Sterminio degli armeni anatolici perché cristiani

Re: Sterminio de łi creistiani armeni anatołeghi

Messaggioda Berto » mar apr 14, 2015 6:40 pm

Silvana De Mari - I turchi, come i nazisti, si considerano superiori in quanto ariani (I turki li xe turki e no ariani). Ma a differenza dei tedeschi, rifiutano di riconoscere e scusarsi per il genocidio dei cristiani armeni. Accettare la Turchia in Europa sarebbe una rivoltante forma di razzismo nei confronti degli armeni.

Li armeni li xe sta stermenà parké creistiani e no parké armeni e no ariani, anca parké i turki li xe turki e no ariani.


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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... enia-1.jpg

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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... rmeni-.jpg


https://www.facebook.com/MagdiCristiano ... 0059493584

Secondo Martin Luther King la stessa azione va giudicata alla stessa maniera indipendentemente da chi la compia.
Quindi, tutti i popoli sedicenti ariani che distruggano minoranze non ariane vanno giudicati alla stessa maniera.
Quali sono i popoli che si dichiarano ariani? Ce ne sono due: popolo turco e popolo tedesco. Ambedue questi popoli hanno sterminato una minoranza religiosa con la scusa che loro gli sterminatori erano ariani e gli sterminati erano spazzatura.

Eppure nessuno osa ricordare alla Turchia il suo genocidio.

Abituati dalla sottocultura post-sessantottina all’autoflagellazione, noi diamo alla parola razzista e alla parola colonialistica uno sfolgorante color bianco. Solo i bianchi possono essere razzisti e solo i bianchi possono essere colonialisti. Noi siamo e siamo stati cattivi: gli altri, tutti degli stinchi di santo.
Nella delirante idiozia autoflagellatoria cui ci hanno addestrati i nostri intellettuali, parola dalle implicazioni etimologiche oscure perché è inverosimile derivi dalla parola intelletto, noi non viviamo la Turchia come uno stato coloniale, come non viviamo la Siria come uno stato coloniale, o la Libia o il Pakistan come stati coloniali, eppure sono tutti stati coloniali aggrediti da un potere coloniale centomila volte più atroce dell’Impero britannico, centomila volte più feroce dell’impero romano. Un potere coloniale che distrugge le religioni precedenti e tutte le loro vestigia, un potere che distrugge o schiavizza i popoli precedenti.
Quando Costantinopoli fu conquistata da Maometto II nel 1453, la popolazione di Costantinopoli era al 100% cristiana. Tutta l’Anatolia era cristiana. La Cappadocia è stata scavata dai cristiani che cercavano rifugio dalle persecuzioni romane. La popolazione cristiana dell’Anatolia all’inizio del secolo scorso era del 30% , ora è lo 0,6 %. Gli ultimi erano gli armeni e sono stati macellati in un genocidio che nessuno osa nemmeno ricordare e che lo Stato turco rinnega.
Il primo genocidio su suolo europeo è stata la distruzione degli armeni. Il movimento che ha massacrato gli armeni era laico. Tutte le volte che ci dicono che la Turchia è laica, si sta parlando di una laicità genocidaria. I turchi decisero di essere ariani e hanno distrutto gli armeni fingendo che la religione non c’entrasse un fico, che non c’entrasse un fico l’invidia livida per il livello economico e culturale della minoranza cristiani. Si sono inventati che loro, i turchi erano ariani e gli armeni no, per cui tutti morti, e questo è molto laico.
In realtà se esaminiamo le linee del genocidio sono squisitamente islamiche, cioè sono le stesse linee usate da Maometto per sterminare gli ebrei dell’Arabia. I maschi, tutti, quelli di novanta anni, di un mese, quelli nati da un’ora sono stati tutti uccisi, mentre le femmine sono state sterminate di fame durante marce della morte o bruciate vive con il cherosene.
"Il villaggio era pieno di cadaveri.
In un cortile c’era un gruppo di donne (armene) ancora vive. I soldati (turchi) si divertivano a frustarle. Poi uno ebbe l’idea di prendere un tamburo e farle danzare.
« Danzate, donne, danzate quando sentite il tamburo». Urlavano i soldati mentre le fruste schioccavano sulle schiene di quelle poverette, lacerandole.
«Scoprite il seno e danzate. Danzate finché siete vive».
Urlavano i soldati. Uno di loro è andato a prendere una tanica di cherosene e l’ha versato addosso alle ragazze.
«Danzate urlavano tutti, danzate fino a che siete vive e sentite questo aroma più dolce di ogni profumo.»
Poi hanno appiccato il fuoco.
I poveri corpi si sono contorti fino alla morte.
E io, ora, io che sto raccontando questo, come potrò mai, ditemi, levarmi quei poveri corpi dagli occhi?"
Racconto di una testimone tedesca, Isola di Hectamar, Turchia, 1915
Non potevano ammazzarli tutti in una botta sola? Sarebbe stato anche più carino. Sicuramente più economico, visto che i soldati armati su cavalli che hanno trascinato queste donne affamate in marce della morte sono stati sottratti al fronte.
Il fatto è che solo i maschi sono considerati esseri umani. Le donne no. I tedeschi sono un po’ meno analfabeti in fatto di biologia e quindi ammazzano maschi e femmine. I turchi, anche quando fanno l'esperimento della laicità, restano comunque convinti che le femmine non siano nemmeno esseri umani, e quindi le donne sono state trascinate perché si convertissero. Se qualcuno se le fosse sposate o prese come serve e se loro si fossero convertite sarebbero diventate la seconda o terza moglie di qualcuno e si sarebbero salvate. Loro hanno preferito morire.
Accettare che la Turchia che ha sterminato gli armeni e non se ne è scusata perché era un suo diritto, entri in Europa è una spaventosa forma di razzismo contro gli armeni, certo, ma anche contro i turchi, perché che di un genocidio si possa chiedere pentimento ai tedeschi, ma non ai turchi è una forma di razzismo ancora più grave contro i turchi, considerati subumani non in grado di intendere e di volere.

