Democrazia, cittadinanza, valori, doveri e diritti umani

Re: Democrazia, cittadinanza, valori, doveri e diritti umani

Messaggioda Berto » lun giu 11, 2018 8:07 pm

Questa è democrazia


California, rimosso il giudice che aveva dato una pena lieve allo stupratore di Stanford
Un referendum popolare ha deciso che Aaron Persky non poteva rimanere al suo posto dopo che aveva dato solo sei mesi di carcere al violentatore di una studentessa, colto in fragrante
di ANNA LOMBARDI
06 giugno 2018

http://www.repubblica.it/esteri/2018/06 ... -198336279


California, rimosso il giudice che aveva dato una pena lieve allo stupratore di Stanford
Il giudice Aaron Persky (ap)
Aveva condannato a soli sei mesi di carcere un atleta dell'università di Stanford, in California, colto sul fatto da due altri studenti mentre stuprava una ragazza svenuta. Ora il giudice californiano Aaron Persky, 56 anni, è stato rimosso per volontà popolare: dopo che una raccolta di firme ha ottenuto quello che tecnicamente si chiama “recall”, un referendum per decidere se destituire l’uomo dall’incarico che ricopriva dal 2003.

A votare contro il giudice Persky sono stati ben il 59 % degli elettori di Santa Clara, primo giudice ad essere cacciato dal suo incarico con una recall campaign dal 1977. Mentre in California una cosa del genere non succedeva da 80 anni. I fatti risalgono al 2015: quando dopo una festa Brock Allen Turner, 20 anni, rampollo di una potente famiglia e campione di nuoto, veniva bloccato da altri studenti mentre stuprava una ragazza incosciente. La famiglia aveva però assoldato avvocati importanti che avevano, come purtroppo accade spesso in questi casi, praticamente messo sotto accusa la vittima, una ragazza di 22 anni. Tanto che questa aveva scritto una toccante lettera, che iniziava così: "Non ti conosco eppure ti sei preso il diritto di stare dentro di me". Pubblicata integralmente su diverse testate è diventata una sorta di manifesto.

Durante il processo un’affermazione del padre di Turner aveva sollevato lo sdegno generale: “La prigione è un prezzo troppo alto per un atto durato appena 20 minuti”. Un argomento che evidentemente aveva convinto il giudice Persky, anche lui ex alunno di Stanford: che aveva scelto di essere clemente per non compromettere le aspirazioni olimpiche dell’imputatato condannando il giovane nel giugno 2016 a soli sei mesi di carcere. La sentenza aveva lasciato profondamente scontenta l'opinione pubblica. E mentre il procuratore distrettuale di Santa Clara Jeff Rosen aveva dichiarato che la sentenza "non era commisurata al crimine" definendo Turner "uno stupratore violento e impenitente che non ha mai mostrato rimorso", una docente del campus di Stanford, la sociologa Michele Landis Dauber, aveva iniziato la raccolta di firme per chiedere il recall, iniziando una campagna appoggiata anche da quella Rose McGowan principale accusatrice del produttore hollywoodiano Harvey Weinstein. A firmare per il recall sono state più di trentamila persone. A votare contro il giudice Persky molte di più.



Solo 6 mesi per uno stupro, rimosso il giudice
07/06/2018

http://www.adnkronos.com/fatti/esteri/2 ... xKsEJ.html

Un giudice americano è stato rimosso per aver condannato a soli 6 mesi uno studente di Standford che aveva abusato di una compagna di college. La rimozione è arrivata in seguito a una petizione dei cittadini, si legge sulla Bbc che ricorda come sia la prima volta in 80 anni.

Brock Turner, 20 anni, fu visto da altri due studenti violentare la ragazza dietro un bidone della spazzatura nel gennaio 2015. La vittima, allora 23enne, era ubriaca fino all'incoscienza dopo essere stata a una festa nel campus. Nel marzo 2016, Turner è stato riconosciuto colpevole e rischiava fino a 14 anni. I pubblici ministeri avevano chiesto un mandato di sei anni ma l'ormai ex giudice Aaron Persky della Contea di Santa Clara, California, nel giugno 2016 aveva deciso per una condanna a sei mesi di carcere e tre anni di libertà vigilata: Persky era preoccupato per l'impatto che la prigione avrebbe avuto su di lui. Il fatto che il 20enne non avesse precedenti penali e la vittima fosse ubriaca, avevano convinto il giudice ad abbassare in quel modo la pena.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Democrazia, cittadinanza, valori, doveri e diritti umani

Messaggioda Berto » ven giu 15, 2018 8:32 pm

FORMAZIONE DELLO STATO E COMUNE CITTADINO NEL SACRO ROMANO IMPERO
Università di Francoforte - Gerhard Dilcher

http://www.dirittoestoria.it/3/Memorie/ ... tadino.htm

SOMMARIO: – I. Il comune come forma costituzionale. – II. Leghe tra città e Impero. – III. Conclusioni – comune cittadino e stato.

Sebbene in maniera diversa, gli storici e gli storici dei diritto hanno spesso accennato al fatto che la formazione dei comuni cittadini alla fine dell'alto Medioevo e la formazione dello stato nel corso dei tardo Medioevo e nell'età moderna hanno una notevole somiglianza fra loro. I pareri si discostano alquanto sul grado di somiglianza e perciò se ne tratta più per immagini e metafore che non in analisi scientifiche.
Lo storico del diritto Wilhelm Ebel parla della città medievale come di una «serra della moderna realtà statuale (Staatlichkeit)»[1] (1966) o di una «serra dei moderno stato amministrativo» (1971)[2].
Lo storico francese Fernand Braudel cita la fiaba della gara tra la lepre e la tartaruga: come la lepre, la città all'inizio è in vantaggio, in quanto più veloce, ma intorno al Cinquecento è lo stato territoriale ad arrivare, come la tartaruga, per primo alla meta[3].
Otto Gierke, l'importante storico dei diritto di indirizzo germanistico dell'Ottocento, afferma che tutte le caratteristiche della moderna concezione dello stato sono presenti nella città in quanto corporazione cittadina[4] - presenti, sia ben chiaro, a livello di concetti giuridici e non nella reale forma di sovranità.
D'altro canto, nei due paesi uniti dall'impero medievale, e cioè l'Italia e la Germania, la costituzione comunale non ha indicato il cammino verso lo stato moderno in modo lineare - mentre in Italia nasce un sistema di stati cittadini a guida monarchica che rivaleggiano fra di loro e che alla lunga soccombono rispetto alle grandi monarchie europee - per ultima Venezia -, in Germania un piccolo numero di città di medie dimensioni e un più grande numero di città di piccole dimensioni in quanto città "imperiali" libere mantengono la forma di governo repubblicana, tipica del comune. All'inizio dell'età moderna però, queste città tedesche devono cedere la forza di guida politica e di modernizzazione al sistema territoriale di un principe.
Noi ci occuperemo qui di seguito del perché la forma costituzionale sviluppata dai cittadini medievali, il comune cittadino, non abbia potuto mantenere la guida alla formazione di uno stato moderno, anch'esso fondato su una borghesia.

I. – Il comune come forma costituzionale

Tra il 1100 e il 1200 i cittadini, diciamo meglio gli abitanti delle città dell'Europa occidentale, si uniscono in una nuova forma costituzionale, il comune giurato. Questo movimento compare quasi contemporaneamente in tutte quelle regioni che sono state definite "urban belt”[5], cintura urbana: dalle coste dei Mar del Nord tra Senna e Reno alle antiche regioni dell'alto Reno e della Rezia, fino alla Borgogna, al Piemonte, alla Lombardia e alla Toscana. Gli abitanti influenti delle città, i milites e i mercanti, ma anche gli artigiani, si uniscono con giuramento in un'associazione che essi dapprincipio chiamano coniuratio, poi communio iurata, comune, e più tardi, con espressione tratta dal diritto romano, universitas[6]
Questo fenomeno compare nelle Fiandre, nella Francia orientale, in Borgogna e nell'Italia centro-settentrionale quasi contemporaneamente intorno al 1100; nelle antiche città romane lungo il Reno viene un po' frenato dal potere dei vescovi tedeschi divenuti principi dell'Impero. Invece nell'Italia centro-settentrionale il movimento comunale è così forte che i vescovi cedono al comune dei cittadini e ai consoli la sovranità sulla città concessa loro dall’imperatore; essi, nella divisione di spiritualia e temporalia, si ritirano nella posizione di pastori spirituali e di personaggi tra i più influenti della città.

Max Weber ha descritto questo fenomeno di formazione dei comune cittadino attribuendogli un significato storico universale[7]. Egli lo definisce come la nascita della città occidentale, che avviene secondo un costrutto idealtipico più nel comune medievale che non nella polis dell'antichità.
Weber considera decisiva la formazione dì un'associazione di tutti i cittadini in quanto individui, un'associazione che supera tutti i limiti imposti dal sangue, dalla parentela e dal rito. L'associazione dei cittadini, cioè il comune, possiede secondo Max Weber autocefalia e autonomia: quindi, autogoverno tramite i propri magistrati che non seguono le regole della signoria feudale, una propria giurisdizione e una propria legislazione statutaria per attuare le norme giuridiche per la vita della cittadinanza contro il mondo feudale. Unendosi in un'associazione i cittadini si appropriano della sovranità all'interno di questa associazione ed escludono in tal modo principalmente le forme di servitù feudale: il cittadino è libero, il diritto di cittadinanza non ammette nessuna sudditanza, nessuna limitazione alla libertà da parte di un signore feudale.
In Germania vale la frase: "l'aria della città rende liberi"[8]. I princìpi qui descritti hanno valore anche in Italia, soprattutto per le prime forme comunali. In Italia tuttavia vengono maggiormente coinvolti i nobili e di conseguenza i princìpi aristocratici, cosicché la costituzione comunale italiana nella sua struttura si avvicina maggiormente all'antica polis, diventa un'oligarchia, mentre a nord delle Alpi la città mantiene di più un carattere puramente borghese grazie alla separazione dalla sfera rurale (che ha carattere aristocratico- contadino).

Qui non sono importanti i particolari, bensì la tipologia: i comuni cittadini acquistano forti somiglianze strutturali con uno stato moderno grazie alla costituzione dei magistrati, cioè alle cariche non feudali per rappresentare la collettività, grazie allo sviluppo di una burocrazia, ivi compresa la giurisdizione, grazie alla legislazione e all'associazione dei cittadini quale elemento portante della collettività[9]. Per Max Weber era significativo soprattutto il fatto che, grazie alla burocrazia, alla legislazione statutaria e soprattutto al genere di economia legata al capitale e al mercato, venisse iniziato un processo di razionalizzazione che rinvia allo stato moderno e al capitalismo moderno[10]. La giurisprudenza – e qui va dato particolare rilievo a Bartolo[11] – collega il carattere dell'associazione ai concetti dei diritto romano e canonico, soprattutto all'universitas, e, con la dottrina della civitas sibi princeps, ad una concezione che si può appunto definire con le categorie weberiane di autocefalia e autonomia, o con Bodin di sovranità. Su questo punto la dottrina dei giuristi converge con la tradizione politica dell'aristotelismo. Il comune medievale viene così paragonato all'antica polis e misurato con essa, e viene classificato con le forme di governo dell'aristocrazia, della politeia o democrazia, mentre gli stati principeschi corrispondono alla monarchia. I comuni cittadini appaiono così nella terminologia latina come forme statali repubblicane, cioè non monarchiche. Poiché le repubbliche marinare italiane, soprattutto Venezia, sono indipendenti e poiché l'Impero praticamente non esercità più i propri diritti sulle città dell'italia centro-settentrionale, l'immagine della civitas sibi princeps è una realtà politica per le grandi città dell'italia centro-settentrionale. Questo vale quasi nella stessa misura per le città "imperiali" libere in Germania: a parte i diritti del re e dell'imperatore, pochi e limitati dai privilegi che diventano attuali solo nel caso di conflitti interni alla cittadinanza, le città libere si presentano come repubbliche che si autogovernano e formulano il loro diritto. In Germania la costituzione consiliare adottata intorno al 1200 sul modello italiano si conserva fino al secolo XIX, anche se l'elezione dei membri dei consiglio avviene sempre di più secondo princìpi oligarchici e non democratici, intendendo con il termine democratico un'elezione attraverso le corporazioni. Le città tedesche che hanno escluso l'aristocrazia feudale e conoscono solo un patriziato rispondono dunque in modo particolare all'immagine di una res publica che si autogoverna. Bisogna tuttavia ricordare che all'interno della città non sono validi né il principio dell'uguaglianza, né quello della totale partecipazione democratica: vi sono i gruppi politicamente privilegiati, vi sono i casati, e talvolta anche alcune corporazioni, considerati eleggibili nel consiglio, vi sono coloro che hanno i pieni diritti civici e vi sono i semplici abitanti della città. Anche questi ultimi, cioè gli abitanti senza il diritto di cittadinanza, godono però del diritto di protezione, di assistenza e di poter provvedere alla propria sussistenza, diritto concesso dalla città alla quale essi sono spesso legati tramite un giuramento che nei diritti e nei doveri è molto simile al giuramento dei cittadini[12].

II. – Leghe tra città e Impero

Come abbiamo già accennato, i comuni cittadini diffusi sia al Nord che al Sud non potevano allargare al paese nessun ordinamento politico secondo il principio repubblicano da essi sviluppato e diventare di conseguenza diretti precursori dello stato di diritto e costituzionale borghese del secolo XIX. Abbiamo già detto che in Italia avviene un capovolgimento in una forma di governo monarchica, un governo di cosiddetti tiranni, come venne accennato da Bartolo ed in seguito presentato da Machiavelli nel “Principe”. Attraverso la forma monarchica di stato, le città più forti dell'Italia centro-settentrionale acquisirono la forza per creare stati territoriali, che erano tuttavia in numero limitato e in forte concorrenza tra di loro. Mi sembra comunque molto utile osservare che all'interno degli stati cittadini italiani permangono forme originarie della costituzione sviluppata dal comune[13], come il concetto di cittadinanza, la legislazione statutaria, le cariche civiche, un consiglio comunale. In Germania invece le città mantengono invero una costituzione comunale, cioè repubblicana, ma non riescono a diventare un reale centro di potere politico; anche i territori civici in dotazione di alcune città come Berna, Ulma o Norimberga, hanno un'estensione relativamente limitata.

