Fratellanza Mussulmana e ObamaIl testo integrale del discorso di ObamaTRADUZIONE DI VERONICA DE CRIGNIS
4 giugno 2009
https://www.ilsecoloxix.it/mondo/2009/0 ... 1.33261564«Sono onorato di essere nella città senza tempo del Cairo e di essere ospite di due importanti istituzioni. Per oltre un millennio Al-Azhar è stato un faro per la cultura araba e da più di un secolo l’università del Cairo è stata la fonte dello sviluppo dell’Egitto. Voi, insieme, rappresentate l’armonia tra progresso e tradizione e sono grato della vostra ospitalità, come dell’accoglienza del popolo egiziano. Sono fiero di essere il portavoce della buona volontà del popolo americano e di portare un saluto di pace dalle comunità musulmane del mio paese: assalaamu alaykum.
Il nostro incontro si svolge in un momento di tensione tra gli Stati Uniti e i musulmani di tutto il mondo, una tensione che affonda le proprie radici in ragioni storiche che vanno al di là del dibattito politico attuale.
Le relazioni tra l’Islam e l’Occidente sono fatte di coesistenza e cooperazione, ma anche di conflitto e di guerre di religione; in tempi più recenti la tensione è stata alimentata da un colonialismo che negava i diritti e le opportunità di molti musulmani e da una Guerra Fredda durante la quale i paesi a maggioranza musulmana sono stati spesso trattati come spettatori privi del diritto di parola, senza rispetto per le loro aspirazioni.
La modernizzazione e la globalizzazione, inoltre, hanno portato cambiamenti così radicali da spingere molti musulmani a vedere nell’Occidente un’entità ostile alle tradizioni dell’Islam. Queste tensioni sono state sfruttate da violenti estremisti per strumentalizzare un piccolo, ma potente numero di musulmani.
Gli attacchi dell’11 settembre e i successivi tentativi di violenza contro la popolazione civile ha indotto alcuni Paesi a vedere nell’Islam un nemico irriducibile non solo per gli Usa e le altre nazioni occidentali, ma addirittura per i diritti umani.
Tutto ciò ha alimentato la paura e la sfiducia. Fino a che il nostro rapporto verrà definito solamente in base alle nostre differenze renderemo sempre più potente chi semina odio, invece di pace, chi ricerca i conflitti, invece della cooperazione che è necessaria perché tutti i popoli possano avere giustizia e prosperità.
Per questo motivo deve essere spezzata la catena di sospetti e inimicizia. Sono qui per cercare d’inaugurare una nuova epoca nei rapporti tra Stati Uniti e i musulmani in tutto il mondo, un rapporto basato sul mutuo rispetto e su un interesse reciproco, fondato – soprattutto – sull’idea che Usa e Islam non siano incompatibili e non debbano per forza essere in competizione. Si sovrappongono, invece, condividendo principi comuni di giustizia, progresso, tolleranza e dignità per tutti gli esseri umani.
Cerco una nuova base per il nostro rapporto anche se so che il cambiamento non potrà avvenire improvvisamente, nessun discorso – da solo – può sradicare anni di sfiducia né posso rispondere oggi a tutte le complesse questioni che ci hanno portati fino a qui.
Tuttavia sono convinto che per andare avanti sia necessario parlare apertamente di ciò che ci sta a cuore e che, troppo spesso, viene nascosto e taciuto. Ci dovranno essere sforzi da parte di entrambi, per ascoltare e per imparare dall’altro, per rispettarci a vicenda e, infine, per cercare un terreno comune su cui basare il nostro rapporto.
Come il sacro Corano ci esorta, “Sii consapevole di Dio e di’ sempre la verità”. Questo è proprio quel che tenterò: fare del mio meglio nel dire la verità, con l’umiltà che è necessaria per affrontare la sfida che ci attende, fermo nella convinzione che gli interessi che ci uniscono in quanto esseri umani siano molto più potenti delle forze che ci dividono.
Questa convinzione è basata, in parte, sulla mia esperienza personale.
Sono cristiano, ma mio padre proveniva da una famiglia keniota che contava generazioni di musulmani e, da ragazzo, ho passato diversi anni in Indonesia e ho ascoltato la chiamata dell’adhan [la chiamata alla preghiera effettuata tradizionalmente dal muezzin sul minareto, n.d.T.] all’alba e al tramonto. Quando, da giovane, ho lavorato nelle comunità di Chicago, ho conosciuto molte persone che avevano trovato dignità e pace nella fede musulmana.
Durante gli studi di storia ho compreso il debito che la cultura ha nei confronti dell’Islam. È stato proprio l’Islam, in luoghi come l’università di Al-Azhar, a far avanzare la luce della cultura attraverso i secoli, aprendo la strada per il Rinascimento e l’Illuminismo europei. L’innovazione all’interno delle comunità musulmane ha permesso lo sviluppo dell’algebra, l’invenzione della bussola magnetica e di altri strumenti di navigazione, le tecniche di scrittura e stampa, la comprensione dei motivi e dei mezzi di diffusione delle malattie e la scoperta delle cure. La cultura islamica ci ha donato archi maestosi e guglie svettanti, poesia immortale e musica preziosa, la grafia elegante e luoghi pacifici e magnifici.
Lungo il corso della storia, infine, l’Islam ha dimostrato, con le parole e con i fatti, la possibilità di vivere attraverso la tolleranza religiosa e l’eguaglianza razziale. Sono anche consapevole che l’Islam ha fatto parte, da sempre, della storia degli Stati Uniti. Il Marocco è stata la prima Nazione a riconoscere il mio paese e, firmando il Trattato di Tripoli del 1796, il nostro secondo Presidente John Adams scrisse: “Gli Stati Uniti non hanno alcun motivo di inimicizia per le leggi, la religione o la tranquillità dei musulmani”.
A partire dalla fondazione, i musulmani americani hanno arricchito gli Stati Uniti, hanno combattuto le nostre guerre, hanno servito il nostro Governo, si sono erti a difesa dei diritti civili, hanno fondato imprese, insegnato nelle nostre università e ottenuto risultati eccezionali nello sport, sono stati insigniti del Premio Nobel, hanno costruito i nostri edifici più alti e acceso la torcia olimpica.
Quando, recentemente, il primo americano di religione musulmana è stato eletto membro del Congresso, ha giurato di servire la nostra Costituzione usando il Sacro Corano che uno dei nostri Padri Fondatori – Thomas Jefferson – teneva nella sua biblioteca personale. Ho conosciuto l’Islam in tre diversi continenti prima di visitare la regione dove è stato rivelato e quelle esperienze sostengono la mia convinzione che un rapporto tra America e Islam debba essere basato su ciò che l’Islam è, non su ciò che non è.
Considero dunque parte della mia responsabilità come Presidente degli Stati Uniti lottare contro gli stereotipi negativi sull’Islam, ovunque essi appaiano. Lo stesso principio deve essere usato dai musulmani per valutare la propria percezione degli Stati Uniti. I musulmani non possono essere descritti da un rozzo stereotipo, allo stesso modo la natura e l’identità degli Stati Uniti non corrispondono alla grezza immagine di un impero egoista.
Gli Stati Uniti sono stati una delle più importanti culle del progresso che il mondo abbia mai conosciuto. Siamo nati grazie alla rivoluzione contro un impero, siamo stati fondati in nome dell’ideale che tutti gli uomini siano stati creati uguali e abbiamo sparso il nostro sangue e lottato per secoli al fine di dare significato a queste parole, all’interno dei nostri confini come nel resto del mondo.