Mi pare che i turchi siano turchi e non ariani (indoeuropei), i turki parlano una lingua che è una mescola con il turcico delle steppe asiatiche, il nome stesso è quello di genti non ariane (non indoeuropee), non capisco come possano dirsi ariani. In ogni caso mi pare che gli armeni siano stati sterminati più perché cristiani che perché non ariani come ben ci ricorda l'autrice dell'articolo (però la Turkia è una mescola etnica con anche popolazioni non turche, anatoliche, europee e semitiche come per esempio le minoranze curde e armene; oltre ai turchi ottomani vi sono state migrazioni con apporti etnici turcici dalle steppe asiatiche fin dal II millennio a.C.:

http://www.uniroma2.it/quaderni/AttSci/Manifest.html
Un prospetto dell'estate 1938 elencò tra i non ariani: i negri, gli arabo-berberi, i mongoli, gli indiani, gli armeni, i turchi, gli yemeniti e i palestinesi.
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Re: Sterminio de łi creistiani armeni anatołeghi

Messaggioda Berto » lun apr 20, 2015 10:31 am

Solo un crimine 15 aprile 2015 FilippoFacci

http://www.ilpost.it/filippofacci/2015/ ... dio-armeno

La mattina del primo gennaio 2006 ero a Istanbul con l’intenzione di partecipare alla messa dei cristiani armeni, interesse personale di un ateo. Di buonora mi incamminai lungo l’Istiklal Caddesi, corso centrale che appariva ordinato e tranquillo e cioè privo di quel genere di postumi da Capodanno che persino nel Beyoglu, il quartiere più occidentale di Istanbul, rimane una festività da occidentali che i musulmani snobbano. Già da un paio di sere avevo sbirciato nelle librerie alla distratta ricerca di un qualche volume di Orhan Pamuk, il più famoso scrittore turco, già insignito di vari premi internazionali e tuttavia accusato di «denigrazione dell’identità nazionale» per quello che aveva scritto e dichiarato sul genocidio dei cristiani armeni. Poi il processo era stato archiviato, ma il governo Erdogan non transigeva e, semmai, aveva consolidato un genere di negazionismo davvero poco europeo: tanto che presto sarebbe entrato in vigore il nuovo articolo 306 del codice penale che puniva con dieci anni di carcere chi avesse affermato che gli armeni hanno patito un genocidio.

Pensavo a queste cose anche perché, intanto, io la chiesa armena non riuscivo a trovarla. Le due mappe a mia disposizione spiegavano che stavo continuando a girarci attorno: ma la chiesa di Sant’Antonio non compariva mai, non s’intravedeva un passaggio, una vista. Nessuno mi dava informazioni, soprattutto: come se parlassi di qualcosa che non esisteva. Poi trovai la chiesa, ma bisogna spiegare come. L’unica maniera di accedervi, in pratica, comportava di entrare nella lunga galleria di vetro del mercato del pesce di Galatasaray e aggirare una bancarella: come se voi al supermercato aggiraste il bancone della gastronomia e v’infilaste nel retro. C’era un passaggio e poi un cortiletto, e finalmente la chiesa. Diciamo che la visita non era agevolata.

C’era una messa. La liturgia è molto suggestiva, del tutto diversa da quella cristiana cattolica, ma questo ora non interessa. Ad attrarre la mia attenzione furono gli sguardi di sospetto misto a compiacimento di quei venti o al massimo trenta fedeli presenti; la sensazione, cioè, non tanto di essere fuori del tempo, ma, a rigor di legge, fuori dalla Turchia, perlomeno la Turchia musulmana coi suoi 71 milioni di fedeli. Alla fine della messa qualche fedele si avvicinò e mi invitò a casa del sacerdote per festeggiare l’anno nuovo, che loro celebravano come il resto d’Europa. Salimmo al primo piano di un palazzetto e ci fecero sedere attorno a dei tavoli, saremo stati una decina. Ci diedero due pani a testa, uno dolce e uno salato, e da bere una lattina di Fanta. Buon anno. I dialoghi erano incespicanti come il mio inglese. Più tardi mi alzai e mi avvicinai a un muro tappezzato di fotografie: inquadravano la comunità armena di Istanbul – tipo formazione calcistica – e si capiva che le scattavano una volta all’anno sin dall’Ottocento. Guardai le foto scattate attorno al 1915, quando i turchi deportarono e affamarono e violentarono e decapitarono e impalarono un milione e mezzo di cristiani armeni. L’ho scritto altre volte: varie fonti spiegano che Adolf Hitler, nel prefigurare lo sterminio degli ebrei, si ispirò chiaramente a quello degli Armeni, tanto da fargli dire, in un celebre discorso del 22 agosto 1939, che nell’invadere la Polonia occorreva massacrare uomini e donne e bambini senza preoccuparsi di eventuali conseguenze future: «Chi mai si ricorda oggi», si chiese, «dei massacri degli Armeni?».

Ecco, siamo al punto. In quelle foto, da un anno all’altro, adulti e anziani d’un tratto sparivano e via via rimanevano solo giovani e bambini. Feci un paio di domande stentate. Cercai di strappare qualche parola a un ecclesiastico che si era avvicinato, ma si vedeva che non aveva nessuna voglia di parlarne, meglio: era palesemente reticente.
Ripensai a tante cose, anzi, le ripenso ora. A quando, per esempio, Giovanni Paolo II, poi Papa Ratzinger, parlò dei genocidio armeno e il principale quotidiano turco, il Milliyet, scrisse che «il Papa è stato colpito da demenza senile» mentre altri giornali vicini ai Lupi Grigi, organizzazione riconosciuta dal governo turco, lamentarono che Ali Agca non fosse riuscito nel suo intento. In un comunicato congiunto con Karekin II, leader della chiesa armena, Giovanni Paolo II aveva descritto con le stesse parole quello che gli armeni chiamano il «Medz Yeghern», il «Grande Crimine». E quando Ratzinger divenne Papa, poi, scrissero così: «È Papa il cardinale che ha polemizzato con Erdogan». L’allora cardinale Ratzinger, in un’intervista a Le Figaro, si era infatti detto contrario all’ingresso della Turchia in Europa, e il premier Erdogan aveva risposto così: «La Turchia parla solo coi paesi europei». Il clima era già quello. Quando poi Papa Ratzinger aveva chiesto di visitare Costantinopoli e di poter incontrare il patriarca ortodosso, nel 2005, Ankara rispose di no. Le autorità turche si tennero sul vago sino all’omicidio di don Andrea Santoro, il missionario romano ucciso in Turchia nel febbraio 2006: l’invito ufficiale arrivò immediatamente dopo l’assassinio ed ebbe tutto il sapore di un gesto riparatorio. Poi, prima del viaggio, sempre nel 2006, fu accoltellato anche padre Pierre Brunissen, un religioso francese di 74 anni che era sulle orme di don Santoro e aveva riaperto una piccola chiesa di una città a maggioranza islamica. Intanto monsignor Luigi Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia, denunciava all’agenzia Asianews un clima di aggressione verso i cristiani. Nel settembre 2006, per dire, in Turchia uscì un romanzo che descriveva l’assassinio di Papa Ratzinger a Istanbul: si intitolava «Papa’ya suikast» e protagonista del romanzo era il Mit, il servizio segreto turco, espressione della destra nazionalista e islamica.
Era la mia quarta volta in Turchia, e da allora non sono più tornato.

Dopodiché forse ha ragione Antonio Polito del Corriere, l’inflazione del grido «vergogna» rischia di anestetizzare un’espressione che andrebbe centellinata: ma a margine del comportamento governativo sul «caso Armenia» magari ecco, come dire: un po’ di vergogna è lecito provarla.