Non possiamo tuttavia accontentarci di questa osservazione. Dobbiamo invece prendere in considerazione un fenomeno che ha trasformato le città in un fattore politico ordinatore importante, le ha poste al livello di imperatore, re, principi e aristocrazia: le leghe tra città. Qui si associano spesso molteplici città, formulano le loro mete politiche e le raggiungono in parte in modo pacifico, in parte con la forza delle armi, diventando così importanti fattori della politica. L'apice di questo movimento si ha durante il periodo degli imperatori Svevi, con la prima e la seconda Lega lombarda nell'Italia centro-settentrionale[14] e con la Lega renana in Germania dopo la morte di Federico II. Per il nostro tema non possiamo dunque evitare di analizzare questo fenomeno e di domandarci come mai la potenza associata delle città non solo non si afferma, ma si esaurisce quasi da solo in Italia nel tardo Medioevo, in Germania al più tardi al principio dell'età moderna, dunque dopo il 1500.

Alla Lega lombarda è giustamente dedicata una relazione durante questo simposio. Ma io me ne devo occupare, anche se brevemente, perché essa rappresenta uno dei punti culminanti della mia tematica.

La prima Lega lombarda rappresenta l'origine e il modello di tutte le leghe fra città. Che cos’era successo? L'imperatore Federico Barbarossa, in quanto sovrano potente e carismatico, vuole riaffermare i diritti dell'Impero sull'Italia centro-settentrionale alla dieta di Roncaglia del 1158[15], Inoltre vuole ristabilire lo stato giuridico dei Salii del principio del secolo, cioè una sovranità sulla città concessa dall'impero, nella quale il comune dei cittadini e i magistrati eletti da loro non vengono presi in considerazione. Questa pretesa viene perfino convalidata dai giuristi, i quattuor doctores che provengono dalle città dell'Italia centro-settentrionale, in particolare da Bologna, essa viene raccolta in una legge sui diritti del re, le regalie, e congiunta alle prerogative dell'Impero romano- bizantino dell'epoca di Giustiniano, di stampo quasi assolutistico. I legati delle città danno la loro approvazione, perché non vogliono contestare l'appartenenza all'Impero e non vogliono porsi contro il diritto. Solo la realizzazione di questa pretesa giuridica apre loro gli occhi. Essi si richiamano successivamente alla consuetudine che nel frattempo è subentrata, la consuetudo che ha fondamento giuridico, alla prescrizione dei diritti imperiali in contrasto con questa e al loro diritto di resistenza alla repressione delle posizioni giuridiche conquistate dai comuni. Non ho bisogno di esporre qui le lotte esasperate, le faziosità anche tra le città lombarde, il crudele assedio e la distruzione di Milano, il capovolgimento della situazione con la battaglia di Legnano. Però devo accennare alla nuova situazione giuridica venutasi a creare con la pace di Costanza del 1183[16].

La pace di Costanza porta con sé ciò che si è già delineato nelle Fiandre e nella Francia orientale con il privilegio particolare dei conte di Fiandra e del re francese[17] e adesso viene consolidato tramite un contratto tra molteplici città e il più alto potere dell'Occidente, quello imperiale: il riconoscimento del comune come legittima associazione di cittadini, il loro autogoverno tramite magistrati eletti e l'ampia autonomia dei loro ordinamento giuridico. Tale riconoscimento viene inserito nella federazione dell'impero in un modo già precostituito con il sistema feudale: da un lato con l'affidamento ai magistrati, da parte dell'imperatore, dei diritto di banno; dall'altro con l'introduzione nel giuramento dei cittadini e degli abitanti di una dichiarazione di fedeltà all'imperatore e all'Impero. Ciò maschera solo faticosamente il carattere rivoluzionario di questo avvenimento fatto notare da Max Weber, e cioè che una grande associazione di uomini eserciti su se stessa la sovranità collettiva, uomini che, come registra scandalizzato lo zio di Federico Barbarossa, il vescovo Ottone di Frisinga, sono di condizione inferiore, inferioris conditionis, ed esercitano il disprezzato lavoro manuale, contemptibilium eciam mechanicarum artium opifices. Nel l'aristocraticissimo mondo del potere dell'alto Medioevo, per mezzo della formazione del comune e dell'unione di più comuni in una lega, il comune stesso era penetrato come un'associazione direttamente legata all'Impero e perciò in una posizione simile a quella dei principi[18]. Poiché la pace di Costanza non era solo un importante documento della costituzione del regno italico, ma era stata inserita dai giuristi nel testo dei libri feudorum e quindi dello ius commune, la si può definire come un documento costituzionale europeo, che conteneva il riconoscimento del comune cittadino come legittima forma costituzionale. Alla diffamazione da parte del clero della communio iurata quale coniuratio illegittima, veniva dunque tolto ogni fondamento. La Lega lombarda che aveva conseguito questo successo militare, politico e giuridico non era null'altro che il trasferimento del principio costituzionale del comune ad una associazione di più comuni: come il comune dei cittadini eleggeva i consoli, cosi i legati delle città eleggevano i rettori della Lega. Come il comune dei cittadini era unito attraverso il giuramento, così giuravano alleanza dapprima i consoli e poi le cittadinanze unite. Come la città aveva sviluppato una propria giurisdizione al posto dei missi vescovili e reali, così sorse una seppur blanda giurisdizione della Lega stessa. La Lega era dunque una forma giuridica come il comune, un'associazione fondata sul giuramento[19].

La Lega lombarda però fu forte solo in due periodi o situazioni: contro Federico Barbarossa e poi, dopo essersi ricostituita, contro Federico II, fino a quando cioè gli imperatori svevi minacciarono la libertà e la posizione giuridica delle singole città. Nel momento in cui venne meno la minaccia, venne a cadere anche la solidarietà delle città dell'Italia centro-settentrionale. Il cittadino rimase soprattutto cittadino della propria città, non di una lega, di una regione o addirittura di una nazione. L'identificazione dei cittadini, i loro interessi, si limitavano all'appartenenza alla città. Chi come Dante sentiva l'esigenza di una unità più ampia, doveva collegarla, in mancanza d'altro, all'Impero - un Impero che aveva il suo centro politico al di fuori dell'Italia ed inoltre si indeboliva sempre di più politicamente. L'organizzazione politica del paese tramite comuni equiparati nei diritti, legati l'uno all'altro, era destinata a non avere un futuro in Italia.

In Germania sembrò per un momento che le cose andassero diversamente. Nello stesso periodo in cui si formava la seconda Lega lombarda che, alleandosi con il papato, resisteva efficacemente all'imperatore Federico II, si facevano in Germania i primi tentativi di realizzare una lega tra città. Tuttavia in Germania i vescovi esercitavano ancora la sovranità sulla cittadinanza e questi vescovi non accettavano consoli liberamente eletti. Pertanto essi riuscirono ad ottenere dall'imperatore, con il famoso decreto di Ravenna dei 1232, la proibizione di coniurationes e colligationes, cioè di tutte le associazioni di cittadini e dei magistrati civici.[20] Il movimento comunale era però troppo avanzato perché alla lunga potesse essere represso. Dopo la morte di Federico II e il periodo di vacanza dell'autorità monarchica tedesca, le città dei territori che rappresentavano il nucleo dell'Impero, quelle lungo il Reno, si unirono in una Lega che diventava sempre più grande. Il loro scopo era quello di conservare, vacante imperio, pace e giustizia[21]. Si trattava dunque, come è stato formulato durante un recente convegno, non di una alleanza per opporre resistenza come la Lega lombarda, bensì di una alleanza per la difesa della costituzione del regno. Alle città interessava particolarmente la difesa delle vie commerciali che erano di importanza vitale, in particolare quelle lungo il Reno; la protezione contro l'abuso nei dazi, ma anche contro il blocco delle strade da parte dei nobili e contro le faide che stavano prendendo il sopravvento e che venivano utilizzate per ricattare mercanti e città[22]. Il movimento delle città era così potente, che vescovi, principi e piccola nobiltà si unirono alla Lega, per fronteggiare l' incombente anarchia. Un effetto collaterale di questa Lega per la difesa della pace, al posto dei re, era che la forma costituzionale comunale e i diritti così conquistati dalle città, ivi compreso quello di un consiglio liberamente eletto, non poteva più essere legittimamente messo in discussione, poiché sia i più alti principi dell'Impero che la piccola nobiltà si erano alleati alle città e avevano prestato il giuramento, riconoscendo così come legittima questa forma costituzionale, esattamente come era accaduto in precedenza in Italia con la pace di Costanza. Una conseguenza della motivazione di difesa della pace vacante imperío fu tuttavia che la Lega si sciolse nella discordia non appena fallì il tentativo di ripristinare un regno unitario con una doppia elezione nel 1257. Rodolfo d'Asburgo ed i successivi re tedeschi tentano poi di assumere nuovamente la difesa della pace promuovendo la pace territoriale. Cosa che tuttavia riesce solo in maniera incompleta durante il lungo periodo di indebolimento dell'autorità monarchica alla fine dei Medioevo, cioè tra i secoli XIV e XV. Principi e nobili giurano la pace territoriale solo per un tempo determinato, mantenendo le eccezioni per la faida cavalleresca. Così continua la situazione insostenibile che le vie commerciali delle città vengono bloccate e interrotte, i mercanti vengono derubati oppure devono pagare forti tasse per la scorta, non esiste nell'Impero il monopolio per l'uso legittimo della forza[23]. Qui contava il fatto che non esistevano territori comunali abbastanza grandi che confinassero l'uno con l'altro e che i principi non avevano ancora domato la piccola nobiltà facile alla faida. Il buon governo della città, così come rappresentato per l'Italia dagli affreschi di Lorenzetti nel Municipio di Siena, in Germania non era affatto in grado di garantire la pace, tramite la severa giustizia armata di spada, anche sul terrritorio oltre che nella città stessa.

Questo stato di cose comportò che in Germania le leghe tra città perdurassero o si rinnovassero per tutti i secoli XIV e XV. Una funzione di guida la svolgevano in questo le città "imperiali". Ma la differenza tra una città "imperiale" e una città forte, privilegiata, ma non direttamente dipendente dall'Impero era ancora così poco accentuata che anche altre città potevano unirsi a queste leghe. In Svevia, dunque nella Germania sud-occidentale ricca di città "imperiali" fino alla fine dell'Impero, abbiamo una lega tra città nel 1331, rinnovata nel 1349 da 25 città "imperiali", e una lega di 14 città nel 1376[24]. Gli scopi di queste leghe non erano solo l'imposizione della pace territoriale e la lotta contro la nobiltà cavalleresca, ma anche la conservazione della loro libertà politica e della loro influenza politica. Esse si opponevano alla formazione aggressiva di un territorio politico, cioè alla creazione di uno stato da parte dei duca di Württemberg-Svevia, e si opponevano al pignoramento di città imperiali, della loro posizione giuridica e dei loro privilegi, da parte dei re in favore di principi e nobiltà. Nel 1381 la Lega sveva si associò alla rinnovata Lega renana così che qui si delineò la possibilità di un ordinamento politico sulla base di un'associazione tra città. Ma dopo aver ottenuto nel 1377 una vittoria sul duca di Württemberg, le città subirono una pesante sconfitta nella cosiddetta guerra delle città del 1388. Se in seguito il potere delle città sveve fu spezzato, la causa era data anche dal fatto che le loro mete politiche erano piuttosto passive ovvero difensive. In questo senso esse ebbero perfino successo alla fine. Pace e sicurezza sulle strade vennero propugnate come programma da re e principi, e quasi tutte le città sveve poterono mantenere per sé fino alla fine dei vecchio Impero la loro posizione giuridica, la diretta dipendenza dall'Impero.

Qualcosa di simile lo possiamo verificare nella Lega tra le dieci città imperiali dell'Alsazia, città fondate per lo più dagli imperatori svevi[25]. Anche qui si tratta di conservare la pace territoriale e di mantenere lo status di città imperiali. Anche qui abbiamo, come nella Lega lombarda, ma anche in quella renana e in quella sveva, diete formali, cioè un'organizzazione ed un ordinamento giuridico della Lega stessa. Nel 1354 lo stesso imperatore Carlo IV difende la lega, ma poi la scioglie. Però le città la rinnovano e nel secolo XV ottengono l'assicurazione da parte dell’imperatore Sigismondo che esse non verranno mai vendute o date in pegno. Questa Lega rappresenta una specie di struttura dell'Impero alla frontiera occidentale fino all'epoca moderna e solo con la pace di Westfalia del 1648 viene sciolta dietro pressione della Francia. L'Impero, che non diverrà mai un vero stato, può esistere benissimo con leghe tra città come sotto-struttura. Dobbiamo quindi chiederci come mai dopo il 1500 la formazione di leghe si verifichi solo in via eccezionale.

Qui non tratteremo più le leghe simili, esistenti anche nei territori orientali dell'Impero, dove non ci sono città "imperiali" - cito (a titolo di esempio) le leghe in Brandeburgo e in Lusazia [26]. Esse confermano tuttavia che con il fenomeno delle leghe tra città ci troviamo di fronte a una struttura di base dell'Impero tedesco dei Medioevo, dopo che era stata riconosciuta la costituzione comunale al più tardi con la Lega renana del 1254. Resta ancora da ricordare la Hansa delle città dei Mar dei Nord e dei Mar Baltico. La Hansa però non era originariamente una lega tra città, ma piuttosto, in maniera simile alla gilda, una associazione di mercanti che si univano per viaggi commerciali più lunghi, soprattutto per viaggi per mare[27]. Già nel secolo XII abbiamo una Hansa dei mercanti tedeschi che vanno soprattutto da Colonia in Inghilterra, e abbiamo un'associazione di quei mercanti che vanno da Lubecca e altri posti dei Baltico sull'isola di Gotland e in Russia. Inizialmente c'erano dunque più Hanse nei commerci via Mar del Nord e via Baltico che concorrevano fra di loro. Solo verso il 1280 i diversi gruppi di mercanti si unirono in una Hansa generale. Questa comprendeva i mercanti sulle grandi distanze delle maggiori città portuali delle coste del Mar dei Nord e dei Mar Baltico e le più importanti città commerciali dell' entroterra. Essi trattavano con i re d'Inghilterra e di Danimarca, i conti di Fiandra ed altri principi sulle questioni riguardanti il commercio e sui relativi privilegi. Misure che prendevano i mercanti della Hansa contro quelle città o quei principi che non aderivano ai loro desideri erano il divieto di commerciare e il boicottaggio. A partire dal secolo XIV le Hanse concorsero con i merchant adventurers inglesi. Nell'ambito di questi confronti sull'ordinamento dei commercio marittimo, la Hansa si trasformò lentamente da associazione di mercanti in lega tra città. Ciò fu relativamente facile perché in queste città sul mare il consiglio comunale non era composto da un patriziato di stampo aristocratico, bensi dal ceto mercantile elevato, che dominava in tal modo sulla città. Pertanto a partire dalla metà dei secolo XIV nacquero le diete anseatiche quali organi deliberanti. Le diete, alle quali partecipavano le città o meglio i grandi mercanti, emanavano delibere formali (i concordati anseatici)[28] e applicavano l'esclusione o il boicottaggio come sanzioni. A partire dall'inizio del secolo XV si costituì un sistema giuridico-politico composto da circa 70 città anseatiche e da circa 100 città che intrattenevano rapporti di cooperazione con la Hansa. L' associazione si definiva “Deutsche Hanse", comprendeva però anche città scandinave come Stoccolma e città polacche come Cracovia. Suddivisioni regionali completavano il sistema.

