puttana ma è il nostro figlio di puttana”. Affermazione in cui si riassumeva icasticamente un’idea base della Realpolitik; i nemici dei miei nemici sono miei amici. Così è stato in tempi recenti per Mohammed bin Salman, principe ereditario dell’Arabia Saudita, de facto colui che la governa nonostante il re sia sempre l’anziano padre Salman.

L’asse tra Donald Trump e il giovane leader musulmano aveva un ben preciso obbiettivo, quello di rafforzare i legami con la Casa di Saud, dopo la lunga parentesi di gelo con gli Stati Uniti, a seguito della decisione di Barack Obama di negoziare con l’Iran.

La ricollocazione dell’Iran come l’attore più pericoloso sulla scena mediorietale, messa in atto dall’amministrazione Trump, obbligava il riavvicinamento all’Arabia Saudita e iniziava a gettare i semi per la successiva fioritura di rapporti tra una parte del mondo arabo sunnita e Israele, culminati con gli Accordi di Abramo del 2020. Quando, nell’ottobre del 2018, venne barbaramente trucidato a Istanbul il giornalista saudita espatriato, Jamal Khashoggi, da tempo inviso a Mohammed bin Salman per le sue critiche al regime saudita, i riflettori si puntarono sul giovane principe. Sotto l’amministrazione Trump, la CIA iniziò un indagine che si concluse con un rapporto che indicava il principe saudita come come colui che aveva dato ordine al commando che aveva poi ucciso Khashoggi, di recarsi a Istanbul con l’obbiettivo di colpirlo. Dal rapporto, tuttavia, non emergeva se il principe saudita avesse stabilito di farlo rapire o assassinare.

L’amminstrazione Trump non rese il documento pubblico e minimizzò le accuse rivolte all’alleato saudita. “Il nostro figlio di puttana” doveva essere salvaguardato a fronte di un figlio di puttana ben maggiore, l’Iran. Nel mentre, buona parte della stampa liberal cavalcò il caso attaccando Trump e presentando Khasshogi come un campione di libertà, dimenticando i suoi legami passati e presenti all’epoca del suo assassinio con la Fratellanza Musulmana, di cui era stato un membro e che continuava a sostenere sulle pagine del Washington Post, uno dei giornali per il quale scriveva. Siamo così giunti alla decisione odierna dell’Amministrazione Biden di rendere pubblico il report della CIA che l’Amministrazione Trump aveva tenuto chiuso in un cassetto.

Si tratta di un passo significativo che segue quello di congelare l’erogazione di una fornitura di armi all’Arabia Saudita e di non volere più offrire supporto alla guerra che i sauditi intraprendono in Yemen da sei anni contro le milizie Houti sostenute dall’Iran.

Tutto ciò in nome della difesa dei “diritti umani”, di cui, certamente l’Arabia Saudita, in buona compagnia con la maggioranza degli Stati musulmani, non è un campione. Si tratta di mosse assai azzardate, poichè l’indebolimento del rapporto strategico regionale che gli Usa intrattengono con la Casa di Saud e che inizia nel 1945, è indubbiamente un assist fornito all’Iran. L’attacco aereo della settimana scorsa in Arabia Saudita contro un aereo civile da parte dei ribelli Houti, lo dimostra chiaramente. Il nuovo Segretario di Stato, Anthony Blinken, subito dopo l’attacco ha affermato che gli USA non staranno a guardare mentre i sauditi vengono aggrediti, evidenziando l’inattuabiità di una politica basata su un colpo al cerchio e uno alla botte.

Se si vogliono salvaguardare i diritti umani, e se la neo-amministrazione Biden intende impugnare questo stendardo morale per affermare una sorta di tutela etica degli Usa sul resto del mondo, avrà sicuramente assai da fare, e molto in Medioriente, non solo in Arabia Saudita, ma in Egitto, dove governa un altro “figlio di puttana” necessario tuttavia all’equilibrio geopolitco regionale che non è costruito sugli ideali, ma su necessità molto concrete, fatti brutali.

L’Amministrazione Trump lo aveva molto presente, fondando le sue decisioni in Medioriente su un realismo robusto che, necessariamente, imponeva di chiudere un occhio sull’abuso dei diritti umani, di cui, regionalmente, l’Iran detiene il primato.

Nessuno pensa che Mohammed bin Salman sia un campione di virtù e un esempio di leader illuminato, nonostante qualche timida riforma intrapresa all’interno del suo regno, ma cercare di indebolirne l’immagine prendendolo di mira fa solo il gioco di Teheran.



Tutta l’ipocrisia islamica dietro al caso di Jamal Khashoggi
Antonio M. Suarez
Ottobre 23, 2018 2

Oggi Erdogan dovrebbe apparire in TV per spiegare al mondo le sue verità sull'omicidio di Jamal Khashoggi. Chissà se ci racconterà anche le verità sulle centinaia di giornalisti incarcerati in Turchia

https://www.rightsreporter.org/tutta-li ... khashoggi/


Jamal Khashoggi è stato ucciso nel consolato saudita di Istanbul, ormai non ci sono più dubbi. Ma perché questo caso ha fatto così tanto scalpore quando nel mondo islamico ogni giorno spariscono o vengono incarcerati centinaia di giornalisti critici con i regimi islamici dei loro Paesi? Cosa aveva Jamal Khashoggi che gli altri giornalisti non hanno?

Pensate solo a una cosa: il più grande accusatore dell’Arabia Saudita per il caso di Jamal Khashoggi è la Turchia di Erdogan, cioè quel Paese dove in questo momento sono centinaia i giornalisti incarcerati per aver criticato il regime. Se Erdogan ha vinto le elezioni è perché la libertà di stampa in Turchia è un puro eufemismo. Eppure il Califfo turco sembra così “indignato” per l’omicidio di Jamal Khashoggi tanto da apparire quasi come un difensore della libertà di stampa. Oggi dovrebbe andare persino in TV per spiegare al mondo come e perché il politico/giornalista dissidente saudita è stato ucciso.

Anche l’ipocrisia deve avere un limite

Intendiamoci, nessuno intende sminuire la gravità di questo omicidio, a prescindere dal fatto che il povero Khashoggi facesse più politica a favore della Fratellanza Musulmana che giornalismo puro e semplice. Però ci deve essere un limite anche all’ipocrisia. I media arabi sono pieni di articoli indignati che accusano il Principe Ereditario saudita, Mohammed bin Salman, di aver premeditato e messo in atto questo omicidio. Tutto giusto, tutto vero, ma chissà perché non c’è un solo media nel mondo islamico che ponga l’accento sulle centinaia di giornalisti uccisi o incarcerati in Turchia, in Iran, nella stessa Arabia Saudita, in Kuwait e in altri Paesi musulmani. Eppure l’omicidio di Jamal Khashoggi e la ridondanza mediatica che ha ottenuto a livello globale, sarebbe l’occasione giusta per farlo, per sbattere in faccia al mondo quanto pericoloso sia fare il giornalista in questi Paesi.

La realtà è che se Jamal Khashoggi fosse stato un giornalista turco o iraniano, giusto per fare un paio di esempi, nessuno ne avrebbe parlato, nessuno si sarebbe indignato e la stampa internazionale lo avrebbe bellamente ignorato così come ha fatto altre centinaia di volte.

Ma questa volta c’è la possibilità di attaccare direttamente il regime saudita e più precisamente Mohammed bin Salman, colui cioè che nel bene e nel male ha imposto all’Arabia Saudita un riposizionamento strategico ed economico mai visto prima nel mondo arabo e più in generale in quello islamico.

Attenti, non stiamo dicendo che Mohammed bin Salman sia un santo, anzi, è sicuramente uno degli uomini più scaltri e crudeli del mondo arabo, ma mai come ora viene in mente quel paradosso che vuole il bue dare del cornuto all’asino.

La cruda realtà è che l’omicidio di Jamal Khashoggi ha dato la possibilità ai sostenitori della Fratellanza Musulmana, che trovano ampio spaio nei media occidentali, di attaccare il loro più acerrimo nemico, quel Mohammed bin Salman che con spietatezza stava rivoluzionando le politiche in Medio Oriente, dove la spietatezza non di rado viene considerata un pregio o quanto meno una esigenza.

La cosa curiosa è che nemmeno i media occidentali hanno approfittato di questo caso mediatico per denunciare le condizioni in cui versano centinaia di giornalisti nel mondo islamico. Si sono semplicemente posti come megafono di Erdogan e di coloro che appoggiano la Fratellanza Musulmana e osteggiano il nuovo corso saudita. Se non è ipocrisia questa allora cos’è?


Khashoggi svelato, i tanti perché di un delitto saudita
Souad Sbai
02-03-2021

https://almaghrebiya.it/2021/03/02/khas ... o-saudita/

Desecretando un rapporto della Cia a più di due anni di distanza, il nuovo presidente degli Usa riapre il caso Khashoggi. Il giornalista, assassinato a Istanbul nel 2018, nel consolato saudita, era legato alla Fratellanza Musulmana. Ne promuoveva l'agenda sul Washington Post.

L’onda lunga del caso Khashoggi è tornata al centro delle tormentate vicende mediorientali. E i punti interrogativi, a più di due anni di distanza da quel fatidico 2 ottobre 2018, aumentano invece di diminuire. A far sorgere nuove domande, non è però quanto accaduto nel consolato saudita a Istanbul e neppure gli antefatti che hanno condotto al macabro assassinio, su cui è già stato detto e scritto in abbondanza. Piuttosto, è la necessità di comprendere appieno quali siano le motivazioni che hanno spinto il nuovo presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, a rendere pubblico, poco dopo il suo insediamento, il famoso rapporto della CIA nel quale si punta il dito contro il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman come mandante dell’uccisione: autentico senso di giustizia, o dietro si nasconde la volontà di ri-orientare in una certa direzione la politica estera americana, condizionando al contempo il corso degli eventi in Medio Oriente e nel Golfo?

Per onestà intellettuale, ribadita la più assoluta condanna della morte orrenda e crudele inflitta a Khashoggi, non ci si può non chiedere il motivo per il quale vengano del tutto ignorate le relazioni intrattenute dal giornalista con l’islamismo militante, quello per intenderci dell’asse composto da Qatar, Turchia di Erdogan e Fratelli Musulmani. È stato lo stesso Washington Post ad ammettere, in un articolo del 23 dicembre 2018, che gli editoriali di Khashoggi pubblicati sulle proprie colonne erano ispirati dalla direttrice della Qatar Foundation International, l’ex diplomatica Maggie Mitchell Salem, svelando il contenuto inequivocabile di alcuni messaggi telefonici tra i due, che erano solo una minima parte di una raccolta molto più ampia di conversazioni (circa 200 pagine) ottenuta dal quotidiano.

Si tratta di documentazione rilevante, che getta luce sulle relazioni di Khashoggi anche con il Council on American-Islamic Relations (CAIR), il principale braccio operativo dei Fratelli Musulmani negli Stati Uniti, e con alti esponenti del governo turco. Il Washington Post ha dichiarato di non essere a conoscenza di tutto ciò, naturalmente per allontanare da sé qualsiasi ipotesi di coinvolgimento. Fatto sta, che in nome della libertà di stampa (sacrosanta) il Washington Post ha pubblicato editoriali di Khashoggi nei quali veniva rilanciata la prospettiva della cosiddetta “Primavera Araba”, ovvero del progetto di conquista del Medio Oriente ad opera dei Fratelli Musulmani, con il supporto dei suoi più ardenti sponsor ‒ Qatar e Turchia appunto ‒, sotto le mentite spoglie di rivoluzioni scatenate in nome di democrazia e libertà (si veda, ad esempio, Gli Stati Uniti si sbagliano sulla Fratellanza Musulmana, risalente al 28 agosto 2018).

Il momento storico in cui s’inseriscono gli editoriali è quello della contrapposizione tra il Qatar e il Quartetto antiterrorismo arabo, capeggiato proprio dall’Arabia Saudita. Donald Trump aveva fornito inizialmente pieno sostegno alle ragioni del Quartetto, che comprendeva anche Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto, accusando il Qatar di sostenere il terrorismo e di voler designare i Fratelli Musulmani come organizzazione terroristica. Messo in chiaro il punto di partenza, l’amministrazione Trump si è poi dedicata a favorire la riconciliazione, fino al summit di Al Hula dello scorso 5 gennaio, che ha sancito la fine dell’embargo contro il Qatar ed è stato inaugurato dall’abbraccio tra Mohammed bin Salman e l’emiro del Qatar, Tamim Al Thani.

La linea diplomatica di equidistanza (a tal proposito, va ricordato il vertice amichevole tra Trump e Al Thani a Washington nel luglio del 2019), non ha però messo in discussione la posizione del predecessore di Biden profondamente contraria a terremoti nell’ordine mediorientale volti a imporre dittature islamiste. Per questo, aveva stabilito che il rapporto della CIA su Mohammed bin Salman dovesse rimanere secretato, sapendo che darlo in pasto ai media avrebbe rinfocolato le indomite ambizioni di una nuova “Primavera Araba” di cui il Qatar e la Turchia sono i portavoce.

Desecretando il rapporto, Biden ha invece ceduto alle pressioni di coloro che intendono sfruttare il caso Khashoggi al fine di riportare la regione indietro nel tempo, alla stagione della conflittualità permanente, in nome e per conto dei Fratelli Musulmani? Inoltre, il “doppio standard” in materia di diritti umani è evidente. La nuova amministrazione americana e i media ignorano infatti le innumerevoli vittime e atrocità che la “Primavera Araba” ha portato con sé, insieme alle violazioni dei diritti umani che si verificano quotidianamente in Iran, dove proseguono senza sosta le impiccagioni dei dissidenti, già torturati e rinchiusi in condizioni inumane nelle carceri del regime khomeinista perché combattono ‒ davvero ‒ a favore di democrazia e libertà.

Anche i morti ammazzati dall’islamismo contano, mentre la gran parte del Medio Oriente ha già inequivocabilmente rigettato la prospettiva dei Fratelli Musulmani al potere, ricercando invece pace e sicurezza come dimostrano sia gli Accordi di Abramo che il vertice di Al Hula. Biden dovrebbe proseguire lungo questa strada, non per seguire la linea di Trump bensì per marcare una significativa discontinuità con Obama e l’accondiscendenza della sua amministrazione verso le forze islamiste. I primi segnali non sono incoraggianti.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Fradełansa muxlim - Fratellanza mussulmana

Messaggioda Berto » dom feb 28, 2021 10:22 am

Fratellanza Mussulmana e Obama



Il testo integrale del discorso di Obama
TRADUZIONE DI VERONICA DE CRIGNIS
4 giugno 2009

https://www.ilsecoloxix.it/mondo/2009/0 ... 1.33261564

«Sono onorato di essere nella città senza tempo del Cairo e di essere ospite di due importanti istituzioni. Per oltre un millennio Al-Azhar è stato un faro per la cultura araba e da più di un secolo l’università del Cairo è stata la fonte dello sviluppo dell’Egitto. Voi, insieme, rappresentate l’armonia tra progresso e tradizione e sono grato della vostra ospitalità, come dell’accoglienza del popolo egiziano. Sono fiero di essere il portavoce della buona volontà del popolo americano e di portare un saluto di pace dalle comunità musulmane del mio paese: assalaamu alaykum.

Il nostro incontro si svolge in un momento di tensione tra gli Stati Uniti e i musulmani di tutto il mondo, una tensione che affonda le proprie radici in ragioni storiche che vanno al di là del dibattito politico attuale.

Le relazioni tra l’Islam e l’Occidente sono fatte di coesistenza e cooperazione, ma anche di conflitto e di guerre di religione; in tempi più recenti la tensione è stata alimentata da un colonialismo che negava i diritti e le opportunità di molti musulmani e da una Guerra Fredda durante la quale i paesi a maggioranza musulmana sono stati spesso trattati come spettatori privi del diritto di parola, senza rispetto per le loro aspirazioni.

La modernizzazione e la globalizzazione, inoltre, hanno portato cambiamenti così radicali da spingere molti musulmani a vedere nell’Occidente un’entità ostile alle tradizioni dell’Islam. Queste tensioni sono state sfruttate da violenti estremisti per strumentalizzare un piccolo, ma potente numero di musulmani.

Gli attacchi dell’11 settembre e i successivi tentativi di violenza contro la popolazione civile ha indotto alcuni Paesi a vedere nell’Islam un nemico irriducibile non solo per gli Usa e le altre nazioni occidentali, ma addirittura per i diritti umani.

Tutto ciò ha alimentato la paura e la sfiducia. Fino a che il nostro rapporto verrà definito solamente in base alle nostre differenze renderemo sempre più potente chi semina odio, invece di pace, chi ricerca i conflitti, invece della cooperazione che è necessaria perché tutti i popoli possano avere giustizia e prosperità.

Per questo motivo deve essere spezzata la catena di sospetti e inimicizia. Sono qui per cercare d’inaugurare una nuova epoca nei rapporti tra Stati Uniti e i musulmani in tutto il mondo, un rapporto basato sul mutuo rispetto e su un interesse reciproco, fondato – soprattutto – sull’idea che Usa e Islam non siano incompatibili e non debbano per forza essere in competizione. Si sovrappongono, invece, condividendo principi comuni di giustizia, progresso, tolleranza e dignità per tutti gli esseri umani.

Cerco una nuova base per il nostro rapporto anche se so che il cambiamento non potrà avvenire improvvisamente, nessun discorso – da solo – può sradicare anni di sfiducia né posso rispondere oggi a tutte le complesse questioni che ci hanno portati fino a qui.

Tuttavia sono convinto che per andare avanti sia necessario parlare apertamente di ciò che ci sta a cuore e che, troppo spesso, viene nascosto e taciuto. Ci dovranno essere sforzi da parte di entrambi, per ascoltare e per imparare dall’altro, per rispettarci a vicenda e, infine, per cercare un terreno comune su cui basare il nostro rapporto.

Come il sacro Corano ci esorta, “Sii consapevole di Dio e di’ sempre la verità”. Questo è proprio quel che tenterò: fare del mio meglio nel dire la verità, con l’umiltà che è necessaria per affrontare la sfida che ci attende, fermo nella convinzione che gli interessi che ci uniscono in quanto esseri umani siano molto più potenti delle forze che ci dividono.

Questa convinzione è basata, in parte, sulla mia esperienza personale.

Sono cristiano, ma mio padre proveniva da una famiglia keniota che contava generazioni di musulmani e, da ragazzo, ho passato diversi anni in Indonesia e ho ascoltato la chiamata dell’adhan [la chiamata alla preghiera effettuata tradizionalmente dal muezzin sul minareto, n.d.T.] all’alba e al tramonto. Quando, da giovane, ho lavorato nelle comunità di Chicago, ho conosciuto molte persone che avevano trovato dignità e pace nella fede musulmana.

Durante gli studi di storia ho compreso il debito che la cultura ha nei confronti dell’Islam. È stato proprio l’Islam, in luoghi come l’università di Al-Azhar, a far avanzare la luce della cultura attraverso i secoli, aprendo la strada per il Rinascimento e l’Illuminismo europei. L’innovazione all’interno delle comunità musulmane ha permesso lo sviluppo dell’algebra, l’invenzione della bussola magnetica e di altri strumenti di navigazione, le tecniche di scrittura e stampa, la comprensione dei motivi e dei mezzi di diffusione delle malattie e la scoperta delle cure. La cultura islamica ci ha donato archi maestosi e guglie svettanti, poesia immortale e musica preziosa, la grafia elegante e luoghi pacifici e magnifici.

Lungo il corso della storia, infine, l’Islam ha dimostrato, con le parole e con i fatti, la possibilità di vivere attraverso la tolleranza religiosa e l’eguaglianza razziale. Sono anche consapevole che l’Islam ha fatto parte, da sempre, della storia degli Stati Uniti. Il Marocco è stata la prima Nazione a riconoscere il mio paese e, firmando il Trattato di Tripoli del 1796, il nostro secondo Presidente John Adams scrisse: “Gli Stati Uniti non hanno alcun motivo di inimicizia per le leggi, la religione o la tranquillità dei musulmani”.

A partire dalla fondazione, i musulmani americani hanno arricchito gli Stati Uniti, hanno combattuto le nostre guerre, hanno servito il nostro Governo, si sono erti a difesa dei diritti civili, hanno fondato imprese, insegnato nelle nostre università e ottenuto risultati eccezionali nello sport, sono stati insigniti del Premio Nobel, hanno costruito i nostri edifici più alti e acceso la torcia olimpica.

Quando, recentemente, il primo americano di religione musulmana è stato eletto membro del Congresso, ha giurato di servire la nostra Costituzione usando il Sacro Corano che uno dei nostri Padri Fondatori – Thomas Jefferson – teneva nella sua biblioteca personale. Ho conosciuto l’Islam in tre diversi continenti prima di visitare la regione dove è stato rivelato e quelle esperienze sostengono la mia convinzione che un rapporto tra America e Islam debba essere basato su ciò che l’Islam è, non su ciò che non è.

Considero dunque parte della mia responsabilità come Presidente degli Stati Uniti lottare contro gli stereotipi negativi sull’Islam, ovunque essi appaiano. Lo stesso principio deve essere usato dai musulmani per valutare la propria percezione degli Stati Uniti. I musulmani non possono essere descritti da un rozzo stereotipo, allo stesso modo la natura e l’identità degli Stati Uniti non corrispondono alla grezza immagine di un impero egoista.

Gli Stati Uniti sono stati una delle più importanti culle del progresso che il mondo abbia mai conosciuto. Siamo nati grazie alla rivoluzione contro un impero, siamo stati fondati in nome dell’ideale che tutti gli uomini siano stati creati uguali e abbiamo sparso il nostro sangue e lottato per secoli al fine di dare significato a queste parole, all’interno dei nostri confini come nel resto del mondo.