Ci siamo prostrati davanti alla Cina delle Olimpiadi e, per non offenderla, ci siamo rifiutati di ricevere il Dalai Lama; abbiamo flirtato con la Russia di Putin e minimizzato sulla guerra in Cecenia; abbiamo accolto Gheddafi e il suo circo, salvo, dopo il golpe, uscire penalizzati dalla spartizione del petrolio libico; siamo riusciti persino a rendere omaggio al dittatore bielorusso Lukashenko, isolato dal mondo ma non da noi. Per amore degli affari, insomma, ci siamo ampiamente sputtanati: ora il governo Renzi prosegue con la Turchia di Erdogan, che ammicca all’Iran e nega l’esistenza del genocidio armeno.
Ma non è che certe uscite frettolose del segretario generale dell’Onu, peraltro pronunciate e mezzo portavoce, facciano sentire molto meglio. Ieri Stephane Dujarric, portavoce di Ban Ki-moon, ha detto che il massacro degli armeni nel 1915 fu «un crimine atroce» ma non ha usato il termine «genocidio», come invece ha fatto Papa Francesco provocando l’ira della Turchia. Non è chiaro se l’aver compiuto soltanto «un crimine atroce» da un milione e mezzo di morti (uomini, donne, bambini) sia cosa radicalmente diversa da aver compiuto un genocidio, sta di fatto che le pressioni turche si sono fatte sentire.

Ma, quel che è peggio, le pressioni turche in Italia si cerca direttamente di prevenirle. Claudia Fusani, sull’Huffington Post, ha raccontato che circa un mese fa – quindi ben prima della polemica seguita alle parole del Papa – il governo Renzi ha preteso di eliminare la parola «genocidio» da una rassegna culturale dedicata al popolo armeno sterminato dai turchi un secolo fa. Il titolo della rassegna, fissato a fine dicembre, era «Armenia, a cento anni dal genocidio (1915-2015)» e tutto pareva pronto: nel depliant erano elencati il comitato scientifico, l’ambasciata d’Armenia e varie associazioni e luoghi d’incontro. Ma a metà marzo ancora non era arrivato il via libera del Ministero dei Beni culturali, senza il cui patrocinio l’utilizzo dei luoghi sarebbe stato impossibile. Poi la verità: il problema era la parola genocidio nel titolo del programma, che andava eliminata. La rassegna ha così assunto il titolo «Armenia: metamorfosi tra memoria e identità», una cosa così. Non solo. L’ambasciata armena ha chiesto cittadinanza nel calendario delle iniziative per i cento anni dalla Prima guerra mondiale (il genocidio avvenne nel biennio 1915-1916) «ma questa volta ci hanno proprio chiuso la porta in faccia», ha spiegato la professoressa Maria Immacolata Macioti, sociologa e docente alla Sapienza, in quanto «ci hanno spiegato che non era il caso di includere la questione armena tra le commemorazioni del 1915 perché la Turchia è nella Nato e non avrebbe gradito». Vergogna, dicevamo.

Ora il Parlamento europeo dovrebbe chiedere alla Turchia di «continuare i suoi sforzi per il riconoscimento del genocidio armeno», secondo quanto si legge nella bozza di risoluzione che i deputati europei discuteranno. Ma non è chiaro di che sforzi si parli. La banale verità è che Erdogan rimane a capo di una nazione in cui la recrudescenza anti-armena, nello scorso decennio, ha sfiorato livelli demenziali. L’altra banale verità è che nello scacchiere politico occidentale permangono sacche di un negazionismo-soft che tende a banalizzare un genocidio che manca dai libri di scuola turchi ma praticamente anche da quelli tedeschi: il quotidiano tedesco Die Welt diede notizia che il Brandeburgo aveva deciso di eliminare ogni riferimento ai massacri ottomani ed era rimasto l’ultimo stato tedesco a parlarne in un testo scolastico; secondo Die Welt, era la mera conseguenza di pressioni esercitate da Ankara, che sul tema manifesta un’autentica isteria. Il 14 aprile 2006 il ministero turco dell’Istruzione ordinò che tutti gli alunni scrivessero un tema sulle false affermazioni su un certo genocidio riguardanti gli armeni, e, non pago, indisse un concorso sul tema «La ribellione armena durante la prima guerra mondiale». Intanto il nuovo articolo 306 del codice penale puniva chiunque dichiarasse che il genocidio aveva semplicemente avuto luogo. Sempre nello stesso periodo furono cambiati tutti i nomi degli animali che facevano riferimento all’Armenia: la pecora Ovis Armeniana diventava Ovis Anatolicus, il cervo Capreolus Armenus diventava Capreolus Cuprelus. Ma queste, forse, sono solo paturnie da impallinati sui diritti umani. Gente che ancora, di nascosto, si vergogna: perlomeno di una nazione che definitivamente confuso la politica estera col commercio estero. I 71 milioni di turchi, prima che musulmani, del resto sono consumatori.

(Pubblicato su Libero)
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Re: Sterminio de łi creistiani armeni anatołeghi

Messaggioda Berto » lun apr 20, 2015 6:17 pm

So Radio Radical a go scoltà el dir de on jornałista tałian del Post http://it.wikipedia.(org/wiki/Il_Post)
ke el ghe dava raxon al Presidente turco Erdogan e torto al Papa Françesco pa ver ciamà jenoçidio el stermegno dei armeni de ła Turkia. Sto ensemenio de jornałista el dixe a ghè stà sì on masacro, na pułisia etnega ke anca i turki en parte łi amete ma ke no se gà tratà de on jenoçido, anca parké łi armeni ke łi vołea l'endependensa łi stava co i rusi e łi ghe dava contro ai turki e prasiò i turki łi jera anca en parte raxon a torseła co łi armeni.
Sto jornałàro el fa na coestion de "termini" pì ke de sostansa, come se copar e stermegnar 1/1,5 miłioni de omani ente ła so tera (parké coeła ła jera tera armena ke łi turki łi gheva envaxo e sotomesa) so 3 o 4 miłioni no fuse on xenoçidio.
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Re: Sterminio de łi creistiani armeni anatołeghi

Messaggioda Berto » mer apr 22, 2015 10:12 pm

Ankara ricorda gli armeni ma nega ancora il genocidio

22 Apr 2015

http://www.lindipendenzanuova.com/ankar ... -genocidio

Il prossimo 24 aprile la Turchia ricorderà l’eccidio degli armeni con una cerimonia religiosa che si terrà nel patriarcato armeno di Istanbul. Lo ha annunciato il primo ministro turco Ahmet Davutoglu. Sempre il premier ieri ha espresso il proprio cordoglio e quello della sua nazione per gli armeni uccisi nel 1915. Nel suo messaggio Davutoglu ha sottolineato la necessità di proteggere e conservare la cultura armena e ha aggiunto “proprio per questo ricorderemo il 24 aprile con una funzione religiosa”. Il premier ha ammesso che una cerimonia congiunta Turchia-Armena sarebbe la soluzione migliore, ma impossibile finché non sarà condotta una seria indagine storica per far luce su quei fatti che gli armeni definiscono genocidio. Ankara nega che si sia trattato di un genocidio, nonostante le prese di posizione degli altri paesi, ultime in ordine di tempo quella di Papa Francesco e della Ue.