La Hansa, in bilico tra un'associazione mercantile e una lega tra città, regola e controlla quindi il secondo spazio commerciale marittimo dei Medioevo europeo dopo il Mediterraneo, cioè il Mar dei Nord e il Mar Baltico, tra l'Inghilterra meridionale e le Fiandre a ovest e la Scandinavia, la Russia e i paesi baltici a nord, ed un bel pezzo delle vie commerciali della terraferma. La sua potenza commerciale fece sì che la Hansa costituisse un interlocutore più potente per principi e sovrani. Ma è anche già chiara la perdita di potere che sopravvenne allorché questi principi cominciarono ad annettere i territori sotto la loro egemonia, gettando così le basi di una propria politica commerciale. Con questa nuova costellazione in Inghilterra, nei Paesi Bassi, nei territori tedeschi, in Polonia e in Scandinavia comincia il lento tramonto della Hansa nei secoli XVI e XVII.

La Hansa mostra chiaramente come l' interesse comune ai mercanti di molte città di organizzare, privilegiare e proteggere il commercio marittimo possa fondare una lega che per parecchio tempo unisce molte città e che è nel suo campo più potente di re e principi. Ma l'unione poggia soltanto sull'interesse economico di questo omogeneo ceto mercantile, e non su una volontà politica egemonica. Nel momento in cui la sovranità politica, rafforzandosi nelle mani di re e principi, regna sui territori e sviluppa altre regole economiche, cioè il mercantilismo, la Hansa perde la sua forza come per magia, senza subire una sconfitta vera e propria[29].


III. – Conclusioni – comune cittadino e stato

Come abbiamo visto, il comune medievale presenta una forte somiglianza strutturale con lo stato moderno. Entrambi hanno come elemento sociale portante la borghesia. Essa non è invero identica nei due casi, ma è collegata dalla continuità storico-sociale: la borghesia liberale, nazionale dei secolo XIX proviene inizialmente dalla borghesia urbana, quasi per nulla dalla campagna[30]; ciò vale sia per l'Italia che per la Germania.

La borghesia delle città medievali impose in maniera rivoluzionaria la propria forma costituzionale, il comune, contro re e nobiltà e conquistò un forte potere associandosi nelle leghe. Perché dunque non improntò lo sviluppo costituzionale dell'età moderna, perché lo stato moderno venne piuttosto creato da principi?

Uno dei motivi principali di uno sviluppo storico naturalmente complesso, forse il motivo più importante, è stato individuato da Max Weber. Egli osservò che il cittadino medievale corrisponde al tipo dell'homo oeconomicus, per contro il cittadino dell'antica polìs a quello dell'homo politicus. I cittadini delle città greche fondano città-stato, che si diffondono con la colonizzazione. Roma fonda, sulla concezione dei diritto romano di cittadinanza, un impero formato da città (civitates). Qui appare la volontà della sua classe dirigente di dominare politicamente. - I cittadini medievali creano il comune come forma di sovranità politica verso l'interno. Verso l'esterno diventano forti associandosi in leghe tra città o in Hanse per difendere la loro libertà ed il commercio e la pace sulle strade, cioè la fonte della loro ricchezza. Essi non fanno politica per se stessa, la politica la lasciano agli imperatori, ai re, ai principi e alla nobiltà. Un cittadino di questa epoca che vuole agire politicamente, va al servizio di un principe. In Italia la situazione è più complicata in quanto la nobiltà vive per lo più in città; dalle rivalità tra nobili nascono forme monarchiche di governo che hanno tuttavia un fondamento civico. Max Weber rileva giustamente che la città rinascimentale italiana è molto vicina all'antica polis.

Abbiamo potuto accennare al fatto che i cittadini e le città, cioè i comuni dei Medioevo, hanno contribuito a determinare una fase importante della formazione dell'Europa moderna. Ma ad un presupposto importante della formazione dello stato moderno, cioè la sovranità su un territorio esteso, la vecchia borghesia europea non aveva accesso. Sono però da menzionare la repubblica dei Paesi Bassi e la Confederazione elvetica, dove le città in unione con altre forze politiche, come nobiltà e comuni delle valli, potevano formare una struttura prestatale repubblicana[31]. Ma generalmente la borghesia era interessata a difendere il suo modo di vivere e la sua economia e si identificava con la propria città e con la propria cittadinanza: il suo interesse primario non risiedeva nell'espansione della sovranità e nel dominio politico. I suoi maggiori successi politici la borghesia li raggiunse tramite associazioni che andavano oltre la singola città solo quando erano minacciati il suo modo di vivere e la libertà, la pace e il commercio. In questa sua limitatezza, la vecchia borghesia europea non mi sembra antipatica. Ma essa poté mettere in pericolo le pretese egemoniche dell'Europa della nobiltà feudale solo quando cercò la sua identità nell'ambito della nazione, cioè nel Settecento e nell'Ottocento.


La Repiovega Serenisima come modeło istitusional ?
viewtopic.php?f=137&t=1891
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Re: Democrazia, cittadinanza, valori, doveri e diritti umani

Messaggioda Berto » lun set 24, 2018 9:01 pm

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Re: Democrazia, cittadinanza, valori, doveri e diritti umani

Messaggioda Berto » lun set 24, 2018 9:01 pm

Politica e democrazia, quando la disonestà è ovvia
Luciano Spiazzi

https://www.vicenzareport.it/2018/09/po ... ta-e-ovvia

Vicenza – Per parafrasare Friedrich Nietzsche, in Italia c’è una democrazia che è “contro il proprio tempo” piuttosto che “fuori dal proprio tempo”. Giusto per entrare subito in argomento, parlerò di democrazia diretta, della quale già in passato ho argomentato. Innanzi tutto è indispensabile assumere che gli strumenti di democrazia diretta più importanti sono i referendum, senza il truculento quorum, l’iniziativa popolare di leggi e delibere, il recall o revoca dei “rappresentanti” prima della fine del loro mandato.

Essi sono previsti dalla Carta europea dell’autonomia locale, ma dall’introduzione della legge 142/90, che ha fatto propria la Carta, essi sono stati via via travisati, edulcorati, e depotenziati dalla imperante partitocrazia. Ciò nonostante, in qualche Statuto comunale si sta avviando un processo di corretta messa a fuoco.

Ne segnalo uno come esempio positivo: nel Comune di Vignola (MO) si sono accettabilmente normati alcuni strumenti. Si confronti l’Art. 9 gli istituti di democrazia diretta – 1. Il Comune considera gli istituti di democrazia diretta come fondamentali strumenti di partecipazione popolare all’attività dell’Amministrazione. A tal fine garantisce a tutti i titolari dei diritti di partecipazione di potersi avvalere dei seguenti istituti:

istanze e petizioni;
la parola al cittadino;
la giornata della democrazia;
scelta partecipata;
consiglio comunale aperto;
iniziativa popolare a voto consiliare;
referendum e consultazioni popolari.

Al lettore che fosse interessato ad approfondire il dettaglio suggerisco la lettura dell’art. 14 consiglio comunale aperto; dell’Art. 16 referendum e consultazioni popolari; dell’Art. 17 iniziativa popolare a voto popolare; dell’Art. 23 effetti del referendum; dell’Art. 24 diritto di accesso; e quant’altro affine qui.

Come raffronto ecco l’esempio negativo, che peraltro è presente nella maggioranza degli Statuti degli Enti Locali: Comune di Costabissara, Art. 37 Referendum – 1. Un numero di elettori residenti non inferiore al 25% degli iscritti nelle liste elettorali può chiedere che vengano indetti referendum in tutte le materie di competenza comunale. 2. Non possono essere indetti referendum in materia di tributi locali e di tariffe (segue un lungo elenco. NdR). Sono inoltre escluse dalla potestà referendaria le seguenti materie: a) statuto comunale; b) regolamento del consiglio comunale; (anche qui segue un lungo elenco. NdR). Comma 8. Il mancato recepimento delle indicazioni approvate dai cittadini nella consultazione referendaria deve essere adeguatamente motivato e deliberato dalla maggioranza assoluta dei consiglieri comunali.

Insomma, i cittadini di questo comune “possono chiedere che vengano indetti referendum in tutte le materie di competenza comunale”, ma debbono superare numerosi ostacoli per indire una consultazione popolare al fine di indicare all’amministrazione pubblica cosa vogliono che essa faccia. (=democrazia). Tuttavia, dopo che tali cittadini si sono liberamente espressi, il Consiglio comunale si arroga il diritto di fare quello che vuole. Ovviamente “adeguatamente motivando”.

Sic! Eppoi prendiamo in considerazione la questione fondamentale, ovvero: Quis custodiet ipsos custodes? Che letteralmente significa: «Chi sorveglierà i sorveglianti stessi?». Infatti, i Consiglieri comunali (provinciali, regionali) redigono e deliberano gli Statuti e i Regolamenti conseguenti, ma in spregio all’Art. 1, Comma 2 della Costituzione: «La sovranità appartiene al popolo» si guardano bene dal farseli approvare da quel cittadino-contribuente al quale addossano sempre più oneri.

Da poche settimane c’è un ministro della Democrazia diretta: Riccardo Fraccaro (M5s). Sono speranzoso (ma non fiducioso) e ansioso di conoscere quali provvedimenti emanerà nei confronti di quei Comuni, Province e Regioni – ripeto, sono la maggioranza – che hanno normato i predetti strumenti di democrazia diretta in questo modo. Di più: non è bastato eludere la Carta europea dell’autonomia locale, si ignora anche la Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa che su quorum di partecipazione, e soglia delle firme da raccogliere, ha redatto il parere 797/2014. Tale Commissione s’incontra a Venezia (tel. +39 041 3190860), ed è l’organo consultivo del Consiglio d’Europa sulle questioni costituzionali.

Le raccomandazioni di questo organismo ritengono “consigliabile” non prevedere un quorum di affluenza del 50%+1 come previsto dalla normativa vigente, o un quorum per l’approvazione. I quorum di affluenza hanno almeno due effetti indesiderati: primo, le astensioni sono assimilabili ai non-voti, e secondo, i voti espressi per una proposta che alla fine non raggiunge il quorum saranno inutili. Gli avversari saranno tentati di incoraggiare l’astensione, che non è salutare per la democrazia. Chi non ricorda il voto che il 9 giugno del 1991 che determinò il crollo del ciclo di potere craxiano. Risale ad allora il celebre invito di Bettino Craxi, «Andate al mare», rivelatosi di lì a poco il più fragoroso boomerang della storia elettorale italiana. I quorum di approvazione, poi, rischiano di “coinvolgere una situazione politica difficile, se il progetto è adottato a maggioranza semplice inferiore alla soglia necessaria”.

Per quanto riguarda le firme necessarie per proporre un referendum, il numero di riferimento chiave sembra essere quello relativo alla soglia di 1/50 (= al 2%, e non al 25% su indicato, che in alcuni Statuti è anche superiore) degli elettori. Un elevato numero di firme può indicare un ampio sostegno popolare. Tuttavia, esso non garantisce il supporto, perché le persone possono firmare perché sono convinte che la questione sia controversa e che dovrebbe essere decisa dal popolo (in qualsiasi senso). Parole chiare da parte della Commissione che è un autorevole organismo internazionale di alta competenza. Ma i “rappresentanti” chiamano “la loro” un’ amministrazione democraticamente trasparente.

A questo punto mi piacerebbe concludere con una frase ad effetto tipo: certi politicanti per la loro faccia usano la preparazione H; ma preferisco ricordare a me stesso un brano dell’intervento del senatore Robert Kennedy all’Università di Cape Town, Sud Africa, il 6 giugno 1966, dove tra l’altro affermava: «Ogni volta che un uomo lotta per un ideale o agisce per migliorare il destino degli altri o combatte contro l’ingiustizia, manda avanti una sottile onda di speranza. E queste onde alimentano una corrente che può spazzare via il più solido muro di oppressione e di resistenza».

La democrazia è una forma di governo che si basa sulla sovranità popolare e garantisce a ogni cittadino la partecipazione in piena uguaglianza all’esercizio del potere pubblico. La democrazia non nasce solo come idea astratta dai testi della “Repubblica” (peraltro utopica) di Platone o dai sermoni di Pericle nelle agorà ateniesi della Grecia classica. Nasce soprattutto come evoluzione di un intenso scambio di opinioni tra intellettuali, commercianti, artigiani, cittadini di ogni tipo, in città molto complesse e piene di problemi come lo erano quelle del Peloponneso nel quinto secolo a.C.