Siamo stati formati da tutte le culture, siamo giunti da ogni angolo della terra e ci siamo dedicati a un semplice ideale: ex pluribus unum: “Da molti, uno solo”. Sono state spese molte parole sul fatto che un afro-americano di nome Barack Hussein Obama potesse essere eletto Presidente, ma la mia storia personale non è unica in questo senso. Il sogno di una possibilità per tutti non diventa realtà per ciascuno in America, ma questa promessa esiste per tutti quelli che arrivano sulle nostre rive e ciò comprende i quasi 7 milioni di americani musulmani che oggi, nel nostro paese, godono di redditi e livelli di istruzione al di sopra della media.
Negli Stati Uniti la libertà è inscindibile dalla libertà di professare la propria religione, questo è il motivo della presenza di una moschea in ogni Stato dell’Unione e di più di 1200 moschee all’interno dei nostri confini. Questa è, inoltre, la ragione per cui il governo degli Stati Uniti ha combattuto in tribunale per il diritto delle donne e delle ragazze di indossare lo hijab e per punire che negava questo diritto. Non ci sia dunque alcun dubbio: l’Islam è parte degli Stati Uniti e io credo che l’America abbia, dentro di sé, la coscienza che tutti noi, senza distinzione di religione o razza, condividiamo le stesse aspirazioni: quella di vivere sicuri e in pace, di avere un’istruzione e di poter lavorare con dignità, di amare la nostra famiglia, la nostra comunità e il nostro Dio. Questo è ciò che condividiamo, questa è la speranza per tutta l’umanità.
Il riconoscimento della nostra comune umanità è certamente solo il punto di partenza della nostra missione, le parole da sole non possono appagare i bisogni delle nostre genti, ma queste necessità potranno essere soddisfatte solo se agiremo coraggiosamente negli anni a venire e se capiremo che le sfide che ci si presenteranno sono sfide comuni e che un fallimento danneggerebbe tutti noi. Abbiamo imparato dall’esperienza di questi ultimi mesi che quando un sistema finanziario di indebolisce in un Paese, la prosperità di tutti è in pericolo. Quando una nuova influenza infetta un essere umano, tutti siamo a rischio. Quando una Nazione cerca di ottenere gli armamenti nucleari, il rischio di un attacco cresce per ogni Paese. Quando estremisti violenti agiscono in una zona di montagna, ci sono persone in pericolo dall’altra parte dell’oceano. Infine, quando vengono uccise persone innocenti in Bosnia e Darfur, si macchia la nostra coscienza collettiva.
Questo è il vero significato di condividere il mondo nel 21° secolo e questa è la responsabilità che ciascuno di noi ha verso gli altri esseri umani. E’ certamente una responsabilità difficile da accettare, anche perché la storia umana è un susseguirsi di Nazioni e tribù in lotta tra di loro per il perseguimento dei propri interessi. E tuttavia, in questa nuova epoca, tali abitudini sono dannose per ciascuno.
Ogni ordine mondiale che veda una Nazione, o un gruppo di persone, al di sopra degli altri è inevitabilmente destinato al fallimento, considerando il grado di interdipendenza tra di noi; questo significa che quando riflettiamo sul passato non dobbiamo diventarne prigionieri. I nostri problemi devono essere affrontati con la cooperazione, il progresso deve essere condiviso. Ciò non vuol dire che sia necessario ignorare le fonti della tensione, anzi, suggerisce esattamente il contrario: dobbiamo affrontare i contrasti in modo diretto. In quest’ottica permettetemi di parlare il più chiaramente e semplicemente possibile a proposito di alcune delle questioni che – credo – dobbiamo affrontare insieme.
La prima problematica che dev’essere fronteggiata è quella dell’estremismo violento in ogni sua forma. Ad Ankara ho affermato con chiarezza che gli Stati Uniti non sono, né saranno mai, in guerra con l’Islam. La nostra opposizione sarà sempre rivolta, incessantemente, contro gli estremisti violenti che costituiscono un grave pericolo per la nostra sicurezza e questo perché noi rifiutiamo ciò che viene rigettato da tutte le fedi del mondi: l’uccisione di uomini, donne e bambini innocenti. Ed è il mio primo dovere come Presidente degli Stati Uniti quello di proteggere il popolo americano.
La situazione in Afghanistan dimostra la correttezza degli obiettivi americani e il bisogno di lavorare insieme verso di essi. Più di sette anni fa, gli Stati Uniti iniziarono a perseguire al Qaeda e i Talebani ricevendo un vasto supporto dalla comunità internazionale, non ci siamo impegnati in questa lotta per nostra volontà, ma per necessità.
Sono consapevole dell’esistenza di chi mette in dubbio, o giustifica, gli eventi dell’11 settembre, ma vorrei che fosse chiaro: al Qaeda uccise quasi 3000 persone quel giorno. Le vittime erano uomini, donne e bambini innocenti, americani e di altre nazionalità, che non avevano fatto nulla a nessuno e tuttavia al Qaeda scelse di assassinare queste persone senza pietà, di rivendicare l’attacco e ancora oggi dichiara la propria volontà di uccidere su vastissima scala.
Al Qaeda ha affiliati in molti Paesi e sta cercando di espandere la propria influenza, queste non sono opinioni oggetto di discussione: sono fatti che devono essere affrontati. Non ingannatevi: non vogliamo tenere le nostre truppe in Afghanistan, non vogliamo avere là delle basi militari permanenti e per l’America è un’agonia perdere i nostri giovani uomini e le nostre giovani donne. Continuare questo conflitto ha un costo politico ed economico difficile da sostenere e saremmo felici di poter far rientrare a casa ognuno dei nostri soldati, se fossimo sicuri che in Afghanistan e Pakistan non vi siano estremisti violenti determinati a uccidere quanti più americani possibile. La situazione, però, non è questa.
Questa è la ragione della nostra alleanza con 46 Paesi e, nonostante i costi, l’impegno dell’America non s’indebolirà. Anzi. Nessuno di noi dovrebbe tollerare questi estremisti, che hanno ucciso in molte Nazioni, hanno ucciso persone di fedi diverse e – più di ogni altre – persone di fede musulmana.
Le loro azioni sono inconciliabili con i diritti degli essere umani, il progresso delle Nazioni e con l’Islam. Il sacro Corano insegna che uccidere un innocente equivale a uccidere tutta l’umanità, mentre salvare un innocente è come salvare l’umanità intera. La fede di più di un miliardo di persone è enormemente più grande dell’odio cieco di pochi.
L’Islam non è parte del problema nella lotta all’estremismo violento, ma una componente importante nella promozione della pace. Siamo consapevoli che il solo intervento militare non è sufficiente a risolvere i problemi in Afghanistan e Pakistan, per questo stiamo progettando di investire 1,5 miliardi di dollari ogni anno, per 5 anni, per lavorare in collaborazione con i pakistani alla costruzione di scuole e ospedali, strade e imprese, oltre a investire centinaia di migliaia di dollari per aiutare chi si è dovuto spostare dai propri luoghi d’origine.
Per questo motivo finanziamo con 2,8 miliardi di dollari i progetti degli afghani per lo sviluppo della propria economia e per la fornitura dei servizi essenziali alla vita. Permettetemi anche di affrontare la questione dell’Iraq. Al contrario del conflitto in Afghanistan, abbiamo scelto di iniziare la guerra in Iraq e questa scelta ha causato forti contrasti nel mio Paese e in tutto il mondo. Anche se sono convinto che, per il popolo iracheno, sia positivo il fatto di essersi liberato della tirannia di Saddam Hussein, credo anche fermamente che gli eventi in Iraq abbiano ricordato agli Stati Uniti la necessità di impegnarsi diplomaticamente e di costruire un consenso internazionale, quando possibile, al fine di risolvere i contrasti.