“Nel frattempo – si legge nella nota di Davutoglu – crediamo sia onesto commemorare coloro che hanno perso la vita, alleggerendo i nostri dolori, anche se non si può addossare ogni responsabilità al popolo turco”. Il presidente ha poi concluso il suo messaggio ricordando che “la Turchia sta facendo tutto il possibile per trovare ogni documento in grado di far luce su quei fatti e ristabilire la verità storica”.


Comento:

Rodolfo Piva 22 April 2015
Il ministro turco Davutoglu si dimostra ancora una volta campione dell’ipocrisia islamica. Ma di quali sforzi parla ? La documentazione scritta e fotografica esistente sul genocidio armeno è abbondante ed inequivocabile e quindi non resta alla Turchia che assumersi le sue responsabilità.
L’unico sforzo che può fare il presidente Erdogan è quello di smettere di attaccare il Papa per la dichiarazione pubblica che ha fatto a proposito del genocidio. Erdogan ha detto che le parole del Papa gli entrano da un orecchio e gli escono dall’altro: segno evidente del vuoto che esiste nel suo cranio.
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Re: Sterminio de łi creistiani armeni anatołeghi

Messaggioda Berto » ven apr 24, 2015 10:13 am

Cos’è il genocidio degli armeni del 1915 Apr 2015

http://www.internazionale.it/notizie/20 ... -riassunto

I massacri della popolazione cristiana (armeni, siro cattolici, siro ortodossi, assiri, caldei e greci) avvenuti in Turchia tra il 1915 e il 1916 sono ricordati dagli armeni come il Medz yeghern, “il grande crimine”. Le uccisioni cominciarono nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915, quando furono eseguiti i primi arresti tra l’élite armena di Costantinopoli. L’operazione continuò nei giorni successivi. In un mese più di mille intellettuali armeni, tra cui giornalisti, scrittori, poeti e parlamentari furono deportati verso l’interno dell’Anatolia.

Lo sterminio e la deportazione di massa della popolazione cristiana dell’Armenia occidentale erano stati decisi dall’impero Ottomano a causa delle sconfitte subite all’inizio della prima guerra mondiale per opera dell’esercito russo, in cui militavano anche battaglioni di volontari armeni. Dall’inizio del 1915 gli armeni maschi in età da servizio militare erano stati concentrati in “battaglioni di lavoro” dell’esercito turco e poi uccisi, mentre il resto della popolazione era stato deportato verso la regione di Deir ez Zor in Siria con delle marce della morte, che coinvolsero più di un milione di persone: centinaia di migliaia morirono per fame, malattia, sfinimento o furono massacrati lungo la strada.

Una mappa del genocidio disegnata nel 1965. - Centro studi armeni Una mappa del genocidio disegnata nel 1965. Centro studi armeni

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... armeni.jpg

Secondo lo storico polacco Raphael Lemkin (che ha coniato il termine genocidio) si è trattato del primo episodio in cui uno stato ha pianificato ed eseguito sistematicamente lo sterminio di un popolo. La Turchia però non ha mai accettato la definizione di genocidio, sostenendo che le uccisioni compiute dall’impero Ottomano erano una risposta all’insurrezione degli armeni e alla necessità di difendere le sue frontiere, e sottolineando che anche migliaia di turchi erano morti nel conflitto.

Il numero degli armeni morti in questo secondo massacro (altre stragi erano state commesse nel 1890) è controverso. Fonti turche fermano il numero dei morti a duecentomila, mentre quelle armene arrivano a 2,5 milioni. Gli storici stimano che la cifra vari tra i 500mila e due milioni di morti, ma il bilancio di 1,2 milioni è il più diffuso.

I paesi che riconoscono ufficialmente il genocidio armeno sono 22, tra cui l’Italia, mentre in altri è riconosciuto solo da singoli enti o amministrazioni. Molti altri paesi, tra cui gli Stati Uniti e Israele, continuano a non usare il termine genocidio per timore di una crisi nei rapporti con la Turchia. Barack Obama si era espresso in favore del riconoscimento prima di diventare presidente degli Stati Uniti, ma da quando è stato eletto, pur promuovendo la pacificazione tra Turchia e Armenia, ha evitato di usare il termine.
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Re: Sterminio de łi creistiani armeni anatołeghi

Messaggioda Berto » sab nov 28, 2015 4:06 pm

ARMENIA, 24 APRILE: ANNIVERSARIO DI UN GENOCIDIO DIMENTICATO
http://www.veja.it/2014/04/24/armenia-2 ... imenticato
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Re: Sterminio de łi creistiani armeni anatołeghi

Messaggioda Berto » sab apr 16, 2016 1:14 pm

I massacri hamidiani sono una serie di eccidi subiti dal popolo armeno durante il lungo regno del sultano dell'Impero Ottomano Abdul Hamid II (1876-1909).

https://it.wikipedia.org/wiki/Massacri_hamidiani

In quel tempo alcune zone dell'Impero Ottomano, abitate da popolazione di origine armena, soprattutto nell'Anatolia, si erano sollevate contro l'Impero ormai in declino. La repressione ottomana per schiacciare la dissidenza fu brutale. Nonostante simili eccidi fossero già avvenuti nel corso della storia contro il popolo armeno sotto l'Impero Ottomano, questa volta, grazie all'invenzione del telegrafo nel 1890, la notizia dei massacri si diffuse velocemente in tutto il mondo, causando la condanna dell'accaduto da parte di gran parte delle nazioni civilizzate.
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Re: Sterminio de łi creistiani armeni anatołeghi

Messaggioda Berto » sab apr 23, 2016 5:29 am

Genocidio armeno, la RAI ci ripensa.
La RAI ha reinserito nel palinsesto il documentario sul Genocidio degli Armeni inizialmente previsto per sabato 16 aprile, alle 22.30, sul Canale Rai Storia e inspiegabilmente “scomparso”. Il documentario verrà trasmesso, sempre su Rai Storia, alle 23.00 di domenica 24 aprile.
Marco Tosatti

http://www.lastampa.it/2016/04/22/blogs ... agina.html

Il 24 aprile è il giorno in cui gli armeni di tutto il mondo ricordano l’inizio del Genocidio, il primo del secolo XX, che in lingua armena viene chiamato “Metz Yeghèrn”, il Grande Male. Dopo la cancellazione del documentario sabato scorso, la Rai aveva ricevuto molte proteste e richieste di chiarimenti. Il Consiglio della Comunità armena di Roma aveva interessato anche la Commissione di Vigilanza sulla Rai.