I greci avevano già sperimentato vari tipi di tirannie e oligarchie nei secoli precedenti. Questi avevano fallito, ergo occorreva introdurre nuovi sistemi di rappresentanza amministrativa che dessero la possibilità di identificare problemi e trovare soluzioni a parti più estese (e più trasversali) della popolazione. E per questo si capì allora che occorreva, appunto, permettere a più gente (non solo ai partiti) di parlarne. Niente di magico. Niente di fantastico. La democrazia è una non-ideologia proprio per questo, per natura e per metodo. È la semplice rassegnazione ad ascoltare la voce di più persone per risolvere problemi grossi su cui molti, troppi, despoti e intelligentoni, si sono arenati in modo più o meno violento. È una forma di amministrazione basata, in sostanza, sul pragmatismo. Non è certamente la migliore, ma funziona meglio di altre perché è più realistica.
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Re: Democrazia, cittadinanza, valori, doveri e diritti umani

Messaggioda Berto » gio nov 29, 2018 9:47 pm

DAL NEW YORK TIMES ALLA LEONARDO FACCO EDITORE: NUOVO LIBRO DI HOPPE
di GUGLIELMO PIOMBINI

https://www.miglioverde.eu/dal-new-york ... EFkokCtldI

Abbasso lo Stato e la Democrazia. Scritti sui sistemi istituzionali moderni e il libertarismo (198 pagine, € 13.00) è una raccolta di alcuni fra i migliori saggi di Hans-Hermann Hoppe appena pubblicata dalla Leonardo Facco Editore in collaborazione con goWare. Il libro unisce insieme, in una nuova veste editoriale, i saggi di Hoppe contenuti in due pubblicazioni esaurite nella loro precedente edizione: Abbasso la democrazia (2000) e Contro lo Stato democratico (2015).
I temi del libro sono quelli che hanno fatto di Hoppe uno dei più originali esponenti dell’attuale pensiero libertario: la difesa filosofica della proprietà privata, l’elogio della decentralizzazione politica e della secessione, la distinzione tra il libero scambio delle merci e la libera circolazione delle persone, la superiorità dell’anarco-capitalismo sul liberalismo classico, la critica alla democrazia moderna.
Di recente Hoppe è salito alla ribalta per essere stato citato con particolare rilievo in un editoriale del New York Times. Il 22 ottobre 2018, in un articolo non privo di incomprensioni e forzature intitolato “Trump, i populisti e l’ascesa della globalizzazione di destra”, Quinn Slobodian ha affermato che «Il presidente e l’estrema destra vogliono conservare il libero movimento delle merci e dei capitali, ma non quello delle persone», e ha chiamato in causa Hans-Hermann Hoppe e gli anarco-capitalisti come ideologi dell’attuale globalizzazione capitalistica “di destra”.
Slobodian, un professore di storia dalle idee progressiste, nostalgico dei no-global e critico della globalizzazione “neo-liberale”, ha scritto che «molti appartenenti alla destra alternativa, incluso il principale pensatore anarco-capitalista Hans-Hermann Hoppe credono che l’omogeneità culturale sia una precondizione per l’ordine socioeconomico. Mr. Hoppe immagina la dissoluzione dell’attuale mappa degli stati del mondo in migliaia di piccole unità della dimensione di Hong Kong, Andorra e Monaco, senza governi rappresentativi e gestite solo attraverso contratti privati. Come Hong-Kong e Singapore, queste zone non sarebbero isolate ma iper-connesse, nodi dei flussi finanziari e commerciali governati non dalla democrazia (che cesserebbe di esistere), ma dal potere del mercato in cui le dispute sono risolte dall’arbitrato privato. Non esisterebbero più diritti umani oltre ai diritti privati codificati nei contratti e fatti rispettare da forze di sicurezza private … Il principio sarebbe: separati, ma globali». La formula alla quale si ispira la destra politica attuale, conclude Slobodian, è dunque quella teorizzata da Hoppe: «Sì alla libera finanza e al libero mercato. No alla libera immigrazione, alla democrazia, al multilateralismo e all’eguaglianza».
La descrizione astiosa e in parte distorta che Slobodian fa delle idee di Hoppe conferma, ancora una volta, la capacità di quest’ultimo di mettere in discussione gli assunti del pensiero politicamente corretto. Anche nel suo recente intervento a Bodrum, in occasione della riunione annuale dell’associazione Property and Freedom Society da lui fondata, Hoppe ha criticato in maniera brillante le tesi hobbesiane contenute nel best-seller di Steven Pinker Il declino della violenza, secondo cui l’affermazione dei moderni Stati centralizzati avrebbe progressivamente portato alla riduzione della violenza umana rispetto alle epoche passate.
La tesi di Pinker, osserva Hoppe, è infondata teoricamente (dato che il monopolio è sempre più costoso ed inefficiente della concorrenza, e questo vale anche per la protezione e la giustizia) ed empiricamente, dato che una corretta lettura delle statistiche disponibili sembra contraddire le conclusioni dell’acclamato psicologo di Harvard.
Abbasso lo Stato e la democrazia è dunque un libro indispensabile per conoscere le idee di uno dei più originali pensatori del nostro tempo, e non deve mancare nella biblioteca personale di ogni appassionato di filosofia politica e scienze sociali. Può essere prenotato presso la Libreria del Ponte di Bologna, oppure ordinato, anche in formato digitale, presso le maggiori librerie online.


INDICE DEL LIBRO
Scritti di Hans-Hermann Hoppe
Dall’Aristocrazia alla Monarchia alla Democrazia
Cosa deve essere fatto
La giustizia dell’efficienza economica
Contro la centralizzazione
Piccolo è bello e efficiente: gli argomenti a favore della secessione
Abbasso la democrazia!
Libertà di accogliere, diritto di escludere
Il futuro del liberalismo. Argomenti per un nuovo radicalismo
COMMENTI
Il pensiero politico di Hans Hoppe tra diritti individuali e strategie libertarie, di Carlo Lottieri
La fisiologia della protezione, di Novello Papafava
Monarchia e democrazia in Hoppe, di David Gordon
La riflessioni di Hans Hoppe sui sistemi istituzionali, di Luca Fusari
La privatopia di Hans Hoppe, di Raimondo Cubeddu



“La libertà di immigrare non esiste”
di Marco Valerio Lo Prete
2015/08/31

https://www.ilfoglio.it/articoli/2015/0 ... iste-87075


Roma. Il ministro dell’Interno inglese, Theresa May, ha detto di voler tornare alla “libertà di movimento” come originariamente intesa dal progetto della costruzione europea, prima cioè di una sequela di correzioni giurisprudenziali. “Libertà di muoversi per lavorare, non libertà di attraversare i confini per cercare un lavoro o per accedere a benefici welfaristici”, ha scritto sul Sunday Times.
Sollevando un polverone di polemiche più o meno appropriate anche in Italia, visto che il Regno Unito è già fuori dagli accordi di Schengen, e già accoglie più del doppio di immigrati di quanto non faccia il nostro paese pure quando investito da flussi straordinari. A non scandalizzarsi di certo per la posizione della May sarebbe probabilmente Hans-Herman Hoppe, filosofo tedesco, addottorato in Germania con Jürgen Habermas, poi trasferitosi nel 1986 in America e folgorato dal libertarianism di Murray N. Rothbard (1926-1995).
Cosa c’entri uno dei principali pensatori anarco-capitalisti viventi con le restrizioni ai flussi migratori tornerà a spiegarlo lo stesso Hoppe tra una decina di giorni, durante il seminario annuale della sua Property and Freedom Society che si terrà in Turchia, paese dove lo studioso oggi vive. D’altronde le sue tesi, in America, già animano da anni un dibattito accademico e politico sull’immigrazione che non ha eguali in Europa. È il dibattito sugli “open borders”, come lo abbiamo descritto su queste colonne, con al centro la tesi – sostenuta da svariati economisti libertari e liberisti – per cui gli stati dovrebbero sbarazzarsi delle frontiere. In questo modo si avvantaggerebbero al meglio dello spostamento di milioni di persone in fuga da guerra o povertà, e incentiverebbero pure un effetto propulsivo della crescita mondiale.
Perché il pil del pianeta ne uscirebbe raddoppiato nel giro di due decenni, prevedono questi studiosi ragionando sull’aumento dei consumi e della forza lavoro, sulla crescita esponenziale di libertà di spostamento e d’innovazione. Esercitare l’immaginazione su un’ipotesi radicale, come appunto è l’abbattimento delle frontiere, non è inutile. Il confronto, che in America si muove spesso sulla base di statistiche accurate e previsioni econometriche, attira anche studiosi mainstream come il decano di economia dell’immigrazione di Harvard George Borjas, intervenuto sull’ultimo numero del Journal of Economic Literature per criticare i fautori dei “confini liberi”. Un dibattito, insomma, che spinge almeno gli analisti a uscire da certi schemi un po’ moralistici che immobilizzano la ragione.

Come collocare, in questo contesto, le posizioni restrittive di Hans-Hermann Hoppe? È necessario partire dalla sua opera principale, “Democracy: The God that Failed”, meritoriamente tradotta in Italia da Alberto Mingardi (direttore dell’Istituto Bruno Leoni) e pubblicata nel 2005 da Liberilibri. Interventi successivi e recenti dello stesso Hoppe hanno continuato a rimandare al nocciolo duro della sua analisi, secondo cui staremmo attraversando una fase di “decivilizzazione”. Caratterizzata da “consumo dei capitali, previdenza e orizzonte di pianificazione sempre più ristretti e un progressivo brutalizzarsi della vita sociale”. Lo studioso, fautore in via di principio dello smantellamento totale dello stato, individua nel regime monarchico – con “lo Stato posseduto a titolo privato” – l’opzione second best. Nel regime monarchico, infatti, “la struttura d’incentivi cui il sovrano è soggetto è tale che è suo interesse comportarsi in modo relativamente previdente e adottare solo politiche fiscali e militari moderate”. Ma lo Stato monarchico è stato rottamato dallo spirito democratico-repubblicano, palesatosi assieme alla Rivoluzione francese e al suo esportatore Napoleone. Alla fine comunque è la Prima guerra mondiale, secondo Hoppe, “il momento in cui la proprietà privata dello Stato venne completamente sostituita dalla proprietà pubblica dello Stato, e da cui è sgorgata una tendenza verso crescenti gradi di preferenza temporale collettiva, crescita del governo e un relativo processo di decivilizzazione”. Il governante democratico non è incentivato a dedicarsi alla conservazione e all’accrescimento del capitale di un paese, piuttosto fa di tutto per difendersi dalla concorrenza di chi vuole gestire le leve del potere al suo posto. Da qui l’enfasi dei governi democratici sulla redistribuzione della ricchezza (privata) e il sopravvento del diritto pubblico (su quello privato). La democrazia, secondo Hoppe, diventa una gara dei governanti per assegnare o promettere privilegi a dei gruppi, “la redistribuzione avrà di norma effetti egualitari e non elitisti”, ergo “la struttura della società verrà progressivamente deformata”. Come opporsi a tale deriva? Delegittimando agli occhi dell’opinione pubblica la democrazia, ricordando che perfino la monarchia è più funzionale, e fomentando la secessione di piccoli stati. E se il Dio della democrazia ha fallito, sostiene Hoppe, in particolare le politiche migratorie sono lì a dimostrarlo. Vediamo perché.

“Le cose cambiano in maniera radicale e il processo di civilizzazione deraglia permanentemente quando le violazioni dei diritti di proprietà prendono la forma dell’interferenza governativa”, scrive Hoppe. “La tassazione, il prelievo di ricchezza da parte dello stato e le regolamentazioni imposte da esso – a differenza della sua controparte criminale – sono considerate legittime, e alla vittima dell’interferenza da parte dello stato, a differenza della vittima di un crimine, non viene riconosciuto il diritto a difendersi fisicamente e a proteggere la sua proprietà”. Secondo Hoppe questa china ha inizio nel 1918.

Hoppe si dice convinto dell’“argomentazione classica” a favore della “libera immigrazione”: “A parità di condizioni, le attività commerciali e industriali tendono a trasferirsi dove i salari sono bassi, mentre la forza lavoro tende a trasferirsi dove i salari sono più elevati. In tal modo si produce una tendenza all’uniformazione dei salari (a parità di tipo di lavoro) e alla allocazione ottimale del capitale. (…) Si aggiunga che tradizionalmente i sindacati – e oggi anche gli ambientalisti – si oppongono alla libera immigrazione: già di per sé questo fattore dovrebbe rappresentare un buon argomento a favore di una politica di libera immigrazione”. Almeno tre sono però le obiezioni che fanno ricredere Hoppe che perciò prende le distanze dagli analisti pro “open borders”.

Innanzitutto il concetto di “ricchezza” e “benessere” è soggettivo, ergo un aumento del pil globale non può diventare l’argomento passepartout per liberalizzare i flussi di persone: “Giacché qualcuno potrebbe preferire avere un tenore di vita più basso in cambio di una maggiore distanza tra sé e il prossimo, piuttosto che godere di un livello di vita più elevato al prezzo di una maggiore prossimità agli altri”.

La seconda obiezione risponde a quanti notano una naturale sintonia tra il sostenere la libertà degli scambi economici e la libertà totale degli spostamenti di persone. Risponde Hoppe: “Non vi è nessuna analogia tra libero scambio e libera immigrazione, e restrizioni al commercio e all’immigrazione. I fenomeni del commercio e dell’immigrazione sono diversi sotto un profilo fondamentale, e i sostantivi ‘libertà’ e ‘restrizione’ declinati con ciascuno dei due termini assumono significati radicalmente diversi: gli individui possono spostarsi e migrare, i beni e i servizi no”. In altre parole, “mentre un soggetto può migrare da un luogo all’altro senza che nessun altro lo voglia, merci e servizi non possono essere inviati da una parte all’altra senza che chi spedisce e chi riceve siano d’accordo”.

Si arriva così alla terza obiezione, quella più radicale. Riguarda la “proprietà” dei territori su cui le migrazioni hanno luogo. In una società “anarco-capitalista”, come la vorrebbe Hoppe, “tutta la terra è di proprietà di individui privati, comprese tutte le strade, i fiumi, gli aeroporti, i porti e via dicendo”. In tale situazione “non vi è distinzione netta tra ‘locali’ (ossia cittadini del posto) e stranieri”; l’immigrazione è possibile solo quando c’è il consenso dei legittimi proprietari della terra. In presenza di un simile ordinamento sociale, “non esiste libertà d’immigrazione o un diritto di ingresso in capo all’immigrante”. Le politiche migratorie cambiano “quando il governo è di proprietà pubblica”. Se il governante democratico assomiglia a un “curatore temporaneo” che vuole massimizzare “denaro e potere”, “in accordo con l’egualitarismo intrinseco della democrazia, dovuto al fatto che ogni individuo dispone del voto, il governante tenderà a perseguire politiche migratorie di chiaro stampo egualitario, ossia non discriminatorie”. Quando si tratta di immigrazione, dunque, poco importa che entrino nel paese “vagabondi o produttori” – scrive Hoppe – anzi, “vagabondi e individui improduttivi potrebbero essere i residenti e i cittadini preferiti, in quanto si tratta di categorie che creano il maggior numero dei cosiddetti problemi ‘sociali’ e i governanti democratici prosperano proprio grazie all’esistenza di tali presunti problemi”. Il filosofo sostiene che “il risultato di questa politica di non-discriminazione consiste in un’integrazione forzata, ossia nell’obbligare a una convivenza forzata, con masse di immigrati di più basso livello, i proprietari del paese che, se avessero potuto scegliere, avrebbero mostrato una maggiore oculatezza e avrebbero scelto dei vicini alquanto diversi”. Per tornare al parallelo con lo scambio delle merci, “libero commercio” si riferisce a scambi che avvengono soltanto su sollecitazione di privati e aziende; “libera immigrazione non significa immigrazione su invito di singoli e imprese, ma invasione non voluta e integrazione forzata”. Altro che “immigrazione libera”, quella che si realizza in America e in Europa occidentale, secondo Hoppe, è “integrazione forzata bella e buona, e l’integrazione forzata è il prevedibile esito della regola democratica di concedere un voto a chiunque”.