Possiamo ricordare le parole di Thomas Jefferson che disse: “Spero che la nostra saggezza cresca con il nostro potere e ci insegni che meno useremo questo potere maggiore sarà la nostra grandezza”. Oggi gli Stati Uniti hanno una doppia responsabilità: quella di aiutare l’Iraq a plasmare un futuro migliore e quella di lasciare l’Iraq agli iracheni. Ho detto chiaramente alla popolazione dell’Iraq che non vogliamo istituire nessuna base militare, che non avanziamo alcuna pretesa sui loro territori e sulle loro risorse.
La sovranità dell’Iraq appartiene all’Iraq ed è per questo che ho ordinato il rientro delle unità da combattimento entro agosto. Onoreremo i nostri impegni con il governo iracheno democraticamente eletto di rimuovere le unità di combattimento dalle città entro luglio e di far rientrare tutte le nostre truppe dall’Iraq entro il 2012. Collaboreremo all’addestramento delle forze di sicurezza del Paese e allo sviluppo della sua economia, ma sosterremo un Iraq sicuro e unito in veste di partner, non ci comporteremo come padroni.
Infine, l’America non potrà mai tollerare la violenza degli estremisti e, allo stesso modo, non dovremmo mai modificare i nostri principi. L’11 settembre è stato un trauma terribile per il nostro Paese e ha comprensibilmente causato rabbia e paura, ma in alcuni casi ci ha condotti ad agire in violazione dei nostri ideali. Ci stiamo concretamente impegnando a cambiare corso, ho proibito, senza possibilità di eccezione, l’uso della tortura da parte degli Stati Uniti e ho ordinato la chiusura della prigione di Guantanamo entro il prossimo anno. In questo modo l’America si potrà difendere, rispettando però la sovranità delle Nazioni e la guida della legge. Agiremo in collaborazione con le comunità musulmane che, come noi, vengono minacciate e prima gli estremisti si troveranno isolati e sgraditi all’interno delle comunità musulmane, prima tutti noi potremo essere più sicuri. La seconda maggiore fonte di tensione internazionale che vorrei discutere con voi è la situazione tra Israele, i palestinesi e il mondo arabo.
I legami tra Stati Uniti e Israele sono ben noti, questo legame non si può spezzare perché è basato su vincoli storici e culturali e sul riconoscimento che l’aspirazione per una patria ebraica affondi le proprie radici in un passato tragico che non può essere negato. Il popolo ebreo ha subito persecuzioni nel corso dei secoli e in tutto il mondo e, in Europa, l’anti-semitismo è culminato in un Olocausto senza precedenti.
Domani visiterò Buchenwald, che faceva parte di un sistema di campi di concentramento dove gli ebrei venivano schiavizzati, torturati, fucilati, uccisi con il gas per mano del Terzo Reich. Furono uccisi 6 milioni di ebrei, più dell’attuale popolazione di Israele e negare questo fatto è una posizione senza fondamento, ignorante e odiosa. Minacciare di distruggere Israele o perpetuare i vili stereotipi sugli ebrei è profondamente sbagliato, ha l’effetto di evocare nelle menti degli israeliani il più doloroso dei ricordi e, allo stesso tempo, di impedire la pace che le popolazioni di quella regione si meritano.
D’altro canto è innegabile che la popolazione palestinese – sia musulmana che cristiana – abbia sofferto nella ricerca di una patria. Per più di 60 anni hanno sopportato il dolore dell’essere profughi, molti attendono nei campi per rifugiati della Cisgiordania, di Gaza e delle regioni vicine la vita di pace e sicurezza che non hanno mai potuto condurre.
I palestinesi devono sopportare le grandi e piccole umiliazioni quotidiane causate dall’occupazione. Sia dunque chiaro che la situazione della popolazione palestinese è intollerabile, l’America non ignorerà le legittime aspirazioni dei palestinesi di dignità, opportunità future e di un proprio Stato. Per decenni siamo rimasti in una situazione di stallo: due popoli con aspirazioni legittime, entrambi con una storia dolorosa alle spalle che rende difficile il compromesso. E’ facile puntare il dito – i palestinesi denunciano gli spostamenti di popolazione causati dalla fondazione dello stato di Israele e gli Israeliani lamentano gli attacchi e la costante ostilità che hanno dovuto affrontare nel corso della loro storia sia all’interno che all’esterno dei propri confini. Tuttavia, se osserviamo il conflitto da uno solo dei due punti di vista non riusciremo a riconoscere la verità: l’unica soluzione è che le aspirazioni di entrambi i popoli vengano soddisfatte con la creazione di due Stati dove sia israeliani che palestinesi possano vivere in pace e sicurezza.
Questa soluzione è nell’interesse di Israele, dei palestinesi, degli Stati Uniti e del mondo intero e per questa ragione ho intenzione di impegnarmi personalmente per raggiungere quest’obiettivo, impiegando tutta la pazienza che sarà necessaria. Gli impegni sottoscritti dalle due parti nella Road Map sono chiari e affinché ci sia pace è tempo per loro di dimostrarsi all’altezza delle proprie responsabilità. I palestinesi devono abbandonare ogni forma di violenza, perché resistere attraverso la violenza e l’omicidio è sbagliato e non porta al successo.
La popolazione nera degli Stati Uniti ha, per secoli, sofferto per le frustate ricevute durante la schiavitù e per l’umiliazione della segregazione, ma non è stata la violenza a permettere di ottenere una piena uguaglianza di diritti. E’ stata, al contrario, la pacifica e determinata insistenza sugli ideali centrali nella fondazione degli Stati Uniti. La stessa cosa può essere detta per il Sudafrica e il Sud Est asiatico, per l’Europa dell’Est e l’Indonesia. La semplice verità è che la violenza è un vicolo cieco, non è potere né coraggio lanciare dei razzi contro bambini che dormono, né far esplodere vecchie signore che viaggiano su un autobus. Non è così che si rivendica l’autorità morale, in questo modo – al contrario – la si abbandona.
Per i palestinesi è giunto il momento di concentrarsi su ciò che possono costruire, l’Autorità palestinese deve sviluppare una capacità di governo, creare istituzioni che siano al servizio dei bisogni delle sua gente. Hamas ha il supporto di una parte dei palestinesi, ma ha anche delle responsabilità: quella di contribuire a soddisfare le aspirazioni dei palestinesi e quella di unificare il popolo. Per questo deve abbandonare la violenza, riconoscere gli accordi stipulati in passato e il diritto di Israele all’esistenza.
Israele deve, allo stesso tempo, riconoscere che tanto quanto non può essere negato il suo diritto all’esistenza, allo stesso modo non può essere negato quello della Palestina. Gli Stati Uniti non riconoscono la legittimità dei continuati insediamenti israeliani perché questo viola gli accordi precedenti e indebolisce gli sforzi per raggiungere la pace. Questo è il momento di fermare gli insediamenti. Israele deve dimostrarsi all’altezza delle proprie responsabilità affinché i palestinesi possano vivere, lavorare e sviluppare la propria società. La crisi umanitaria di Gaza, infatti, devasta le famiglie palestinesi, ma è anche una minaccia per la sicurezza di Israele, come lo è anche la mancanza di possibilità per il futuro della popolazione che vive in Cisgiordania. Il progresso nella vita quotidiana della popolazione palestinese deve essere necessariamente una componente del cammino di pace e Israele deve agire concretamente per permettere tutto questo.