Il Genocidio, commesso a partire dal 1915 dal governo turco dell’epoca in tutto l’impero ottomano, e che ha causato secondo molte fonti almeno un milione e mezzo di vittime, fra uomini, donne e bambini, è un tema delicato per la Turchia. Il governo di Ankara mette in atto una politica negazionista molto attiva nei confronti di governi e di privati cittadini. Giornalisti e studiosi che difendono l’esistenza del Genocidio, contro la tesi ufficiale, corrono rischi gravi. L’ipotesi era che la Turchia avesse fatto pressione sulla Rai per la non messa in onda del documentario. Un’ipotesi non accertata, ma più che plausibile.

Il documentario, “Il genocidio armeno” realizzato da Andrew Goldberg per la Pbs, è la storia completa del genocidio armeno e presenta interviste con studiosi di fama, tra cui molti di origine turca, come Peter Balakian, Samantha Power, Ron Suny, Taner Akcam, Halil Berktay e Israele Charny. È raccontato da Julianna Margulies e comprende narrazioni storiche di Ed Harris, Natalie Portman, Laura Linney e Orlando Bloom.
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Re: Sterminio de łi creistiani armeni anatołeghi

Messaggioda Berto » dom apr 24, 2016 8:17 pm

La montagna degli armeni: il genocidio compie cent’anni
Alessandro Marzo Magno
24 aprile 2015

http://www.glistatigenerali.com/storia- ... -24-aprile

Il 24 aprile 1915 la Turchia diede il via al genocidio di questo popolo. Durante l’estate in cinquemila resistettero su un monte, il Mussa Dagh, prima di essere salvati. Reportage pubblicato dieci anni fa su Diario, in occasione del novantesimo anniversario.

«Perseguitati dai turchi, circa cinquemila armeni, tra cui tremila donne, fanciulli, vecchi, si erano rifugiati verso la fine di luglio nel massiccio del Mussa Dagh, a nord della baia di Antiochia, dove erano riusciti fino ai primi di settembre a tener testa agli aggressori; ma da allora gli approvvigionamenti e le munizioni cominciarono a venir meno, ed essi erano sul punto di soccombere inevitabilmente, quando riuscirono a segnalare a un incrociatore francese la loro grave situazione. Gli incrociatori della squadra francese, che facevano il blocco delle coste della Siria, recarono subito soccorso e poterono assicurare lo sgombero dei cinquemila armeni che vennero trasportati a Port Said, dove ricevettero la migliore accoglienza e furono installati in un accampamento provvisorio».

Leggi I quaranta giorni del Mussa Dagh e pensi: vorrei andarci lì, vorrei vedere i luoghi dove cinquemila armeni hanno resistito per oltre un mese agli attacchi dell’esercito turco. Poi prendi un atlante, lo apri, guardi e cerchi. Mussa Dagh? Non c’è? E nella versione turca, Mussa Ler? Niente. Della montagna di Mosè, questo il significato del nome, non c’è traccia. Dov’è: in Siria? In Turchia? La maniera migliore per distruggere è cancellare. Anche i nomi, anche la memoria. Il Mussa Dagh non esiste, oggi: sparito dalle carte geografiche.
Bisogna cercare in internet, consultare qualche amico armeno, e alla fine la questione si risolve: il Mussa Dagh si trova in Turchia, in una regione, la Cilicia, che un tempo apparteneva alla Siria e non lontano da una città piuttosto nota, Antiochia (l’attuale Antakya), dove san Pietro fu vescovo prima di andare a Roma (in ogni caso ti mostrano una chiesa rupestre dicendo che è quella di san Pietro) e dove nacque l’evangelista Luca. È solo un caso, ma viene da pensare a uno scherzo del destino: da questi luoghi dove nacque il cristianesimo 1915 anni più tardi gli ultimi cristiani armeni in fuga furono costretti a imbarcarsi sulle navi francesi per sfuggire al genocidio che stava decimando i loro correligionari.

La Turchia non ha soltanto cancellato la presenza armena, uccidendone un milione e mezzo sui due milioni che erano, e costringendo i superstiti alla diaspora, ma sta continuando a cancellare la memoria del genocidio. I diplomatici turchi sono pronti a scatenarsi se qualcuno «osa» citare il genocidio armeno, ufficialmente inesistente: di recente hanno tentato di far chiudere una mostra a Londra e sono riusciti a far modificare i libri di storia del Land tedesco del Brandeburgo che citavano il suddetto genocidio (poi reinserito in seguito a una furiosa campagna stampa).
Nel 1915 la Turchia ottomana, decrepita, ma religiosamente tollerante (quanti cristiani nel corso dei secoli precedenti si erano «fatti turchi» per sottrarsi al violento conformismo religioso imposto dalla Chiesa di Roma) sta ormai definitivamente lasciando il posto alla Turchia laica, ma ultranazionalista e intollerante, di Kemal Atatürk e dei suoi «giovani turchi». Il 24 aprile 1915 (giusto 90 anni fa, quindi) è il giorno più infausto per gli armeni. Gli esponenti di maggior rilievo della comunità di Costantinopoli, l’odierna Istanbul, vennero ammazzati e poi a valanga toccò a tutti gli altri. Nell’estate di quell’anno centinaia di migliaia di armeni, quelli che erano sopravvissuti ai massacri e agli stupri di massa, furono concentrati ad Aleppo (dove pure esisteva, e qui per fortuna resiste ancora, una comunità armena. Gli allora proprietari del mitico Baron’s Hotel – ci andavano Lawrence d’Arabia e Agatha Christie – Onige e Armen Mazloumian si dettero da fare e riuscirono a salvarne un po’. «Qualche centinaio, niente in confronto al milione e mezzo di morti», dice il nipote Armen Mazloumian, attuale gestore del Baron’s, «ma sempre qualcosa»).

Da Aleppo partirono e furono fatti marciare per giorni e giorni nel deserto, senza cibo né acqua. I pochi che ce la fecero e non morirono lungo la strada furono abbandonati nel nulla, vicino all’odierna città siriana di Dayr az Zawr, a 320 chilometri di distanza. Avevano loro raccontato che si sarebbero potuti reinsediare in quei luoghi. In realtà attorno c’era solo deserto. Ancora oggi in quelle che vengono chiamate «grotte degli armeni» si trovano ossa, oggetti, pezzi di stoffa. Ogni tanto arriva qualcuno a pregare. Normalmente da molto lontano: Francia, Stati Uniti, Canada.