Siamo stati formati da tutte le culture, siamo giunti da ogni angolo della terra e ci siamo dedicati a un semplice ideale: ex pluribus unum: “Da molti, uno solo”. Sono state spese molte parole sul fatto che un afro-americano di nome Barack Hussein Obama potesse essere eletto Presidente, ma la mia storia personale non è unica in questo senso. Il sogno di una possibilità per tutti non diventa realtà per ciascuno in America, ma questa promessa esiste per tutti quelli che arrivano sulle nostre rive e ciò comprende i quasi 7 milioni di americani musulmani che oggi, nel nostro paese, godono di redditi e livelli di istruzione al di sopra della media.

Negli Stati Uniti la libertà è inscindibile dalla libertà di professare la propria religione, questo è il motivo della presenza di una moschea in ogni Stato dell’Unione e di più di 1200 moschee all’interno dei nostri confini. Questa è, inoltre, la ragione per cui il governo degli Stati Uniti ha combattuto in tribunale per il diritto delle donne e delle ragazze di indossare lo hijab e per punire che negava questo diritto. Non ci sia dunque alcun dubbio: l’Islam è parte degli Stati Uniti e io credo che l’America abbia, dentro di sé, la coscienza che tutti noi, senza distinzione di religione o razza, condividiamo le stesse aspirazioni: quella di vivere sicuri e in pace, di avere un’istruzione e di poter lavorare con dignità, di amare la nostra famiglia, la nostra comunità e il nostro Dio. Questo è ciò che condividiamo, questa è la speranza per tutta l’umanità.

Il riconoscimento della nostra comune umanità è certamente solo il punto di partenza della nostra missione, le parole da sole non possono appagare i bisogni delle nostre genti, ma queste necessità potranno essere soddisfatte solo se agiremo coraggiosamente negli anni a venire e se capiremo che le sfide che ci si presenteranno sono sfide comuni e che un fallimento danneggerebbe tutti noi. Abbiamo imparato dall’esperienza di questi ultimi mesi che quando un sistema finanziario di indebolisce in un Paese, la prosperità di tutti è in pericolo. Quando una nuova influenza infetta un essere umano, tutti siamo a rischio. Quando una Nazione cerca di ottenere gli armamenti nucleari, il rischio di un attacco cresce per ogni Paese. Quando estremisti violenti agiscono in una zona di montagna, ci sono persone in pericolo dall’altra parte dell’oceano. Infine, quando vengono uccise persone innocenti in Bosnia e Darfur, si macchia la nostra coscienza collettiva.

Questo è il vero significato di condividere il mondo nel 21° secolo e questa è la responsabilità che ciascuno di noi ha verso gli altri esseri umani. E’ certamente una responsabilità difficile da accettare, anche perché la storia umana è un susseguirsi di Nazioni e tribù in lotta tra di loro per il perseguimento dei propri interessi. E tuttavia, in questa nuova epoca, tali abitudini sono dannose per ciascuno.

Ogni ordine mondiale che veda una Nazione, o un gruppo di persone, al di sopra degli altri è inevitabilmente destinato al fallimento, considerando il grado di interdipendenza tra di noi; questo significa che quando riflettiamo sul passato non dobbiamo diventarne prigionieri. I nostri problemi devono essere affrontati con la cooperazione, il progresso deve essere condiviso. Ciò non vuol dire che sia necessario ignorare le fonti della tensione, anzi, suggerisce esattamente il contrario: dobbiamo affrontare i contrasti in modo diretto. In quest’ottica permettetemi di parlare il più chiaramente e semplicemente possibile a proposito di alcune delle questioni che – credo – dobbiamo affrontare insieme.

La prima problematica che dev’essere fronteggiata è quella dell’estremismo violento in ogni sua forma. Ad Ankara ho affermato con chiarezza che gli Stati Uniti non sono, né saranno mai, in guerra con l’Islam. La nostra opposizione sarà sempre rivolta, incessantemente, contro gli estremisti violenti che costituiscono un grave pericolo per la nostra sicurezza e questo perché noi rifiutiamo ciò che viene rigettato da tutte le fedi del mondi: l’uccisione di uomini, donne e bambini innocenti. Ed è il mio primo dovere come Presidente degli Stati Uniti quello di proteggere il popolo americano.

La situazione in Afghanistan dimostra la correttezza degli obiettivi americani e il bisogno di lavorare insieme verso di essi. Più di sette anni fa, gli Stati Uniti iniziarono a perseguire al Qaeda e i Talebani ricevendo un vasto supporto dalla comunità internazionale, non ci siamo impegnati in questa lotta per nostra volontà, ma per necessità.

Sono consapevole dell’esistenza di chi mette in dubbio, o giustifica, gli eventi dell’11 settembre, ma vorrei che fosse chiaro: al Qaeda uccise quasi 3000 persone quel giorno. Le vittime erano uomini, donne e bambini innocenti, americani e di altre nazionalità, che non avevano fatto nulla a nessuno e tuttavia al Qaeda scelse di assassinare queste persone senza pietà, di rivendicare l’attacco e ancora oggi dichiara la propria volontà di uccidere su vastissima scala.

Al Qaeda ha affiliati in molti Paesi e sta cercando di espandere la propria influenza, queste non sono opinioni oggetto di discussione: sono fatti che devono essere affrontati. Non ingannatevi: non vogliamo tenere le nostre truppe in Afghanistan, non vogliamo avere là delle basi militari permanenti e per l’America è un’agonia perdere i nostri giovani uomini e le nostre giovani donne. Continuare questo conflitto ha un costo politico ed economico difficile da sostenere e saremmo felici di poter far rientrare a casa ognuno dei nostri soldati, se fossimo sicuri che in Afghanistan e Pakistan non vi siano estremisti violenti determinati a uccidere quanti più americani possibile. La situazione, però, non è questa.

Questa è la ragione della nostra alleanza con 46 Paesi e, nonostante i costi, l’impegno dell’America non s’indebolirà. Anzi. Nessuno di noi dovrebbe tollerare questi estremisti, che hanno ucciso in molte Nazioni, hanno ucciso persone di fedi diverse e – più di ogni altre – persone di fede musulmana.

Le loro azioni sono inconciliabili con i diritti degli essere umani, il progresso delle Nazioni e con l’Islam. Il sacro Corano insegna che uccidere un innocente equivale a uccidere tutta l’umanità, mentre salvare un innocente è come salvare l’umanità intera. La fede di più di un miliardo di persone è enormemente più grande dell’odio cieco di pochi.

L’Islam non è parte del problema nella lotta all’estremismo violento, ma una componente importante nella promozione della pace. Siamo consapevoli che il solo intervento militare non è sufficiente a risolvere i problemi in Afghanistan e Pakistan, per questo stiamo progettando di investire 1,5 miliardi di dollari ogni anno, per 5 anni, per lavorare in collaborazione con i pakistani alla costruzione di scuole e ospedali, strade e imprese, oltre a investire centinaia di migliaia di dollari per aiutare chi si è dovuto spostare dai propri luoghi d’origine.

Per questo motivo finanziamo con 2,8 miliardi di dollari i progetti degli afghani per lo sviluppo della propria economia e per la fornitura dei servizi essenziali alla vita. Permettetemi anche di affrontare la questione dell’Iraq. Al contrario del conflitto in Afghanistan, abbiamo scelto di iniziare la guerra in Iraq e questa scelta ha causato forti contrasti nel mio Paese e in tutto il mondo. Anche se sono convinto che, per il popolo iracheno, sia positivo il fatto di essersi liberato della tirannia di Saddam Hussein, credo anche fermamente che gli eventi in Iraq abbiano ricordato agli Stati Uniti la necessità di impegnarsi diplomaticamente e di costruire un consenso internazionale, quando possibile, al fine di risolvere i contrasti.

Possiamo ricordare le parole di Thomas Jefferson che disse: “Spero che la nostra saggezza cresca con il nostro potere e ci insegni che meno useremo questo potere maggiore sarà la nostra grandezza”. Oggi gli Stati Uniti hanno una doppia responsabilità: quella di aiutare l’Iraq a plasmare un futuro migliore e quella di lasciare l’Iraq agli iracheni. Ho detto chiaramente alla popolazione dell’Iraq che non vogliamo istituire nessuna base militare, che non avanziamo alcuna pretesa sui loro territori e sulle loro risorse.

La sovranità dell’Iraq appartiene all’Iraq ed è per questo che ho ordinato il rientro delle unità da combattimento entro agosto. Onoreremo i nostri impegni con il governo iracheno democraticamente eletto di rimuovere le unità di combattimento dalle città entro luglio e di far rientrare tutte le nostre truppe dall’Iraq entro il 2012. Collaboreremo all’addestramento delle forze di sicurezza del Paese e allo sviluppo della sua economia, ma sosterremo un Iraq sicuro e unito in veste di partner, non ci comporteremo come padroni.

Infine, l’America non potrà mai tollerare la violenza degli estremisti e, allo stesso modo, non dovremmo mai modificare i nostri principi. L’11 settembre è stato un trauma terribile per il nostro Paese e ha comprensibilmente causato rabbia e paura, ma in alcuni casi ci ha condotti ad agire in violazione dei nostri ideali. Ci stiamo concretamente impegnando a cambiare corso, ho proibito, senza possibilità di eccezione, l’uso della tortura da parte degli Stati Uniti e ho ordinato la chiusura della prigione di Guantanamo entro il prossimo anno. In questo modo l’America si potrà difendere, rispettando però la sovranità delle Nazioni e la guida della legge. Agiremo in collaborazione con le comunità musulmane che, come noi, vengono minacciate e prima gli estremisti si troveranno isolati e sgraditi all’interno delle comunità musulmane, prima tutti noi potremo essere più sicuri. La seconda maggiore fonte di tensione internazionale che vorrei discutere con voi è la situazione tra Israele, i palestinesi e il mondo arabo.

I legami tra Stati Uniti e Israele sono ben noti, questo legame non si può spezzare perché è basato su vincoli storici e culturali e sul riconoscimento che l’aspirazione per una patria ebraica affondi le proprie radici in un passato tragico che non può essere negato. Il popolo ebreo ha subito persecuzioni nel corso dei secoli e in tutto il mondo e, in Europa, l’anti-semitismo è culminato in un Olocausto senza precedenti.

Domani visiterò Buchenwald, che faceva parte di un sistema di campi di concentramento dove gli ebrei venivano schiavizzati, torturati, fucilati, uccisi con il gas per mano del Terzo Reich. Furono uccisi 6 milioni di ebrei, più dell’attuale popolazione di Israele e negare questo fatto è una posizione senza fondamento, ignorante e odiosa. Minacciare di distruggere Israele o perpetuare i vili stereotipi sugli ebrei è profondamente sbagliato, ha l’effetto di evocare nelle menti degli israeliani il più doloroso dei ricordi e, allo stesso tempo, di impedire la pace che le popolazioni di quella regione si meritano.

D’altro canto è innegabile che la popolazione palestinese – sia musulmana che cristiana – abbia sofferto nella ricerca di una patria. Per più di 60 anni hanno sopportato il dolore dell’essere profughi, molti attendono nei campi per rifugiati della Cisgiordania, di Gaza e delle regioni vicine la vita di pace e sicurezza che non hanno mai potuto condurre.

I palestinesi devono sopportare le grandi e piccole umiliazioni quotidiane causate dall’occupazione. Sia dunque chiaro che la situazione della popolazione palestinese è intollerabile, l’America non ignorerà le legittime aspirazioni dei palestinesi di dignità, opportunità future e di un proprio Stato. Per decenni siamo rimasti in una situazione di stallo: due popoli con aspirazioni legittime, entrambi con una storia dolorosa alle spalle che rende difficile il compromesso. E’ facile puntare il dito – i palestinesi denunciano gli spostamenti di popolazione causati dalla fondazione dello stato di Israele e gli Israeliani lamentano gli attacchi e la costante ostilità che hanno dovuto affrontare nel corso della loro storia sia all’interno che all’esterno dei propri confini. Tuttavia, se osserviamo il conflitto da uno solo dei due punti di vista non riusciremo a riconoscere la verità: l’unica soluzione è che le aspirazioni di entrambi i popoli vengano soddisfatte con la creazione di due Stati dove sia israeliani che palestinesi possano vivere in pace e sicurezza.

Questa soluzione è nell’interesse di Israele, dei palestinesi, degli Stati Uniti e del mondo intero e per questa ragione ho intenzione di impegnarmi personalmente per raggiungere quest’obiettivo, impiegando tutta la pazienza che sarà necessaria. Gli impegni sottoscritti dalle due parti nella Road Map sono chiari e affinché ci sia pace è tempo per loro di dimostrarsi all’altezza delle proprie responsabilità. I palestinesi devono abbandonare ogni forma di violenza, perché resistere attraverso la violenza e l’omicidio è sbagliato e non porta al successo.

La popolazione nera degli Stati Uniti ha, per secoli, sofferto per le frustate ricevute durante la schiavitù e per l’umiliazione della segregazione, ma non è stata la violenza a permettere di ottenere una piena uguaglianza di diritti. E’ stata, al contrario, la pacifica e determinata insistenza sugli ideali centrali nella fondazione degli Stati Uniti. La stessa cosa può essere detta per il Sudafrica e il Sud Est asiatico, per l’Europa dell’Est e l’Indonesia. La semplice verità è che la violenza è un vicolo cieco, non è potere né coraggio lanciare dei razzi contro bambini che dormono, né far esplodere vecchie signore che viaggiano su un autobus. Non è così che si rivendica l’autorità morale, in questo modo – al contrario – la si abbandona.

Per i palestinesi è giunto il momento di concentrarsi su ciò che possono costruire, l’Autorità palestinese deve sviluppare una capacità di governo, creare istituzioni che siano al servizio dei bisogni delle sua gente. Hamas ha il supporto di una parte dei palestinesi, ma ha anche delle responsabilità: quella di contribuire a soddisfare le aspirazioni dei palestinesi e quella di unificare il popolo. Per questo deve abbandonare la violenza, riconoscere gli accordi stipulati in passato e il diritto di Israele all’esistenza.

Israele deve, allo stesso tempo, riconoscere che tanto quanto non può essere negato il suo diritto all’esistenza, allo stesso modo non può essere negato quello della Palestina. Gli Stati Uniti non riconoscono la legittimità dei continuati insediamenti israeliani perché questo viola gli accordi precedenti e indebolisce gli sforzi per raggiungere la pace. Questo è il momento di fermare gli insediamenti. Israele deve dimostrarsi all’altezza delle proprie responsabilità affinché i palestinesi possano vivere, lavorare e sviluppare la propria società. La crisi umanitaria di Gaza, infatti, devasta le famiglie palestinesi, ma è anche una minaccia per la sicurezza di Israele, come lo è anche la mancanza di possibilità per il futuro della popolazione che vive in Cisgiordania. Il progresso nella vita quotidiana della popolazione palestinese deve essere necessariamente una componente del cammino di pace e Israele deve agire concretamente per permettere tutto questo.

Gli Stati Arabi, infine, devono riconoscere che il Summit della Lega Araba è stato un inizio importante, ma che non può costituire la fine delle loro responsabilità. Il conflitto arabo-israeliano non dev’essere più utilizzato per distrarre le popolazioni delle Nazioni arabe da altri problemi, dev’essere invece un motivo di intervento a favore dello sviluppo delle istituzioni palestinesi che siano in grado di gestire uno Stato, un motivo per riconoscere la legittimità dello Stato di Israele e, ancora, per scegliere il progresso piuttosto di concentrarsi sul passato.

Gli Stati Uniti collaboreranno con chi vuole raggiungere la pace e renderanno pubbliche le proposte e le discussione fatte con gli Israeliani, i palestinesi e i rappresentanti degli Stati arabi. Non possiamo imporre la pace, ma – in privato – molti musulmani riconoscono il fatto che Israele non scomparirà e, allo stesso modo, molti israeliani riconoscono la necessità di uno Stato palestinese. E’ giunto il momento di agire per raggiungere ciò che tutti sanno essere vero. Sono state sparse troppe lacrime. Troppo sangue è stato versato.

La responsabilità di lavorare per il giorno in cui le madri israeliane e palestinesi potranno vedere i loro figli crescere assieme è nostra; è nostro l’impegno per far diventare la Terra Santa per tre grandi religioni il luogo di pace che dovrebbe essere; è nostro anche il dovere di rendere per molto tempo Gerusalemme una casa sicura per ebrei, cristiani e musulmani e un luogo in cui tutti i figli di Abramo possano ritrovarsi pacificamente come nella storia di Isra, in cui Mosé, Gesù e Maometto, che la pace sia con loro, erano uniti in preghiera.

La terza fonte di tensione è il nostro comune interesse nel diritto e nella responsabilità delle Nazioni in materia di armamenti nucleari. E’ una questione che è stata causa di tensioni tra gli Stati Uniti e l’Iran, per molti anni l’Iran ha parzialmente definito la propria identità in opposizione al mio Paese e certamente la storia delle nostre relazioni è tumultuosa.

Durante gli anni della Guerra Fredda gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo nel rovesciamento del governo iraniano democraticamente eletto e dalla Rivoluzione islamica in poi l’Iran ha partecipato agli atti di violenza e ai rapimento subiti dalle truppe e dai civili americani. Conosciamo bene la storia, ma invece di rimanere intrappolato nel passato ho reso chiaro ai leader e al popolo dell’Iran che il mio Paese è pronto ad andare avanti, la domanda ora non è contro cosa di opponga l’Iran, ma quale futuro voglia costruire.

Sarà difficile superare decenni di sfiducia, ma procederemo con coraggio, rettitudine e decisione. Ci saranno molte questioni da discutere tra di noi e siamo decisi a muoversi senza farci influenzare da preconcetti, ma piuttosto sulla base del rispetto reciproco, anche se è chiaro a tutti che per quanto riguarda gli armamenti nucleari abbiamo raggiunto un momento decisivo.

E’ qualcosa che non riguarda solamente gli interessi degli Stati Uniti, ma è volto alla prevenzione di una corsa agli armamenti nucleari nel Medio Oriente che potrebbe portare la regione e il mondo intero lungo un sentiero pericoloso. Capisco le ragioni di chi denuncia il fatto che alcuni Paesi posseggano armamenti nucleari e altri no, non credo neanche che una sola Nazione dovrebbe avere il potere di scegliere e selezionare chi può e chi non può possedere armi nucleari.

Per questa ragione ho riaffermato fortemente l’impegno degli Stati Uniti per un mondo senza armi atomiche e credo che ogni Nazione – incluso l’Iran – debba avere accesso all’energia atomica da utilizzare per scopi pacifici, se sottoscrive l’impegno del Trattato di Non-Proliferazione Nucleare.

Quest’impegno è il nucleo del Trattato stesso e ogni Paese è tenuto a rispettarlo, spero che tutte le Nazione della regione possano condividere questo obiettivo. Il quarto argomento di cui vi parlerò è la democrazia. Sono consapevole della controversia degli ultimi anni a proposito della diffusione della democrazia e del fatto che molte delle ragioni alla base di queste discussioni siano legate alla guerra in Iraq.

Permettetemi di essere chiaro su questo punto: nessun sistema di governo può o dovrebbe essere imposto da una Nazione a un’altra. Tuttavia questo non diminuisce il mio impegno a favore di governi che riflettano la volontà delle popolazioni, ogni Nazione dà vita a questo principio in modo diverso, secondo le tradizioni del proprio popolo e gli Stati Uniti non hanno la presunzione di sapere ciò che è meglio per ognuno, come non presumiamo di poter scegliere il risultato di una elezione pacifica.

Io ho, però, un’incrollabile convinzione nel desiderio di tutti i popoli per alcune cose: la possibilità di esprimersi liberamente e di avere la libertà di scegliere il modo in cui essere governati; la fiducia nel governo della legge e in un’amministrazione equa della giustizia; un governo trasparente e che non rubi al proprio popolo; la libertà di vivere secondo le proprie scelte. Queste idee non sono proprie solamente degli americani, sono diritti dell’uomo e sono quello che sosterremo per tutti i popoli.

Quest’ultimo punto è importante perché c’è chi difende la democrazia solamente quando non detiene il potere e, una volta che l’ha ottenuto, sopprime i diritti degli altri senza alcuna pietà. In ogni luogo e in ogni caso il governo del popolo e per il popolo definisce una linea di condotta per tutti coloro che sono al potere: il mantenimento del potere deve avvenire attraverso il consenso, non la coercizione; l’interesse del popolo e il corretto funzionamento del processo politico devono essere posti al di sopra del proprio partito. Le elezioni da sole, senza queste componenti, non possono portare alla vera democrazia.

La quinta problematica che dobbiamo affrontare insieme è quella della libertà religiosa. L’Islam ha una fiera tradizione di tolleranza, come possiamo riscontrare nella storia dell’Andalusia e di Cordoba durante il periodo dell’Inquisizione. Io stesso l’ho potuto constatare durante la mia infanzia in Indonesia, dove devoti cristiani potevano esercitare liberamente la propria fede in un Paese a schiacciante maggioranza musulmana. E’ questo lo spirito di cui abbiamo bisogno oggi; in ogni Paese le persone dovrebbero essere libere di scegliere e vivere la propria fede con mente, cuore e anima.

La tolleranza è essenziale per la prosperità delle religioni, ma viene minacciata in molti modi. Alcuni musulmani hanno l’inquietante tendenza a misurare la propria fede attraverso il rifiuto delle altre. La ricchezza della diversità religiosa deve invece essere sostenuta, sia che si parli dei Maroniti del Libano che dei Copti in Egitto; le divisioni devono essere ricucite anche tra i musulmani, dato che i contrasti tra Sciiti e Sunniti hanno portato a tragiche violenze, in modo particolare in Iraq.

La libertà religiosa è centrale per la capacità delle persone di vivere insieme e dobbiamo sempre cercare i mezzi per difenderla. Negli Stati Uniti, ad esempio, le leggi sulle opere caritatevoli hanno reso più difficile per i musulmani l’adempimento dei propri doveri religiosi, per questa ragione mi sono impegnato a lavorare con i musulmani americani affinché possano rispettare lo zakat. Allo stesso modo è importante, per i paesi occidentali, evitare di impedire ai cittadini musulmani di praticare la propria religione come lo ritengono opportuno, ad esempio decidendo quali vestiti possano essere indossati dalle donne musulmane; non si può infatti fare distinzione tra le religioni sotto la falsa pretesa del liberalismo.