Gli Stati Arabi, infine, devono riconoscere che il Summit della Lega Araba è stato un inizio importante, ma che non può costituire la fine delle loro responsabilità. Il conflitto arabo-israeliano non dev’essere più utilizzato per distrarre le popolazioni delle Nazioni arabe da altri problemi, dev’essere invece un motivo di intervento a favore dello sviluppo delle istituzioni palestinesi che siano in grado di gestire uno Stato, un motivo per riconoscere la legittimità dello Stato di Israele e, ancora, per scegliere il progresso piuttosto di concentrarsi sul passato.
Gli Stati Uniti collaboreranno con chi vuole raggiungere la pace e renderanno pubbliche le proposte e le discussione fatte con gli Israeliani, i palestinesi e i rappresentanti degli Stati arabi. Non possiamo imporre la pace, ma – in privato – molti musulmani riconoscono il fatto che Israele non scomparirà e, allo stesso modo, molti israeliani riconoscono la necessità di uno Stato palestinese. E’ giunto il momento di agire per raggiungere ciò che tutti sanno essere vero. Sono state sparse troppe lacrime. Troppo sangue è stato versato.
La responsabilità di lavorare per il giorno in cui le madri israeliane e palestinesi potranno vedere i loro figli crescere assieme è nostra; è nostro l’impegno per far diventare la Terra Santa per tre grandi religioni il luogo di pace che dovrebbe essere; è nostro anche il dovere di rendere per molto tempo Gerusalemme una casa sicura per ebrei, cristiani e musulmani e un luogo in cui tutti i figli di Abramo possano ritrovarsi pacificamente come nella storia di Isra, in cui Mosé, Gesù e Maometto, che la pace sia con loro, erano uniti in preghiera.
La terza fonte di tensione è il nostro comune interesse nel diritto e nella responsabilità delle Nazioni in materia di armamenti nucleari. E’ una questione che è stata causa di tensioni tra gli Stati Uniti e l’Iran, per molti anni l’Iran ha parzialmente definito la propria identità in opposizione al mio Paese e certamente la storia delle nostre relazioni è tumultuosa.
Durante gli anni della Guerra Fredda gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo nel rovesciamento del governo iraniano democraticamente eletto e dalla Rivoluzione islamica in poi l’Iran ha partecipato agli atti di violenza e ai rapimento subiti dalle truppe e dai civili americani. Conosciamo bene la storia, ma invece di rimanere intrappolato nel passato ho reso chiaro ai leader e al popolo dell’Iran che il mio Paese è pronto ad andare avanti, la domanda ora non è contro cosa di opponga l’Iran, ma quale futuro voglia costruire.
Sarà difficile superare decenni di sfiducia, ma procederemo con coraggio, rettitudine e decisione. Ci saranno molte questioni da discutere tra di noi e siamo decisi a muoversi senza farci influenzare da preconcetti, ma piuttosto sulla base del rispetto reciproco, anche se è chiaro a tutti che per quanto riguarda gli armamenti nucleari abbiamo raggiunto un momento decisivo.
E’ qualcosa che non riguarda solamente gli interessi degli Stati Uniti, ma è volto alla prevenzione di una corsa agli armamenti nucleari nel Medio Oriente che potrebbe portare la regione e il mondo intero lungo un sentiero pericoloso. Capisco le ragioni di chi denuncia il fatto che alcuni Paesi posseggano armamenti nucleari e altri no, non credo neanche che una sola Nazione dovrebbe avere il potere di scegliere e selezionare chi può e chi non può possedere armi nucleari.
Per questa ragione ho riaffermato fortemente l’impegno degli Stati Uniti per un mondo senza armi atomiche e credo che ogni Nazione – incluso l’Iran – debba avere accesso all’energia atomica da utilizzare per scopi pacifici, se sottoscrive l’impegno del Trattato di Non-Proliferazione Nucleare.
Quest’impegno è il nucleo del Trattato stesso e ogni Paese è tenuto a rispettarlo, spero che tutte le Nazione della regione possano condividere questo obiettivo. Il quarto argomento di cui vi parlerò è la democrazia. Sono consapevole della controversia degli ultimi anni a proposito della diffusione della democrazia e del fatto che molte delle ragioni alla base di queste discussioni siano legate alla guerra in Iraq.
Permettetemi di essere chiaro su questo punto: nessun sistema di governo può o dovrebbe essere imposto da una Nazione a un’altra. Tuttavia questo non diminuisce il mio impegno a favore di governi che riflettano la volontà delle popolazioni, ogni Nazione dà vita a questo principio in modo diverso, secondo le tradizioni del proprio popolo e gli Stati Uniti non hanno la presunzione di sapere ciò che è meglio per ognuno, come non presumiamo di poter scegliere il risultato di una elezione pacifica.
Io ho, però, un’incrollabile convinzione nel desiderio di tutti i popoli per alcune cose: la possibilità di esprimersi liberamente e di avere la libertà di scegliere il modo in cui essere governati; la fiducia nel governo della legge e in un’amministrazione equa della giustizia; un governo trasparente e che non rubi al proprio popolo; la libertà di vivere secondo le proprie scelte. Queste idee non sono proprie solamente degli americani, sono diritti dell’uomo e sono quello che sosterremo per tutti i popoli.
Quest’ultimo punto è importante perché c’è chi difende la democrazia solamente quando non detiene il potere e, una volta che l’ha ottenuto, sopprime i diritti degli altri senza alcuna pietà. In ogni luogo e in ogni caso il governo del popolo e per il popolo definisce una linea di condotta per tutti coloro che sono al potere: il mantenimento del potere deve avvenire attraverso il consenso, non la coercizione; l’interesse del popolo e il corretto funzionamento del processo politico devono essere posti al di sopra del proprio partito. Le elezioni da sole, senza queste componenti, non possono portare alla vera democrazia.
La quinta problematica che dobbiamo affrontare insieme è quella della libertà religiosa. L’Islam ha una fiera tradizione di tolleranza, come possiamo riscontrare nella storia dell’Andalusia e di Cordoba durante il periodo dell’Inquisizione. Io stesso l’ho potuto constatare durante la mia infanzia in Indonesia, dove devoti cristiani potevano esercitare liberamente la propria fede in un Paese a schiacciante maggioranza musulmana. E’ questo lo spirito di cui abbiamo bisogno oggi; in ogni Paese le persone dovrebbero essere libere di scegliere e vivere la propria fede con mente, cuore e anima.
La tolleranza è essenziale per la prosperità delle religioni, ma viene minacciata in molti modi. Alcuni musulmani hanno l’inquietante tendenza a misurare la propria fede attraverso il rifiuto delle altre. La ricchezza della diversità religiosa deve invece essere sostenuta, sia che si parli dei Maroniti del Libano che dei Copti in Egitto; le divisioni devono essere ricucite anche tra i musulmani, dato che i contrasti tra Sciiti e Sunniti hanno portato a tragiche violenze, in modo particolare in Iraq.
La libertà religiosa è centrale per la capacità delle persone di vivere insieme e dobbiamo sempre cercare i mezzi per difenderla. Negli Stati Uniti, ad esempio, le leggi sulle opere caritatevoli hanno reso più difficile per i musulmani l’adempimento dei propri doveri religiosi, per questa ragione mi sono impegnato a lavorare con i musulmani americani affinché possano rispettare lo zakat. Allo stesso modo è importante, per i paesi occidentali, evitare di impedire ai cittadini musulmani di praticare la propria religione come lo ritengono opportuno, ad esempio decidendo quali vestiti possano essere indossati dalle donne musulmane; non si può infatti fare distinzione tra le religioni sotto la falsa pretesa del liberalismo.