La negazione continua. Il lavorio negazionista della Turchia, in ogni caso, qualche effetto lo provoca: se questo articolo parlasse di Olocausto non ci sarebbe stato bisogno di specificare luoghi e date: tutti sanno cos’è Auschwitz. Ma quasi nessuno sa delle grotte nel deserto. La lobby armena negli Stati Uniti (che c’è ed è attiva) non è tra le più potenti e non ha Hollywood dalla sua (un’eccezione è il recente Sideways dove si vede un matrimonio armeno, ma pensate un po’ a quanti film sono stati fatti sul Tibet), gli ebrei e gli armeni solidarizzano moltissimo a livello personale, ma pochissimo sul piano ufficiale. Israele ha nella Turchia l’unico Stato islamico alleato e se lo vuole tenere stretto. Con ciò si spiega perché una volta Simon Peres, da ministro degli Esteri israeliano, abbia detto che quello armeno non è un genocidio, ma «una tragedia».
Vakifli è l’unico villaggio armeno rimasto in tutta la Turchia (si noti bene questo fatto: l’unico centro interamente armeno ancora esistente in uno Stato di 68 milioni di abitanti) ed è quello che resta dei sette villaggi armeni che si trovavano alle pendici del Mussa Dagh, la montagna simbolo della resistenza al genocidio. Uno scrittore ebreo boemo, Franz Werfel (come tutti gli ebrei praghesi era di madrelingua tedesca, vedi Franz Kafka), conobbe l’epopea del Mussa Dagh, se ne interessò a fondo, e ne scrisse un memorabile romanzo I quaranta giorni del Mussa Dagh (Die vierzig Tage des Mussa Dagh). «Quest’opera fu abbozzata nel marzo dell’anno 1929 durante un soggiorno a Damasco. La visione pietosa di fanciulli profughi, mutilati e affamati, che lavoravano in una fabbrica di tappeti, diede la spinta decisiva a strappare dalla tomba del passato l’inconcepibile destino del popolo armeno. Il libro fu composto dal luglio 1932 al marzo 1933», scrisse Franz Werfel. La prima edizione italiana è del 1935, uscita nella Medusa di Mondadori. Corbaccio l’ha ristampato nel 2003, purtroppo con la medesima datata e retorica traduzione.
Werfel ebbe anche un’intuizione tragica: «Quel che hanno fatto agli armeni un giorno lo faranno a noi». In effetti quando Hitler pianificò l’Olocausto con i suoi collaboratori commentò: «Chi si ricorda oggi degli armeni?».
Vakifli è un appellativo giuridico-burocratico ottomano, significa: «Proprietà appartenente alla minoranza», tanto per mettere le cose in chiaro. Anche lì, come ovunque in Turchia, c’è il busto di Atatürk d’ordinanza e accanto alla chiesa armena sventola la bandiera rossa con la mezzaluna bianca, come su tutti gli edifici pubblici e di culto turchi. Ma Vakifli non è un luogo qualunque: per gli armeni è un po’ come se qualcuno avesse collocato un busto di Hitler in mezzo a un ghetto, o cone se la bandiera con la croce uncinata sventolasse, oggi, accanto a una sinagoga. Nessuno lo dice, per paura, ma il pensiero corrente è questo. Ora le cose vanno un po’ meglio, Ankara ha allentato la pressione sulle minoranze per accontentare Bruxelles e aprire le trattative di adesione all’Unione europea. Ma le ferite bruciano sempre.

La difesa del silenzio. A Vakifli, 35 case e 40 famiglie, una chiesa restaurata abusivamente otto anni fa perché i permessi non arrivavano mai, un cimitero diviso in due dalla strada che attraversa il villaggio, stanno via via arrivando sempre più giornalisti. Qualcuno si ricorda dei 90 anni del genocidio. «Vengono stranieri, ma anche turchi. La gente però non parla volentieri con loro perché non sa chi sia davvero un giornalista e chi invece sia venuto per sentire come la pensano sulla Turchia e sulla questione armena». A parlare così è Elis Bisanz, 45 anni, insegnante di semiotica ed estetica all’Università di Lüneburg, vicino ad Amburgo, in Germania. La sua storia è sintomatica di come siano andate le cose da queste parti. È nata in Libano, dove suo padre era fuggito dalla natìa Vakifli. Poi è emigrata in Germania, ha sposato un tedesco, si è costruita una vita e ha due figli ormai grandi. Suo padre, ora morto, non aveva mai più messo piede a Vakifli da quando se n’era andato. Il nonno era il prete del villaggio (i sacerdoti gregoriani armeni possono sposarsi) ed è morto, vecchissimo, pochi anni fa. Lei ci è venuta per la prima volta in vita sua nel 2002. Ora ci è tornata, per qualche giorno, e la prossima estate conta di portarci i figli, per far loro vedere la casa del nonno, per conoscere i cugini che sulle pendici del Mussa Dagh sono rimasti.
Dentro di lei si dibattono sentimenti complessi e contraddittori, come spesso accade nell’intimo degli oppressi, degli sradicati. «Come armena del Mussa Dagh», osserva, «sono contenta che la Turchia entri nell’Unione europea perché finalmente sarò libera di andare e venire dalla mia terra. Come armena tedesca sono fermamente contraria perché Ankara non rispetta i diritti umani. Io avevo paura dei turchi, sono stata allevata con un’educazione antiturca, la prima volta che mi sono trovata in mezzo ai turchi, in aeroporto e nell’aereo, avevo paura. Ora che sono qui è diverso, mi è passata. Stando qui abbiamo una sensazione di pace che sgorga dall’intimo. Anche la diaspora è schizofrenica: molti armeni della diaspora sognano le terre da dove provengono, ma gli armeni che abitano qui non amano parlare della diaspora, ne hanno paura e hanno paura delle conseguenze».

Una strada tra i monti. In effetti la sensazione che dà oggi Vakifli è di pace assoluta. Per arrivarci bisogna avere una buona carta e un’altrettanto buona dose di fortuna: le indicazioni stradali sono un’opinione tra questi viottoli di montagna. Si prende la strada che da Antakya va al mare e a un certo punto si devia verso l’interno. Da lì in poi è tutto un chiedere e un provare e riprovare, esultando quell’unica volta (unica!) in cui si scorge un cartello con scritto che Vakifli è a quattro chilometri. Nel paesino non si vede quasi nessuno. Verso mezzogiorno passa un pullmino di ragazzini: è il secondo turno della scuola elementare (ci sono 15 bambini e quattro ragazzi in paese, ora il nemico è lo spopolamento: i giovani vanno a studiare a Istanbul e non tornano più). Si intravvede qualche anziana affaccendata nell’orto di casa e qualche anziano sulle panchine sotto gli alberi accanto a un’edificio con uno squallido stanzone che dev’essere una specie di centro di ritrovo. Qualcuno passa a cavallo, un mezzo di trasporto ancora comune. Tutt’attorno al paese, splendidi aranceti, con frutti grossi come un pugno: è l’unica fonte di sostentamento per gli abitanti. Vivono portando le arance al mercato, con qualche problema perché la terra non è loro, nel corso degli anni se la sono accaparrata ricchi proprietari turchi e arabi (questa era Siria, come detto, e la maggior parte della popolazione è araba, non turca; così accade che minoranza armena e minoranza araba in Turchia vadano abbastanza d’accordo, soprattutto per proteggersi da Ankara).