La fede dovrebbe invece avvicinarci, per questo motivo negli Stati Uniti stiamo creando progetti che uniscano Cristiani, Musulmani ed Ebrei e per questo abbiamo accolto con favore gli sforzi per il dialogo del re saudita Abdullah e la leadership della Turchia nella Alleanza di Civiltà. In tutto il mondo possiamo trasformare il dialogo in servizio interreligioso, affinché i ponti tra le persone permettano di agire, che sia per la lotta alla malaria oppure per portare aiuti dopo un disastro naturale.

La sesta questione di cui voglio parlarvi sono i diritti delle donne. So che si sta discutendo di questo e rifiuto l’idea – propria di alcuni occidentali – che una donna che scelga di portare il velo sia in qualche modo meno uguale, credo tuttavia che una donna a cui viene negata l’istruzione, venga privata anche dell’uguaglianza, non è infatti un caso che i Paesi in cui le donne ricevono una buona istruzione siano molto più spesso prosperi.

Vorrei che fosse chiaro: le problematiche legate ai diritti delle donne non sono semplici da affrontare per l’Islam. In Turchia e Pakistan, Bangladesh e Indonesia, abbiamo l’elezione di una donna a capo di paesi a maggioranza musulmana, allo stesso tempo la lotta per l’uguaglianza femminile continua in molti aspetti della vita americana e di altri Paesi.

Le nostre figlie possono dare un contributo alla società tanto quanto i nostri figli e la nostra prosperità sarà più grande se permetteremo a tutta l’umanità – uomini e donne – di raggiungere il suo pieno potenziale. Non credo che le donne debbano fare le stesse scelte degli uomini per avere uguaglianza e rispetto le donne che scelgono di vivere la loro vita nel solco dei loro ruoli tradizionali, ma questa dovrebbe essere una scelta.

Per questa ragione gli Stati Uniti collaboreranno qualunque Paese a maggioranza musulmana che sostenga una maggiore alfabetizzazione femminile e che aiuti le giovani donne a cercare impiego attraverso i micro-finanziamenti che aiutano le persone a vivere i propri sogni.

Voglio infine affrontare il tema dello sviluppo e le opportunità economiche. So che per molti la globalizzazione ha in sé aspetti contraddittori. Internet e televisione possono essere portatori di conoscenza e di informazioni, ma anche di una sessualità offensiva e una violenza insensata. Il commercio può portare nuova ricchezza e nuove opportunità, ma anche grandi sconvolgimenti e cambiamenti all’interno delle comunità.

In tutte le Nazioni, inclusa la mia, questo cambiamento suscita paura, timore che a causa della modernità si perda il controllo delle nostre scelte economiche, della nostra politica e – soprattutto – delle nostre identità, ciò che ci sta più a cuore delle nostre comunità, famiglie e della nostra fede. Tuttavia sono anche consapevole che il progresso umano non può essere negato, non ci deve essere contraddizione tra sviluppo e tradizione.

Paesi come il Giappone e la Corea del Sud hanno sviluppato la loro economie mantenendo culture ben distinte, la stessa cosa è vera per il progresso di Paesi a larghissima maggioranza musulmana, da Kuala Lumpur a Dubai. Nel passato le comunità musulmane sono state all’avanguardia nei campi dell’innovazione e dell’educazione. Tutto ciò è importante perché nessuna strategia di sviluppo può essere basata solamente dalle ricchezze della terra, né può essere sostenuta mentre le giovani generazioni sono tagliate fuori dal mondo del lavoro. Molti stati del Golfo hanno goduto di grandi ricchezze grazie al petrolio e alcuni stanno ora cominciando a progettare il proprio sviluppo in campi più ampi, ma tutti noi dobbiamo riconoscere che l’educazione e l’innovazione saranno la moneta corrente del 21° secolo e in troppi Paesi musulmani queste aree ricevono pochissimi investimenti. Sto aumentando investimenti di questo tipo nel mio paese e se nel passato gli Stati Uniti si sono concentrati sul petrolio e sulla benzina, adesso ci muoviamo invece in direzione di un più ampio impegno.

Per quanto riguarda l’educazione, amplieremo i programmi di scambio e incrementeremo le borse di studio, come quella che ha portato mio padre negli Stati Uniti, e incoraggeremo più americani a studiare in comunità musulmane. Proporremo a studenti musulmani promettenti di svolgere tirocini in America e investiremo nell’e-learning per insegnanti e bambini in tutto il mondo, creeremo nuovi network su internet, così che un adolescente in Kansas possa comunicare istantaneamente con un coetaneo al Cairo. Nel campo dello sviluppo economico creeremo nuovi gruppi di volontari degli affari che collaborino con la loro controparte nei paesi a maggioranza musulmana e quest’anno terrò un summit sull’imprenditoria per definire come si possano approfondire i legami tra i leader del mondo degli affari, le fondazioni e gli imprenditori del sociale negli Stati Uniti e nelle comunità musulmane in tutto il mondo.

Per la scienza e la tecnologia lanceremo una nuova fondazione che sostenga lo sviluppo tecnologico nei Paesi a maggioranza musulmana e che aiuti a trasferire le idee sul mercato in modo da creare posti di lavoro. Apriremo centri di eccellenza scientifica in Africa, nel Medio Oriente e nel Sud-Est Asiatico, nomineremo nuovi inviati della scienza che collaborino nei programmi per lo sviluppo delle nuove risorse energetiche, per la creazione di posti di lavoro “verdi”, per una documentazione digitale e per la coltivazione di nuovi colture.

Annuncio oggi un nuovo sforzo globale in collaborazione con l’Organizzazione della Conferenza Islamica per sradicare la poliomielite e per allargare le cooperazioni con le comunità musulmane per la promozione della salute del bambino e della madre. Tutto ciò dev’essere portato avanti insieme e gli americani sono pronti a unirsi ai cittadini e ai governi, alle organizzazioni di comunità, ai leader religiosi e degli affari nelle comunità musulmani in tutto il mondo, per aiutare i nostri popoli a perseguire l’obiettivo di una vita migliore.

Le questioni che ho descritto non saranno di facile soluzione, ma abbiamo la responsabilità di unirci in nome del mondo che cerchiamo, un mondo dove gli estremisti non minaccino i nostri popoli e dove le truppe americane siano tornate a casa; un mondo in cui israeliani e palestinesi vivano in sicurezza in un proprio Stato e in cui l’energia nucleare venga utilizzata per scopi pacifici; un mondo in cui i governi siano al servizio dei cittadini e i diritti di tutti i figli di Dio vengano rispettati.

Questi sono interessi comuni, questo è il mondo che cerchiamo, ma possiamo ottenerlo solo insieme. So che ci sono molti, sia musulmani che non, che si chiedono se sia possibile forgiare questo nuovo inizio, alcuni vogliono rafforzare le divisioni e opporsi al progresso. Altri sostengono che quest’idea non valga lo sforzo, perché siamo condannati a essere in disaccordo e le culture sono destinate a scontrarsi. Molti altri sono semplicemente scettici della possibilità che avvenga un reale cambiamento.

C’è così tanta paura e così grande sfiducia e tuttavia se scegliamo di essere legati al passato, non riusciremo mai ad andare avanti e voglio dirlo, in particolare, alle giovani generazioni di tutti i paesi – voi, più di chiunque altro, avete la capacità di cambiare questo mondo.

Tutti noi condividiamo questo mondo solamente per un breve spazio di tempo, è più facile far ricadere sugli altri le colpe, piuttosto che cercare dentro di noi; è più semplice notare ciò che ci distingue, piuttosto che quel che condividiamo. Dovremmo però scegliere il giusto cammino, non il sentiero più semplice. Al cuore di ogni religione c’è una regola, quella che dice che ciò che dovremmo trattare gli altri come vorremmo essere trattati da loro. Questa verità trascende le Nazioni e i popoli, è una convinzione che non è nuova, né bianca, né nera, né marrone; non è cristiana, musulmana o ebrea.

E’ una convinzione, però, che vive nella culla delle civiltà e che batte ancora nei cuori di miliardi di persone. E’ la fede nelle altre persone ed è quello che mi ha portato qui oggi. Abbiamo il potere di plasmare il mondo che cerchiamo, ma solamente se avremo il coraggio di partire da zero, ricordandoci di quel che è stato scritto. Il sacro Corano ci dice: “Oh, umanità! Vi abbiamo creati uomini e donne e vi abbiamo diviso in Nazioni e tribù affinché poteste conoscervi” Il Talmud ci dice: “L’intera Torah ha lo scopo di promuovere la pace” La santa Bibbia ci dice: “Siano benedetti i portatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” I popoli del mondo possono vivere insieme in pace, sappiamo che quella è la visione di Dio.

Questo deve ora essere il nostro impegno sulla Terra e che la pace di Dio sia su di voi.








Obama al Cairo per far pace con l'Islam «Sono qui per cercare un nuovo inizio»
Capitale egiziana blindatissima. Poi da venerdì il capo della Casa Bianca sarà in Europa
04 giugno 2009

https://www.corriere.it/esteri/09_giugn ... aabc.shtml

CAIRO - «Tutti i popoli del mondo possono vivere in pace tra loro. È questo il disegno di Dio». Barack Obama lo ha detto chiaramente, in conclusione del suo atteso discorso (leggi) all'università del Cairo, citando brani del Corano, del Talmud, della Bibbia. E lo ha ribadito più volte nel corso di un intervento durato circa un'ora nel corso del quale ha raccolto tanti applausi e qualche fischio e ha gettato le basi per quello che lui stesso ha definito un «nuovo inizio» nei rapporti tra l'Occidente e il mondo islamico. Deciso ad invertire la tendenza e a spegnere le tensioni che si sono accumulate negli otto anni dell'amministrazione Bush, Obama ha parlato della necessità di superare la questione israelo-palestinese con la creazione di due Stati sovrani e indipendenti; ha aperto spiragli all'eventualità che l'Iran sviluppi programmi nucleari per scopi civili; e ha confermato che gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di colonizzare Afghanistan e Iraq, insediandovi proprie basi militari. Tutt'altro: entro il 2012, ha annunciato il presidente americano, sarà completato il ritiro delle truppe dall'Iraq, ponendo fine a un intervento militare che lo stesso Obama giudica ora negativamente. «La paura - ha detto - dopo l'11 settembre ci ha portato ad agire anche contro i nostri ideali».

UN NUOVO INIZIO - «Sono qui per cercare un nuovo inizio - ha detto Obama esordendo sul palco dell'università -. Dobbiamo fare uno sforzo per rispettarci a vicenda. Non siamo in contrapposizione, possiamo arricchirci a vicenda. Certi cambiamenti non avvengono in un giorno, ma dobbiamo provarci». «Gli eventi in Iraq - ha detto ancora Obama che all'inizio del discorso ha citato il colonialismo, la guerra fredda e la globalizzazione come cause di divisione dell'Islam e dell'Occidente - hanno ricordato all'America la necessità di usare la diplomazia e creare consenso internazionale per risolvere i nostri problemi ogni volta che è possibile».

«NIENTE STEREOTIPI» - Obama ha poi sottolineato la necessità di superare gli stereotipi: quelli dell'Occidente nei confronti dell'Islam, ma anche quelli nei confronti dell'America. «Perché siamo una società che nasce dalla ribellione ad un impero - ha detto il presidente Usa -, una nazione in cui tutti hanno la possibilità di realizzare se stessi. C'è un pezzo di mondo musulmano in America e noi abbiamo sempre fatto di tutto per difenderne le prerogative e i diritti. In ognuno dei nostri Stati, ad esempio, c'è una moschea».

AFGHANISTAN E IRAQ - Obama ha però messo alcuni punti fermi. Ad esempio la lotta al terrorismo, giudicata inevitabile. E la netta distinzione tra la caccia agli estremismi e una guerra all'Islam che non c'è. L'intervento militare in Afghanistan, ha detto, è stato inevitabile. Diversamente quello in Iraq, «che è stata una scelta» e che «è stato contestato anche nel nostro Paese». È molto meglio oggi la vita senza Saddam Hussein, ha sottolineato Obama, ma ha anche ribadito la necessità di un Iraq libero che vada avanti con le proprie gambe e per questo gli Usa ritireranno tutte le truppe entro il 2012, senza lasciare nel Paese alcuna base militare.

«LA QUESTIONE PALESTINESE» - Obama ha poi parlato della necessità di superare la violenza del conflitto mediorientale. Israele, ha detto il capo della Casa Bianca, deve accettare l'esistenza di uno stato palestinese e viceversa Hamas deve riconoscere l'esistenza di Israele. «Ci sono già state troppe lacrime» ha detto Obama. Il presidente Usa ha poi contestato apertamente, in un passaggio sottolineato dagli applausi, la necessità che Gerusalemme interrompa la politica degli insediamenti. E ha ricordato le difficoltà della vita nei campi profughi e nelle zone occupate dall'esercito israeliano. Ma ha esortato i palestinesi ad interrompere da subito la violenza: «Lanciare razzi che uccidono bambini che dormono o donne che salgono su un autobus non è segno di potere». Insomma, la soluzione che prevede due Stati per due popoli e «l'unica soluzione». Tutti noi, ha ribadito Obama, dobbiamo lavorare per il giorno in cui Gerusalemme «sarà il luogo dove tutti i figli di Abramo potranno mescolarsi in pace».

«Sì AL NUCLEARE PACIFICO» - Obama ha anche detto che nessuna nazione dovrebbe interferire sulle scelte energetiche degli altri. «L'Iran - ha precisato - dovrebbe avere accesso al nucleare pacifico, ma deve aderire al Trattato di non-proliferazione». Il confronto sul controverso programma nucleare iraniano è in ogni caso «a una svolta decisiva». Washington, ha spiegato Obama, è pronta ad «andar avanti senza condizioni preliminari». Un approccio che aiuterà a prevenire una corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente. Ma la Casa Bianca, ha chiarito il presidente, procederà al contempo con coraggio, rettitudine e risolutezza nei confronti della repubblica islamica. Obama ha riconosciuto il ruolo degli Stati Uniti lo scorso secolo nella destituzione del governo iraniano democraticamente eletto e che sarà difficile superare decenni di sfiducia.

RELIGIONE E DIRITTI DELLE DONNE - Tra gli altri punti toccati dal capo della Casa Bianca, vi sono la necessità di lavorare per una sempre maggiore estensione dei diritti civili e per la parità tra uomo e donna, per la libertà religiosa in ogni parte del mondo e per fare sì che lo sviluppo economico e la globalizzazione creino opportunità ovunque, e non siano al contrario causa di problemi.

LA VISITA LAMPO - La capitale egiziana è stata blindata per l'arrivo di Obama, che si è trattenuto per poco più di nove ore, fino al primo pomeriggio. Prima dell'intervento all'università, il presidente americano ha avuto modo di incontrare per un faccia a faccia a porte chiuse il presidente egiziano Hosni Mubarak e per una visita alla moschea del sultano Hassan, all’università e alle piramidi. Alle 18.40, con circa 40 minuti di ritardo sulla tabella di marcia, il presidente ha lasciato il Cairo per la Germania. Ai piedi della scaletta dell'Air Force One, Obama è stato salutato dal ministro degli esteri egiziano Ahmed Abul Gheit, che lo aveva accolto all'arrivo, e dall'ambasciatrice americana al Cairo Margaret Scobey. Hillary Clinton è ripartita dal Cairo poco prima di Obama. In serata il presidente è arrivato in Germania dove venerdì incontrerà il cancelliere tedesco Angela Merkel e visiterà il campo di concentramento di Buchenwald. L'Air Force One è atterrato a Dresda, città che fu quasi interamente distrutta dai bombardamenti degli alleati nel 1945. Prima di volare in Francia per le commemorazioni del 65.mo anniversario dello Sbarco in Normandia, il presidente americano farà una breve tappa all'ospedale militare di Landstuhl.




Il discorso di Obama in Egitto
18 giugno 2009

https://www.ossin.org/uno-sguardo-al-mo ... -in-egitto


Analisi, giugno 2009 - Con il discorso de Il Cairo, il presidente Obama ha mostrato di avere capito che l'islamofobia è controproducente e genera solo insicurezza. Un'analisi di Mustapha Cherif, presidente del Forum des intellectuels algériens


La fine della guerra oriente-occidente?
Né islamofobia, né islamofilia

L’Expression, 18 giugno 2009
Mustapha Cherif (presidente del Forum des intellectuels algériens)


L’attuale presidente nordamericano e la sua squadra hanno capito che l’islamofobia è controproducente e contribuisce solo a creare insicurezza su scala planetaria

Ciò che i mussulmani del mondo intero chiedono a chi ha il potere è di essere giusto, né islamofobo, né islamofilo. Sul piano internazionale, e comunque su quello regionale, il discorso del presidente nordamericano Barack Hussein Obama restituisce speranza, malgrado i suoi limiti ed i suoi non detto. Il cambiamento della politica estera degli Stati Uniti – dicono – non si spiega solo con la storia e le idee del presidente nordamericano. Si tratta certamente di una politica frutto di un compromesso tra le élite nordamericane, repubblicane e democratiche, e ben prima dell’elezione di Barack Obama una parte di questa élite – si dice ancora – s’era mostrata critica verso la conduzione dell’occupazione dell’Iraq e dell’Afghanistan e la gestione del dossier sul nucleare iraniano. Senza dubbio è così, ma è vero anche che la questione dell’islam è al centro delle strategie e del dibattito, almeno dal 1989. Barack Obama l’ha affrontata con differenti sfumature. Si è esagerato nell’affermare che queste parole sono in sostanza identiche a quelle di Bush, l’infame, anche se a proposito della questione palestinese, Obama non usa né le parole che servono, né presenta una proposta decisiva. Cosa deludente e preoccupante. E’ su questo che sarà giudicato, non sui sorrisi e l’amabilità.
E tuttavia, almeno tre insegnamenti devono ricavarsi da questo discorso di rottura.
Per prima cosa, il discorso fatto in Egitto dimostra che il presidente nordamericano e la sua squadra hanno capito che l’slamofobia è controproducente e contribuisce alla mondializzazione dell’insicurezza. Le cause dell’insicurezza sono le ingiustizie, l’ignoranza e la strumentalizzazione delle religioni. La violenza cieca è ingiustificabile, ma bisogna comprenderne le cause e combatterne le espressioni a monte e a valle. L’islamofobia fa il gioco degli estremisti di ogni sponda.
Si conoscono le cause della deformazione dell’immagine dei mussulmani, sono interne ed esterne. Alcuni vorrebbero far credere che sono solo interne. Le ingiustizie, le colonie in Palestina, le discriminazioni che patiscono i mussulmani in occidente, soprattutto in Europa, e l’attivismo dei movimenti di estrema destra sono ben conosciuti, ma poco si fa per porvi rimedio. Il discorso di Barack Obama fornisce materia di riflessione e mette a nudo le contraddizioni di quelli che nascondono la realtà dell’islamofibia e cercano di far credere che non ci sono problemi e pensano di aver risolto il problema vietando ad esempio l’uso del velo.
In Francia, il velo non è vietato solo allo sportello degli uffici pubblici, ma anche a scuola, secondo la legge del 15 marzo 2004, detta del “velo islamico” (legge 2004-2228). Sicuramente vi sono tanti movimenti politico-religiosi retrogradi e reazionari che rivendicano l’uso del velo ed usano questa questione per finalità meschine, ed è anche vero che la modernità deve essere un obiettivo prioritario, ma il modo in cui tante correnti islamofobe hanno regolato i loro conti, inventato un nuovo nemico e strumentalizzato questa faccenda nuoce all’idea della modernità e indebolisce la lotta contro l’integrismo.

L’islamofobia alimenta l’estremismo
Resta che occorre comprendere che non sono solo gli islamofobi, ma anche molte oneste persone erano per il divieto del velo, per tre ragioni. Per difendere la “pace civile” all’interno delle scuole: ritenevano fosse pericoloso consentire una concorrenza senza limiti dei segni religiosi. Inoltre alcuni istituti temevano che potessero esservi delle pressioni sui più giovani. E infine il velo era usato come strumento di propaganda da parte di gruppi integristi, e ciò è contrario ai principi di libertà.
Al Cairo il presidente degli Stati Uniti ha detto: “E’ importante che i paesi occidentali non impediscano ai mussulmani di praticare la loro religione come desiderano, per esempio imponendo gli abiti che una donna deve portare (…) Non si può nascondere l’ostilità verso una religione dietro la falsa immagine del liberalismo”. Io respingo – ha aggiunto – il punto di vista di qualcuno in occidente” che considera “come una disparità il fatto che una donna scelga di coprire i suoi capelli”. Questo approccio dimostra che l’occidente non è monolitico e che il dibattito resta aperto. Più ancora, contrariamente a quanto afferma con superficialità Malek Chebel (antropologo delle religioni e filosofo algerino, ndt), le dichiarazioni di Obama non favoriscono il radicalismo. Perché finché l’occidente è intollerante e fa di tutt’erba un fascio, gli estremisti ne approfittano. Posizioni come quelle di Obama, invece, consentono alla stragrande maggioranza dei mussulmani di non seguire gli estremisti. L’islamofobia, che confonde appositamente islamismo e islam, alimenta l’estremismo, mentre il rispetto del diritto alla diversità lo ostacola.
In secondo luogo, questo discorso pone al centro dell’attenzione la grande questione della democrazia e dell’uguaglianza. Che è quanto il militanti del diritto rivendicano da decenni. Obama non elude la questione della democrazia nei paesi mussulmani e quella dello statuto delle donne. Il suo discorso difende per le donne la libertà e la esalta nel quadro della libertà religiosa, e condanna altresì le limitazioni della libertà nei paesi mussulmani. In verità la donna è oggetto, in occidente, di un selvaggio liberalismo e in oriente di incultura, ed è questo che occorre cambiare dal momento che il vero islam onora la donna e non dà adito a confusione. Bisogna accettare la critica per ciò che concerne la democrazia interna, perché si possa criticare il sistema dominante. Ragionevolmente Obama ha precisato: “Alcuni mussulmani hanno l’inquietante tendenza a misurare la propria fede sul ripudio di quella altrui” e chiede che sia rispettata la libertà religiosa. Il diritto alla diversità e la laicizzazione della società. L’islam non vi si oppone, è quanto occorre far comprendere a tutti.