La fede dovrebbe invece avvicinarci, per questo motivo negli Stati Uniti stiamo creando progetti che uniscano Cristiani, Musulmani ed Ebrei e per questo abbiamo accolto con favore gli sforzi per il dialogo del re saudita Abdullah e la leadership della Turchia nella Alleanza di Civiltà. In tutto il mondo possiamo trasformare il dialogo in servizio interreligioso, affinché i ponti tra le persone permettano di agire, che sia per la lotta alla malaria oppure per portare aiuti dopo un disastro naturale.
La sesta questione di cui voglio parlarvi sono i diritti delle donne. So che si sta discutendo di questo e rifiuto l’idea – propria di alcuni occidentali – che una donna che scelga di portare il velo sia in qualche modo meno uguale, credo tuttavia che una donna a cui viene negata l’istruzione, venga privata anche dell’uguaglianza, non è infatti un caso che i Paesi in cui le donne ricevono una buona istruzione siano molto più spesso prosperi.
Vorrei che fosse chiaro: le problematiche legate ai diritti delle donne non sono semplici da affrontare per l’Islam. In Turchia e Pakistan, Bangladesh e Indonesia, abbiamo l’elezione di una donna a capo di paesi a maggioranza musulmana, allo stesso tempo la lotta per l’uguaglianza femminile continua in molti aspetti della vita americana e di altri Paesi.
Le nostre figlie possono dare un contributo alla società tanto quanto i nostri figli e la nostra prosperità sarà più grande se permetteremo a tutta l’umanità – uomini e donne – di raggiungere il suo pieno potenziale. Non credo che le donne debbano fare le stesse scelte degli uomini per avere uguaglianza e rispetto le donne che scelgono di vivere la loro vita nel solco dei loro ruoli tradizionali, ma questa dovrebbe essere una scelta.
Per questa ragione gli Stati Uniti collaboreranno qualunque Paese a maggioranza musulmana che sostenga una maggiore alfabetizzazione femminile e che aiuti le giovani donne a cercare impiego attraverso i micro-finanziamenti che aiutano le persone a vivere i propri sogni.
Voglio infine affrontare il tema dello sviluppo e le opportunità economiche. So che per molti la globalizzazione ha in sé aspetti contraddittori. Internet e televisione possono essere portatori di conoscenza e di informazioni, ma anche di una sessualità offensiva e una violenza insensata. Il commercio può portare nuova ricchezza e nuove opportunità, ma anche grandi sconvolgimenti e cambiamenti all’interno delle comunità.
In tutte le Nazioni, inclusa la mia, questo cambiamento suscita paura, timore che a causa della modernità si perda il controllo delle nostre scelte economiche, della nostra politica e – soprattutto – delle nostre identità, ciò che ci sta più a cuore delle nostre comunità, famiglie e della nostra fede. Tuttavia sono anche consapevole che il progresso umano non può essere negato, non ci deve essere contraddizione tra sviluppo e tradizione.
Paesi come il Giappone e la Corea del Sud hanno sviluppato la loro economie mantenendo culture ben distinte, la stessa cosa è vera per il progresso di Paesi a larghissima maggioranza musulmana, da Kuala Lumpur a Dubai. Nel passato le comunità musulmane sono state all’avanguardia nei campi dell’innovazione e dell’educazione. Tutto ciò è importante perché nessuna strategia di sviluppo può essere basata solamente dalle ricchezze della terra, né può essere sostenuta mentre le giovani generazioni sono tagliate fuori dal mondo del lavoro. Molti stati del Golfo hanno goduto di grandi ricchezze grazie al petrolio e alcuni stanno ora cominciando a progettare il proprio sviluppo in campi più ampi, ma tutti noi dobbiamo riconoscere che l’educazione e l’innovazione saranno la moneta corrente del 21° secolo e in troppi Paesi musulmani queste aree ricevono pochissimi investimenti. Sto aumentando investimenti di questo tipo nel mio paese e se nel passato gli Stati Uniti si sono concentrati sul petrolio e sulla benzina, adesso ci muoviamo invece in direzione di un più ampio impegno.
Per quanto riguarda l’educazione, amplieremo i programmi di scambio e incrementeremo le borse di studio, come quella che ha portato mio padre negli Stati Uniti, e incoraggeremo più americani a studiare in comunità musulmane. Proporremo a studenti musulmani promettenti di svolgere tirocini in America e investiremo nell’e-learning per insegnanti e bambini in tutto il mondo, creeremo nuovi network su internet, così che un adolescente in Kansas possa comunicare istantaneamente con un coetaneo al Cairo. Nel campo dello sviluppo economico creeremo nuovi gruppi di volontari degli affari che collaborino con la loro controparte nei paesi a maggioranza musulmana e quest’anno terrò un summit sull’imprenditoria per definire come si possano approfondire i legami tra i leader del mondo degli affari, le fondazioni e gli imprenditori del sociale negli Stati Uniti e nelle comunità musulmane in tutto il mondo.
Per la scienza e la tecnologia lanceremo una nuova fondazione che sostenga lo sviluppo tecnologico nei Paesi a maggioranza musulmana e che aiuti a trasferire le idee sul mercato in modo da creare posti di lavoro. Apriremo centri di eccellenza scientifica in Africa, nel Medio Oriente e nel Sud-Est Asiatico, nomineremo nuovi inviati della scienza che collaborino nei programmi per lo sviluppo delle nuove risorse energetiche, per la creazione di posti di lavoro “verdi”, per una documentazione digitale e per la coltivazione di nuovi colture.
Annuncio oggi un nuovo sforzo globale in collaborazione con l’Organizzazione della Conferenza Islamica per sradicare la poliomielite e per allargare le cooperazioni con le comunità musulmane per la promozione della salute del bambino e della madre. Tutto ciò dev’essere portato avanti insieme e gli americani sono pronti a unirsi ai cittadini e ai governi, alle organizzazioni di comunità, ai leader religiosi e degli affari nelle comunità musulmani in tutto il mondo, per aiutare i nostri popoli a perseguire l’obiettivo di una vita migliore.
Le questioni che ho descritto non saranno di facile soluzione, ma abbiamo la responsabilità di unirci in nome del mondo che cerchiamo, un mondo dove gli estremisti non minaccino i nostri popoli e dove le truppe americane siano tornate a casa; un mondo in cui israeliani e palestinesi vivano in sicurezza in un proprio Stato e in cui l’energia nucleare venga utilizzata per scopi pacifici; un mondo in cui i governi siano al servizio dei cittadini e i diritti di tutti i figli di Dio vengano rispettati.
Questi sono interessi comuni, questo è il mondo che cerchiamo, ma possiamo ottenerlo solo insieme. So che ci sono molti, sia musulmani che non, che si chiedono se sia possibile forgiare questo nuovo inizio, alcuni vogliono rafforzare le divisioni e opporsi al progresso. Altri sostengono che quest’idea non valga lo sforzo, perché siamo condannati a essere in disaccordo e le culture sono destinate a scontrarsi. Molti altri sono semplicemente scettici della possibilità che avvenga un reale cambiamento.
C’è così tanta paura e così grande sfiducia e tuttavia se scegliamo di essere legati al passato, non riusciremo mai ad andare avanti e voglio dirlo, in particolare, alle giovani generazioni di tutti i paesi – voi, più di chiunque altro, avete la capacità di cambiare questo mondo.