La soluzione è “contrattuale” o non è

Per correggere questa tendenza, Hoppe propone misure correttive e preventive di tipo contrattuale. Le prime consistono nell’estendere la proprietà privata quanto più possibile, per ridurre il “costo della protezione” che spetta allo stato garantire. Il muro al confine tra Messico e Stati Uniti, secondo il pensatore, costa molto perché dalla parte americana ci sono ampi territori pubblici. Affidandoli ai privati, che s’intesterebbero la gestione dei flussi, si risparmierebbe. Le misure preventive equivalgono ad assicurarsi che ogni immigrato sia munito di “un invito valido da parte di un proprietario residente”; il soggetto che riceve l’immigrato si assume le responsabilità per le azioni compiute dal suo ospite, e l’immigrato sarà escluso dai servizi finanziati dal settore pubblico finché non diventerà cittadino. Un altro scenario, fantascientifico ma non troppo, che interroga anche l’Europa.



Il dio che ha fallito: la (pseudo) demokràzia
EFFEDIEFFE.com
03 Novembre 2011

http://www.effedieffe.com/index.php?opt ... mid=100021

Se c’è una cosa che tutte le tecnocrazie ed oligarchie paventano, è un referendum. L’eurocrazia ne ha motivo, visto che ogni volta che si è osato chiedere un parere ai cittadini di una qulaunque nazione sulla loro amata costruzione europea, si sono sentiti subissare da un risonante no!

No a Maastricht, no alla pseudo-costituzione di Lisbona, no all’ampliamento... Se ne sono infischiate ed hanno proceduto a completare la loro costruzione a forza di fatti compiuti. L’euro, moneta comune senza uno Stato politico comune, ne è l’esempio più lampante.

Lo sapevano, gli eurocrati, che avrebbero così provocato una serie di devastanti crisi «asimmetriche» (così le chiamava Padoa Schioppa) ma loro auspicavano queste crisi, prevedendo che i politici degli Stati portati alla rovina sarebbero andati in ginocchio a implorarli di salvare la situazione, cedendo loro gli ultimi brandelli di sovranità, perchè governassero al loro posto: Europa federale, la chiamano i congiurati e la invocano i loro complici interni agli Stati.

Ed ecco che proprio il politicante Papandreu, screditato governante dello Stato più indebolito, più dipendente dal buon volere delle tecnocrazie e dei banchieri, più (credevano) asservito, getta sulla bilancia la spada di Brenno dell’appello al popolo. Sgomento, proteste, «certe cose non si fanno», ho sentito persino un economista dire a Radio 24, che la Grecia «non ha il diritto» di indire un referendum che ha effetti anche sugli Stati vicini, fra cui l’Italia; ma forse è questa interdipndenza forzata dagli incroci bancari a non avere diritto di esistere.

Banchieri ed economisti sono in ambasce, perchè è stata gettata nella bilancia una entità che non sono abituati a contare nelle loro partite doppie, un’entità che esula dall’economia: la sovranità popolare. Fatto singolare ma istruttivo, anche i politici eletti si stracciano le vesti: segno che ormai si vivono non come rappresentanti del popolo ma come funzionari, professionisti e parassiti della politica, in una parola: come oligarchi, sia pur di livello inferiore (valvassini) del sistema.

Basta ricordare come i politici nostrani, italici, abbiano tradito la volontà popolare espressa nei referendum del 1992-94; il popolo aveva detto sì al maggioritario, e si trovò il Mattarellum, un sistema elettorale pseudo-maggioritario e realmente proporzionale, un inghippo il cui unico scopo era garantire la sopravvivenza dei partitini e del loro personale professionale-politico. Resto convinto che la aggravata corruzione del popolo italiano (e dei suoi politici) sia la conseguenza di quel tradimento e di quella slealtà primaria.

Papandreu, indicendo il referendum, ha posto i cittadini greci non più davanti al fatto compiuto, ma davanti alle loro responsabilità.

Questa è appunto la democrazia non finta, non viscida, non fatta di feste democratiche e di notti bianche pop e rock: responsabilità. Il duro principio della democrazia – a contrario della mistica democratistica e dei demagoghi – non è che il popolo è infallibile, perchè non sbaglia mai. Al contrario. Dice semplicemente che il popolo è sovrano, ossia che spetta a lui decidere su questioni che sono essenzialmente discutibili, e che lo riguardano direttamente. La scelta politica non è mai fra una soluzione buona e una soluzione cattiva, perchè se no sarebbe facile scegliere, e non ci sarebbe dibattito. La scelta politica vera, duramente reale, è fra due soluzioni che – entrambe – hanno dei pro e dei contro, dei vantaggi e degli svantaggi. Discutibili, appunto; decida il popolo.

Nel caso del popolo greco, il referendum verterà su due domande:

1) volete restare nella UE, con l’euro come moneta, e pagare i debiti fino all’ultima goccia di sangue, oppure

2) uscire dall’euro e dall’Europa? In un caso e nell’altro, si tratta di accettare sacrifici estremi, sacrifici da tempo di guerra, anni di miseria. Dica il popolo quali sacrifici – che comunque farà – gli danno una prospettiva, una luce al fondo del tunnel.

Il popolo greco – come quello italiano – non è abituato alle responsabilità. Ha vissuto di pasti gratis economici, di posti statali, sopra i suoi mezzi, e di evasione fiscale (ci sono più Porsche in Grecia di quanti contribuenti dichiaranti oltre i 50 mila euro l’anno, la sola città di Larisssa, 250 mila abitanti nella misera Tessaglia, ha più Porsche pro-capite di quante ne abbia New York). Ora, questi regali della demokratia sono finiti. Ora comincia il duro mestiere della democrazia diretta, dell’assunzione di responsabilità.

Il dibattito pubblico che in Grecia occuperà la piazza e i media nei prossimi due mesi, consentirà al pubblico di chiarirsi le idee sulle scelte alternative a cui è chiamato, sui pro e i contro, sui vantaggi e sui danni collaterali dell’una e dell’altra; diverrà chiaro al pubblico che non si tratta di una scelta fra la festa perpetua e i posti statali in cui imbucarsi contro i sacrifici imposti dalla Germania, bensì fra due diverse stritture di cinghia.

Un dibattito vero, finalmente, non come i dibattiti finti che affollano le nostre TV e i talk-show. Non come essere chiamati a pronunciarsi sulle nozze fra omosessuali o sui diritti dei trans. Un dibattito per adulti. La democrazia diretta è infatti un sistema per adulti e che rende adulti, mentre la democrazia delegata – troppo delegata ai politici di professione che si concepiscono come un’oligarchia in carriera – è stata una culla di infantilismo politico, di irresponsabilità... e di spesa pubblica indecente.

Lo sostiene Han Herman Hoppe, un tedesco, sociologo-economista dell’Istituto Von Mises, che ha pubblicato (in America) un saggio dal titolo significativo: Democracy, the God that failed, e dal sottotitolo anche più istruttivo: L’economia e la politica in monarchia, democrazia e nell’ordine naturale. (Democracy: The God That Failed)

Orribile a dirsi, Hoppe parte dall’asserzione politicamente scorrettissima che la proprietà, la famiglia e la gerarchia sono valori della civiltà, che sono stati svalutati, quando non criminalizzati, dalla democrazia rappresentativa derivata dalla demagogia giacobina. Vige oggi, anzi trionfa, la preferenza per l’immediato delle maggioranze infantilizzate; mentre i padri di famiglia e i proprietari – i soli che sono disposti a sacrificare l’immediato per investire e risparmiare in vista del futuro, dei figli, del mantenimento della proprietà – sono marginalizzati e colpevolizzati. L’estrema caricatura del principio un uomo, un voto, ossia il voto dato ai diciottenni che vale quanto il voto di un padre di quattro figli è una iniquità morale, dato che quest’ultimo ha quattro volte più interesse alla buona, oculata, previdente conduzione della cosa pubblica. Se l’Italia fosse quella che proclama la costituzione, «una repubblica fondata sul lavoro», riserverebbe il diritto di voto a chi un lavoro ce l’ha, o almeno lo cerca.

Hopper si spinge fino a preferire (turatevi le orecchie) il sistema monarchico: il re essendo il primo proprietario e il primo dei pater familias, interessato alla durata della sua famiglia nei secoli, meglio esprime la parte adulta della società, quella che sacrifica l’immediato in vista del futuro. I monarchi non hanno alcun interesse a succhiare e a consumare il capitale pubblico. Non a caso, dal secolo undicesimo fino al 1800, le monarchie hanno prelevato mediamente l’8% della ricchezza nazionale.

Come si è arrivati ai prelievi fiscali del 50 e più per cento delle dilapidanti democrazie, presunti governi del popolo? Con la delega. Dovunque nel mondo d’oggi, nelle banche come nelle imprese, nelle tecnocrazie e nel personale politico, agiscono non i proprietari e i padri di famiglia, ma gestori, manager, amministratori (non a caso detti ) delegati.

Tutti questi gestori non-proprietari vogliono guadagnare il massimo nel più breve termine, proprio a causa della condizione relativamente instabile di gerente. Ciò è stato scandalosamente evidente nei banchieri e gestori di fondi che giocano col denaro altrui, e si pagano bonus colossali distruggendo l’economia con le loro tattiche di brevissimo termine; ma è vero anche per gli eurocrati, e ancor più per i politici eletti nel sistema di democrazia delegata.

In conclusione, i dirigenti attuali condividono la preferenza per l’immediato delle parti basse, maggioritarie e infantilizzate, della società, ossia della maggioranza elettorale. Alle folle, o alle lobby, che pretendono voglio tutto e subito, i politici danno dei regali, per mantenersene il favore. Lo fanno tanto più spensieratamente, in quanto il denaro che gestiscono non è il loro. Assicurano il finanziamento di questi regali con imposte che colpiscono minoranze (tale è l’imposta sul reddito delle persone fisiche) con imposte apparentemente indolori (l’IVA), ma soprattutto con l’indebitamento pubblico tramite folle emissione di BOT, perchè così indebitano le generazioni future, che non possono ancora protestare.

Quando poi la crisi del debito diventa insostenibile, ricorrono alla patrimoniale, ossia all’esproprio dei piccoli proprietari e dei padri di famiglia che risparmiano in vista del futuro. Magari tagliano le spese sociali, ma non però le spese per le notti bianche pop, o per le loro autoblu.

Il caso patente del giorno è il ministro della Difesa La Russa che, con questi chiari di luna, ha ordinato 19 Maserati blindate per altrettanti generali (nel Paese badogliano, i generali sono tanti, e trattati coi guanti). O il ministro Tremonti e il ministro Bossi che, il giorno del crollo di tutto, erano alla Sagra della Zucca in un paesino del Nord.

Come rimediare? Il ritorno alla monarchia è un’idea che non è ancora matura. Il secondo metodo migliore, e praticabile da subito, è invece la democrazia diretta. Hopper cita il lavoro di due eminenti svizzeri, i professori Feld e Kirchgassner (2008), il quale dimostra che la democrazia diretta svizzera – il referendum fiscale e finanziario, il voto di iniziativa popolare, il cosiddetto referendum di veto – permette di ridurre il livello delle spese e delle imposte del 30%, e il livello del debito pubblico del 50%.

Come noto (ma forse non abbastanza) in Svizzera i cittadini votano frequentemente a tutti i livelli, municipale, cantonale, federale, per approvare o rifiutare spese pubbliche rilevanti; se le cifre sono grosse, tali referendum sono addirittura obbligatori (in Italia per contro è vietato il referendum in materia fiscale). Così, per esempio, i cittadini di Zurigo hanno bocciato per due volte il progetto del loro sindaco di dotare la città di una metropolitana: troppo caro, meglio restare al tramway. Ogni decisione di indebitamento dei rappresentanti del popolo viene sottoposta a referendum, il che invariabilmente ha il risultato di ridurre l’indebitamento stesso. In Svizzera, con raccolta di firme, i cittadini possono contestare una decisione del governo locale o federale chiamando il popolo ad esprimersi: l’iniziativa popolare ha fatto sì che per ben tre volte gli svizzeri abbiano rifiutato l’introduzione dell’IVA, che infine è stata adottata, ma con un tasso modestissimo.

Perchè ogni volta che sono chiamati a dare il loro parere i cittadini frenano le spese e l’indebitamento? Facile: perchè i soldi da spendere sono i loro, mentre i politici di professione, i tecnocrati, i funzionari, i sindacalisti e i banchieri giocano col denaro altrui. Il referendum, la democrazia diretta, stimola negli svizzeri il loro status di risparmiatori, di piccoli proprietari, di classe media: in una parola, di adulti.

Quando si chiede direttamente ai cittadini, la democrazia è portata al suo cuore pulsante: l’esercizio della responsabilità.

Perciò ben venga il referendum dei greci. Non è affatto certo che sceglieranno la soluzione più facile (ammesso che esista) nè la preferenza per l’immediato. È singolare invece la grandine di critiche e rabbiose derisioni che gli altri politici greci, e i commentatori dei grandi giornali ellenici, hanno lanciato su Papandreu per questa scelta: è un trucco per guadagnare tempo, un trucco per evitare elezioni anticipate perchè sa che il suo partito verrebbe cancellato, è troppo poco serio per fare cose serie... È la rabbia di chi teme di essere svegliato e di doversi scoprire adulto, capace di scelte dolorose, e forse ancor più di trovarsi espropriato della delega fasulla della professione politica, o dello status di opinion leader.

È la democrazia diretta, bellezza. Non si scherza più, non si tratta di arraffare pasti gratis; fuori i pagliacci dall’arena, fuori i bambini viziati.

Ma forse sto sognando. Apprendo che in tedesco l’espressione che noi mal traduciamo Confederazione Elvetica, in tedesco si legge Schweizerische Eidgenossenschaft. Che letteralmente significa: Associazione di comproprietari (Genossenschaft) uniti da un giuramento (Eid) di difendersi in comune.