L’egemonia è votata al fallimento
In terzo luogo, sul piano politico Obama fa un riconoscimento ancora maggiore: l’impossibilità di imporre con la forza un modello egemonico. Soprattutto che il sistema dominante si trova in un vicolo cieco. E’ un cambiamento radicale. Obama si impegna nella logica del negoziato, della diplomazia e non in quella dei cannoni e degli errori del passato: “Non bisogna restare prigionieri del passato”, ha insistito. La scelta di Obama fondata sul “cambiamento”, che ha sedotto il popolo nordamericano, è messa alla prova dalla situazione internazionale, essendo chiaro che gli Stati Uniti non rinunceranno alla loro leadership. Tuttavia v’è un’apertura che non bisogna trascurare. Dobbiamo tutti contribuire a favorire il cambiamento verso una democratizzazione delle relazioni internazionali e del mondo mussulmano e trasformare la logica del conflitto in quella del dialogo.

L’esperienza francese
Il discorso di Obama ha fatto scalpore in Francia, soprattutto per quel che ha detto a proposito del diritto a praticare liberamente la religione mussulmana e della questione del velo. Malgrado l’attuale presidente francese sia favorevole alle idee di laicità positiva e aperta, il panorama mediatico di questo paese dei diritti dell’uomo, salvo l’eccezione di giornali come La Croix e il settimanale Le Nouvel Observateur, resta segnato dal dogmatismo di un laicismo intollerante ed islamofobo. I media danno più spesso la parola ai piromani ed a quelli che si flagellano e rinnegano le proprie origini. Questi “mussulmani di servizio”, dispensatori di lezioni, sono patetici con questi atteggiamenti bassamente commerciali sul palcoscenico di radio, televisioni e giornali, per fare piacere ai loro ospiti. Facendo a gara a chi rinnega di più i valori dei popoli mussulmani, accusandoli e demonizzandoli a oltranza, contribuendo a creare confusione.
Fortunatamente il panorama culturale e politico francese non è particolarmente islamofobo, anche se ci sono correnti che lo sono. In Francia la destra non è tanto contraria al velo nella scuola, quanto all’ingresso della Turchia in Europa; per la sinistra vale il contrario. Qualcuno si domanda chi è il più islamofobo tra i due. Lo sono probabilmente di più quelli che rifiutano di lasciare posto agli altri nella loro comunità. La prova, nonostante la propaganda dello scontro di culture, malgrado la riduzione degli studi di islamologia e orientalismo nel senso nobile del termine, malgrado la priorità data agli studi di tipo “poliziesco” da ricercatori che detestano l’oggetto dei loro studi, fabbricano e gonfiano nozioni fuorvianti come il “jahidismo”, malgrado numerose difficoltà, malgrado, la persistenza, da un lato, dei pregiudizi e, dall’altro, di comportamenti oscurantisti e (talvolta) disonorevoli degli pseudo mussulmani, i mussulmani in Francia sono sempre più considerati come dei cittadini a pieno titolo. Un recente esempio positivo è l’istituzione di un centro di monitoraggio nel Tribunale di Lyon sugli atti antimussulmani. Le comunità mussulmane si sviluppano, si costruiscono moschee, la chiesa cattolica si apre sempre più al dialogo, senza contare gli aiuti fiscali alle associazioni religiose. Per contro il Francesi vogliono che lo Stato non assicuri alcuna preferenza in tema di religione, perché la libertà di culto sia effettiva. Proprio per questo si è favorita la creazione del Cfcm (Il Consiglio francese del culto mussulmano, ndt), anche se la sua nascita è stata dettata anche da legittime preoccupazione di sicurezza e coesione sociale. Tuttavia si è trattato di una conquista, anche se si pongono dei problemi di fondo. Vi sono però delle sfaldature ed una certa incompetenza che mina i rapporti dei mussulmani tra loro e con la società. Bisogna invocare l’unità, unire le forze e dialogare. Perché l’islamofobia non è sparita.
Ne è un esempio il caso del ricercatore Vincent Geisser, sociologo e politologo francese, che lavora all’Institut de recherches et d’études sur le monde arabe et musulman (Iremam) di Aix en Provence, alle dipendenze del CNRS. Geisser è stato convocato dalla “Commission administrative paritaire” del CNRS per “grave violazione” dell’”obbligo di riservatezza cui è tenuto un funzionario”. Nella lettera di convocazione gli si rimproverano delle “espressioni usate nei confronti di un funzionario della sicurezza del CNRS”.
Giunto al CNRS nel 2003, Geisser, nel settembre 2004, ha avviato un’inchiesta sul ruolo dei ricercatori maghrebini o di origine maghrebina nelle istituzioni pubbliche francesi (Institut National de la Santé et de la recherche médicale – Inserm –, università, Cnrs…)
“La mia equipe – spiega - doveva fare una valutazione scientifica rigorosa sul contributo dei ricercatori e degli universitari maghrebini alla diffusione della ricerca francese nel mondo”. Il responsabile della sicurezza ha contattato il direttore del suo laboratorio di ricerca per avvertirlo di classificare le ricerche di Geisser come “soggetto sensibile”. Il responsabile del Centro si è doluto di ciò, pensando che gli si rimproverasse di volere infiltrare il Centro con una “lobby mussulmana”. I sospetti sono evidentemente ridicoli, ha dichiarato Geisser. E tuttavia il 4 aprile scorso quest’ultimo ha inviato una mail privata al comitato di sostegno di una studentessa dottoranda, che il Cnsr aveva allontanato per essersi rifiutata di abbandonare il velo. Nel messaggio, il ricercatore ha paragonato “l’azione securitaria del Centro ai metodi usati contro gli Ebrei” durante la seconda guerra mondiale. E’ stata proprio la pubblicazione di questa lettera su un blog, senza il suo consenso, che ha provocato la convocazione di Geisser davanti alla commissione disciplinare del Cnrs.
Vincent Geisser è stato già nel passato vivamente e ingiustamente criticato dalle correnti islamofobe dopo la pubblicazione del suo libro: La Nouvelle Islamophobie.
In questa vicenda egli aveva ricevuto il sostegno, con una petizione, di diversi universitari e ricercatori francesi, tra cui Pascal Boniface, direttore dell’Institut de relations internationales et stratégiques (Iris), Edgar Morin e Etienne Balibar, filosofi, Oliveir Roy, politologo e specialista dell’Islam.
L’influenza degli intellettuali è certamente piuttosto in declino nelle società della dittatura del Mercato, ma l’attacco contro questo ricercatore è ingiusto e dimostra che l’islamofobia resta una triste realtà, anche se non si tratta di un fenomeno generale. Alcuni intellettuali obiettivi alimentano, con la circolazione del loro pensiero e delle loro parole, la nascita di movimenti civici per difendere la libertà e la fraternità, e questa è la cosa più importante. “Se per pensare e scrivere la libertà è importante, va da sé che l’obbligo di riservatezza che vige per certe categorie di funzionari non può applicarsi anche ai ricercatori, salvo che da essi ci si attenda soltanto la riproduzione di una dottrina ufficiale e sterile”. Questo è quello che pensa anche Esther Benbasa, intellettuale francese, ebrea, che difende le cause giuste. Oggi la convocazione davanti ad una commissione di disciplina del nostro collega Vincent Geisser, accusato di “islamofilia” costituisce un segno allarmante di islamofobia. “L’indegno trattamento che gli viene riservato è vergognoso”, notano degli intellettuali francesi ed il ministro Valérie Pécresse ha preso posizione in favore della libertà dei ricercatori.
Vicenda da seguire. Nell’ attesa, non bisogna far disperare i giusti di tutti i popoli.
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Re: Fradełansa muxlim - Fratellanza mussulmana

Messaggioda Berto » dom feb 28, 2021 10:23 am

Egitto: Barack Obama il vero leader dei Fratelli Musulmani
24 giugno 2014

https://www.rightsreporter.org/egitto-b ... musulmani/

«Il Presidente USA, Barack Obama, è il vero leader occulto dei Fratelli Musulmani e in questi giorni lo sta dimostrando senza vergogna con le sue indebite pressioni sulla giunta militare per far si che lascino il posto alla Fratellanza musulmana». A parlare così è un attivista egiziano vicino ai partiti liberali che avevano organizzato le prime manifestazioni in Egitto convinti di poter trasformare il loro Paese in una democrazia.

L’attivista, che chiede l’anonimato per paura di ritorsioni, continua nella chiacchierata con un gruppo di giornalisti occidentali accorsi ad una improvvisata conferenza stampa poco lontano da Piazza Tahrir dove si stanno radunando i salafiti per chiedere che la giunta militare consegni il Paese al loro candidato, Mohammad Morsi. «Il Presidente degli Stati Uniti ci ha scippato la rivoluzione e l’ha dirottata nelle mani della Fratellanza Musulmana» continua il rappresentante dei partiti liberali egiziani. «Più passa il tempo più diventa evidente che sin dall’inizio il piano di Barack Obama era quello di consegnare l’Egitto ai Fratelli Musulmani e a dimostralo ci sono le fortissime pressioni che sta esercitando sulla giunta militare affinché riconosca Morsi come vincitore delle elezioni parlamentari, prima ancora che la commissione elettorale emetta il suo verdetto».

A parlare di fortissime pressioni americane a favore della Fratellanza Musulmana non solo i partiti liberali egiziani ma anche la stessa giunta militare. Ieri sera è stato il Generale Abed al-Munim Kato, responsabile per le pubbliche relazioni della giunta militare, a parlare molto apertamente di “indebite intromissioni” dell’amministrazione USA a favore di una proclamazione di vittoria di Morsi. Kato ha raccontato alla stampa delle innumerevoli telefonate del Segretario di Stato USA, Hillary Clinton, ai responsabili della giunta militare per convincerli, anche con minacce nemmeno tanto velate, a consegnare il Paese ai Fratelli Musulmani. «E’ inaccettabile che l’Egitto subisca pressioni americane per costringerci a consegnare il Paese alla Fratellanza Musulmana» conclude il Generale Kato.

Alla luce degli ultimi eventi è innegabile che il sospetto dei partiti liberali egiziani che sin dall’inizio il Presidente USA, Barack Obama, avesse in mente di scippare la rivoluzione liberale agli egiziani e di consegnare l’Egitto alla Fratellanza Musulmana, sia più che fondato. Ragionando con il senno di poi ogni mossa fatta dall’Amministrazione Americana negli ultimi mesi va in questo senso. E a ben vedere anche negli altri Stati “vittime” delle cosiddette “primavere arabe” la situazione è la stessa. In tutti i casi l’islamismo salafita ha scippato la rivoluzione liberale trasformandola in una rivoluzione islamica molto simile a quella iraniana. Se poi questo sia un vero e proprio piano “ordito” da Barack Obama è tutto da dimostrare,ma se si guardano i fatti c’è poco da stare allegri.




Obama e la scommessa sbagliata sui Fratelli Musulmani
20 Agosto 2013

https://www.ispionline.it/it/pubblicazi ... lmani-8851

Le primavere arabe del 2011 hanno colto l’amministrazione americana impreparata. L’eredità raccolta dalla presidenza Bush nella politica mediorientale gravitava intorno a spazi geopolitici diversi: il cuore e imbuto della penisola arabica rappresentati dall’Iraq, la periferia est del Medio Oriente “allargato” dove la priorità è stata la stabilizzazione dell’Afghanistan e sullo sfondo l’annosa questione palestinese. Nel 2010, pochi avrebbero immaginato che a sconvolgere gli equilibri regionali in Medio Oriente e, insieme ad essi, i calcoli della politica americana nell’area sarebbero venuti dal Nord Africa. Non stupisce dunque che le reazioni di Washington siano state ambigue, in alcuni casi improvvisate.

Nell’universo composito delle primavere arabe e dei paesi che ne sono stati protagonisti l’Egitto ha un ruolo peculiare e prioritario per gli Stati Uniti. L’Egitto, per quanto sia cambiata la sua influenza regionale rispetto ai tempi di Nasser e Sadat, è il paese più influente nel mondo arabo sotto il profilo strettamente politico. Rimane il paese in grado di determinare un atteggiamento di massima del mondo arabo rispetto alla pace con Israele e rappresenta un laboratorio politico in grado di ispirare i progetti politici di altri paesi arabi. Queste caratteristiche lo hanno posto al centro delle attenzioni americane molto di più di quanto sia successo per gli sconvolgimenti politici in paesi meno influenti (Tunisia, Yemen, Bahrain), politicamente isolati (Libia) o al centro di allineamenti regionali molto più complicati per gli Stati Uniti (Siria).

Sfortunatamente per l’amministrazione Obama, al ruolo di paese più determinante dell’Egitto per la politica mediorientale americana si è accompagnato il maggior dilemma: quello fra stabilità e promozione della democrazia, fra conservazione dello status quo e regime change. Il dilemma si è fatto ancora più impegnativo per Barack Obama, un presidente che ha fatto del suo impegno morale verso il rispetto della volontà popolare – in una prospettiva possibilmente non solo occidentale – uno dei tratti distintivi della sua amministrazione. Nel gennaio 2011 le proteste di piazza Tahrir hanno obbligato il presidente americano a una scelta. Una buona dose di indecisione non è mancata: ancora alla fine di gennaio, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, Obama apprezzava la fine della dittatura in Tunisia ma non citava le proteste egiziane, con gran delusione di coloro che a loro rischio e pericolo riempivano le strade al Cairo. Alcuni colsero addirittura in quel silenzio un abbandono da parte degli Stati Uniti. Nei giorni seguenti Obama e Hillary Clinton hanno sostenuto pubblicamente il loro auspicio per una transizione “ordinata” guidata da Omar Suleiman (vice-presidente nominato da Mubarak). Nelle settimane seguenti, l’amministrazione americana ha scommesso invece sulle forze di opposizione al presidente egiziano, “abbandonando” di fatto il vecchio alleato – creando qualche attrito con gli altri due alleati storici regionali, Israele e Arabia Saudita. Era noto allora che i Fratelli Musulmani avrebbero giocato un ruolo determinante nell’Egitto post-Mubarak. Era difficile prevedere che nel 2012 i Fratelli Musulmani sarebbero arrivati a monopolizzare il nuovo regime, in ogni caso l’amministrazione Obama ha deciso di correre quel rischio.

Il 3 luglio scorso è stato evidente a tutti che quella scommessa era persa. Era del resto difficile immaginare che una minoranza tanto ampia e influente come quella della Fratellanza musulmana potesse accettare di tornare silenziosamente nei sotterranei della vita politica egiziana. Era impossibile immaginarlo dopo che nel 2012 i Fratelli Musulmani sono arrivati al comando del paese. La frattura era destinata presto o tardi a tradursi in conflitto aperto col rischio di gettare il paese nella guerra civile.

Il protagonismo che le forze armate si sono riconquistate con la forza riapre dunque la partita non solo per l’Egitto – a cui spetta con tutta probabilità una lunga fase di instabilità – ma anche per gli Stati Uniti ai quali è richiesta una seconda scommessa, questa volta di segno opposto e forse ancor più indeterminata di quella compiuta nel 2011.



Obama elogia i Fratelli Musulmani americani che vogliono «rimpiazzare il governo Usa con un Califfato»
Leone Grotti
5 settembre 2013

https://www.tempi.it/obama-fratelli-mus ... fato-isna/

Obama si congratula in un messaggio con la Società islamica del Nord America, in occasione del suo 50esimo convegno. Ma tra i relatori gli estremisti anti-americani si sprecano

«Congratulazioni alla Società islamica del Nord America (Isna) per aver organizzato la vostra 50esima conferenza annuale». Così Barack Obama ha salutato la branca statunitense dei Fratelli Musulmani, in occasione dell’apertura del loro convegno che si è tenuto dal 30 agosto al 2 settembre.

CONVEGNO DI ESTREMISTI. Obama ha elogiato l’importanza e lo spirito americano del convegno, che contribuisce alla costruzione di una nazione aperta a tutti, ma forse avrebbe dovuto prima verificare meglio i partecipanti, come ha fatto notare l’Observatoire de l’islamisation, che ha raccontato chi sono e che cosa sostengono di solito alcuni dei relatori presenti.

«CALIFFATO AL POSTO DEL GOVERNO». C’è Yasir Qadhi, predicatore salafita secondo cui «Allah distruggerà il capitalismo americano» e i cristiani vanno «combattuti fino a quando non testimonieranno che non c’è altro Dio al di fuori di Allah».
Tra i partecipanti anche Siraj Wahhaj, che nel 2011 spiegava al suo uditorio musulmano: «Se i musulmani fossero più intelligenti dal punto di vista politico, potrebbero prendere gli Stati Uniti e rimpiazzare il suo governo costituzionale con un Califfato. Se gli otto milioni di musulmani fossero uniti in America, questo paese sarebbe nostro».

«MEGLIO LA SHARIA DELLA COSTITUZIONE». È intervenuto anche Zadi Chakir, che ha sempre sostenuto che «la Costituzione americana fosse inferiore alla sharia», arrivando a conclusioni simili a quelle di Sayyed Syeed, ex segretario generale di Isna, secondo cui «il nostro lavoro è quello di cambiare al Costituzione degli Stati Uniti». Per finire, si può citare Yahya Hendi, che in un interrogatorio alla polizia americana nel 2003 aveva affermato che gli attentati suicidi sono pienamente giustificati dal Corano.

OLOCAUSTO COLPA DEGLI EBREI. L’appoggio di Barack Obama ai Fratelli Musulmani, come si è visto in Egitto, non è una novità ma il presidente dovrebbe fare più attenzione ad approvare pubblicamente un’organizzazione che nel 2009 ha fatto molta fatica a scusarsi con i media perché l’imam Warith Deen Omar, intervenuto al convegno annuale, aveva dichiarato: «L’Olocausto è stato la conseguenza della disobbedienza degli ebrei a Dio».




Quelle mail della Clinton che svelano i rapporti coi Fratelli Musulmani
Autore Giovanni Giacalone
18 Ottobre 2020

https://it.insideover.com/politica/le-m ... lmani.html

Una serie di email riguardanti Hillary Clinton nel suo periodo come Segretario di Stato della prima amministrazione Obama (2009-2013) e recentemente rese pubbliche dalla presidenza Trump gettano nuove ombre sui rapporti tra i “Democrats” e l’organizzazione islamista radicale dei Fratelli Musulmani, in particolare dal periodo precedente allo scoppio delle cosiddette “Primavere Arabe” fino alla caduta in Egitto dell’esecutivo islamista di Mohamed Morsy nell’estate del 2013.

I documenti rilasciati hanno inoltre evidenziato stretti rapporti tra l’amministrazione Obama e l’emittente televisiva qatariota Al Jazeera, notoriamente vicina alle posizioni dei Fratelli Musulmani; non è del resto un caso che il Qatar resta il principale sponsor mediorientale dell’organizzazione islamista radicale, assieme alla Turchia.

Il quadro che emerge dalle email e che conferma una chiara simpatia dell’amministrazione Obama per i Fratelli Musulmani, visti all’epoca come nuova alternativa democratica ai regimi come quelli di Gheddafi, Mubarak, Ben Ali e Bashar al-Assad non è certo una sorpresa, visto che tali posizioni erano già note da anni. Una politica estera poi rivelatasi fallimentare su tutta la linea e fortemente sostenuta da alcuni consiglieri per la sicurezza nazionale già coinvolti in prima linea nelle politiche di apertura di Washington nei confronti del regime iraniano e di Cuba.

Un’inversione di marcia sulla politica estera mediorientale

Per decenni gli Stati Uniti avevano politicamente, economicamente e militarmente sostenuto il regime di Hosni Mubarak in Egitto e quello di Ben Ali in Tunisia con il chiaro obiettivo di garantire la stabilità in un’area caratterizzata da costanti tensioni. I due Paesi non avevano soltanto svolto un ruolo fondamentale nell’arginare derive filo-sovietiche durante la Guerra Fredda, ma erano anche alleati fondamentali nella cosiddetta “war on terror”, come dimostra ad esempio il caso di Abu Omar, il predicatore islamista radicale egiziano fatto sparire nel 2003 a Milano, nei pressi della moschea di viale Jenner, da una cellula della Cia e ricomparso il giorno dopo in un carcere dei Mukhabarat egiziani.

Il progressivo peggioramento delle condizioni socio-economiche e il malcontento popolare in questi Paesi hanno però portato l’amministrazione Obama a credere che fosse addirittura necessario un “regime-change“, ovviamente in nome della democrazia e ciò nonostante il precedente fallimento iracheno. E’ chiaro che senza un’alternativa politica forte ed affidabile non ha alcun senso lanciarsi in iniziative del genere; a Washington però c’era chi sosteneva con grande convinzione che l’unica strada percorribile fosse quella del sostegno ai Fratelli Musulmani, indicati come forza politica conservatrice e certamente religiosa ma “lontana da quell’estremismo che ne aveva caratterizzato una sua prima fase”. Una delle giustificazioni spesso puerilmente fornita da certi analisti per garantirne l’affidabilità era il fatto che il leader di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, avesse lasciato la Fratellanza per fondare la Egyptian Islamic Jihad e poi co-fondare al-Qaeda. Ciò che gli analisti del Dipartimento di Stato non avevano però realizzato è che al-Zawahiri non aveva lasciato i Fratelli Musulmani perché non ne condivideva i principi ideologici, ma prettamente per motivi legati al modus-operandi. L’obiettivo dell’attuale leader di al-Qaeda era sempre e comunque quello di divulgare le idee di Sayyid Qutb (pilastro portante dei Fratelli Musulmani assieme al fondatore Hassan al Banna) ma prettamente attraverso il jihad, la lotta armata. Esiste infatti un comun denominatore chiamato “Sharia” che allinea l’ideologia di Fratelli Musulmani, al-Qaeda, Isis, Hamas, così come quella di gruppi non più attivi come Gia, Gamaa al-Islamiyya ed Imrat Kavkaz. Ciò che cambia è il modus operandi per raggiungere il potere e i Fratelli Musulmani avevano da tempo capito che la conquista graduale del tessuto sociale, economico e politico poteva richiedere più tempo ma era anche plausibilmente più sicura e proficua nel medio-lungo termine.