Tutti noi condividiamo questo mondo solamente per un breve spazio di tempo, è più facile far ricadere sugli altri le colpe, piuttosto che cercare dentro di noi; è più semplice notare ciò che ci distingue, piuttosto che quel che condividiamo. Dovremmo però scegliere il giusto cammino, non il sentiero più semplice. Al cuore di ogni religione c’è una regola, quella che dice che ciò che dovremmo trattare gli altri come vorremmo essere trattati da loro. Questa verità trascende le Nazioni e i popoli, è una convinzione che non è nuova, né bianca, né nera, né marrone; non è cristiana, musulmana o ebrea.
E’ una convinzione, però, che vive nella culla delle civiltà e che batte ancora nei cuori di miliardi di persone. E’ la fede nelle altre persone ed è quello che mi ha portato qui oggi. Abbiamo il potere di plasmare il mondo che cerchiamo, ma solamente se avremo il coraggio di partire da zero, ricordandoci di quel che è stato scritto. Il sacro Corano ci dice: “Oh, umanità! Vi abbiamo creati uomini e donne e vi abbiamo diviso in Nazioni e tribù affinché poteste conoscervi” Il Talmud ci dice: “L’intera Torah ha lo scopo di promuovere la pace” La santa Bibbia ci dice: “Siano benedetti i portatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” I popoli del mondo possono vivere insieme in pace, sappiamo che quella è la visione di Dio.
Questo deve ora essere il nostro impegno sulla Terra e che la pace di Dio sia su di voi.
Obama al Cairo per far pace con l'Islam «Sono qui per cercare un nuovo inizio»Capitale egiziana blindatissima. Poi da venerdì il capo della Casa Bianca sarà in Europa
04 giugno 2009
https://www.corriere.it/esteri/09_giugn ... aabc.shtmlCAIRO - «Tutti i popoli del mondo possono vivere in pace tra loro. È questo il disegno di Dio». Barack Obama lo ha detto chiaramente, in conclusione del suo atteso discorso (leggi) all'università del Cairo, citando brani del Corano, del Talmud, della Bibbia. E lo ha ribadito più volte nel corso di un intervento durato circa un'ora nel corso del quale ha raccolto tanti applausi e qualche fischio e ha gettato le basi per quello che lui stesso ha definito un «nuovo inizio» nei rapporti tra l'Occidente e il mondo islamico. Deciso ad invertire la tendenza e a spegnere le tensioni che si sono accumulate negli otto anni dell'amministrazione Bush, Obama ha parlato della necessità di superare la questione israelo-palestinese con la creazione di due Stati sovrani e indipendenti; ha aperto spiragli all'eventualità che l'Iran sviluppi programmi nucleari per scopi civili; e ha confermato che gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di colonizzare Afghanistan e Iraq, insediandovi proprie basi militari. Tutt'altro: entro il 2012, ha annunciato il presidente americano, sarà completato il ritiro delle truppe dall'Iraq, ponendo fine a un intervento militare che lo stesso Obama giudica ora negativamente. «La paura - ha detto - dopo l'11 settembre ci ha portato ad agire anche contro i nostri ideali».
UN NUOVO INIZIO - «Sono qui per cercare un nuovo inizio - ha detto Obama esordendo sul palco dell'università -. Dobbiamo fare uno sforzo per rispettarci a vicenda. Non siamo in contrapposizione, possiamo arricchirci a vicenda. Certi cambiamenti non avvengono in un giorno, ma dobbiamo provarci». «Gli eventi in Iraq - ha detto ancora Obama che all'inizio del discorso ha citato il colonialismo, la guerra fredda e la globalizzazione come cause di divisione dell'Islam e dell'Occidente - hanno ricordato all'America la necessità di usare la diplomazia e creare consenso internazionale per risolvere i nostri problemi ogni volta che è possibile».
«NIENTE STEREOTIPI» - Obama ha poi sottolineato la necessità di superare gli stereotipi: quelli dell'Occidente nei confronti dell'Islam, ma anche quelli nei confronti dell'America. «Perché siamo una società che nasce dalla ribellione ad un impero - ha detto il presidente Usa -, una nazione in cui tutti hanno la possibilità di realizzare se stessi. C'è un pezzo di mondo musulmano in America e noi abbiamo sempre fatto di tutto per difenderne le prerogative e i diritti. In ognuno dei nostri Stati, ad esempio, c'è una moschea».
AFGHANISTAN E IRAQ - Obama ha però messo alcuni punti fermi. Ad esempio la lotta al terrorismo, giudicata inevitabile. E la netta distinzione tra la caccia agli estremismi e una guerra all'Islam che non c'è. L'intervento militare in Afghanistan, ha detto, è stato inevitabile. Diversamente quello in Iraq, «che è stata una scelta» e che «è stato contestato anche nel nostro Paese». È molto meglio oggi la vita senza Saddam Hussein, ha sottolineato Obama, ma ha anche ribadito la necessità di un Iraq libero che vada avanti con le proprie gambe e per questo gli Usa ritireranno tutte le truppe entro il 2012, senza lasciare nel Paese alcuna base militare.
«LA QUESTIONE PALESTINESE» - Obama ha poi parlato della necessità di superare la violenza del conflitto mediorientale. Israele, ha detto il capo della Casa Bianca, deve accettare l'esistenza di uno stato palestinese e viceversa Hamas deve riconoscere l'esistenza di Israele. «Ci sono già state troppe lacrime» ha detto Obama. Il presidente Usa ha poi contestato apertamente, in un passaggio sottolineato dagli applausi, la necessità che Gerusalemme interrompa la politica degli insediamenti. E ha ricordato le difficoltà della vita nei campi profughi e nelle zone occupate dall'esercito israeliano. Ma ha esortato i palestinesi ad interrompere da subito la violenza: «Lanciare razzi che uccidono bambini che dormono o donne che salgono su un autobus non è segno di potere». Insomma, la soluzione che prevede due Stati per due popoli e «l'unica soluzione». Tutti noi, ha ribadito Obama, dobbiamo lavorare per il giorno in cui Gerusalemme «sarà il luogo dove tutti i figli di Abramo potranno mescolarsi in pace».
«Sì AL NUCLEARE PACIFICO» - Obama ha anche detto che nessuna nazione dovrebbe interferire sulle scelte energetiche degli altri. «L'Iran - ha precisato - dovrebbe avere accesso al nucleare pacifico, ma deve aderire al Trattato di non-proliferazione». Il confronto sul controverso programma nucleare iraniano è in ogni caso «a una svolta decisiva». Washington, ha spiegato Obama, è pronta ad «andar avanti senza condizioni preliminari». Un approccio che aiuterà a prevenire una corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente. Ma la Casa Bianca, ha chiarito il presidente, procederà al contempo con coraggio, rettitudine e risolutezza nei confronti della repubblica islamica. Obama ha riconosciuto il ruolo degli Stati Uniti lo scorso secolo nella destituzione del governo iraniano democraticamente eletto e che sarà difficile superare decenni di sfiducia.
RELIGIONE E DIRITTI DELLE DONNE - Tra gli altri punti toccati dal capo della Casa Bianca, vi sono la necessità di lavorare per una sempre maggiore estensione dei diritti civili e per la parità tra uomo e donna, per la libertà religiosa in ogni parte del mondo e per fare sì che lo sviluppo economico e la globalizzazione creino opportunità ovunque, e non siano al contrario causa di problemi.