Naturalmente, oggi una democrazia di comproprietari giurati sarebbe bollata come oligarchia, dagli oligarchi delegati e da quelli che la delega se la sono presa in Europa, nelle banche, dovunque. Eppure qualcosa mi dice che la democrazia ateniese, quella vera e antica dell’agorà, era qualcosa di molto più simile alla Eidgenossenschaft elvetica che alla demokràtia astratta, formale e truffaldina di oggi.



L’Europa muore se rottama comunità e nazioni, dice il libertario Hoppe
2016/08/09

https://www.ilfoglio.it/politica/2016/0 ... ppe-102618

Roma. “Tutti i principali partiti politici dell’Europa occidentale, quale che sia il loro nome o la loro piattaforma programmatica, sono oggi devoti alla stessa idea fondamentale di socialismo democratico – ha detto Hans-Herman Hoppe, filosofo tedesco, in una lunga intervista al settimanale polacco Najwyzszy Czas! – Questi partiti politici utilizzano cioè le consultazioni elettorali per legittimare una sola prassi: tassare le persone produttive a beneficio delle persone improduttive. Impongono balzelli alle persone, che hanno guadagnato il proprio reddito o accumulato la propria ricchezza producendo beni e servizi acquistati liberamente da altre persone, e poi redistribuiscono il bottino confiscato a loro stessi, allo stato democratico che controllano o sperano di controllare e ai loro alleati, sostenitori o potenziali elettori. I partiti al potere si rifiutano di chiamare questa politica con il suo vero nome: essa consiste nel punire le classi produttive e nel premiare quelle improduttive. Effettivamente non suona bene. Perciò pescano nel sentimento popolare di invidia e dichiarano di tassare i pochi ‘ricchi’ per sostenere i molti ‘poveri’. In realtà con questa politica rendono più povero un numero crescente di persone produttive e accrescono il numero di persone improduttive relativamente più ricche”.

Hoppe, addottorato in Germania con Jürgen Habermas, si è trasferito nel 1986 negli Stati Uniti, dove è stato folgorato dal libertarianism di Murray N. Rothbard (1926-1995), e in questo suo recente intervento concentra le proprie critiche sulla situazione “economica e morale” del continente europeo. “L’Unione europea è il primo passo verso la creazione di un Super-Stato europeo”, “fin dall’inizio, e nonostante i proclami altisonanti che promettevano il contrario, l’Ue non è mai stata una questione di libero scambio e libera competizione. Per raggiungere questi obiettivi, infatti, non hai bisogno di decine di migliaia di pagine di leggi e regolamenti! Piuttosto il fine principale dell’Unione europea, in questo con il sostegno degli Stati Uniti, è sempre stato l’indebolimento della Germania nel suo ruolo di locomotiva economica del continente”. Il filosofo libertario, a proposito del ruolo di Berlino, è schierato con quelli che sono chiamati “falchi” dell’ortodossia ordoliberale: no alla mutualizzazione dei rischi, no a un tetto all’export made in Deutschland, no alla politica monetaria ultra espansiva. Meno mainstream il suo riferimento alle tre forme di “perversione” di cui soffre il Vecchio continente. Primo, il desiderio di “armomizzare tutto”, dal fisco alle leggi, per ridurre il tasso di concorrenza. Secondo, la replica delle politiche parassitarie nazionali a livello comunitario, con il tentativo di far pesare sui paesi più forti le manchevolezze dei paesi mediterranei. In terzo luogo: “Per superare la resistenza che cresce in vari paesi di fronte al progressivo trasferimento di sovranità verso Bruxelles, l’Ue ha avviato una crociata per erodere, e alla fine smantellare, tutte le identità nazionali e tutte le forme di coesione sociale e culturale. L’idea di nazione, così come quella di differenti identità nazionali o regionali, viene ridicolizzata. Il multiculturalismo invece è acclamato come indiscutibilmente ‘buono’”, dice l’autore del saggio “Democrazia: il dio che ha fallito” (pubblicato in italiano da Liberilibri).

Allo stesso tempo l’Ue promuove “privilegi legali e protezioni speciali per chiunque, eccetto che per i nativi europei, gli uomini eterosessuali e in particolare quelli sposati con famiglia (tutti dipinti come storici ‘oppressori’ che devono fornire una qualche compensazione alle loro altrettanto storiche ‘vittime’), chiamando eufemisticamente tutto ciò ‘politiche anti discriminazione’, e finendo per minare il naturale ordine sociale”. Secondo Hoppe, gli Stati Uniti si sono incamminati sulla stessa strada, anche se al momento in quel paese sono in numero maggiore i difensori del libero mercato e sono meno pervasive le maglie del diritto che tutto regola. Che fare, dunque? Innanzitutto riconoscere il vero volto dell’Unione europea. Dopodiché, “i cittadini devono sviluppare una visione chiara dell’alternativa possibile all’attuale palude: non un Super-Stato europeo e nemmeno una federazione, ma un’Europa fatta di migliaia di Lichtenstein e di cantoni svizzeri, uniti grazie al libero commercio, in concorrenza tra di loro nel tentativo di offrire le condizioni più attraenti per le persone produttive che vorranno restarvi”. In conclusione, cari europei, “non riponenete la vostra fiducia nella democrazia, ma nemmeno nella dittatura. Piuttosto, sperate in un decentramento politico radicale, non solo nelle lontane India o Cina, ma ovunque”.
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Re: Democrazia, cittadinanza, valori, doveri e diritti umani

Messaggioda Berto » mar dic 18, 2018 9:57 am

A BOLZANO C’È LA DEMOCRAZIA DIRETTA. A VICENZA NO
3 dicembre 2018
ENZO TRENTIN

http://www.lindipendenzanuova.com/a-bol ... HOC8H3QiiU

In Alto Adige (o Trentino SudTirol nella dizione non fascista, ndr) inizia una nuova era politica, perché da quelle parti non vogliono accettare che la funzione essenziale della democrazia rappresentativa sia: dispensare i cittadini dal governo di se stessi. E ricordano che: «La funzione delle masse in democrazia non è quella di governare, ma di intimidire i governanti.» Si legga Moisei Ostrogorski, “La democrazia ed i partiti politici”, Cap. XII par. V. [https://www.maremagnum.com/libri-antichi/la-democratie-et-l-organisation-des-partis-politiques/156119725 ]

Quello di Ostrogorski (scritto nel 1903) non è l’unico libro che argomenta il male dei partiti politici. Solo per citarne altri due, indichiamo Simone Weil “Manifesto per la soppressione dei partiti politici” [https://www.ibs.it/manifesto-per-soppressione-dei-partiti-libro-simone-weil/e/9788876152344?gclid=EAIaIQobChMI7ofxzo_53gIVGud3Ch2RNwqEEAAYASAAEgJT1PD_BwE ] e Adriano Olivetti “Democrazia Senza Partiti” [https://www.amazon.it/Democrazia-senza-partiti-Adriano-Olivetti/dp/8898220014 ]

Ma la possibile soluzione che ci piace qui segnalare è quella di Ostrogorski che indicava come in sostituzione della forma-partito tradizionale, avrebbe auspicato la nascita di «organizzazioni single issue» (per singola questione), in grado di riunire i suoi aderenti su obiettivi specifici e destinate a sciogliersi una volta raggiunto lo scopo prefisso. Gli iscritti, secondo Ostrogorski, sarebbero così stati affrancati dall’esigenza di assicurare una fedeltà irrazionale ed eterna; sarebbe venuta meno l’oppressione di una struttura organizzativa votata alla conquista del potere, innanzitutto attraverso il ricorso alla corruzione ed al clientelismo.

Quella della «organizzazione single issue» è una lezione concretizzata da circa vent’anni da Initiative für mehr Demokratie ( iniziativa per più democrazia – https://www.dirdemdi.org/index.php/it ) che comincia a dare i suoi frutti. Infatti fino ad ora in Provincia di Bolzano, in barba all’autonomia speciale e alla democrazia ma non diversamente da moltissimi Paesi che si definiscono democrazie, si è governato sul popolo. D’ora in poi invece – sostengono a iniziativa per più democrazia – si dovrà governare con il popolo, come è giusto che sia in una vera democrazia. Da questa settimana infatti è in vigore la nuova legge sulla democrazia diretta!

Con il referendum (confermativo) per la prima volta previsto, gli aventi diritto al voto possono controllare in modo diretto l’attività legislativa del Consiglio provinciale. Ciò significa soprattutto che la rappresentanza politica fin d’ora dovrà essere consapevole del fatto che una legge da essa varata potrà essere sottoposta al referendum prima che questa entri in vigore. E con il voto referendario i cittadini potranno introdurre su loro iniziativa una nuova legge, come potranno modificare o abrogare una legge esistente.

Determinanti a tal fine sono le nuove regole che ora si presentano praticabili. Ciò prima non valeva con il quorum del 40%. Questo è ora abbassato al 25%. Il numero delle firme richieste per attivare un referendum invece è rimasto invariato, secondo la versione originale del disegno di legge però avrebbe dovuto essere abbassato sensibilmente da 13.000 a 8.000. Questa soglia anche se non è insormontabile, sicuramente è troppo alta soprattutto per tematiche nuove. Almeno si è provveduto a estendere il periodo di raccolta firme a sei mesi.

A Initiative für mehr Demokratie si punta ora alle 8.000 firme, perché tale soglia corrisponde più o meno al 2% degli aventi diritto al voto. La popolazione della Provincia autonoma di Bolzano, infatti, ammonta (2016) a: 520.891. Essendo questo il numero di firme di riferimento chiave quello relativo alla soglia di 1/50 (2%) degli elettori, come indicato dalla Commissione Europea per la Democrazia Attraverso il Diritto (meglio conosciuta come la Commissione di Venezia, perché s’incontra a Venezia – http://www.coe.int/venice – Tel. +39 041 319 08 60) che è l’organo consultivo del Consiglio d’Europa sulle questioni costituzionali.
Alla Commissione, infatti, si argomenta che un elevato numero di firme può indicare un ampio sostegno popolare. Tuttavia, esso non garantisce il supporto, perché le persone possono firmare perché sono convinte che la questione sia controversa, e che dovrebbe essere decisa dal popolo (in qualsiasi senso). Parole chiare da parte di un autorevole organismo internazionale di alta competenza.
Manca ancora molto alla legge alto-atesina: in primo luogo la possibilità di poter sottoporre al voto referendario anche le delibere della Giunta provinciale, come originariamente previsto nella proposta popolare di legge, e la possibilità per il Consiglio di contrapporre nel voto una propria proposta a quella dei cittadini. Cosa che avviene in Svizzera, per esempio. E molto altro rimane da correggere. Occorre soprattutto (come detto) abbassare la soglia delle firme e facilitare il procedimento stesso della loro raccolta. La cosa determinante però è che questa legge sia praticabile, non da ultimo per le correzioni di cui ha bisogno per diventare una buona legge.
Tuttavia in quello che gli autoctoni continuano a definire legittimamente Sud Tirolo, non è riscontrabile, per esempio a Vicenza, dove un Sindaco e la sua Giunta (Che sono stati votati da un cittadino su quattro. Le elezioni democratiche sono solo una struttura abbastanza recente, e anche una delle meno affidabili.) insiste a “vendere” le proprietà dei suoi cittadini. E anche se si ammanta di possibilismo [https://www.vicenzareport.it/2018/11/incontro-a-vicenza-per-laggregazione-tra-aim-e-agsm/ ] le cose secondo il suo omologo di Verona sembrano già avviate alla loro conclusione.

Nel libro su indicato, Moisei Ostrogorski ha osservato e descritto un determinismo comportamentale nella struttura organizzativa dei partiti che è riscontrabile ancor oggi, per esempio con il M5S e la Lega Nord (che tale non è più) scrivendo tra l’altro: «Non appena un partito, anche se creato per il più nobile oggetto, si sforza di perpetuare se stesso, tende alla degenerazione oligarchica».

Questa sembra la metamorfosi che ha trasformato alcuni Consiglieri vicentini di opposizione eletti con sedicenti liste civiche, perché i partiti erano impresentabili. Costoro sono stati informati delle perplessità di numerosi cittadini. Ma la cosa più riprovevole è che detti “rappresentanti” dell’opposizione, nemmeno si sono preoccupati di rispondere ai solleciti rivolti loro per mezzo della posta elettronica certificata. A questo punto anche se non è il nostro autore preferito, ci sia permesso di parafrasare Karl Marx : “La maggior parte degli schiavi crede di essere tale perché il potere è il Potere, non si rende conto che in realtà è il potere che è Potere perché essi sono schiavi“. Insomma, “Noi siamo sovrani… ma crediamo di essere schiavi”.

Di seguito una breve descrizione degli strumenti di democrazia diretta ora a disposizione e delle regole di procedimento.

COSA ORA È POSSIBILE CON LA NUOVA LEGGE SULLA DEMOCRAZIA DIRETTA

Iniziativa popolare a voto popolare e referendum

A – Possono essere presentate proposte di legge di cittadini (promotori) e sottoposte sia al voto referendario vincolante sia a quello consultivo.

B – Tutte le leggi votate dal Consiglio provinciale senza la maggioranza dei due terzi possono essere sottoposte al voto referendario prima che entrino in vigore qualora questo venga richiesto entro 20 giorni dopo l’approvazione da almeno 300 promotori.

In entrambi i casi vanno presentate entro sei mesi 13.000 firme di aventi diritto al voto autenticate a sostegno della richiesta. Come copertura di spese i promotori percepiranno 1€ per ogni firma da raccogliere, ovvero 13.000. Non sono ammissibili votazioni referendarie su leggi tributarie e di bilancio, sulla disciplina degli emolumenti spettanti al personale e agli organi della Provincia nonché su quelle che riguardano norme e materia di tutela dei diritti dei gruppi linguistici e di minoranze etniche e sociali.

Una commissione valuta se le proposte rientrano nelle competenze della Provincia e ne valuta la conformità alle disposizioni della Costituzione, dello Statuto speciale e alle limitazioni risultanti dall’ordinamento giuridico comunitario, agli obblighi internazionali nonché ai requisiti e limiti previsti dalla legge.

Tutti gli aventi diritto al voto in vista della votazione referendaria ricevono per posta un opuscolo referendario nel quale trovano descritto in modo oggettivo e imparziale il quesito della votazione e in ugual misura gli argomenti dei sostenitori e degli avversari.

La votazione è valida se avrà partecipato al voto almeno il 25% degli aventi diritto al voto.