I contatti tra Washington ed esponenti dei Fratelli Musulmani si sono così intensificati negli anni precedenti allo scoppio delle Primavere Arabe, con questi ultimi che improvvisamente si presentavano come “sostenitori della democrazia in Medio Oriente” ed unica alternativa alla tirannia dei regimi al potere. Gli islamisti devono essere stati talmente convincenti che a Washington hanno addirittura pensato di sdoganarli anche in Paesi dove gli Usa non avevano alcun controllo e cioè in Libia e Siria, con l’obiettivo di rovesciare Gheddafi e Bashar al-Assad. Non è certo un caso che proprio in questi due Paesi il piano dell’amministrazione Obama non ha funzionato e le drammatiche conseguenze sono ancora visibili oggi.

In Egitto le cose non sono andate molto meglio, con l’esecutivo dei Fratelli Musulmani, guidato da Mohamed Morsy, che ha battuto il record per quanto riguarda i provvedimenti legali nei confronti di giornalisti e personaggi legati ai media, come denunciato dalla Arabic Network for Human Rights Information. Secondo tale rapporto il numero di denunce sarebbe di quattro volte maggiore rispetto all’era Mubarak e ventiquattro volte più grande rispetto a quella di Sadat. Considerando che Mubarak è rimasto al potere per trent’anni, Sadat per undici anni e Morsy soltanto per un anno, i numeri parlano chiaro. Durante l’anno di governo Morsy si è inoltre verificato il primo pogrom della storia d’Egitto nei confronti degli sciiti e una serie di attacchi contro i cristiani copti che hanno trascinato la popolazione nel terrore.

E’ plausibile che a Washington non fossero al corrente della reale identità del loro nuovo interlocutore politico? Difficile crederlo, così come risulta difficile che a Londra non sapessero di cosa realmente si occupasse l’organizzazione dei Fratelli Musulmani, come affermato nel 2014 dall’allora Primo Ministro, David Cameron, che ordinò anche un’indagine per capire se la Fratellanza fosse veramente estremista. L’anno prima, precisamente il 17 maggio (2013), Cameron aveva ricevuto a Londra il portavoce dei Fratelli Musulmani egiziani, Gehad el-Hadad, rinnovando il sostegno a quel governo Morsy che verrà poi rovesciato due mesi dopo da una rivolta popolare sostenuta dall’esercito. Londra era del resto nota all’epoca come la capitale europea della Fratellanza.
Quei nomi che spuntano nella mail della Clinton

Nelle mail dello staff della Clinton presso il Dipartimento di Stato emergono una serie di nomi sui quali è bene soffermarsi, a partire da quelli inseriti in una corrispondenza che fa riferimento a un viaggio in Qatar dell’ex Segretario di Stato per incontrare i vertici di al-Jaazera e l’ex Primo Ministro qatariota Hamad bin Jassim Al Thani. Con la Clinton viaggiavano infatti Kitty Di Martino (Chief of Staff for Public Diplomacy and Public Affairs), Mark Davidson (diplomatico con 28 anni di esperienza presso il Dipartimento di Stato ed ora in Giappone dove lavora nel settore privato), Eric Schoennauer (all’epoca senior communications advisor presso il Dipartimento di Stato) e Joe Mellot (Foreign Service Officer).

Andando più a fondo, sono emersi dettagli interessanti sugli ultimi due nominativi: Eric Schoennauer, all’epoca responsabile per la pianificazione e lo sviluppo della strategia comunicativa e per la collaborazione col Dipartimento della Difesa, laureatosi a West Point, prima di accedere al Dipartimento di Stato ha servito nel 3rd US Infantry Regiment e dal febbraio del 1998 al giugno 2003 (con incarico in Iraq nel settore informativo militare) presso lo US Army Special Operation Command dove ha operato nel 3rd Special Forces Group e nel 6th Psychological Operations Battalion, quello che si occupa delle operazioni psicologiche, con tanto di servizio nei Balcani e in America Centrale. L’anno successivo al viaggio della Clinton a Doha, Schoennauer ricomparirà a Bagram, Afghanistan, come Information Coordinations Operator. Joe Mellott verrà invece in seguito assegnato all’ambasciata statunitense in Libia in qualità di Public Affairs Officer e alla Nato come Executive Officer per l’ambasciatore Usa.

Un altro nominativo che compare nel programma del viaggio della Clinton a Doha nel 2010 è quello di Dana Shell Smith, all’epoca in servizio presso il Media Regional Hub di Dubai. Nel luglio del 2014 la Smith veniva nominata ambasciatrice Usa in Qatar e nell’aprile del 2015 scriveva un articolo per il “Council of American Ambassadors” dove elogiava gli sforzi di Doha nel contrastare Gheddafi e Bashar al-Assad, nel lavorare con “l’opposizione siriana” e a favore della “transizione democratica in Egitto”. Come se non bastasse, la Smith lodava il sostegno a ciò che lei definisce “opposizione islamica moderata…in Egitto, Tunisia, Libia e territori palestinesi”. Quanto l’Fjp di Morsy in Egitto sia risultato “moderato” lo si è visto, tant’è che il governo islamista “democraticamente eletto” si è trasformato in un regime ed è crollato dopo appena un anno. In Libia la “moderazione” dei gruppi islamisti è ancora oggi sotto gli occhi di tutti, mentre nei territori palestinesi la cosiddetta “opposizione islamica” ha un solo nome, Hamas, gruppo nella lista nera delle organizzazioni terroristiche di Ue, Usa e Israele. Possibile che la Smith non si fosse resa conto dei danni fatti dalla cosiddetta “opposizione moderata islamica” in Egitto, Siria, territori palestinesi e Libia?

Durante il viaggio a Doha, la Clinton e il suo staff si incontrarono con i vertici di al-Jazeera, tra cui il direttore Wadah Khanfar; l’emittente televisiva qatariota è ben nota per aver propagandisticamente sostenuto i gruppi islamisti attivi in Siria ed Egitto. E’ bene ricordare che il leader spirituale dei Fratelli Musulmani, Yusuf Qaradawi, aveva invocato il jihad in Siria e contro l’esecutivo al-Sisi in Egitto proprio da Doha, dove faceva base.

Altri due nominativi che spuntano poi in relazione alla Smith sono quelli di Ben Rhodes e Jake Sullivan, sempre in relazione ai rapporti tra Usa, Qatar e Fratelli Musulmani, come già illustrato dal Jerusalem Post. Il primo ha operato per l’amministrazione Obama come National Security Advisor for Strategic Communicatuions ed ha svolto un ruolo di primo piano nei negoziati segreti per la normalizzazione dei rapporti con Cuba, interfacciandosi direttamente col figlio di Raul Castro, Alejandro. Un piano non molto gradito all’opposizione cubana della Florida.

Diverse fonti indicano inoltre a Rhodes come autore del discorso tenuto da Obama il 4 giugno 2009 al Cairo e denominato “Un nuovo inizio”, col quale Washington ha di fatto aperto le porte ai Fratelli Musulmani in Egitto e persino come colui che avrebbe consigliato a Obama di ritirare il sostegno a Mubarak. Il nome di Jake Sullivan compare invece in relazione ai negoziati segreti tenuti dall’Amministrazione Obama con il regime iraniano (almeno cinque gli incontri ai quali veniva segnalata la sua presenza) in relazione al programma nucleare ed ha anche svolto un ruolo di primo piano nella campagna di Hillary Clinton alle elezioni presidenziali del 2016, poi vinte da Donald Trump.

Cosa potrebbe succedere alla politica estera statunitense e in particolare a quella diretta in Medio Oriente in caso di vittoria di Biden? Il candidato Dem ha recentemente affermato che in caso di vittoria toglierà il sostegno ad al-Sisi, definito “il dittatore preferito da Trump” e con tanto di tweet. Una mossa che aprirebbe nuovamente le porte agli islamisti radicali. E’ plausibile un cambio di linea del genere? Certamente, come evidenziato da Nahal Toosi, in quanto nonostante l’elevato numero di consiglieri per la politica estera e la sicurezza, Biden punta a fare affidamento esclusivamente su una ventina di esperti con lungo curriculum e parecchi dei quali già operativi durante gli otto anni di amministrazione Obama. In poche parole, una vittoria di Biden potrebbe risultare disastrosa per la stabilità del Medio Oriente, come già successo con quelle cosiddette “Primavere Arabe” che di primaverile hanno mostrato poco o nulla.
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Re: Fradełansa muxlim - Fratellanza mussulmana

Messaggioda Berto » lun mar 22, 2021 9:07 pm

La scrittrice contro i Fratelli Musulmani
È morta Nawal El Saadawi. Lottò contro poligamia, velo e mutilazioni genitali. I suoi libri banditi, lei fu licenziata, condannata a morte ed esiliata. Sono le penne libere che mancano al mondo arabo
Giulio Meotti
22 marzo 2021

https://meotti.substack.com/p/la-scritt ... -musulmani

La scrittrice Nawal El Saadawi, icona egiziana dell'emancipazione delle donne nel mondo arabo, è morta a 90 anni.

Come medico, Saadawi aveva scritto più di cinquanta libri in cui si era espressa contro la poligamia, l'uso del velo, la disuguaglianza dell’eredità tra uomini e donne nell'Islam e soprattutto l'escissione, la mutilazione genitale che lei stessa aveva subito a 6 anni. Aveva lasciato l'Egitto nel 1993, dopo aver ricevuto minacce dagli islamisti, per riparare negli Stati Uniti. Nel 2007, l’Università di Al-Azhar, una delle più prestigiose dell'Islam sunnita, l’aveva denunciata per aver attaccato l'Islam. Un mese prima, la sua autobiografia e una delle sue opere erano state bandite dalla Fiera del Libro del Cairo. Sotto Mubarak, la dottoressa Saadawi era stata messa sotto scorta per proteggerla dalle minacce dei fondamentalisti islamici. Il suo nome era incluso in una lista di persone da eliminare pubblicata in Arabia Saudita.

Saadawi era stata criticata nel 2013 per aver sostenuto la cacciata del presidente islamista Mohamed Morsi da parte del generale Abdel Fattah Al-Sisi. La sua pièce teatrale “Dio si è dimesso nel corso del vertice” finì nel mirino di al Azhar e il Gran Muftì Mohammad Sayd Tantawi definì l’opera “un insieme di ingiurie contro divinità, profeti e angeli”. Ha lottato su tutti i fronti e contro tutti i tabù: una delle sue prime opere, “La Femme et le Sexe”, nel 1972 aveva provocato un'immensa polemica. Il libro fu bandito e Saadawi licenziata dal suo incarico di medico. "Le donne sono spinte a essere solo corpi", aveva detto in un'intervista tre anni fa, “o per essere velate sotto la religione o per essere velate dal trucco. Viene loro insegnato che non dovrebbero affrontare il mondo con la loro vera faccia”.

Era una delle penne libere che mancano così tanto al mondo arabo-islamico.
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Messaggioda Berto » mer mar 31, 2021 9:36 am

Il progetto dei Fratelli Musulmani in 12 punti
Souad Sbai
30 marzo 2021

https://opinione.it/editoriali/2021/03/ ... si-besson/


Un nome che ai più dice poco o niente. Più niente che poco, realisticamente. Youssef Moustafa Nada, nato nel 1931 in Egitto, più precisamente ad Alessandria; banchiere e uomo d’affari italo-egiziano, oggi 86enne, è da sempre legato alla Fratellanza Musulmana e non con un ruolo qualunque: in più occasioni è stato definito lo stratega finanziario dell’organizzazione o il ministro degli Esteri. Insomma, una figura di spicco del gruppo e un personaggio su cui da sempre si sono addensati sospetti. In un’intervista del 22 giugno 2005 ad Andrea Leoni di TicinOnline, parlando per la prima volta dopo l’assoluzione del Tribunale federale dalle accuse di essere uno dei finanziatori di Al Qaeda, aveva chiarito alcuni punti decisivi della sua vicenda: “Io sono un banchiere? Sì. Sono un businessman? Sì. Sono ingegnere? Sì. Sono un politico? Sì. Sono un attivista islamico? Sì. Sono attività che non ho mai negato. Così come non ho mai negato che per un quarto di secolo sono stato il responsabile del contatto politico estero dei Fratelli Musulmani, che è un’organizzazione moderata e non violenta. Da quando ho 17 anni è un onore per me fare parte dei Fratelli Musulmani. Non c’è nessuno nei paesi musulmani che non abbia sentito il mio nome. Mi sono sempre impegnato per la pace e contro le ingiustizie”.

Assolto da tutte le accuse e archiviate tutte le procedure d’inchiesta sul suo conto in Italia e in Svizzera, la figura di Nada rimane comunque di estrema importanza relativamente alla comprensione di alcuni processi e meccanismi d’azione della Fratellanza non solo nei Paesi a maggioranza islamica, ma anche e soprattutto in Occidente. E per un motivo preciso, che fa riferimento diretto ad un documento di 14 pagine rinvenuto durante una perquisizione a casa del banchiere italo-egiziano negli anni in cui era sotto inchiesta. Il titolo è evocativo, oltre che di straordinario interesse: La conquista dell’Occidente. E che è anche il titolo del libro che ne racconta il ritrovamento: La conquête de L’Occident, pubblicato nel 2005 dal giornalista franco-svizzero Sylvain Besson.

Datato 1982, non se ne conosce l’autore e lo stesso Nada lo descrisse come un documento insignificante, redatto da non meglio specificati ricercatori islamici. Un progetto, un insieme di direttive e di passaggi stilati in maniera lineare. Per ambienti e circostanze, situazioni e soggetti: come comportarsi, quali obiettivi perseguire e con quali modalità portare a termine la conquista. Un concentrato di idee, modalità di comportamento, attività e significati che vale la pena di analizzare e cercare di contestualizzare, focalizzando per prima cosa un elemento che quando ho letto il documento mi ha particolarmente colpito: ricorre continuamente, in maniera quasi ossessiva, la frase “padroneggiare l’arte del possibile”.

Non sfuggirà che questa frase viene da sempre ricondotta a Otto von Bismarck, il Cancelliere di ferro, Primo ministro della Prussia dal 1862 al 1890 e primo Cancelliere tedesco della storia tedesca. Un uomo che, sintetizzando in maniera brutale, aveva ben chiaro come raggiungere i propri obiettivi. Già che siamo in tema di citazioni, ne voglio ricordare una, esemplificativa del carattere e delle modalità d’azione di Bismarck, pronunciata nel 1862 di fronte al Comitato Bilancio del Landtag di Prussia, in occasione della richiesta di aumento delle spese militari: “Non con discorsi né con le delibere della maggioranza si risolvono i grandi problemi della nostra epoca ma col ferro e col sangue”. Questo era Otto von Bismarck, il personaggio a cui si pensa immediatamente dal momento che si legge continuamente, nel documento di cui parliamo, “padroneggiare l’arte del possibile”. Sul filo della significanza di questo concetto si muove l’intero architrave del documento ritrovato, su cui è stato scritto un solo libro, quello di Besson, mai tradotto in altre lingue. Resta inspiegabile, infatti, a maggior ragione avvalorando la tesi del documento non rilevante, che non se ne sia praticamente parlato in questi anni e che, sostanzialmente, non fosse conosciuto ai più se non per qualche articolo sul web e per qualche portale che lo richiamava. Perché? Forse perché talmente insignificante da non ritenersi dovuta nemmeno un’analisi più approfondita? O magari, come spesso accade, proprio perché non insignificante e capace di toccare un tasto delicato si preferisce farlo cadere nel dimenticatoio?

Besson ci spiega che alcune inchieste sul documento vennero fatte e come da esse sia emerso che si tratti di una sorta di strategia politica. Ed è un risultato, leggendo il documento, che in qualche modo poteva essere prevedibile. Partiamo dunque dal concetto di cui prima abbiamo brevemente accennato, ovvero “padroneggiare l’arte del possibile”: cosa significa concretamente nella disciplina politica generale? Plasmare e modellare la realtà tramite soluzioni e azioni che permettano di raggiungere i propri obiettivi in politica; studiare tutte le vie e le modalità di persecuzione di un intendimento e poi applicare quella che per la situazione o la contingenza del momento appaia più utile al fine. In sostanza, e per essere il più possibile chiari, è la capacità di rendere la politica uno strumento di realizzazione dei propri obiettivi tramite tutte le possibilità che essa offre. E in questo documento non si usano mezze vie o giri di parole per descrivere come questa metodologia venga applicata e in quali ambiti. Qui non si tratta di dover analizzare punto per punto cosa prevede il piano o strategia, per usare le parole di Besson, ma tentare di comprendere come tali punti o cardini interpretativi abbiano influito e continuino ad influire sullo svolgimento della vita politica e sociale in Occidente.

Prendiamo in esame i punti di partenza di questa strategia, così come nel suo libro li traduce e analizziamone le viscere concettuali e i meccanismi, nel riscontro con la realtà odierna. E soprattutto come integrino la dottrina dell’arte del possibile. Dodici punti, divisi a loro volta in Elementi/Procedure/ Missioni Suggerite, dai quali possiamo già farci un’idea di quelle che possono essere le attività della Fratellanza in Occidente; non si può non osservare che, nonostante il documento sia di estremo interesse, esso risale al 1982 ed è dunque più che plausibile ipotizzare che in questi trentacinque anni la dottrina si sia evoluta, sia stata aggiornata e abbia preso in esame molti aspetti al tempo non presenti: uno su tutti Internet, i social e gli smartphone. Elementi non di poca ma di capitale importanza, oserei dire, visto che la cronaca di questi anni ci ha insegnato a studiare le mosse del proselitismo internazionale alla luce dei rinnovati e accelerati processi di comunicazione via web. E vedremo il perché di questa ipotesi, tornandoci nelle riflessioni che faremo al termine dell’esame. Andiamo dunque a scandagliare fra le sottocategorie di ogni punto, in modo da comprendere come nella realtà di questi anni il tutto abbia preso forma concreta.

1) Conoscere il terreno e adottare una metodologia scientifica per la pianificazione e la messa in opera. Qui vengono messi in rilievo alcuni aspetti, come ad esempio la “necessità di conoscere i fattori influenti nel mondo, che si tratti di forze islamiche, di forze avverse o di forze neutre. Ricorrere ai mezzi scientifici e alle tecnologie necessarie alla pianificazione, organizzazione, messa in opera e controllo” o anche “creare degli osservatori per raccogliere l’informazione, conservarla per ogni fine utile, servirsene nel caso di necessità appoggiandosi a dei mezzi tecnologici moderni. Creare dei centri di studio e di ricerca e produrre degli studi sulla dimensione politica del movimento islamico”. Mi vengono in mente le adesioni a partiti politici, come gruppi o singoli individui, le campagne sui social network e sui media strumentalizzando questioni quali razzismo e islamofobia, l’uso del web a scopo di propaganda e l’intervento sulla stampa ad ogni circostanza utile.

2) Mostrare serietà nel lavoro. In questo caso è un capoverso interno a destare attenzione: “Mobilitare il massimo di seguaci e responsabili”. E “raccogliere efficacemente denaro, controllare le dispense e investire nell’interesse generale”. Mi viene in mente quante volte è stato denunciato come dietro all’arrivo di finanziamenti da Paesi più vari ci sia il proselitismo e come, ad ogni occasione utile per mobilitarsi, le frange più dure scendano in campo in massa.

3) Conciliare l’impegno internazionale e la flessibilità a livello locale. Un fattore decisivo: “Impegno islamico mondiale per una liberazione totale della Palestina e la creazione di uno Stato musulmano, missione che incombe sulla direzione mondiale. Stabilire un dialogo a livello locale con coloro che lavorano per la causa secondo la linea politica mondiale del Movimento”. Obiettivo fondamentale da sempre quello della liberazione della Palestina, a cui si aggiunge qui l’elemento della creazione di uno “Stato musulmano”, che verrà precisato più avanti.

4) Conciliare l’impegno politico e la necessità di evitare l’isolamento, l’educazione permanente delle nuove generazioni e il lavoro attraverso le istituzioni. Qui si approfondisce in maniera più concreta quanto esposto al punto 1: “Libertà politica in ogni Paese in funzione del contesto locale, senza dunque partecipare ad un processo di presa delle decisioni che sarebbe contrario ai testi della sharia. Invitare tutti a partecipare ad assemblee parlamentari, municipali, sindacali e di altre istituzioni, i cui consigli sono scelti dal popolo nell’interesse dell’Islam e dei musulmani. Continuare ad educare gli individui e le generazioni e a garantire la formazione degli specialisti nei diversi ambiti secondo un piano previamente studiato. Costruire delle istituzioni sociali, economiche, scientifiche e nel campo della salute e penetrare nell’ambito dei servizi sociali per essere in contatto con il popolo e per servirlo attraverso le istituzioni islamiche”. L’obiettivo è chiaro, e cioè entrare a far parte di quanti più consessi politici e rappresentativi possibili, onde assicurare una presenza forte e significativa; non per decidere in prima persona, bensì per orientare le decisioni in senso favorevole agli obiettivi. Pensiamo, tornando su quanto detto al primo punto, alla presenza sempre più numerosa di esponenti dichiaratamente islamici presso consigli e assemblee, cosa che fu palese in corrispondenza della primavera araba, quando di alcuni comuni in Italia entrarono a far parte esponenti addirittura di Ennahda, partito dei Fratelli Musulmani tunisini con a capo Rachid Ghannouchi. O la realizzazione di partiti islamici, di cui più avanti vedremo presenza e connotati. E poi costruire realtà che possano “penetrare i servizi sociali” e aiutare il popolo “attraverso istituzioni islamiche”: stesso schema della Fratellanza specialmente in Egitto, dove il popolo si avvicina per il tramite di strutture caritatevoli. Sull’educare e formare le generazioni non credo occorra dire di più, visto che l’indottrinamento è sotto gli occhi di tutti.