LA VISITA LAMPO - La capitale egiziana è stata blindata per l'arrivo di Obama, che si è trattenuto per poco più di nove ore, fino al primo pomeriggio. Prima dell'intervento all'università, il presidente americano ha avuto modo di incontrare per un faccia a faccia a porte chiuse il presidente egiziano Hosni Mubarak e per una visita alla moschea del sultano Hassan, all’università e alle piramidi. Alle 18.40, con circa 40 minuti di ritardo sulla tabella di marcia, il presidente ha lasciato il Cairo per la Germania. Ai piedi della scaletta dell'Air Force One, Obama è stato salutato dal ministro degli esteri egiziano Ahmed Abul Gheit, che lo aveva accolto all'arrivo, e dall'ambasciatrice americana al Cairo Margaret Scobey. Hillary Clinton è ripartita dal Cairo poco prima di Obama. In serata il presidente è arrivato in Germania dove venerdì incontrerà il cancelliere tedesco Angela Merkel e visiterà il campo di concentramento di Buchenwald. L'Air Force One è atterrato a Dresda, città che fu quasi interamente distrutta dai bombardamenti degli alleati nel 1945. Prima di volare in Francia per le commemorazioni del 65.mo anniversario dello Sbarco in Normandia, il presidente americano farà una breve tappa all'ospedale militare di Landstuhl.
Il discorso di Obama in Egitto18 giugno 2009
https://www.ossin.org/uno-sguardo-al-mo ... -in-egitto Analisi, giugno 2009 - Con il discorso de Il Cairo, il presidente Obama ha mostrato di avere capito che l'islamofobia è controproducente e genera solo insicurezza. Un'analisi di Mustapha Cherif, presidente del Forum des intellectuels algériens
La fine della guerra oriente-occidente?
Né islamofobia, né islamofilia
L’Expression, 18 giugno 2009
Mustapha Cherif (presidente del Forum des intellectuels algériens)
L’attuale presidente nordamericano e la sua squadra hanno capito che l’islamofobia è controproducente e contribuisce solo a creare insicurezza su scala planetaria
Ciò che i mussulmani del mondo intero chiedono a chi ha il potere è di essere giusto, né islamofobo, né islamofilo. Sul piano internazionale, e comunque su quello regionale, il discorso del presidente nordamericano Barack Hussein Obama restituisce speranza, malgrado i suoi limiti ed i suoi non detto. Il cambiamento della politica estera degli Stati Uniti – dicono – non si spiega solo con la storia e le idee del presidente nordamericano. Si tratta certamente di una politica frutto di un compromesso tra le élite nordamericane, repubblicane e democratiche, e ben prima dell’elezione di Barack Obama una parte di questa élite – si dice ancora – s’era mostrata critica verso la conduzione dell’occupazione dell’Iraq e dell’Afghanistan e la gestione del dossier sul nucleare iraniano. Senza dubbio è così, ma è vero anche che la questione dell’islam è al centro delle strategie e del dibattito, almeno dal 1989. Barack Obama l’ha affrontata con differenti sfumature. Si è esagerato nell’affermare che queste parole sono in sostanza identiche a quelle di Bush, l’infame, anche se a proposito della questione palestinese, Obama non usa né le parole che servono, né presenta una proposta decisiva. Cosa deludente e preoccupante. E’ su questo che sarà giudicato, non sui sorrisi e l’amabilità.
E tuttavia, almeno tre insegnamenti devono ricavarsi da questo discorso di rottura.
Per prima cosa, il discorso fatto in Egitto dimostra che il presidente nordamericano e la sua squadra hanno capito che l’slamofobia è controproducente e contribuisce alla mondializzazione dell’insicurezza. Le cause dell’insicurezza sono le ingiustizie, l’ignoranza e la strumentalizzazione delle religioni. La violenza cieca è ingiustificabile, ma bisogna comprenderne le cause e combatterne le espressioni a monte e a valle. L’islamofobia fa il gioco degli estremisti di ogni sponda.
Si conoscono le cause della deformazione dell’immagine dei mussulmani, sono interne ed esterne. Alcuni vorrebbero far credere che sono solo interne. Le ingiustizie, le colonie in Palestina, le discriminazioni che patiscono i mussulmani in occidente, soprattutto in Europa, e l’attivismo dei movimenti di estrema destra sono ben conosciuti, ma poco si fa per porvi rimedio. Il discorso di Barack Obama fornisce materia di riflessione e mette a nudo le contraddizioni di quelli che nascondono la realtà dell’islamofibia e cercano di far credere che non ci sono problemi e pensano di aver risolto il problema vietando ad esempio l’uso del velo.
In Francia, il velo non è vietato solo allo sportello degli uffici pubblici, ma anche a scuola, secondo la legge del 15 marzo 2004, detta del “velo islamico” (legge 2004-2228). Sicuramente vi sono tanti movimenti politico-religiosi retrogradi e reazionari che rivendicano l’uso del velo ed usano questa questione per finalità meschine, ed è anche vero che la modernità deve essere un obiettivo prioritario, ma il modo in cui tante correnti islamofobe hanno regolato i loro conti, inventato un nuovo nemico e strumentalizzato questa faccenda nuoce all’idea della modernità e indebolisce la lotta contro l’integrismo.
L’islamofobia alimenta l’estremismo
Resta che occorre comprendere che non sono solo gli islamofobi, ma anche molte oneste persone erano per il divieto del velo, per tre ragioni. Per difendere la “pace civile” all’interno delle scuole: ritenevano fosse pericoloso consentire una concorrenza senza limiti dei segni religiosi. Inoltre alcuni istituti temevano che potessero esservi delle pressioni sui più giovani. E infine il velo era usato come strumento di propaganda da parte di gruppi integristi, e ciò è contrario ai principi di libertà.
Al Cairo il presidente degli Stati Uniti ha detto: “E’ importante che i paesi occidentali non impediscano ai mussulmani di praticare la loro religione come desiderano, per esempio imponendo gli abiti che una donna deve portare (…) Non si può nascondere l’ostilità verso una religione dietro la falsa immagine del liberalismo”. Io respingo – ha aggiunto – il punto di vista di qualcuno in occidente” che considera “come una disparità il fatto che una donna scelga di coprire i suoi capelli”. Questo approccio dimostra che l’occidente non è monolitico e che il dibattito resta aperto. Più ancora, contrariamente a quanto afferma con superficialità Malek Chebel (antropologo delle religioni e filosofo algerino, ndt), le dichiarazioni di Obama non favoriscono il radicalismo. Perché finché l’occidente è intollerante e fa di tutt’erba un fascio, gli estremisti ne approfittano. Posizioni come quelle di Obama, invece, consentono alla stragrande maggioranza dei mussulmani di non seguire gli estremisti. L’islamofobia, che confonde appositamente islamismo e islam, alimenta l’estremismo, mentre il rispetto del diritto alla diversità lo ostacola.
In secondo luogo, questo discorso pone al centro dell’attenzione la grande questione della democrazia e dell’uguaglianza. Che è quanto il militanti del diritto rivendicano da decenni. Obama non elude la questione della democrazia nei paesi mussulmani e quella dello statuto delle donne. Il suo discorso difende per le donne la libertà e la esalta nel quadro della libertà religiosa, e condanna altresì le limitazioni della libertà nei paesi mussulmani. In verità la donna è oggetto, in occidente, di un selvaggio liberalismo e in oriente di incultura, ed è questo che occorre cambiare dal momento che il vero islam onora la donna e non dà adito a confusione. Bisogna accettare la critica per ciò che concerne la democrazia interna, perché si possa criticare il sistema dominante. Ragionevolmente Obama ha precisato: “Alcuni mussulmani hanno l’inquietante tendenza a misurare la propria fede sul ripudio di quella altrui” e chiede che sia rispettata la libertà religiosa. Il diritto alla diversità e la laicizzazione della società. L’islam non vi si oppone, è quanto occorre far comprendere a tutti.