Iniziativa popolare a voto consigliare

C – Possono essere sottoposte alla trattazione obbligatoria da parte del Consiglio provinciale disegni di legge raccogliendo le firme di 13.000 aventi diritto al voto del Consiglio provinciale. Su di esse il Consiglio delibera entro un anno.

Il Consiglio delle cittadine e dei cittadini

D – Il Consiglio si compone di 12 persone scelte mediante estrazione a sorte con campionamento stratificato secondo gruppo linguistico, genere ed età. Esso tratta entro un giorno e mezzo la questione che gli viene sottoposta e rientrante nella competenza del Consiglio o della Giunta provinciale. Alla fine redige una dichiarazione congiunta e unanime in merito con idee, proposte e suggerimenti. L’istituzione di un Consiglio delle cittadine e dei cittadini può essere richiesto da parte di 300 cittadini.
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Re: Democrazia, cittadinanza, valori, doveri e diritti umani

Messaggioda Berto » mar dic 18, 2018 9:59 am

Indipendentismo, nasce l’Asenblèa Veneta
Enzo Trentin
5 dicembre 2018

https://www.vicenzareport.it/2018/12/in ... mment-5510

Vicenza – Sabato primo dicembre, ha preso il via a Limena, vicino a Padova, quella che potremmo definire la prima «organizzazione single issue» (per singola questione) veneta, in grado di riunire i suoi aderenti su obiettivi specifici e destinata a sciogliersi una volta raggiunto lo scopo prefisso. Gli iscritti, che saranno unicamente persone singole e non potranno aderire se hanno cariche istituzionali o di partito, saranno così affrancati dall’esigenza di assicurare una fedeltà irrazionale ed eterna al leader di partito o movimento; la cui struttura è notoriamente ordinata per la conquista del potere, innanzitutto attraverso il ricorso alla corruzione ed al clientelismo.

La conferenza, è stata promossa da alcuni intellettuali notoriamente super partes. L’«Asenblèa Veneta» (AV), sarà legalmente formalizzata in questi giorni, si doterà di un portale Internet che conterrà tutto l’ampio panorama dell’indipendentismo, non solo veneto ma anche internazionale. Vorrà anche essere il luogo deputato per la formazione e il lavoro di quella Intelligencija che sul territorio esiste, ma che sinora – anche per l’esistenza di conflittualità e rivalità partitiche – non ha trovato il terreno ideale per esprimersi.

Nel corso del dibattito che si è sviluppato è stata fatta un’analisi delle ragioni economiche, scientifiche e storiche che militano a favore di un distacco dall’unità italiana al fine di permettere a ogni comunità di crescere e governarsi al meglio. La libertà del Veneto non danneggerebbe le altre realtà italiane, ma al contrario il superamento dell’unità può aiutare tutti e favorire l’uscita dall’attuale crisi. Non possiamo trascurare che pur nell’esistenza degli imperi del passato, la penisola italica ebbe il suo massimo sviluppo economico, culturale e artistico proprio nella peculiarità della civiltà comunale.

E siccome la crisi non è solo italiana, ma europea e mondiale, l’attività di Av assumerà anche un carattere internazionale. In questo senso la presenza (a Limena) e il saluto dalla Catalogna ad opera di Marc Gafarot per conto dell’Assemblea Nazionale Catalana (Anc), organizzazione che, nata nel 2011, ha promosso le mobilitazioni che in Catalunya hanno portato milioni di persone a manifestare per le strade e le piazze e che insieme ad Omnium Cultural ha realizzato la campagna «Ara és l’hora» (È giunto il momento). Tra i prossimi appuntamenti pubblici è stata annunciata un’iniziativa di internazionalizzazione della crisi catalana, in difesa dei prigionieri politici catalani (da più di un anno incarcerati in attesa di giudizio) e a sostegno della battaglia per la libertà della Catalogna. Proprio in questa ottica alla riunione di Limena s’è riscontrata anche la presenza di osservatori di Assemblea Nazionale Catalana e dell’università di Madrid.

L’Asenblèa Veneta sarà una realtà politica, ma non partitica, e non concorrerà ad alcuna elezione. Produrrà solo ideali, battaglie, idee, progetti, il tutto al fine di lasciare prospettive migliori alle generazioni future. Essa si ispira proprio ad Anc, mutuandone lo Statuto con gli ovvi adattamenti. Av si propone di agire sulla società civile (favorendo una crescente consapevolezza della necessità di abbracciare le tesi secessioniste) e sul mondo politico, affinché si metta al servizio di quanti intendano decidere del proprio futuro attraverso il diritto all’auto-determinazione dei popoli. E sempre nell’ottica dell’internazionalizzazione delle rispettive autodeterminazioni si sta lavorando per favorire un viaggio in Veneto di Carles Puigdemont, ex presidente della Generalitat de Catalunya, oggi in esilio per sfuggire alla sorte dei 21 suoi colleghi attualmente ospiti delle prigioni spagnole. Il proposito non è quello d’informare le istituzioni. Esse conoscono perfettamente il problema e i protagonisti. L’obiettivo è, invece, quello d’informare l’opinione pubblica troppo spesso fuorviata dai mass-media di regime.

Le rivendicazioni auto-deterministiche prendono consapevolezza e forza dalla constatazione che sarebbe realmente necessaria una maggior sovranità cultural-politico-economica dei popoli che attualmente sono inglobati negli Stati dell’Ue. La leadership europea, infatti, sembra essersi rivolta in direzione opposta. In un mondo che sta diventando sempre più multipolare, non si può abdicare da ogni genere di sovranità, politica, economica e difensiva; questa è la ricetta per un disastro. E infatti i “virili” Stati ottocenteschi, come pure l’Ue, stanno traballando sempre più vistosamente.

Le constatazioni che si sono fatte a livello veneto riguardano la consapevolezza d’essere un antico popolo. D’avere una propria specifica lingua e cultura. Di avere valorizzato e preservato un patrimonio architettonico, paesaggistico, ambientale, escursionistico e folcloristico che pone la regione al top delle presenze turistiche della penisola. E questo malgrado le devastazioni delle due guerre mondiali; la prima delle quali fu combattuta esclusivamente in queste terre. Del resto si vede solo nella autodeterminazione la garanzia per il Veneto nell’adottare misure per salvaguardare la sua sicurezza e integrità territoriale, considerata la violazione della garanzia statale italiana riscontrata più recentemente anche con l’inadeguatezza o la scarsità di supporti per le recenti e catastrofiche devastazioni ambientali provocate in particolare nella provincia di Belluno.

Perseguire un’autodeterminazione pacifica, per il Veneto è qualcosa che riguarda la sopravvivenza. Nessuno vuole un colpo di Stato che rovesci la falsa e corrottissima democrazia italica. Ma, come giustamente hanno osservato alcuni autorevoli imprenditori presenti alla riunione dell’Asenblèa Veneta, il debito con il quale l’attuale governo intende avviare le sue riforme, è una nuova forma di colonialismo. I vecchi colonizzatori si sono trasformati in tecnici dell’aiuto umanitario. Sono stati loro a proporre i canali di finanziamento, dicendo che erano le cose giuste da fare per far decollare lo sviluppo dell’Italia, la crescita del suo popolo e il suo benessere. Hanno operato affinché il Veneto, il suo sviluppo e la sua crescita obbediscano a delle norme, a degli interessi che le sono totalmente estranei. Hanno fatto in modo che ciascun cittadino sia, oggi e domani, uno schiavo finanziario. L’attuale tassazione è compulsiva, persecutoria e anti-concorrenziale. Se il Veneto – che dalla crisi del 2007/8 ha perso circa il 25% della sua imprenditorialità – continuerà la sua “discesa agli inferi” non potrà più risollevarsi. E non sarà chi è costretto ad andare per stracci che potrà essere elemento di progresso e prosperità.

Nel capitolo II, del libro: «Secessione – Quando e perché un paese ha il diritto di dividersi», Allen Buchanan dimostra che un gruppo può lecitamente opporsi allo Stato con la forza qualora si trovi a essere vittima di una ridistribuzione discriminatoria – ossia, qualora le politiche economiche o fiscali dello Stato operino sistematicamente a detrimento di quel gruppo e a beneficio di altri, in assenza di una valida giustificazione morale per questa difformità di trattamento. In terzo luogo, ritiene che, a certe condizioni, un gruppo sia legittimato a secedere quando ciò risulti necessario alla tutela della sua particolare cultura o forma di vita comunitaria. Ciascuna di queste conclusioni rappresenta una brusca dipartita rispetto a quella che spesso viene ritenuta una fondamentale caratteristica dell’individualismo liberale: l’esclusiva preoccupazione per i diritti individuali, e il conseguente insuccesso nel valutare l’importanza della comunità o della appartenenza al gruppo per il benessere, e per la stessa identità dell’individuo.

Si è constatato come le voci dell’autonomismo non siano altro che Sirene. Luca Zaia, oggi, è percepito dall’opinione pubblica come un indipendentista che vuole raggiungere l’obiettivo attraverso l’autonomia. Ma nessuno può servire due padroni (vedi qui). Per giunta quella di cui si discute è un’autonomia che non modifica in alcun modo la situazione di sfruttamento che il Veneto subisce dato che si parla di «un’autonomia “a costi storici”: b) le compartecipazioni al gettito dei tributi erariali prescelti […] andranno determinate facendo anche riferimento, […] al volume della spesa storica sostenuta dallo Stato nella Regione e riferita alle funzioni trasferite o assegnate».

Ovvero, lo Stato lascerà le competenze alla Regione, ma non i soldi per provvedervi. Sicuramente non per il primo anno, come appare dal documento sopra indicato. Ed è scendendo sul “terreno” che scopriamo allora la più totale confusione, col fenomeno che ci preme denunciare ed esaminare in questa breve cronaca. Succede in continuazione che la confusione tra i due “territori”: politico e democratico, sia quotidianamente esercitata dai rappresentanti in forma del tutto arbitraria. In realtà l’attuale Presidente della Regione Veneto, e i suoi sodali, altro non sono che agenti dell’inefficiente Stato italiano, il quale neppure un’autonomia degna di questo nome concederà a lui ed ai veneti.

È stata evocata un’immagine efficace: superare l’effervescente galassia indipendentista, perché rappresenta elementi che percorrono una propria orbita, per introdurre il concetto di mosaico, dove ogni tessera con i suoi colori e le sue sfumature contribuisce alla rappresentazione di un disegno complessivo. Asenblèa Veneta si proporrà come facilitatore di un progetto politico-istituzionale proprio in funzione dell’instabilità del quadro politico internazionale. Si punta ad un’Europa dei popoli e non degli Stati.

La riunione padovana summenzionata è stata beneficiata da un pubblico numeroso che non solo ha riempito la sala della conferenza, ma anche le sale adiacenti con persone in piedi. Intenzionalmente non abbiamo fatto alcun nome sia per evitare dimenticanze, sia perché troppo lungo sarebbe stato l’elenco. Si sono visti i volti noti dell’autonomismo-federalismo della prima ora, approdati all’indipendentismo a causa della sordità delle istituzioni italiane. E fendendo la folla dei presenti si potevano raccogliere gli echi, i sussurri, le speranze per una filosofia politica autoctona, che si opponga rigorosamente ad ogni attacco alle persone e alle proprietà degli individui.

Un ordinamento che deve ruotare attorno alla «sovranità dell’individuo», e alla democrazia diretta. Che superi la compulsiva «aggressione» fiscale. L’idea è che ogni individuo pacifico deve avere la libertà di disporre della propria persona, del proprio tempo, e delle proprie risorse nel modo che più gli aggrada. La forza è ammissibile solo come autodifesa, e solo se è rivolta contro l’aggressore, non contro il rappresentante di una classe. Un individualismo che respinge lo Stato italiano proprio perché rappresenta l’istituzionalizzazione della forza contro i pacifici individui.




https://www.facebook.com/groups/237623696395051

Gino Quarelo
Bene. Speriamo che i veneti riescano a dimostrare prima a se stessi e poi al mondo che sono veramente un popolo. Ma la vedo assai dura!
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Democrazia, cittadinanza, valori, doveri e diritti umani

Messaggioda Berto » mar dic 18, 2018 10:00 am

L’incarico del potere pubblico ai rappresentanti
16 dicembre 2018
Enzo Trentin

https://www.vicenzareport.it/2018/12/li ... resentanti

Vicenza – Cominciamo con il prendere atto che nelle democrazie i promotori di un referendum per l’indipendenza di un’area geografica o di un popolo portano i cittadini alle urne, e non sono portati in galera dalla Guardia Civil com’è avvenuto per i leader catalani un anno fa. Aggiungiamo che votare per più referendum all’anno, ogni anno, non è un evento eccezionale. La Svizzera e la California, solo per citare due Paesi, ne sono una testimonianza.
Tra il 1996 e il 2016, in California, c’è stata una media di 18 votazioni referendarie all’anno senza pregiudiziali per l’argomento.
Per esempio:
Gli elettori hanno sconfitto la Proposition 6, che avrebbe abrogato l’aumento delle tasse sul gas emanato nel 2017, e ha richiesto l’approvazione degli elettori per gli aumenti delle tasse sul carburante in futuro.
Con la Proposition 69, hanno determinato le tasse e le entrate che devono essere utilizzate a fini di trasporto.

E ancora: l’associazione Yes California ha mutuato il suo nome e logo da “Yes Scotland“, il gruppo separatista del referendum sull’indipendenza del 2014 in Scozia. Altri nomignoli che vengono attribuiti alla causa californiana, tutti basati su giochi di parole, sono Caleavefornia, Califrexit, e Calexit. In un primo tempo Yes California aveva ottenuto l’autorizzazione a effettuare un referendum per l’indipendenza che si sarebbe dovuto tenere nel marzo 2019. Se approvato dagli elettori avrebbe abrogato l’articolo III, Sezione 1 della Costituzione della California, che afferma che la California è “una parte inseparabile” degli Stati Uniti. A causa di voci sul presidente di Yes California: Louis J. Marinelli, un newyorkese di origini italiane residente in Russia che venne accusato di aver ricevuto un’assistenza significativa dal governo russo per promuovere il movimento, la campagna stava per fallire ma Marinelli riuscì per tempo a smentire le accuse e riprese intensamente le attività. Nel 2018 la raccolta firme sta riscuotendo sempre più successo, e si stima che tra il 2019 e il 2021 l’organizzazione sarà addirittura in grado di indire un referendum legittimo e ufficiale.