5) Impegnarsi a stabilire lo “Stato islamico”, parallelamente a sforzi crescenti per arrivare a controllare i centri di potere locali e a influenzare l’operato delle istituzioni. In questo quinto punto, un imperativo colpisce più di tutti: “Studiare i centri di potere locali e mondiali e le possibilità di metterli sotto influenza”. È il progetto di cui parlo da sempre, cioè quello di arrivare al vertice della politica e del potere in Occidente, per poi dare il via al suo assoggettamento e alla sua conquista. Poche parole ma rivelatrici di un proposito che ormai si perde nella notte dei tempi. E che prosegue giorno dopo giorno grazie alla pressione dei gruppi, all’inserimento nelle maglie del potere, alla conversione di personaggi di vario livello.

6) Lavorare con lealtà al fianco dei gruppi e delle istituzioni islamiste in diversi ambiti, accordandosi in un’intesa per “cooperare sui punti di convergenza e mettere da parte i punti di divergenza”. Si legge: “Coordinare il lavoro di tutti quelli che lavorano per l’Islam, in ogni Paese e stabilire con loro un contatto di qualità che si tratti di gruppi o di individui”. Tutto deve essere orientato verso la compattezza dell’organizzazione. Si pensi ai molti convegni internazionali nei quali si incontrano le varie organizzazioni islamiche mondiali.

7) Accettare il principio di una cooperazione provvisoria tra i movimenti islamici e i movimenti nazionali nei contesti generali e su dei punti di intesa come la lotta contro la colonizzazione, sulla predicazione e sullo Stato ebraico, senza per altro dover formare delle alleanze. Questo richiede, però, dei contatti limitati tra certi dirigenti, caso per caso, fintanto che questi contatti non vengano. Non bisogna prestare loro fedeltà o fidarsi, sapendo che il movimento islamico deve essere all’origine delle iniziative e degli orientamenti presi. Qui abbiamo un assaggio di organizzazione che lavori ma senza strafare, per così dire: “Unire tutti gli sforzi contro le forze supreme del male in virtù del principio secondo il quale bisogna lottare contro un male con lo stesso male. Circoscrivere la collaborazione alle basi dirigenti o a un numero di individui limitato per massimizzare il profitto e minimizzare gli eventuali inconvenienti. Lavorare in quest’ottica per realizzare degli obiettivi previamente definiti dalla dawa”. Lavorare con gruppi e realtà influenti del Paese in cui ci si trova, ma senza porre fiducia totale e piena, perché l’obiettivo è sempre quello del movimento islamico e dunque non ci possono essere deviazioni; tutto è orientato al raggiungimento dello scopo, anche i rapporti e i legami instaurati. Tutto è uno strumento: cose, persone, istituzioni, politica, ambienti.

8) Padroneggiare l’arte del possibile, in una prospettiva provvisoria, senza abusare dei principi di base, sapendo che i precetti di Allah sono tutti applicabili. Bisogna ordinare l’utile e interdire il “riprovevole”, dando sempre un’opinione documentata. Ma non bisogna cercare un confronto con i nostri avversari, su scala locale o mondiale, poiché sarebbe sproporzionato e potrebbe da esso scaturire in attacchi contro la dawa, “propaganda”, o le sue discipline. Qui va sottolineato un passaggio fra gli altri, quello che chiede di “dare un’opinione documentata e scientifica, sotto forma di discorso, di comunicati o di libri che si rifanno agli eventi importanti che vive la nostra Umma, “la comunità dei musulmani sulla Terra”. Evitare che il movimento si trovi ad affrontare scontri di grande portata che potrebbero incoraggiare i suoi avversari a dargli il colpo di grazia”. Si richiede, in sostanza, di esprimersi e rilasciare una propria versione di ogni fatto o atto che riguardi il mondo islamico in genere; questo perché non passi un’idea diversa da quella che l’organizzazione vuol far passare. Si pensi, ad esempio, alla questione del burqa e del niqab: una legge che va incontro alle donne che non vogliono essere costrette ad indossare questi indumenti che si tentò, dall’altra parte, di far passare per un provvedimento liberticida, addirittura anti-islamico. Ma sempre con mezzi non eccessivamente aggressivi, come una lettera al Presidente della Repubblica, così da non esporre il movimento allo scontro, che poteva essere deleterio e addirittura controproducente. Padroneggiare l’arte del possibile, ritorna sempre, perché tutto si può fare e i precetti possono essere sempre applicati: basta solo trovare la via giusta, nelle condizioni del momento e con ciò che si ha a disposizione.

9) Costruire in maniera permanente la forza della dawa islamica e sostenere i movimenti impegnati nel jihad nel mondo musulmano a diversi livelli e il più possibile. Qui il piano evolve ulteriormente e tocca ancora più a fondo la dimensione decisiva della propaganda: “Proteggere la dawa con la forza necessaria (…) Entrare in contatto con ogni nuovo movimento impegnato nel jihad ovunque sia sul pianeta e con le minoranze musulmane, e creare delle passerelle secondo i bisogni, per sostenerle e stabilire una collaborazione. Mantenere il jihad “sveglio” all’interno della Umma”. E poi: “Creare dei ponti tra i movimenti impegnati nel jihad nel mondo musulmano e le minoranze musulmane, e sostenerle per quanto possibile nell’ottica di una collaborazione”.

10) Aiutarsi con mezzi di sorveglianza vari e diversi, in più posti, per raccogliere informazioni e adottare metodi di comunicazione efficaci, anche a beneficio di tutto il movimento islamico mondiale. La sorveglianza, le decisioni politiche e una comunicazione efficace sono complementari. Quanto la comunicazione sia fondamentale, al fine di strutturare e mantenere un movimento come quello di cui si parla, è chiaro. E il documento non fa mistero del fatto che se si comunica in maniera efficace, combinando raccolta di informazioni e attività politica, si va nella giusta direzione: “Diffondere la politica islamica affinché sia largamente ed efficacemente coperta dai media. Messa in guardia dei musulmani sui pericoli che li minacciano, sui complotti internazionali fomentati al loro incontro. Fornire un’opinione sulle questioni di attualità e future”. Se penso ai social, ai giornali asserviti, alle televisioni che danno uno spazio amplissimo a certi personaggi e zero ai moderati, non credo di andare troppo lontano. Si è mai visto in tv un musulmano moderato parlare del terrorismo? E quanti estremisti sono stati invitati a dire la loro, senza però mai condannare nettamente chi semina odio e terrore?

11) Adottare la causa palestinese su un piano islamico mondiale e su un piano politico attraverso il jihad, perché si tratta della chiave di volta della rinascita del mondo arabo di oggi. La questione palestinese, oggetto di scontro e di controversia da decenni. Potremmo dire da sempre. Ecco come il documento traccia le linee di pensiero e di azione relativamente al raggiungimento dell’obiettivo finale: “Preparare la comunità dei credenti al jihad per la liberazione della Palestina. Si potrà condurre la Umma per realizzare le decisioni del movimento islamico soprattutto se la vittoria ci spetta, se Dio lo vuole. Creare il nucleo del jihad in Palestina, seppur modesto e nutrirlo per intrattenere questa fiamma che illuminerà il solo ed unico cammino verso la liberazione della Palestina, affinché la causa della Palestina resti viva fino al momento della liberazione. Raccogliere fondi sufficienti per portare avanti il jihad. Fare un sondaggio sulla situazione dei musulmani e del nemico nella Palestina occupata. Lottare contro i sentimenti di resa all’interno della Umma, rifiutare le soluzioni disfattiste e mostrare che la conciliazione con gli ebrei porterebbe alla violazione del nostro movimento e della sua storia (…) Creare delle cellule di jihad in Palestina, sostenerle affinché possano coprire tutta la Palestina occupata. Creare un legame tra i mujaheddin in Palestina e quelli che si trovano in terra islamica. Nutrire i sentimenti di rancore contro gli ebrei e rifiutare qualunque coesistenza”. Sebbene molte delle cose che si possono leggere nei vari stralci di questo punto non sorprendano, è bene ricordare sempre come quello palestinese è da tempo immemore considerato il problema dei problemi, risolto il quale ogni cosa potrebbe essere possibile. Qui, come è possibile leggere confermando quel che già si sa, convergono molti degli sforzi a livello globale affinché questa terra venga “liberata”. Non sorprende, ma conferma la realtà, quel che si legge relativamente alla creazione di cellule jihadiste in Palestina, i cui attacchi non sono cosa ignota alle cronache di questi decenni. Nonostante la tensione, negli anni, sia divenuta più uno strumento per esacerbare il jihad internazionale che un’arma sul campo stesso della Palestina, visto che la situazione non ha subito scossoni di rilievo.

12) Saper ricorrere all’autocritica e ad una valutazione permanente della politica islamica mondiale e dei suoi obiettivi, del suo contenuto e delle sue procedure al fine di migliorarsi. È un compito e una necessità secondo precetti della sharia. Con questo punto si chiude l’elenco delle basi di partenza per l’attività relativa alla costruzione di questa realtà: “Migliorare le politiche islamiche facendo tesoro delle esperienze passate deve essere un obiettivo chiaro e primordiale. Valutare le pratiche attuali e fare tesoro delle esperienze passate. Domandare ai responsabili di diversi Paesi, nonché agli individui di ogni Paese, di dare la loro opinione sulle direzioni, sui metodi e sui risultati ottenuti”.

Andare avanti e migliorarsi, senza soluzione di continuità, cercando di apportare sempre soluzioni nuove e adatte alla realtà del momento, mutevole e capace di trasformarsi. L’arte del possibile anche qui torna a farsi vedere e induce tutti coloro che lavorano a questo piano ad osservare lo stato delle cose e a proporre la propria idea per migliorarlo. Nello stesso momento in cui veniva trovato questo documento, nei locali di una società finanziaria legata ai Fratelli Musulmani si rinveniva poi un altro documento, nel quale si delineano i meccanismi e le realtà finanziarie che fanno capo al movimento in Occidente e non solo.
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Re: Fratellanza mussulmana

Messaggioda Berto » sab giu 05, 2021 9:27 pm

“Bruxelles è il ventre molle dei Fratelli Musulmani”
Giulio Meotti
4 giugno 2021

https://meotti.substack.com/p/bruxelles ... i-fratelli

L’islamismo è diventato un argomento tabù in Belgio e in particolare nella capitale europea? È la domanda su cui è costruito Cachez cet islamisme. Voile et laïcité à l'épreuve de la cancel culture, il libro di Florence Bergeaud-Blackler e Pascal Hubert. In anteprima per l'Express, Florence Bergeaud-Blackler, ricercatrice del CNRS e celebre antropologa, spiega perché certi quartieri di Bruxelles sarebbero diventati "una specie di santuario dell'islamismo in Europa", ma anche perché le élite politiche, accademiche e giornalistiche parlano solo di “islamofobia”.

“L'islamismo, come l'islam, si è insediato da quarant'anni in Belgio sulla scia dell'immigrazione dal nord del Marocco e dalla Turchia” dice Florence Bergeaud-Blackler all’Express. “I Fratelli Musulmani agiscono pacificamente penetrando nel tessuto sociale, nelle ong e nelle associazioni, nei luoghi dell'istruzione e delle imprese. L'islamismo rimane un argomento tabù”.

C'è una bolla fondamentalista, una sorta di "Bruxellistan", più soft del "Londonistan", che fa di certi quartieri del centro, con le sue belle case in pietra rossa, una sorta di santuario dell'islamismo in Europa. “Bruxelles è stata individuata dagli anni Ottanta dai Fratelli Musulmani come il ventre molle dell'Europa, per usare l'espressione di Gilles Kepel, dove potevano stabilirsi senza troppe resistenze. La Grande Moschea di Bruxelles, edificio laico nato come attrazione esotica nel 1879, fu ceduto all'Arabia Saudita nel 1978 che ne fece, tramite la Lega Islamica Mondiale, un centro di influenza del rigorosissimo Wahabo-salafismo, che alimentò i musulmani della Fratellanza. Oggi la ‘Fratellanza’ belga è una matrice ideologicamente e logisticamente alimentata in Europa dal Qatar e dalla Turchia di Erdogan, con mezzi di comunicazione moderni, che si basano su ideologie neofemministe e decoloniali e intersezionali per far avanzare le sue pedine”.

I belgi non parlano nemmeno dei musulmani, dicono "diversità". “Se diciamo islamismo, hanno in mente il jihadismo. In realtà, la Fratellanza è attiva in un processo pacifico che si ambienta lentamente nei paesi e nelle regioni in cui vive. Organizza l'omertà intorno a sè, anche all'università. La stampa ha smesso di svolgere il suo lavoro investigativo. Il giornalismo sembra essere paralizzato”.

Poi c’è la politica. “Nei comuni in cui ci sono fino al 45 per cento di musulmani, nessuno può essere eletto senza i voti dei musulmani” dice Bergeaud-Blackler. “Quando parlo del voto musulmano, non sto parlando dei voti dei musulmani che possono essere spiegati da caratteristiche socio-economiche comuni, sto parlando di un voto basato su richieste confessionali come il velo, l'educazione islamica, le moschee, l'halal...A Bruxelles non è più nemmeno un'alleanza tra sinistra e islamismo, ma tra sinistra e Islam”.

Leggendo Florence Bergeaud-Blackler mi è tornato in mente un articolo che pubblicai su Il Foglio il giorno stesso degli attentati a Bruxelles del 2016. Fu ripubblicato da Il Giornale sotto il titolo: “Petrolio in cambio di Islam. Così il Belgio si è ‘venduto’”…
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Re: Fratellanza mussulmana

Messaggioda Berto » mar giu 15, 2021 6:07 pm

Egitto, condannati a morte dodici esponenti della Fratellanza Musulmana
15 giugnpo 2021

https://www.africarivista.it/egitto-con ... na/186910/

Un tribunale egiziano ha confermato ieri le condanne a morte per 12 membri della Fratellanza Musulmana. La sentenza pone fine a un lungo processo allestito contro 600 imputati all’indomani del rovesciamento militare del presidente Mohammed Morsi nel 2013.

Dopo la cacciata di Morsi, i suoi sostenitori avevano organizzato un enorme sit-in in piazza Rabaa al-Adawiya nel Cairo orientale per chiedere il suo ritorno. Il mese successivo, le forze di sicurezza hanno fatto irruzione nella piazza e hanno ucciso circa 800 persone in un solo giorno.

All’epoca, le autorità hanno affermato che i manifestanti erano armati e che la dispersione forzata era una misura vitale contro il terrorismo. Successivamente le autorità hanno lanciato una forte repressione, incarcerando migliaia di sostenitori del movimento. La Fratellanza musulmana è stata poi messa al bando e designata come organizzazione terroristica nel dicembre 2013.

La sentenza di morte comminata a dodici esponenti della Fratellanza è stata motivata con il tentativo di questi di “aver armato bande criminali che hanno aggredito residenti e resistito ai poliziotti”, nonché per il “possesso di armi da fuoco, munizioni e materiale per la fabbricazione di bombe”. Altre accuse includono “l’uccisione di poliziotti”, “la resistenza alle autorità” e “l’occupazione e la distruzione di proprietà pubbliche”. Tra i condannati figurano figure di spicco della Fratellanza: Mohamed al-Beltagy e Safwat Hegazy. Le sentenze sono definitive e non possono essere appellate
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Re: Fratellanza mussulmana

Messaggioda Berto » mer lug 14, 2021 8:31 am

L'Austria vieta i Fratelli Musulmani
Giulio Meotti
13 luglio 2021

https://meotti.substack.com/p/laustria- ... -musulmani

“Austria, il primo Paese europeo a mettere al bando i Fratelli Musulmani”, titola la rivista Marianne. Con la nuova legge antiterrorismo approvata in Parlamento l'8 luglio, l'Austria diventa il primo Paese europeo a bandire la confraternita islamista fondata un secolo fa dall'egiziano Hassan al-Banna. I suoi slogan e la sua letteratura sono vietati. La loro diffusione è punibile con una multa di 4.000 euro e un mese di carcere. Vienna è stata subito accusata sui siti dei Fratelli musulmani e dell'organizzazione turca Milli Görüs di "alimentare l'islamofobia" e di "attacchi contro i musulmani".

Su ordine del procuratore generale di Graz e dell'Ufficio per la protezione della costituzione della Stiria era stata avviata una storica inchiesta. Nome in codice: “Operazione Luxor”. Durerà quasi due anni e si estenderà a quattro province austriache: Stiria, Vienna, Carinzia e Bassa Austria. Furono presi di mira una sessantina di enti come associazioni, moschee, circoli socio-culturali e imprese. Il giro di vite doveva avvenire la mattina del 3 novembre 2020. Il giorno prima Vienna era stata colpita da un attacco jihadista (4 morti). Obiettivo del cancelliere Sebastian Kurz: "Affermare la volontà di combattere l'Islam politico". Come ha spiegato Lorenzo Vidino in un paper, l’Austria è stato il primo paese europeo a ospitare i Fratelli Musulmani negli anni ‘60, prima che mettessero poi radici in Svizzera.

La legge austriaca è un duro colpo anche a Erdogan. “La Turchia si posiziona come attore chiave dell’islam politico e la maggior parte dei Fratelli musulmani cacciati dall’Egitto e da altri paesi trovano rifugio in Turchia e sono finanziati dal Qatar”. Parlava così a maggio al mensile Causeur il grande specialista del mondo musulmano, Gilles Kepel. “La Turchia è diventata il luogo in cui i Fratelli musulmani si organizzano per la conquista dell’Europa”.

Lo scorso giugno c’era stata la pubblicazione da parte del governo austriaco di una mappa dettagliata delle moschee e delle associazioni islamiche nel paese denominata “mappa nazionale dell’Islam”. Redatta da un professore di origine turca, Ednan Aslan, in collaborazione con l’Università di Vienna, la mappa mostrava la proliferazione dell’Islam politico con 600 moschee e associazioni islamiche. “Aprire una scuola islamica a Vienna è facile come aprire un chiosco di kebab”, ha detto Aslan.

L’Austria sa di non avere più molto tempo. Il quotidiano Krone Zeitung ha pubblicato dati drammatici nel caso di una immigrazione importante: “Nel 2046, un viennese su tre sarà musulmano”.



Per difendere i diritti la Ue arruola i Fratelli musulmani
Alberto Giannoni
15 Luglio 2021

https://www.ilgiornale.it/news/politica ... 62275.html

Progetto europeo illustrato in Comune a Milano. Fra i partner anche i giovani islamici di "Femyso"
Per difendere i diritti la Ue arruola i Fratelli musulmani

I Fratelli Musulmani nel cuore dell'Europa. L'islam politico viene eletto a compagno di strada privilegiato, partner di un progetto finanziato dall'Europa, dedicato a diritti e uguaglianza e presentato pochi giorni fa a Milano. Succede anche questo, in un Occidente frastornato e subalterno e lo strumento è ancora una volta il paravento della «islamofobia».

Da un lato, il Parlamento europeo produce documenti teorici che analizzano perfettamente il contesto «ideologico» dell'islamismo: l'intolleranza, il rifiuto dell'uguaglianza fra uomo e donna, del pluralismo, dei valori europei; ma dall'altro lato, per il suo programma «Diritti, uguaglianza e cittadinanza», si affida anche a un'organizzazione controversa come «Femyso», che un'ampia letteratura accademica - citata anche in un'ordinanza del gip di Milano - considera espressione dei Fratelli Musulmani, la casa-madre dell'islam politico, che ufficialmente e tatticamente ha ripudiato l'uso della violenza in Occidente, ma viene bollata come organizzazione terroristica in vari Paesi e pochi giorni fa è stata «bandita» anche in Austria.

A Vienna, il giovane premier Sebastian Kurtz ha da tempo deciso di reagire: «Società parallele, islam politico e radicalizzazione non hanno posto nel nostro Paese» aveva tuonato tre anni fa, sgominando in particolare le associazioni legate alla Turchia. Anche a Parigi il presidente Emmanuel Macron ha una linea simile, e a Strasburgo la Francia si divide (e litiga con il rais turco Recep Erdogan) sul progetto della moschea più grande d'Europa, promosso da «Milli Gorus». A Milano, invece, la stessa sigla avrà un suo centro, ratificato nell'urbanistica del Comune.

Lo stesso Comune ha presentato, pochi giorni fa, questo «piano locale di azione contro l'islamofobia» che è parte integrante del progetto «Meet», finanziato dal programma europeo «Diritti, uguaglianza e cittadinanza» (che vuole favorire fra l'altro l'uguaglianza di genere). Questo «Meet», generosamente sostenuto dall'Ue, a Milano (a detta della presidente della commissione Pari opportunità Diana De Marchi) è già stato illustrato al vicesindaco Anna Scavuzzo, e ha fatto drizzare le antenne all'ex vicesindaco Riccardo De Corato. «In poche parole - ha sintetizzato l'esponente di Fdi - si tratta di un progetto non per studiare il fenomeno della sottomissione della donna nel mondo islamico, bensì come il nostro paese discrimina le ragazze islamiche».