L’egemonia è votata al fallimento
In terzo luogo, sul piano politico Obama fa un riconoscimento ancora maggiore: l’impossibilità di imporre con la forza un modello egemonico. Soprattutto che il sistema dominante si trova in un vicolo cieco. E’ un cambiamento radicale. Obama si impegna nella logica del negoziato, della diplomazia e non in quella dei cannoni e degli errori del passato: “Non bisogna restare prigionieri del passato”, ha insistito. La scelta di Obama fondata sul “cambiamento”, che ha sedotto il popolo nordamericano, è messa alla prova dalla situazione internazionale, essendo chiaro che gli Stati Uniti non rinunceranno alla loro leadership. Tuttavia v’è un’apertura che non bisogna trascurare. Dobbiamo tutti contribuire a favorire il cambiamento verso una democratizzazione delle relazioni internazionali e del mondo mussulmano e trasformare la logica del conflitto in quella del dialogo.
L’esperienza francese
Il discorso di Obama ha fatto scalpore in Francia, soprattutto per quel che ha detto a proposito del diritto a praticare liberamente la religione mussulmana e della questione del velo. Malgrado l’attuale presidente francese sia favorevole alle idee di laicità positiva e aperta, il panorama mediatico di questo paese dei diritti dell’uomo, salvo l’eccezione di giornali come La Croix e il settimanale Le Nouvel Observateur, resta segnato dal dogmatismo di un laicismo intollerante ed islamofobo. I media danno più spesso la parola ai piromani ed a quelli che si flagellano e rinnegano le proprie origini. Questi “mussulmani di servizio”, dispensatori di lezioni, sono patetici con questi atteggiamenti bassamente commerciali sul palcoscenico di radio, televisioni e giornali, per fare piacere ai loro ospiti. Facendo a gara a chi rinnega di più i valori dei popoli mussulmani, accusandoli e demonizzandoli a oltranza, contribuendo a creare confusione.
Fortunatamente il panorama culturale e politico francese non è particolarmente islamofobo, anche se ci sono correnti che lo sono. In Francia la destra non è tanto contraria al velo nella scuola, quanto all’ingresso della Turchia in Europa; per la sinistra vale il contrario. Qualcuno si domanda chi è il più islamofobo tra i due. Lo sono probabilmente di più quelli che rifiutano di lasciare posto agli altri nella loro comunità. La prova, nonostante la propaganda dello scontro di culture, malgrado la riduzione degli studi di islamologia e orientalismo nel senso nobile del termine, malgrado la priorità data agli studi di tipo “poliziesco” da ricercatori che detestano l’oggetto dei loro studi, fabbricano e gonfiano nozioni fuorvianti come il “jahidismo”, malgrado numerose difficoltà, malgrado, la persistenza, da un lato, dei pregiudizi e, dall’altro, di comportamenti oscurantisti e (talvolta) disonorevoli degli pseudo mussulmani, i mussulmani in Francia sono sempre più considerati come dei cittadini a pieno titolo. Un recente esempio positivo è l’istituzione di un centro di monitoraggio nel Tribunale di Lyon sugli atti antimussulmani. Le comunità mussulmane si sviluppano, si costruiscono moschee, la chiesa cattolica si apre sempre più al dialogo, senza contare gli aiuti fiscali alle associazioni religiose. Per contro il Francesi vogliono che lo Stato non assicuri alcuna preferenza in tema di religione, perché la libertà di culto sia effettiva. Proprio per questo si è favorita la creazione del Cfcm (Il Consiglio francese del culto mussulmano, ndt), anche se la sua nascita è stata dettata anche da legittime preoccupazione di sicurezza e coesione sociale. Tuttavia si è trattato di una conquista, anche se si pongono dei problemi di fondo. Vi sono però delle sfaldature ed una certa incompetenza che mina i rapporti dei mussulmani tra loro e con la società. Bisogna invocare l’unità, unire le forze e dialogare. Perché l’islamofobia non è sparita.
Ne è un esempio il caso del ricercatore Vincent Geisser, sociologo e politologo francese, che lavora all’Institut de recherches et d’études sur le monde arabe et musulman (Iremam) di Aix en Provence, alle dipendenze del CNRS. Geisser è stato convocato dalla “Commission administrative paritaire” del CNRS per “grave violazione” dell’”obbligo di riservatezza cui è tenuto un funzionario”. Nella lettera di convocazione gli si rimproverano delle “espressioni usate nei confronti di un funzionario della sicurezza del CNRS”.
Giunto al CNRS nel 2003, Geisser, nel settembre 2004, ha avviato un’inchiesta sul ruolo dei ricercatori maghrebini o di origine maghrebina nelle istituzioni pubbliche francesi (Institut National de la Santé et de la recherche médicale – Inserm –, università, Cnrs…)
“La mia equipe – spiega - doveva fare una valutazione scientifica rigorosa sul contributo dei ricercatori e degli universitari maghrebini alla diffusione della ricerca francese nel mondo”. Il responsabile della sicurezza ha contattato il direttore del suo laboratorio di ricerca per avvertirlo di classificare le ricerche di Geisser come “soggetto sensibile”. Il responsabile del Centro si è doluto di ciò, pensando che gli si rimproverasse di volere infiltrare il Centro con una “lobby mussulmana”. I sospetti sono evidentemente ridicoli, ha dichiarato Geisser. E tuttavia il 4 aprile scorso quest’ultimo ha inviato una mail privata al comitato di sostegno di una studentessa dottoranda, che il Cnsr aveva allontanato per essersi rifiutata di abbandonare il velo. Nel messaggio, il ricercatore ha paragonato “l’azione securitaria del Centro ai metodi usati contro gli Ebrei” durante la seconda guerra mondiale. E’ stata proprio la pubblicazione di questa lettera su un blog, senza il suo consenso, che ha provocato la convocazione di Geisser davanti alla commissione disciplinare del Cnrs.
Vincent Geisser è stato già nel passato vivamente e ingiustamente criticato dalle correnti islamofobe dopo la pubblicazione del suo libro: La Nouvelle Islamophobie.
In questa vicenda egli aveva ricevuto il sostegno, con una petizione, di diversi universitari e ricercatori francesi, tra cui Pascal Boniface, direttore dell’Institut de relations internationales et stratégiques (Iris), Edgar Morin e Etienne Balibar, filosofi, Oliveir Roy, politologo e specialista dell’Islam.
L’influenza degli intellettuali è certamente piuttosto in declino nelle società della dittatura del Mercato, ma l’attacco contro questo ricercatore è ingiusto e dimostra che l’islamofobia resta una triste realtà, anche se non si tratta di un fenomeno generale. Alcuni intellettuali obiettivi alimentano, con la circolazione del loro pensiero e delle loro parole, la nascita di movimenti civici per difendere la libertà e la fraternità, e questa è la cosa più importante. “Se per pensare e scrivere la libertà è importante, va da sé che l’obbligo di riservatezza che vige per certe categorie di funzionari non può applicarsi anche ai ricercatori, salvo che da essi ci si attenda soltanto la riproduzione di una dottrina ufficiale e sterile”. Questo è quello che pensa anche Esther Benbasa, intellettuale francese, ebrea, che difende le cause giuste. Oggi la convocazione davanti ad una commissione di disciplina del nostro collega Vincent Geisser, accusato di “islamofilia” costituisce un segno allarmante di islamofobia. “L’indegno trattamento che gli viene riservato è vergognoso”, notano degli intellettuali francesi ed il ministro Valérie Pécresse ha preso posizione in favore della libertà dei ricercatori.
Vicenda da seguire. Nell’ attesa, non bisogna far disperare i giusti di tutti i popoli.