E poi c’è la chiesa, come detto. Non è antichissima, e si vede. Risale al 1929. «Dei sette villaggi armeni attorno al Mussa Dagh», spiega Bisanz, «questo era il più piccolo, non aveva chiesa. Gli altri avevano chiese del IX e X secolo. Oggi alcune sono rovine, altre sono state trasformate in moschea». Nella chiesa di Vakifli, però, si officia solo di rado. Il vecchio prete è morto un paio d’anni fa, quasi novantenne. Da allora la parrocchia è vacante. Il sacerdote deve venire da Istanbul, sede del patriarcato di Costantinopoli, e arriva a Natale, Pasqua, per la festa della Madre di Dio a cui la chiesa è dedicata, e per i funerali. La chiesa armena condivide con quella ortodossa turca un ulteriore problema: ci sono sempre meno preti. Il governo di Ankara ha chiuso il seminario e non permette che officino i riti sacerdoti provenienti dall’estero, dalla Repubblica d’Armenia, o dai Paesi della diaspora. Se non cambierà qualcosa, i patriarcati cristiani di Costantinopoli saranno costretti a chiudere per consunzione.
Quando agli armeni del Mussa Dagh venne ingiunto di abbandonare le proprie case, decisero di non farlo e di resistere.
«Poco dopo il tramonto, il popolo dei sette villaggi s’era messo in cammino, diviso per schiatte e per famiglie, carico di fardelli, per salire sul monte dalle diverse strade più vicine a seconda del punto di partenza. Quantunque gli abitanti di questa valle non fossero poveri, solo la minor parte delle famiglie possedeva un asino da sella o da soma. Spesso due famiglie tenevano un animale in comune. Già la luna aveva sorpassato la metà del cielo e le tribù ansanti continuavano a sfilare. Sempre lo stesso quadro: alla testa, piantando cupo il bastone innanzi a sé, il padre di famiglia col suo fardello. Le donne barcollavano sotto carichi che piegavano le loro spalle fin quasi a terra. E intanto dovevano badare continuamente alle capre, che non si smarrissero», scriveva Werfel.
Gli armeni resistettero in cima al Mussa Dagh. Erano male armati: solo una cinquantina di fucili moderni, il resto vecchiume vario e armi da caccia. Ma, grazie ai trinceramenti e alla consapevolezza che la sconfitta avrebbe significato la morte, riuscirono a respingere vari attacchi da parte delle truppe turche, dotate sì di un’inarrivabile superiorità tecnica, ma assolutamente svogliate nello svolgere il compito di stanare quasi uomo per uomo i combattenti armeni.

La lunga attesa. I giorni passavano e nel golfo di Antiochia non si vedevano navi. Finché una buona volta un’unità francese di base nella vicina Cipro, attirata da un incendio, si avvicinò alla costa e vide lo striscione bianco che gli armeni avevano issato sulla cima del monte. «Aiuto, cristiani in pericolo», c’era scritto. Venne l’incrociatore Guichen, poi arrivò una squadra navale. I francesi aiutarono gli armeni cannoneggiando le posizione turche e quindi fu presa una decisione insolita per delle unità da guerra: caricare tutti e portarli in salvo. I cinquemila del Mussa Dagh furono sistemati a Port Said, in Egitto. Nessuno tornò, con un’eccezione: quelli di Vakifli. I primi rientrarono nel 1926, gli ultimi tre anni più tardi e nel 1929 la chiesa era ormai terminata.
Visto dal mare, dalla spiaggia su cui sbarcarono i francesi, il Mussa Dagh non è una gran montagna: un panettone di 1.281 metri che sovrasta placido il Mediterraneo proprio nel punto in cui i romani fondarono Seleucia Pieria, ovvero la città che sarebbe dovuta essere la capitale della Cilicia e invece, a causa della difficoltà a difenderla, fu degradata al rango di porto di Antiochia. A mezza costa si vede chiaramente un centro abitato, con il suo minareto che svetta tra le case. Elis Bisanz aveva detto che nei sette villaggi armeni i più ricchi abitavano in quelli vista mare, i poveracci si accontentavano del versante interno, come a Vakifli.

Da Kapisuyu, questo il nome, del villaggio a mezza costa (Kapusyé in armeno), il mare si vede, eccome. In certi punti sembra di stare in una cartolina per quanto è bello il paesaggio delle verdi pendici del Mussa Dagh che digradano verso il celeste del mare. La strada (da quelle parti il concetto di strada diverge parecchio da quello a cui siamo abituati) si ferma su uno slargo a fianco della moschea. Si vede chiaramente che era una chiesa, il minareto – quello che si scorgeva dalla spiaggia – è un campanile mozzato con la sommità rifatta. Adem Coskun, 15 anni, e Onder Aksel, 18, prendono in consegna il visitatore. Il primo è uno studente, indossa ancora la divisa della scuola, pantaloni carta da zucchero e maglioncino bordeaux, il secondo fa il contadino. Adem corre a casa a depositare lo zainetto e lo scambia con un vocabolario turco-inglese. Comincia il tour. I due sembrano sapere perfettamente cosa sta cercando il visitatore. Mostrano vecchie abitazioni in pietra. Il più anziano spiega: «Ermeni house». Non c’è bisogno di vocabolario.

Le vecchie case armene sono per lo più o vuote o trasformate in stalle accanto alle quali i subentrati abitanti turchi hanno costruito delle nuove case in mattoni. Gli armeni usavano fango e paglia per tenere insieme le pietre e l’impasto continua a resistere, dopo tanti anni. Ci sono ancora molte finestre con la grata di legno, tipica delle case ottomane, e i ragazzi le indicano quando dicono: «Ermeni house».
Ciò che impressiona più di tutto è una bellissima ex cappelletta da cui sgorga uno zampillo d’acqua. Un tempo era oggetto di culto, ora c’è una vacca che si abbevera. Onder strappa delle piante che nascondono una lapide in armeno, datata 1824. Sarà poi Baykar Sivazliyan, docente di armeno all’Università di Milano e di turco in quella di Lecce, a chiarire di cosa si tratti. È una cappella per i viandanti, dove si poteva prendere acqua e recitare una preghiera prima di proseguire il cammino. La lapide è dedicata a un tale che nel 1824 l’ha fatta restaurare. La cappelletta, infatti, appare costruita in epoca precedente.
La memoria cancellata, la memoria oltraggiata. I tremila abitani di Kapisuyu sanno che prima di loro c’erano gli armeni, ma nessuno ha spiegato loro perché se ne siano andati. La storiografia ufficiale turca afferma che c’era la guerra, che gli armeni guardavano con speranza alla Russia (in parte vero, ma la stragrande maggioranza degli armeni serviva fedelmente nell’esercito turco; un po’ come gli italiani di Trieste: il 10 per cento passò le linee, il restante 90 combattè con gli austroungarici) e che quindi si trattava di nemici che poi se ne sono andati. Punto. Ed è già tanto che qualcuno sappia che c’erano dei villaggi armeni poi svuotati.