«Meet» sta per «More Equal Europe Together», coinvolge cinque Paesi europei ed è coordinato in Italia da una Fondazione, l'Albero della vita, che proprio in Comune con una delle sue responsabili ha citato fra i nove partner il Femyso, il Forum europeo delle Organizzazioni giovanili islamiche. Di che si tratta? «Femyso - spiega Lorenzo Vidino, massimo esperto di radicalismo islamico e autore di diversi saggi sul tema, fra i quali il recente Islamisti d'occidente - è il ramo giovanile della Fioe, organizzazione che viene identificata come la struttura pan-europea della Fratellanza dai servizi di mezza Europa e da vari leader della Fratellanza stessa in Medio oriente che, al contrario dei leader di Fioe e Femyso, non negano il legame ma anzi lo ostentano con orgoglio».
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Fratellanza mussulmana

Messaggioda Berto » sab lug 17, 2021 8:59 pm

I Fratelli musulmani e al-Azhar: uno scontro aperto
Dominique Avon
24/03/2020 |

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https://www.oasiscenter.eu/it/fratelli- ... nto-aperto

Il 23 febbraio 2019, l’ufficio centrale dei Fratelli musulmani ha pubblicato su ikhwanonline, il sito ufficiale del movimento, una lettera, datata al giorno precedente, dal nome “Consolazione differita e ricompensa meritata”. L’obiettivo di tale missiva era promuovere, in nome dell’Islam, il sacrificio dei “martiri” e il sollevamento rivoluzionario, al fine di eliminare i criminali dei «servizi dello Stato terrorista» egiziano. L’appello alla lotta armata è stato posto sotto il segno del «martire e guida Sayyid Qutb», impiccato dopo dieci anni di prigione sotto il regime di Gamal Abdel Nasser (1918-1970) e ideatore delle «Pietre miliari» per una «avanguardia» musulmana, incaricata di mettersi in azione «per sradicare la jāhiliyya [lo stato di ignoranza] che regna sulla Terra»[1].
Tre giorni dopo, sul sito ufficiale di al-Azhar è stata pubblicata la “Risposta dell’Osservatorio di al-Azhar per la lotta contro l’estremismo alla dichiarazione del gruppo terroristico dei Fratelli”. Gli autori di questo secondo documento accusano direttamente i Fratelli Musulmani di utilizzare a sproposito un versetto coranico, distorcendone l’interpretazione. Nello specifico, gli esponenti di al-Azhar contestano l’uso del concetto di “martiri”, affermano il principio per cui «l’amore per la patria è parte integrante della fede», difendono lo Stato come quadro dell’ordine istituzionale stabilito e accusano «il gruppo terroristico dei Fratelli [di seguire] le orme di Isis» come anche di quei «gruppi estremisti che diffondono il caos».

Quarant’anni prima, tuttavia, studiosi di al-Azhar e Fratelli Musulmani manifestavano un consenso di fondo su ciò in cui doveva consistere uno Stato islamico ideale. Esempio di questa convergenza fu la pubblicazione, in una nuova collana della rivista al-Da‘wa, di un progetto di Costituzione islamica preparato dagli studiosi dell’Accademia delle Ricerche Islamiche, che sarebbe dovuto servire da modello per tutti gli Stati a riferimento islamico. Ideatore del progetto fu il Grande Imam della moschea ‘Abd al-Halīm Mahmūd (1910-1978). Laureato alla Sorbona[2], sufi, fondatore di un’associazione per la pubblicazione di testi mistici e professore di teologia, ‘Abd al-Halīm Mahmūd aveva frequentato l’Associazione degli Amici di René Guénon, fondata nel 1953, e aveva pubblicato in arabo Il filosofo musulmano: René Guénon o Shaykh ‘Abd al-Wāhid Yahyā[3].
Fu in questo momento che decise di ricusare e combattere le scienze umane e sociali che lui stesso aveva precedentemente insegnato. Dopo esser diventato preside della Facoltà di scienze religiose nel 1964, accedé al posto di segretario generale dell’Accademia delle Ricerche Islamiche nel marzo 1969. Incoraggiò fortemente la creazione della Kulliyat al-Da‘wa (Facoltà di missione musulmana) e diede avvio all’elaborazione di una codificazione islamica in grado di eliminare tutti gli elementi del diritto europeo introdotti a partire dal XIX secolo. In occasione di un congresso internazionale organizzato da al-Azhar nel 1977[4], al quale fu invitato il pensatore pakistano Abū al-A‘lā al-Mawdūdī (1903-1979), a sua volta impegnato in un processo di epurazione di qualsiasi elemento culturale, giuridico e politico esterno, ‘Abd al-Halīm Mahmūd lanciò il progetto della Costituzione islamica, approvandolo poco prima di morire[5].

Il contesto generale dell’epoca era favorevole all’elaborazione di un documento di questo tipo. L’intellighenzia liberale musulmana, attiva tra gli anni ’70 dell’Ottocento e gli anni ’50 del Novecento, aveva perso credibilità per diversi motivi: l’accusa di connivenza con gli ex-colonizzatori inglesi e francesi[6]; la sua tendenza contestatrice nei confronti dei regimi autoritari; la sua relativa indifferenza per le lotte sociali; e, infine, il sospetto di alcuni ambienti religiosi a causa del fatto che i suoi lavori mettevano in dubbio alcuni elementi della tradizione islamica. I nasseriani ed i baathisti, da parte loro, facevano i conti con un bilancio economico che non aveva risposto alle attese e con i fallimenti in politica estera, orientata essenzialmente alla lotta contro Israele. Le forze della sinistra[7], talvolta collaboravano con i governi in carica, talvolta ne subivano la repressione o erano fortemente contestate dai rappresentanti religiosi. Dopo una fase di persecuzione che ne aveva decimato i ranghi, i Fratelli musulmani beneficiarono delle nuove misure di liberalizzazione e di appoggi esterni[8], e diedero a questo momento il nome di Sahwa (“Risveglio”). Al seguito dell’Arabia Saudita, le monarchie del Golfo attraversavano in quel periodo una fase di profonda espansione, stimolata dall’aumento dei prezzi del petrolio e del gas. Grazie a questi proventi, re Faysal (1906-1975) aveva fondato delle università[9] e sviluppato una dinamica unitaria in nome dell’idea di un regime islamico integrale, smarcandosi contemporaneamente sia dal modello liberale del blocco occidentale che da quello comunista[10], con il benestare del partner statunitense[11]. Gli interessi economici, politici, geopolitici e religiosi erano strettamente correlati tra loro, e, che fossero monarchici o repubblicani, i regimi della regione presentavano tutti un carattere autoritario più o meno violento. Persino per quelli che avevano ratificato il Patto internazionale sui diritti civili e politici (1966) l’esercizio delle libertà individuali e l’uguaglianza delle persone restavano subordinati ai loro interessi e alla loro interpretazione del corpus giuridico religioso.

Il progetto di Costituzione-modello ottenne un consenso trasversale ai diversi rami dell’Islam integrale, dagli azhariti conservatori ai wahhabiti, passando per i bannaiti [i seguaci di Hasan al-Bannā, NdR], i salafiti di vario orientamento e una parte degli sciiti. Tale modello si basava sullo schema seguente:

1. Ogni Stato islamico deve avere come riferimento supremo la sharī‘a, concepita dal Grande Imam come «tutto ciò che si trova nei manuali di fiqh», a partire dagli al-ahkām al-islāmiyya (“le normi islamiche”), cioè gli hudūd (“limiti”, espressione che indica le “pene religiose inviolabili”) relativi al furto (amputazione della mano), all’accusa calunniosa di fornicazione (frustate), all’adulterio (frustate), alla rapina e al brigantaggio (condanna a morte, crocifissione, esilio o detenzione). Anche le pene legate all’apostasia (morte) e al consumo d’alcool figurano in questo modello, benché non siano considerate coraniche dal momento che la prima trova fondamento negli hadīth del Profeta e la seconda è stata stabilita per analogia con la pena per l’accusa calunniosa di fornicazione.

2. La magistratura (“Al-qadā’”) deve essere composta dagli ‘ulamā’ (“studiosi” esperti nelle scienze islamiche), dai fuqahā’ (“giuristi”) e dai qudāt (“giudici”). Essi rappresentano l’autorità decisiva, avendo il compito di trasmettere e interpretare le norme e le regole che essi stessi hanno definito, vigilando sulla loro effettiva applicazione.

3. L’Imam (“Guida”) è colui che dirige, con le funzioni di un califfo o di un governatore. Comanda le forze dell’ordine e l’esercito e ha l’incarico di applicare le prescrizioni islamiche, imporre le pene previste e, più in generale, di promuovere il bene e perseguire il male secondo la concezione che ne hanno sviluppato gli uomini di religione. In nessun caso l’Imam può contravvenire alla sharī‘a, attribuita a Dio e tutelata dalla magistratura.

4. Il popolo (sha‘b), o la massa (‘āmma), ha la vocazione e il dovere di applicare, rispettare e obbedire. A tale condizione, ai cittadini sono garantiti una serie di diritti, tra cui il diritto di essere proprietario e di trasmettere i propri beni e quello d’istruirsi secondo la concezione del sapere definita dagli ‘ulamā’.

Nei mesi che seguirono la redazione di tale documento, la logica degli Stati-nazione, alimentata dalle divisioni intra-confessionali, tornò ad avere la meglio sulla logica della umma islamica. All’inizio del 1979, la rivoluzione iraniana mise fortemente in crisi il sistema di consultazione tra gli studiosi musulmani. L’adozione tramite referendum di una Costituzione islamica iraniana[12], fondata sul principio della wilāyat al-faqīh[13] (“potere assoluto del giurista”, cioè l’autorità del giurista-teologo sciita dotato delle stesse prerogative dei santi legislatori, il Profeta e l’Imam[14]) teorizzata dall’ayatollah Ruhollah Khomeini (1902-1989), apparve inaccettabile agli studiosi e ai giuristi sunniti[15] e venne contestata persino all’interno del clero sciita. L’accordo di pace tra l’Egitto e Israele, giustificato pubblicamente dalle più alte autorità religiose egiziane con grande disappunto di quelle degli altri Paesi, determinò l’esclusione del Cairo dalla Lega araba. Il tentativo infine di rovesciamento dei Sa‘ūd dopo la presa temporanea della grande moschea della Mecca minò ulteriormente la leadership saudita[16]. Ciononostante, grazie ai contributi finanziari dei petrodollari e al ruolo crescente dell’OCI (Organizzazione della Conferenza Islamica, divenuta successivamente della Cooperazione Islamica[17]) patrocinata da Riyad, la corrente integrale continuò a prosperare. Un chiaro esempio sono le tre dichiarazioni islamiche dei diritti dell’uomo (pubblicate rispettivamente nel 1981, 1983 e 1990[18]), le quali ripresero diversi elementi contenuti nel progetto della Costituzione islamica. Olivier Carré ha sintetizzato tale armonia dottrinale in una formula:

Il Cairo, con il suo islam ufficiale (quello di al-Azhar) come con quello parallelo (quello che al-Azhar ha rifiutato… prima di recuperarlo), rappresenta un centro importante dell’islam contemporaneo. Nella sua versione ufficiale, ortodossa, regolatrice, l’islam del Cairo conforta quello di Riyad e delle città sante. Nella sua forma “parallela”, estremista, allo stesso tempo perseguitata o corteggiata, l’islam del Cairo è in simbiosi con quello di Teheran o di Qom, benché sciita, come anche con quello sunnita dell’Afghanistan, della Siria, della Tunisia, del Marocco ecc[19].

Rachid Ghannouchi (n. 1941), leader del movimento al-Nahda, a sua volta parte della galassia bannaita, e autore del saggio Le libertà pubbliche nello Stato islamico (1993), colloca il proprio sforzo intellettuale e organizzativo in questa prospettiva: «Nel “governo islamico” adottato come “sistema statale”, la sovranità e legittimità ultima appartiene alla sharī‘a e alla Rivelazione, considerate autorità superiori a qualsiasi altra. È alla luce di queste disposizioni che i giuristi, nella loro giurisprudenza, agiscono secondo un processo di deduzione, così come fanno i magistrati nel momento in cui emettono un giudizio. Anzi, sono tutti gli organi dello Stato a ricavare il proprio dinamismo dal quadro della sharī‘a, dei suoi orientamenti e dei suoi obiettivi superiori (“maqāsid”)»[20]. L’invocazione frequente dei thawābit (“principi immutabili”), che presuppongono il riferimento alla sharī‘a; il richiamo alle distinzioni giuridiche classiche, che riconoscono da una parte la categoria degli huqūq Allah (“diritti di Dio”), inclusa la devozione (“al-‘ibāda”), come doveri rituali dei musulmani svincolati da ogni considerazione di tempo, spazio e persone, e dall’altra gli obblighi sociali (“al-mu‘āmalāt”) soggetti a interpretazioni più circostanziali[21]; tutto ciò servì a mantenere una coesione, in una rivendicazione di ortodossia dotata di un forte potere attrattivo.

C’erano tuttavia delle crepe. In Egitto, la corrente integrale si divise riguardo a due questioni fondamentali: l’appoggio o meno all’accordo di pace israelo-palestinese e la giustificazione o meno dell’assassinio del presidente Anwar Sadat (1918-1981). La matrice stessa dei Fratelli musulmani si era scissa con la costituzione del gruppo Al-Takfīr wa-l-Hijra (“Scomunica ed esilio”), responsabile dell’omicidio del presidente della Repubblica, e del movimento Al-Jamā‘a al-Islāmiyya (“Il gruppo Islamico”) i cui membri pianificarono diversi attentati fino al 1997. Il regime di Hosni Mubarak (1928-2020) adottò una duplice strategia: da una parte, una repressione violenta contro qualsiasi persona o organizzazione suscettibile di minacciare il potere, le forze di sicurezza interne, le forze armate o i loro interessi economici; dall’altra, una tolleranza a geometria variabile verso quanti si limitavano a operare nell’ambito educativo, culturale o a livello di società civile. La dirigenza dei Fratelli Musulmani decise di giocarsi la seconda carta: i militanti e simpatizzanti della Fratellanza s’impegnarono nei sindacati, nelle corporazioni, nell’istruzione pubblica e nelle istituzioni di al-Azhar fintantoché il potere li lasciava agire in questo senso. La Fratellanza riuscì persino a presentare dei candidati “indipendenti” alle elezioni legislative, come nel 2005, quando il fenomeno fu importante, benché il sistema elettorale non permettesse realmente un cambiamento democratico.

Come nella maggior parte nei Paesi a maggioranza musulmana, sotto la spinta della corrente integrale, la tendenza all’islamizzazione del campo giuridico, culturale, educativo e delle pratiche collettive si è rafforzata nel corso degli ultimi due decenni del secolo scorso. L’alto magistrato Muhammad Sa‘īd al-‘Ashmāwī (1932-2013), difensore dello status quo – un diritto confessionale limitato a fianco di un diritto civile comune – vide nel progetto di codificazione islamica globale un pericolo, rappresentato «da una spaccatura nel sistema giuridico e giudiziario, e nella patria stessa, che annuncia la fine del diritto islamico egiziano contemporaneo, senza che la religione e la sharī‘a invitino a farlo»[22]. Preoccupati dall’ascesa delle correnti bannaite nel Paese, coloro che detenevano il potere al Cairo sigillarono ulteriormente il sistema, dividendosi allo stesso tempo sulle soluzioni da adottare in merito alla successione del presidente della Repubblica[23]. Essi incoraggiarono inoltre un’altra declinazione dell’integralismo islamico, quella dei salafiti, che si distinguevano dagli eredi di Hasan al-Bannā (1906-1949) per il fatto di non puntare in alcun modo a occupare posizioni di responsabilità all’interno dello Stato. In un memorandum del 30 novembre 2009, i responsabili dei Fratelli sintetizzarono gli orientamenti assunti nel corso dei trent’anni precedenti in materia di obiettivi e di mezzi, cioè la predicazione, l’educazione e l’assistenza sociale, allo scopo di realizzare un più vasto progetto:

[…] liberare la patria musulmana – in tutte le sue parti – dai poteri non islamici e aiutare le minoranze musulmane ovunque esse siano, operare per l’avvicinamento tra i musulmani fino a farli diventare una umma unita; edificare uno Stato islamico che applichi efficacemente i precetti dell’Islam e i suoi insegnamenti, che li preservi sul piano interno e che si assuma la responsabilità di promuoverli e trasmetterli all’esterno […]. La rinascita della Umma: la preparazione jihadista volta a costruire un fronte unico davanti agli invasori e ai dominatori che sono tra i nemici di Dio per preparare l’avvento dello Stato islamico ben guidato[24].

La mobilitazione di una parte della gioventù egiziana, il 25 gennaio del 2011, che si concluse con il rovesciamento di Mubarak, sorprese gli attori islamisti e rimescolò le carte. Unendosi, seppur in ritardo, alla contestazione popolare, i Fratelli musulmani tornarono in partita, potendo beneficiare della struttura più o organizzata, più disciplinata e più capillare nelle diverse sfere della società. Essi crearono un partito politico grazie al supporto del Qatar e della Turchia e ottennero il benestare delle principali potenze della comunità internazionale. Numerosi diplomatici ed esperti spiegarono che la partecipazione al processo elettorale era una prova della democratizzazione in corso. I Fratelli musulmani risultarono i vincitori delle elezioni legislative del 2011 e formarono una maggioranza parlamentare con i salafiti. Il loro candidato, Mohammed Morsi (1951-2019) vinse le elezioni presidenziali contro un candidato proveniente dai ranghi dell’esercito. Nel suo primo discorso, il vincitore invocò la liberazione dello shaykh ‘Umar ‘Abd al-Rahmān (1938-2017), mentore della Jamā‘a Islāmiyya e condannato dagli Stati Uniti per il suo coinvolgimento nell’attentato al World Trade Center del 26 febbraio 1993. Questa richiesta mostrava la porosità tra il discorso bannaita e le azioni violente commesse in nome dell’Islam, benché queste talvolta fossero state condannate dalla direzione della Fratellanza. La nomina come governatore di Luxor di un membro della Jamā‘a che aveva commesso una serie di attentati contro dei turisti stranieri quindici anni prima, fu un’ulteriore prova di questo fenomeno[25]. La Costituzione redatta dalla maggioranza bannaita e salafita, adottata tramite referendum nel dicembre 2012, stabilì all’articolo 219 una norma che rafforzava il legame tra il futuro sistema legislativo e il corpus giuridico islamico: «I principi della sharī‘a islamica includono i suoi indici generali, le sue norme metodologiche e giurisprudenziali, le fonti accettate dalle scuole giuridiche sunnite e dalla comunità musulmana (“jamā‘a”)»[26]. L’inserimento di questo articolo sollevò preoccupazioni sia all’interno che all’esterno della comunità musulmana, in particolar modo tra la Chiesa copta, che aveva ritirato i propri rappresentanti dal comitato di redazione.

Nel corso della breve esperienza democratica biennale, il tentativo dei Fratelli musulmani di accaparrarsi le varie leve del potere venne fortemente contestato, in particolar modo in seguito alla sospensione della Costituzione, alla realizzazione di un programma onnicomprensivo di islamizzazione[27], al consolidamento della censura e alla moltiplicazione dei processi per “insulto” all’Islam. Una parte della popolazione egiziana insorse nuovamente nel giugno 2013, manifestando in nome del tamarrud (“ribellione”) contro i Fratelli musulmani[28], sostenuta in questo dall’esercito, che depose il governo. Altri manifestanti cercarono allora di restaurare i membri del potere destituito: nel mese di agosto, ogni fazione cercò a colpi di video[29] di far ricadere sull’altra la responsabilità dell’iniziativa violenta. In nome della sicurezza del Paese, i militari stabilirono un regime autoritario più intransigente del precedente nella repressione di qualsiasi movimento di contestazione o dissidenza e allo stesso tempo aperto a un tajdīd al-khitāb al-dīnī (“rinnovamento del discorso religioso”). I Fratelli musulmani si radicalizzarono seguendo il loro nume tutelare, lo shaykh egiziano-qatariota Yūsuf al-Qaradāwi[30] (n. 1926), il quale, facendo appello al fard ‘ayn[31] (“dovere imperativo individuale”), invitò i fedeli alla lotta in nome dell’Islam contro gli autori del colpo di Stato e contro coloro che l’avevano avvallato, tra cui il Grande Imam Ahmad al-Tayyib (n. 1946) e il patriarca copto Tawadros II (n. 1952). A pagare il prezzo di questa esplosione di violenza furono i Fratelli musulmani da una parte, e i cristiani e le forze armate dall’altra. In una dichiarazione, degli esperti religiosi bannaiti giustificarono il dovere religioso di uccidere i responsabili coinvolti nel colpo di stato:

I governatori, i giudici, gli ufficiali, i soldati, i mufti, i giornalisti, i politici e tutti quelli la cui partecipazione ha contribuito indiscutibilmente a mettere in atto tale violazione e versare il sangue di innocenti, anche solo per incitamento, sono considerati degli assassini. Pertanto le disposizioni legittime che l’Islam prevede per un assassino devono essere messe in atto. La presenza dello Shaykh al-Azhar [sulla] scena del colpo di Stato e il suo silenzio riguardo ai crimini lo delegittimano e lo rendono complice di questi criminali in tutto ciò che essi hanno fatto. Coloro che collaborano, sostengono o difendono i sionisti, coloro che sono ostili alla resistenza palestinese o che cospirano contro di essa, coloro che distruggono le case [nel] Sinai e trasferiscono in maniera coatta gli abitanti sono dei traditori della religione e della patria e sono nemici di Dio, del suo messaggero e dei fedeli[32].

Nel 2014 venne approvata tramite referendum una nuova Costituzione, dalla quale vennero esclusi gli articoli controversi presenti nella precedente legge fondamentale. Il generale Abdel Fattah al-Sisi (n. 1954), eletto presidente lo stesso anno, ottenne dopo qualche esitazione l’appoggio della comunità internazionale, nonostante le numerose violazioni dei diritti dell’uomo che colpirono gli oppositori del nuovo regime, in un contesto regionale caratterizzato dal collasso statale della vicina Libia e dell’espansione territoriale di Isis nei territori tra Siria ed Iraq. Obiettivo principale dell’azione repressiva dello Stato furono i Fratelli musulmani, i quali risposero in due maniere differenti, non senza divisioni al vertice del movimento[33]: sostegno agli attacchi violenti e agli omicidi perpetuati in Egitto; mobilitazione dei media e delle risorse accademiche all’estero per presentarsi come vittime di un potere non solamente oppressore ma anche “islamofobo”[34]. Il primo documento tradotto è permeato di riferimenti religiosi ed è stato pubblicato immediatamente dopo l’esecuzione dei Fratelli musulmani condannati a morte per l’omicidio nel 2015 del procuratore generale Hichām Barakāt[35]. Invece, tre mesi dopo la morte dell’ex presidente incarcerato Mohammed Morsi, lo stesso ufficio centrale dei Fratelli musulmani ha pubblicato un’altra dichiarazione volta a proporre un “fronte unito” di tutti gli oppositori del regime egiziano, nella quale l’unico riferimento religioso è la frase tayyār watanī ‘āmm dhū khalfiyya islāmiyya (“corrente patriottica generale di ispirazione islamica”)[36].

La conflittualità che ha caratterizzato la fine del decennio 2010 si inserisce in un contesto di crisi profonda del pensiero sunnita[37]. La dimensione religiosa dei conflitti nel Vicino e Medio Oriente si intreccia ad altre lotte per le quali il tema del jihad è stato invocato frequentemente in maniera esplicita: quella contro la coalizione “giudeo-crociata”; quella contro i rāfidiyyūn (“coloro che rifiutano”, ossia gli sciiti, visti come eretici) o, più specificatamente, contro i nusayrī (“alawiti”), verso i quali sono riemerse le antiche accuse di miscredenza. Lo sfondo di questi sviluppi è costituito dalle guerre civili e regionali in Libia, Siria, Iraq, Yemen, in Afghanistan ed in Sudan[38], dalla guerra fredda tra Arabia Saudita e Iran, dal rafforzamento del dominio israeliano sui territori della Cisgiordania occupata dal 1967, con il conseguente differimento del riconoscimento di uno Stato dei palestinesi, dalla territorializzazione temporanea di Isis e, infine, dalla sua trasformazione in una galassia transnazionale, sul modello di al-Qaeda, di cui è un’emanazione. Il divario nei redditi tra i Paesi, o persino all’interno di una stessa società è tra i più elevati a livello globale. I petrodollari alimentano il commercio d’armi, che va a vantaggio delle principali potenze esportatrici, fattore che limita gli interventi diplomatici richiesti da parte di diverse ONG in nome del diritto internazionale. Allo stesso tempo, le differenti risorse del soft power sono in gioco grazie a dei fondi consistenti: moschee, associazioni, cattedre universitarie, programmi di studio, case editrici, gruppi di lavoro, canali satellitari, social media.

La traduzione dei tre documenti che presentiamo vuole permettere una migliore comprensione delle sfide dottrinali del conflitto infra-sunnita contemporaneo che abbiamo introdotto brevemente in questo testo. A quanto ci risulta, il progetto di Costituzione islamica ratificato nel 1978 non è più presente sul portale ufficiale di al-Azhar, né su quelli che ad esso sono associati. I responsabili della moschea non vi hanno fatto direttamente riferimento, né al momento della preparazione della Costituzione egiziana nel 2012, né al momento della preparazione di quella emanata nel 2014. Tuttavia, i Fratelli musulmani ne hanno pubblicato online una parte il 3 settembre 2011 su uno dei loro siti[39].


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Note
[1] Sayyid Qutb, Pietre Miliari, citato da Gilles Kepel, Le Prophète et le Pharaon, La Découverte, Parigi 1984, p. 46-47.
[2]‘Abd al-Halīm Mahmūd, Al-Mohâsibî. Un mystique musulman religieux et moraliste, in collaborazione con Louis Massignon, Geuthner, Paris 1940.
[3] ‘Abd al-Halīm Mahmūd, Le philosophe musulman: René Guénon ou Cheikh Abdel Wahed Yehia, Éditions Lagnat al-Bayan al-ʿArabi, Le Caire 1954.
[4] Jacques Jomier, Les congrès de l’Académie de recherche islamiques, «MIDEO», n. 14 (1980), p. 95.
[5] Malika Zeghal Gardiens de l’Islam. Les oulémas d’al-Azhar dans l’Egypte contemporaine, Presses de SciencesPo, Paris 1996, p. 156-158.
[6] Dominique Avon, L’université al-Azhar et les sciences venues d’Europe. Le retournement de la fin des années 1950, «Vingtième siècle. Revue d’histoire», n. 130 (aprile-giugno 2016), p. 45-58.
[7] Les gauches en Egypte XIX-XX siècle, numero speciale dei «Cahiers d’histoire. Revue d’histoire critique», a cura di Didier Monciaurd, nn. 105-106 (luglio-dicembre 2006). In particolare, si veda Tewfik Aclimandos, Les officiers et le communistes. Relations et tensions 1945-1954.
[8] Anna Viden, La fausse rupture de la politique américaine face aux Frères musulmans, in Pierre Puchot (a cura di), Les Frères musulmans et le pouvoir, Galaade éditions, Paris 2015, pp. 308-309.
[9] Nabil Mouline, Les Clercs de l’islam. Autorité religieuse et pouvoir politique en Arabie Saoudite, XVIII-XXI siècle, PUF, Paris 2011, pp. 211-222.
[10] Hamadi Redissi, Le Pacte de Nadjd. Ou comment l’islam sectaire est devenu l’islam, Seuil, Paris 2007, pp .238-239.
[11] Bruce Riedel, Kings and Presidents: Saudi Arabia and the United States since FDR, Brookings Institutions Press, Washinghton DC 2019, pp. 27-84.
[12] Michel Potocki, La Constitution de la République islamique d’Iran 1979-1989, L’Harmattan, Paris 2004, p. 120.
[13] Pierre-Jean Luizard, Histoire politique du clergé chiite XVIII-XXI siècle, Fayard, Paris 2014, pp. 203-215.
[14] Mohammad Ali Amir-Moezzi e Christian Jambet, Que’est-ce que c’est le chiisme?, Fayard, Paris 2014, p. 219.
[15] Olivier Roy, L’impact de la révolution iranienne au Moyen-Orient, in Sabrina Mervin (a cura di), Les mondes chiites et l’Iran, Khartala/IFPO, Paris 2007, pp. 29-42.
[16] Gilles Kepel, Jihad. Expansion et déclin de l’islamisme, Gallimard, Paris 2000, p. 76. Stéphane Lacroix, Les Islamistes saoudiens, une insurrection manqué, PUF, Paris 2010, pp. 110-122.
[17] Blandine Chelini-Pont, L’organisation pour la Coopération islamique. Voix mondiale des Musulmans?, «Diplomatie, Grand dossier “Gèopolitique des religions”», n. 16 (settembre 2016), pp. 67-71.
[18] Consiglio Islamico d’Europa, Dichiarazione islamica universale dei diritti dell’uomo, Parigi, 19 settembre 1981; Mohammad Amin al-Amidani, Les droits de l’homme et l’islam. Textes des Organisations arabes et islamiques, Publications de la Faculté de Théologie protestante, Università Marc Bloch, Strasbourg 2003, p. 67; Traduzione in inglese della dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo del 1990 disponibile sul sito della Biblioteca dell’Università del Minnesota, http://hrlibrary.umn.edu/instree/cairodeclaration.html
[19] Olivier Carré, L’utopie islamique dans l’Orient arabe, Presse de la Fondation National des Sciences politiques, Paris 1991, pp. 81-82.
[20] Rāshid al-Ghannūshī, Al-hurriyyāt al-‘āmma fī-l-dawla al-islāmiyya, Dār al-mujtahid li-l-nashr wa-l-tawzī‘, Tūnis 2011 (1° edizione 1993), p. 401.
[21] Gudrun Krämer, La politique morale ou bien gouverner à l’islamique, «Vingtième siècle. Revue d’histoire», n. 82 (2004), pp. 131-143.
[22] Muhammad Saïd al-Ashmawy, L’islamisme contre l’islam, La Découverte/Al-Fikr, Paris/Le Caire 1989, p. 106.
[23] Tewfik Aclimandos, Splendeurs et misères du clientélisme, «Égypte-Monde arabe », n. 7 (2010), pp. 197-219.
[24] Estratto del memorandum (in lingua araba) del 30 novembre 2009 che definisce il Codice generale dei Fratelli musulmani in riferimento anche ai documenti del 10 maggio 1978, del 29 luglio 1982 e del 28 marzo 1994.
[25] Égypte: le nouveau gouverneur de Louxor démissionne, «Le Monde», 23 giugno 2013, https://www.lemonde.fr/afrique/article/ ... _3212.html.
[26] Amany Fouad Salib, La violence “citoyenne”. Aux fondements du discours politique des différents courants de l’islamisme contemporain. Approche comparative, intervento al convegno internazionale “Islamismes et violence”, curato da Patrice Brodeur, Wael Saleh, Amany Fouad Salib, Università di Montreal, 26 marzo 2019.
[27] Amany Fouad Salib, La conception de l’identité [al-hûwiyya] dans le fondamentalisme islamique sunnite contemporain: une commposante dogmatique essentielle?, «Théologiques », vol. 24, n. 2 (2016), pp. 41-74.
[28] Tewkif Aclimandos, Réflexions sur la révolution et la transition égyptiennes, in Anna Bozzo e Pierre-Jean Luizard (a cura di), Polarisation politiques et confessionelles: la place de l’islam dans les “transitions” arabes, RomaTre, Roma 2015, pp. 129-152.
[29] Il nuovo regime, che ricorre all’uso della violenza, si giustifica affermando che la sua è stata la necessaria risposta a degli atti di violenza precedenti. A titolo d’esempio si veda: https://www.youtu.be/OLynN27wHKE. Al contrario, i Fratelli musulmani denunciarono ripetutamente la violenza iniziale delle forze dell’ordine: https://www.youtube.com/watch?v=3J5VhWS8Z-A.
[30] Amin Élias, Le sheikh Yousef al-Qaradâwî et l’islam du “juste milieu”; jalons critiques, «Confluences Méditerranée», n. 103 (2017), pp. 133-155. Haoues Seniguer (intervista con Clément Pellegrin), Youssef El Qaradawi, fer de lance de l’islamisme sunnite?, «Les clés du Moyen Orient », 13 ottobre 2015, https://bit.ly/2x8xvdE.
[31] Yūsuf al-Qaradāwī, Al-ittihād yu’akkid fatwā al-Qaradāwī, wa yuhadhdhir min sharr mustatīr bi-misr, 10 luglio 2013, https://www.al-qaradawi.net/node/921 e Akkada anna al-tazāhur al-ān fard ‘ayn… al-Qaradāwī yad‘ū al-sha‘b al-misrī wa-l-umma ilā jum‘at ghadab, 15 agosto 2013, https://www.al-qaradawi.net/node/907.
[32] Wael Sahel, La conception de l’État au prisme du lien entre le religieux et la politique dans la pensée égyptienne moderne et contemporaine (2011-2015): continuités, évolutions et ruptures, Tesi di Dottorato sotto la supervisione di Patrice Bodeur, Università di Montreal (2016), pp. 456-462. L’estratto del testo presente è tradotto in francese a pp. 355-356.
[33] Il 21 luglio 2019, Ashraf Abd al-Ghaffār, dirigente dei fratelli musulmani, ha lanciato un appello per mettere fine alla divisione del gruppo. Si veda Al-nidā’ al-akhīr, qiyādī ikhwānī yutliq mubādara li inhā’ inqisām al-jamā‘a, «AlJazeera», 21 luglio 2019, https://bit.ly/2VLwPp3.
[34] Enes Bayrakli e Farid Hafez, Islamophobia in Muslim majority Societies, Routledge, Abingdon-on-Thames 2018, p. 218.
[35] Égypte: le procureur général tué dans un attentat, «LeMonde», 29 giugno 2015, https://www.lemonde.fr/afrique/article/ ... _3212.html.
[36] Bayān min al-ikhwān al-muslimīn ilā-l-umma hawla al-wāqi‘ al-jadīd li-l-qadiyya al-misriyya, «ikhwanonline» 29 giugno 2019, https://bit.ly/2TqwtT3.
[37] Michele Brignone, Alla ricerca di un riformatore per l’Islam, «Oasis», n. 21 (giugno 2015), pp. 75-82. Wael Saleh, La conception de l’État au prisme du lien entre le religieux et la politique dans la pensée égyptienne moderne et contemporaine (2011-2015): continuités, évolutions et ruptures.
[38] Iris Seri-Hersch, From one Sudan to two Sudans: Dynamics of Partition and Unification in Historical perspective, «Tel Aviv Notes» n. 7 (2013), pp. 1-8.
[39] Mashrūʿ al-dustūr al-islāmī alladhī wada‘ahu al-Azhar ‘ām 1977m, https://bit.ly/2IozXPB.
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Re: Fratellanza mussulmana

Messaggioda Berto » mar ott 05, 2021 6:55 pm

"Così l'Unione Europea finanzia i Fratelli Musulmani"
Giulio Meotti
3 ottobre 2021

https://meotti.substack.com/p/cosi-luni ... i-fratelli

“Tutti sanno, almeno dal 2015 e dai sanguinosi attentati di Parigi, che Bruxelles è sede di quartieri dove vige una rigida pratica dell'Islam. Qual è stata la reazione dell'Unione Europea? Ha creato un coordinatore contro ‘l'odio anti-islamico’, attualmente ricoperto da Tommaso Chiamparino (figlio dell’ex sindaco di Torino)”.

Così si apre una lunga inchiesta di Charlie Hebdo di questa settimana. È’ la storia di una dolce e surreale capitolazione.

“Bruxelles ha distribuito migliaia di euro alle associazioni preposte alla ‘prevenzione della radicalizzazione’”, spiega Florence Bergeaud-Blackler, antropologa del Cnrs. I gruppi di Fratelli Musulmani hanno colto l'occasione per far valere le loro richieste, sostenendo che l'estremismo islamico è una reazione al razzismo "anti-musulmano" in Europa. “In altre parole, di fronte all'offensiva islamista, ci siamo affrettati a fare un'inversione di tendenza. Nella capitale belga, le diverse correnti dell'Islam politico sanno coordinarsi tatticamente per destabilizzare il piccolo regno e, oltre, tutta l'Europa”.

“Dal 2015 la pressione della polizia ha spinto i salafiti ad essere più discreti e a lasciare che i Fratelli Musulmani prendessero il sopravvento”, spiega il deputato centrista belga Georges Dallemagne. Le Confraternite del Qatar e della Turchia si sono alleate per attuare una strategia di “conquista più subdola”. È urgente, secondo Djemila Benhabib, project manager del Secular Action Center, fare luce sull'attivismo dei Fratelli musulmani. “Agiscono attraverso un tessuto associativo molto denso, sovvenzionato dalle autorità pubbliche europee oltre che da stati esteri, che troviamo al centro di una strategia di ingresso nei partiti e nelle istituzioni. Un intreccio di associazioni e personalità influenti permette loro di fare rete sia sul suolo belga che sulla scena europea con la Turchia a fare da sfondo”.

Prendiamo la Federazione europea dei giornalisti. Questa organizzazione, riconosciuta come la voce rappresentativa dei giornalisti in Europa, è finanziata dai sindacati dei giornalisti di 45 paesi del continente, fra cui l’Italia con la Federazione nazionale della stampa di Giuseppe Giulietti. Il suo segretario generale, Ricardo Gutiérrez, è orgoglioso di avere come interlocutori la Commissione europea, il Parlamento europeo, l’Ocse e il Consiglio d'Europa. “Tuttavia, la scorsa primavera, la Federazione ha fornito la formazione in collaborazione con due organizzazioni, la Rete europea contro il razzismo (Enar) e il Collettivo contro l'islamofobia in Belgio (CCIB), un avatar del Collettivo contro l'islamofobia in Francia (CCIF) - sciolto dalle autorità francesi in seguito all'assassinio di Samuel Paty e di cui condivide lo stesso logo. Il primo intervento è stato di un presunto fratello musulmano pentito, Michaël Privot, direttore di Enar, ong che ha anche un ufficio presso la Commissione europea”. Privot, convertito ad Allah, milita per un “Islam europeo”. “Non ritiene la Commissione di essere sulla strada sbagliata promuovendo e finanziando organizzazioni che militano apertamente contro la nostra concezione europea della libertà di espressione e il cui obiettivo finale è imporre agli europei un modello basato sulla legge islamica?”, ha chiesto questa estate una deputata europea a Bruxelles. "Ritengo estremamente pericoloso consentire a una tale organizzazione di stabilirsi in Belgio, viste le azioni dei suoi membri in Francia", ha affermato a Le Monde il deputato ed ex ministro Denis Ducarme, liberale.

Secondo una fonte di sicurezza consultata dalla rivista belga Le Vif/L'Express, “la CCIB è nota per i suoi stretti legami con i Fratelli Musulmani. Ideologicamente, i discorsi della CCIB riprendono i temi retorici dei Fratelli Musulmani così come i loro tradizionali cavalli di battaglia, ad esempio la criminalizzazione dell'‘islamofobia’ e la lotta contro il divieto del velo nelle scuole e sul lavoro”. L'associazione è guidata da Mustapha Chairi, che sostiene l'uso massivo del velo e che appare senza imbarazzo facendo la rabia (la mano con il pollice piegato che è il segno dei Fratelli Musulmani). “Ciò non impedisce allo Stato belga di continuare a sovvenzionare questa organizzazione e all'UE di affidarle una serie di missioni ‘antirazziste’”.

“A Bruxelles, infatti, sono molte le sigle e gli acronimi di associazioni dei Fratelli Musulmani, anche se non ammesse come tali, ognuna per una causa specifica per ottenere il consenso dell'Europa liberale: femminismo, disuguaglianze sociali, razzismo, ecc. È un'intera nebulosa islamista che ha tessuto la sua tela nella capitale belga per espandersi nell'Unione Europea e beneficiare dei suoi generosi sussidi, sfruttando la sua complessità istituzionale e la sua debolezza ideologica”.
L’inchiesta di Charlie Hebdo di questa settimana sui finanziamenti europei ai Fratelli Musulmani

Come ha spiegato Alexandre Del Valle nel suo libro Le Projet, “non si tratta di una semplice libertà religiosa ma di un vero piano di conquista e distruzione. Mirano a sostenere la legge della sharia e costruire un califfato globale. La strategia dei Fratelli Musulmani non è dire di appartenere all'organizzazione. Hanno il diritto di mentire. In Europa, si basano sull'entrismo, l'infiltrazione e il doppio gioco. Sono in grado di negare verbalmente parte del loro programma per non spaventare gli europei”. L’Austria questa estate è stato il primo paese europeo a bandire la Fratellanza Musulmana.

Bernard Rougier su Le Point ha denunciato un altro aspetto. “Con i bandi di gara e l'evidenziazione di alcuni temi Bruxelles, attraverso il suo Consiglio europeo della ricerca, è in grado di promuovere la diffusione di programmi di ricerca vicini al movimento decoloniale”. Un esempio, “EuroPublicIslam: Islam in the Making of a European Public Sphere” con 1,4 milioni di euro di fondi. O RELIGARE, finanziato dalla Direzione generale della Ricerca della Commissione europea (3,4 milioni di euro di budget, di cui 2,7 milioni dall'UE). Il suo titolo completo – “Programma sulla diversità religiosa”. Sono attività di “ricerca” dove i Fratelli Musulmani penetrano facilmente, racconta Le Figaro.

Al Senato di Francia, il deputato dei Repubblicani Pierre Charon ha appena tenuto una audizione. Un intero capitolo è dedicato ai "finanziamenti dell'UE per l'Islam radicale". Così, la Commissione Europea ha finanziato le ong legate all'Islam radicale per 1.869.141 euro nel 2019. Si tratta in particolare dei Fratelli Musulmani che, secondo questo documento, stanno sostenendo un programma di islamizzazione in Europa. Il finanziamento di questi 1,8 milioni di euro dall'UE includeva: 550.000 euro per "Islamic Relief Germany", che si presenta come una sorta di "Mezzaluna Rossa" islamica, ma accusata di legami con Hamas, Hezbollah e la Fratellanza Musulmana. La Commissione Europea ha certificato questa organizzazione come “partner umanitario per il periodo dal 2021 al 2027”. L’Islamic Relief è appena stata al centro di una inchiesta del giornale tedesco Die Welt.

14.398 euro sono stati stanziati nel 2019 al “Forum of European Muslim Youth and Student Organizations” (FEMYSO), organizzazione di facciata dei Fratelli Musulmani che questa estate è stata al centro di una interpellanza al Parlamento europeo. 1.156.162 di euro sono stati donati invece alla “Rete europea contro il razzism” (ENAR), di cui FEMYSO è membro. Alla guida dell'ENAR c'è la figlia del fondatore del braccio tunisino dei Fratelli Musulmani, il partito Ennahdha. Il capo dell'ENAR è stato membro dei Fratelli Musulmani fino al 2008. 90.368 euro sono stati stanziati da Bruxelles per l'“Unione musulmana europea”, che gli specialisti considerano “parte della rete dei Fratelli musulmani”.
L’antropologa belga Florence Bergeaud-Blackler

In una intervista a l'Express, Florence Bergeaud-Blackler, ricercatrice del CNRS e celebre antropologa belga autrice del libro Cachez cet islamisme, ha spiegato che Bruxelles è diventato "una specie di santuario dell'islamismo in Europa". “L'islamismo, come l'islam, si è insediato da quarant'anni in Belgio sulla scia dell'immigrazione dal nord del Marocco e dalla Turchia” ha detto Florence Bergeaud-Blackler all’Express. “I Fratelli Musulmani agiscono pacificamente penetrando nel tessuto sociale, nelle ong e nelle associazioni, nei luoghi dell'istruzione e delle imprese”.

L'iris e la mezzaluna è il titolo di un libro che Felice Dassetto, sociologo dell’Università cattolica di Lovanio, in Belgio, ha scelto per raccontare quanto accade nel suo paese. Il riferimento è al giaggiolo, il simbolo della regione di Bruxelles, mentre la mezzaluna ovviamente allude all’islam. Per dirla con The Economist, “le antiche città del Belgio sono culle dell’arte e della cultura cristiana, e il cattolicesimo è per molti versi la ragion d’essere del paese. Ma così come il ruolo del cristianesimo è scemato, un nuovo credo, l’Islam, sta guadagnando importanza”.

Fadila Maaroufi, assistente sociale e fondatrice dell'Osservatorio dei fondamentalismi di Bruxelles, alla rivista Marianne ha detto questa estate: “Le élite belghe si sono arrese di fronte alla diffusione del fondamentalismo islamico”. Il grande progetto dei Fratelli Musulmani, che il loro guru Yusuf al Qaradawi ha detto si concluderà con la “conquista di Roma”, sta procedendo secondo programma dal paese che ci ha dato la Madonna di Bruges di Michelangelo e che si è trasformato nel pied à terre dell’islamizzazione dell’Europa.
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