Aden e Onder continuano nel loro tour. Ora ci si lascia il paese alle spalle e ci si inoltra nel bosco. Arrivati alle pendici di una parete rocciosa si sale in cima a una scala di ferro e si giunge su una terrazza a una quindicina di metri di altezza. C’è una rientranza, che i ragazzi spiegano essere un altare, c’è una specie di pozzo e, accanto, un rialzo nella pietra con una canaletta. Sotto questo rialzo rivoli bruni di sangue rappreso indicano che in quel punto si fanno dei sacrifici. Sull’orlo del pozzo e all’interno dell’altare si vedono dei carboni spenti e granelli di incenso ancora incombusti. Sugli spuntoni della roccia all’interno dell’altare sono legati decine e decine di nastrini di stoffa. Chi venga qui a fare sacrifici e accendere incenso non è chiaro. I ragazzi dicono: «Turisti, dall’Inghilterra, dalla Francia». Ovviamente è improbabile che si tratti di turisti come li intendiamo noi.
Una casa armena più grande delle altre (doveva essere della famiglia più ricca del paese) ha una data sul montante in pietra del portone che dà accesso al cortile, 1834, e un nome: Garabet (Carlo), probabilmente la persona che l’ha fatta costruire. Dentro ci sono gli attuali abitanti e un’atmosfera di rovina che stringe il cuore. Troppo grande e troppo costosa per due anziani contadini, la casa armena ha conservato la struttura originaria. Soltanto che cade a pezzi. Al primo piano, entrando nelle stanze vuote dopo aver passato un ballatoio di legno dall’aspetto molto poco rassicurante, si vedono le finestre a grata riprodotte come mensole e vecchie cose abbandonate. Due anfore di terracotta appaiono piuttosto vecchie. Abbastanza per essere appartenute agli scomparsi abitanti armeni? Chissà dove saranno oggi i discendenti di quella famiglia. Se gli antichi inquilini sono andati in cima al monte, con ogni probabilità saranno sopravvissuti. I loro nipoti oggi potrebbero vivere nei grandi centri della diaspora armena: Chicago, Marsiglia, Buenos Aires.

Eppure potrebbe essere diverso. È bello pensare che se il governo turco avesse un atteggiamento diverso nei confronti del genocidio armeno, e si decidesse una buona volta di chiedere scusa, invece di negarlo, qui potrebbero arrivare i soldi della diaspora e queste vecchie case essere recuperate. Vakifli potrebbe essere un punto di riferimento per gli armeni di tutto il mondo e il Mussa Dagh essere quello che dovrebbe essere: meta di silenzioso pellegrinaggio.
Invece, se non si va a cercarne le tracce in mezzo alla montagna, non c’è niente, qui, che parli di armeni. Sulla costa è di recente sorto un paesino, Çevlik, che è tutto un susseguirsi di ristorantini e alberghetti. «Viene un sacco di gente qui d’estate», spiega il proprietario di uno di questi locali, «arrivano dalla Germania, dalla Francia, anche dall’Italia». Turisti che arrostiscono al sole esattamente sulla spiaggia dove ai primi di settembre di 90 anni fa sbarcarono i francesci, angeli salvatori di cinquemila che resistevano lassù, sulla cima di quella montagna che basta alzare gli occhi dalla sabbia scura della spiaggia per vedere.
Nulla, nessuno, spiega a questi turisti che cosa accadde lì dove oggi vanno in vacanza. Un cartello, una corona di fiori, un minimo di pietà umana per le vittime del genocidio e di rispetto per chi a quel genocidio seppe sottrarsi resistendo con le armi. Niente. Solo oblio e bandiere turche.
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Re: Sterminio de łi creistiani armeni anatołeghi

Messaggioda Berto » mar apr 26, 2016 6:38 pm

Armeni en Libano

LIBANO. Il quartiere armeno apre le porte ai rifugiati siriani
by Redazione
testo e foto di Valentino Armando Casalicchio

http://nena-news.it/libano-il-quartiere ... ti-siriani

Il quartiere Borj Hammoud a Beirut, nato dopo il genocidio compiuto dalla Turchia un secolo fa, ospita oggi 35mila siriani che qui trovano opportunità di lavoro e solidarietà

Beirut, 8 aprile 2016, Nena News – Borj Hammoud fu fondato nel 1915 dai sopravvissuti del genocidio armeno. Gli armeni che raggiunsero Beirut dopo il collasso dell’Impero Ottomano ottennero il diritto di costruire accampamenti e baracche nella periferia est del fiume Beirut. Molti degli edifici costruiti a quel tempo sono presenti ancora oggi.

Il “padre fondatore” del quartiere, successivamente diventato comune indipendente, fu Paul Ariss, padre della Chiesa Cattolico-Armena, al quale è stata dedicata la via principale di Borj Hammoud. Sin dai primi anni di nascita del quartiere, Borj Hammoud fu testimone della rivalità fra due partiti politici armeni: la Federazione Rivoluzionaria Armena e il Partito Social Democratico Hunchkian, i quali si contesero a lungo il controllo della zona, specialmente durante la crisi libanese del 1958.

Durante la guerra civile libanese, Borj Hammoud soddisfò il bisogno della comunità armena di restare unita e compatta, attirando tutti gli armeni residenti al di fuori del quartiere. Molti giovani presero le armi per difendere la zona dagli attacchi condotti dalle forze nemiche, nonostante la comunità si definì neutrale per tutto il conflitto. Le milizie maronite libanesi misero sotto forte pressione Borj Hammoud, attaccandolo spesso durante i 15 anni di guerra civile.

Il conflitto Israele-Libano rese Borj Hammoud celebre per la sua accoglienza di rifugiati, aprendo chiese e scuole a tutte le persone che erano rimaste senza tetto. Dopo il conflitto la Turchia propose all’Onu di inviare truppe in supporto alla missione Unifil (United Nation Interim Force in Lebanon), scatenando forti proteste nel quartiere armeno, ancora reduce da forti rancori nei confronti dei turchi.

Con una popolazione di 100mila abitanti (prima della crisi siriana), ad oggi ospita circa 34mila rifugiati siriani. Grazie ai suoi costi bassi e alla possibilità di lavoro nelle fabbriche, Borj Hammoud è una zona molto ambita dai rifugiati siriani. Nonostante un terzo degli abitanti di questo quartiere è un rifugiato, e nonostante sia considerata dall’Unhcr come zona vulnerabile, questo comune a est di Beirut è un esperimento di accoglienza pacifica. Il dinamismo della comunità locale, sommato a specifici legami religiosi e storici con i siriani, hanno facilitato l’integrazione e il movimento dei rifugiati provenienti dalla Siria.

I rancori verso la Turchia si possono constatare ancora oggi sui muri di tutta l’area circostante: “Turchia colpevole di genocidio” o “Turchia Est=Armenia Ovest” sono fra le scritte più comuni che si possono incontrare. Borj Hammoud è una delle zone più belle e interessanti della capitale libanese. Nena News
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