Questa apertura ci serve per evidenziare la particolare rilevanza del fatto che dovunque ci sono partiti politici, la democrazia è morta. Non resta altra soluzione pratica che la vita pubblica senza partiti. Di più: «Bisogna creare un’atmosfera culturale tale un rappresentante del popolo non concepisca di abdicare alla propria dignità al punto da diventare membro disciplinato di un partito». Simone Weil respinge l’obiezione che l’abolizione dei partiti avrebbe colpito la libertà d’associazione e d’opinione: «La libertà d’associazione è, in genere, la libertà delle associazioni, contro quella degli esseri umani. Infatti, la libertà d’espressione è un bisogno dell’intelligenza, e l’intelligenza risiede solo nell’essere umano individualmente considerato. L’intelligenza non può essere esercitata collettivamente, quindi nessun gruppo può legittimamente aspirare alla libertà d’espressione.»

Il pensiero che dovrebbe abitarci, e soprattutto dovrebbe abitare la mente di coloro che intendono fare politica attiva è che si deve riconoscere che l’espressione “democrazia diretta” è affetta da un pleonasmo e che l’espressione “democrazia rappresentativa” costituisce un ossimoro. In realtà il governo della democrazia rappresentativa vuole dei “rappresentanti” per inquadrare e seppellire i cittadini. Come con le direzioni sindacali, cercano degli intermediari, della gente con cui potrà negoziare. Persone sulle quali potrà far pressione per calmare l’esplosione della rabbia popolare. Il potere vuole gente che potrà in seguito recuperare e spingere a dividere lo scontento per soffocarlo. Dove c’è democrazia, infatti, c’è decisione popolare diretta. Dove, invece, vi è rappresentanza non v’è democrazia.

La distinzione è ben tracciata di là dall’Atlantico da James Madison (con la sua opposizione tra la “pure democracy” e la “republic”) trovò, peraltro, la sua più chiara formulazione in Emmanuel Joseph Sieyès, nel suo decisivo intervento alla Costituente, il 7 settembre del 1789: il “concours immédiat” alle decisioni pubbliche è quello che “caractérise la véritable démocratie”; il “concours médiat”, invece, “désigne le gouvernement représentatif”. Pertanto, “la différence entre ces deux systèmes politiques est énorme”.

Che il tempo dei partiti stia per esaurirsi lo si nota da tanti segnali: 1) sempre meno aventi diritto al voto si recano alle urne. 2) a livello locale molti partiti rinunciano a presentarsi come tali e si rimpannucciano da Liste Civiche. 3) è sempre più insopportabile l’atteggiamento dei militanti dei vari partiti che si comportano come i tifosi degli stadi, poiché questa non è partecipazione democratica, ma intervento in forma fideistica. I cosiddetti “rappresentanti” diventano sopraffattori laddove non comprendono – e agiscono di conseguenza – che la Democrazia è lo strumento della Sovranità popolare. Senza Democrazia non può esserci Sovranità popolare. Senza Sovranità popolare non esiste la Democrazia.

Christopher Lasch (La rivolta delle élite. Il tradimento della democrazia, Feltrinelli, Milano, 2001, vedi qui) ha notato una nuova tendenza politica: oggi sono le élite che stanno distruggendo la cultura e il Logos Europeo. Allo stesso tempo, sempre più individui marginali hanno iniziato a penetrare nella “nuova élite”, persone non provenienti da gruppi periferici, ma da gruppi di minoranza – etnici, culturali, religiosi (spesso settari) e sessuali – diventando dominanti. È questa plebaglia pervertita, secondo Christopher Lasch, che costituisce la base della moderna élite globalista, che sta distruggendo le fondamenta della civiltà.

Se sul “fronte politico” qualche avvisaglia di rinnovamento s’intravvede attraverso la nascita di «organizzazioni single issue» [per singola questione], il corretto esercizio della democrazia dovrà passare per una riforma della burocrazia. Chi poi vuole cambiare il regime partitocratico, (gli indipendentisti sud tirolesi, veneti, lombardi, sardi ed altri ancora) dovrebbero prendere nota di quanto scrive Allen Buchanan, nel Capitolo I del libro «Secessione – Quando e perché un paese ha il diritto di dividersi»: coloro che hanno (i ricchi) cercano di secedere da quelli che non hanno (i poveri). La recente storia dei movimenti secessionisti rivela almeno due casi che rientrano in questa descrizione: la secessione del Katanga dal Congo e quella del Biafra dalla Nigeria (quella della Slovenia dalla Jugoslavia e l’agitazione secessionista del Nord Italia potrebbero fornirne altri). In ognuno di questi casi il gruppo secessionista ha molte risorse naturali o una economia più sana e più sviluppata, o entrambe le cose.

Si noti che niente impedisce a coloro che hanno ottenuto la secessione di continuare a contribuire al benessere di quelli che rimangono nello Stato dopo che sia avvenuta la separazione. Certo in molti casi reali in cui i più ricchi desiderano secedere, essi adducono come motivazione primaria il peso di dover condividere la loro ricchezza; ma i motivi di quelli che «posseggono», per giustificare la secessione, non è detto che siano necessariamente così egoistici. Alcuni italiani del Nord, che sono a favore della secessione, sono forse preoccupati non tanto del fatto che c’è un maggior contributo alle entrate fiscali del Nord rispetto a quello delle altre parti del paese, quanto della (secondo loro) inefficienza del governo italiano, specialmente della burocrazia, e dello sperpero dei contributi del Nord al fisco dovuto a cattiva amministrazione e a corruzione. Perciò i secessionisti, che sono i più ricchi, potrebbero semplicemente desiderare di diventare politicamente indipendenti per sfuggire a un cattivo modo di governare e per avere più controllo politico sulle proprie contribuzioni all’altrui benessere. Non è affatto detto che intendano secedere soltanto per evitare di pagare tali contributi.

Per rafforzare questi enunciati concludiamo con un attento critico della pseudo democrazia: Lysander Spooner. Egli argomenta che le Costituzioni dei paesi cosiddetti democratici debbono essere considerate alla stregua dei contratti che si instaurano tra un gruppo di contraenti. La Costituzione, se mai dotata di legittimità, è stata ratificata da individui ormai deceduti e quindi è inconcepibile che essa venga ritenuta ancora valida, proprio perché parte dei contraenti non esistono più.

Sono in errore coloro che suppongono che “l’incarico del potere pubblico” sia mai stato delegato, o possa mai essere delegato, da un qualche gruppo ad un altro gruppo di uomini. Una tale delega di potere è naturalmente impossibile per le seguenti ragioni:

Nessuno può delegare o concedere ad altri alcun diritto di dominio arbitrario su se stesso, perché sarebbe come darsi in schiavitù. E questo nessuno lo può fare. Ogni contratto che preveda ciò è necessariamente assurdo e non ha alcuna validità. Chiamare tale contratto “Costituzione” o in qualunque altra maniera altisonante non altera la sua caratteristica di contratto assurdo e nullo.
Nessuno può delegare o concedere ad altri alcun diritto di dominio arbitrario su una terza persona, perché ciò comporterebbe il diritto della prima persona non solo a fare del terzo il suo schiavo, ma anche di disporne come uno schiavo a favore di altre persone. Ogni contratto che stabilisca questo è necessariamente criminale, e come tale invalido. Chiamare tale contratto “Costituzione” nulla toglie alla sua criminalità, nulla aggiunge alla sua validità.

Questo fatto, che nessun uomo può delegare o cedere il proprio o altrui diritto naturale alla libertà, dimostra che non si può delegare ad un uomo o a un gruppo di uomini alcun diritto di dominio arbitrario – o, il che è la stessa cosa, nessun potere legislativo – su se stessi o su qualcun altro. A ben vedere, in Francia, i gilets jaunes non stanno manifestando da settimane proprio per questo?

* * *

In chiusura una lista incompleta di Stati che in epoca recente hanno modificato la loro Costituzione e l’hanno introdotta solo dopo l’approvazione – per mezzo d’apposito referendum – del cosiddetto popolo sovrano, che a questo punto è lecito domandarsi se in Italia sia mai esistito considerato che la Costituzione italiana non ha mai ricevuto il voto favorevole dell’elettorato:

1958 = Costituzione della repubblica francese (versione aggiornata alla revisione costituzionale del 2003). Nota come Costituzione della V repubblica (dopo quelle del periodo rivoluzionario, del 1848, del 1875, del 1946). essa fu approvata mediante referendum il 29 settembre 1958 a stragrande maggioranza (85.1% “Sì”, 14.9% “No”).

1976 = il sistema democratico cubano ha il suo fondamento nella Costituzione della repubblica di Cuba, approvata il 15 febbraio 1976 attraverso un referendum – con voto libero, uguale, diretto e segreto – dal 97.7 % dei voti della popolazione cubana. lo scrutinio ha riportato questo risultato: su 5.602.973 elettori, 5.473.534 hanno votato “Sì” e 54.070 “No”.

1976 = L’Algeria, tramite referendum popolare approva la sua Costituzione.

1978 = Spagna. La discrepanza tra il testo approvato dal Congresso e quello approvato dal Senato resero necessario l’intervento di una commissione mista Congresso-Senato, che elaborò un testo definitivo. Questo fu votato e approvato dalle due Camere. Sottoposto a referendum, venne ratificato il 6 dicembre, promulgato il 26 dello stesso mese dal Re e pubblicato nel BOE (Bollettino Ufficiale Spagnolo) il 29 dicembre (si evitò il giorno 28 poiché coincideva con la festa dei Santi Innocenti, tradizionalmente dedicato agli scherzi). Da allora il giorno 6 dicembre costituisce in Spagna un giorno di festa nazionale, il Día de la Constitución.

1982 = La terza Costituzione della Repubblica di Turchia è stata approvata nel 1982 mediante un referendum nazionale ed è tuttora in vigore.

1991 = l’8 dicembre veniva approvata, tramite referendum, una nuova Costituzione presidenziale di Romania.

1992 = la quarta ed attuale Costituzione della repubblica dell’Estonia, venne adottata attraverso un referendum popolare il 28 giugno.

1992 = la Costituzione della repubblica di Lituania è approvata dai cittadini con referendum il 25 ottobre; ed è entrata in vigore il 2 novembre.

1992 = Quando la Bosnia ed Erzegovina, in seguito al referendum sull’indipendenza dalla Federazione jugoslava creata da Tito (la consultazione popolare si svolse in conformità alla Costituzione jugoslava dell’epoca), il 3 marzo 1992 proclamò la propria indipendenza, la guerra si abbatté con inaudita furia su Sarajevo e sulle altre parti del Paese. Ma questa è un’altra storia.

1993 = la Costituzione della Lettonia (in lettone: satversme) è stata adottata, come essa stessa afferma, dal popolo della Lettonia all’interno dell’assemblea costituente liberamente eletta, il 15 febbraio 1922 ed è entrata in vigore il 7 novembre 1922. la Costituzione fu pienamente riportata in vigore dal quinto saeima il 6 luglio 1993.

1995 = Zaire (ex Congo belga) la legge costituzionale transitoria adottata l’8 aprile 1994, che rafforzava i poteri del capo del governo a spese del presidente della Repubblica, fissò per tutto l’iter (nuova Costituzione, referendum, elezioni per il Parlamento e per il presidente) un termine di 15 mesi, ma le elezioni, decise in un primo tempo per il 9 luglio 1995, sono state rinviate a tempo indeterminato.

1997 = la Costituzione della repubblica di Polonia del 2 aprile ha sostituito gli emendamenti temporanei posti in essere nel 1992, studiati apposta per annullare gli effetti del comunismo e ponendo le basi per una “nazione democratica governata dalla legge che implementasse i principi di giustizia sociale”. la Costituzione è stata adottata dall’assemblea nazionale della Polonia (zgromadzenie narodowe) il 2 aprile ed è stata approvata da un referendum nazionale il 25 maggio; è entrata in vigore il 17 ottobre 1997.

2003 = La Costituzione del Liechtenstein è una delle più antiche costituzioni europee. La sua prima redazione risale infatti al 1863 ed è stata revisionata nel 2003 attraverso lo strumento del referendum popolare. Si noti bene: 1.500 cittadini, cioè poco meno di 1/20 della popolazione locale (il Principato del Liechtenstein ha una popolazione di 35.446 cittadini), hanno il diritto di presentare una mozione di sfiducia nei confronti del Principe Regnante, sfiducia che sarà poi sottoposta all’esame della democrazia diretta. In caso di esito positivo, la sfiducia è notificata al Principe e al Casato, che decide conformemente alla nuova legge del 1993, la quale prevede una procedura di destituzione a seguito di abuso di potere o perdita di fiducia da parte dei membri della famiglia regnante. Ma ancora più rivoluzionario è il nuovo testo dell’art. 113: “1) A non meno di 1.500 cittadini del Principato spetta il diritto di presentare un’iniziativa per l’abolizione della Monarchia. In caso di accoglimento dell’iniziativa da parte del popolo, la Dieta è tenuta a elaborare una nuova Costituzione su base repubblicana e a sottoporla, al più presto dopo un anno e al più tardi dopo due anni, a un referendum popolare.

2003 = Il 7 marzo la Costituzione fu cambiata per permettere alla Slovenia di entrare nell’Unione Europea e nella NATO, se questo fosse stato il volere dei cittadini; i cittadini si espressero favorevolmente nel referendum del successivo 23 marzo.

2006 = L’attuale Costituzione della Repubblica di Serbia è stata approvata nel referendum costituzionale tenutosi dal 28 al 29 di ottobre. È stata proclamata ufficialmente dal Parlamento della Serbia il giorno 8 novembre 2006, sostituendo la Costituzione del 1990.

2009 = Il 25 gennaio il corpo elettorale boliviano accettava con il 61,43% dei voti la nuova Costituzione, che impedisce qualsiasi privatizzazione delle materie prime della Nazione, permette la rielezione immediata del Capo dello Stato, concede il diritto ai popoli indios di avere e amministrare proprie leggi e limita a 5.000 ettari la proprietà della terra. Alcune province, però, davano la vittoria al “No”. Ciò bastava per far dire all’opposizione che si era verificato un pareggio.

2009 = L’attuale Costituzione del Venezuela, emanata nel 1999 da un referendum. In precedenza aveva stabilito un limite di tre termini per i deputati e un limite di due mandati per gli altri uffici. La proposta di modifica è stata sottoposta a referendum il 15 febbraio 2009 e approvato dal 54% degli elettori, con circa il 70% degli elettori iscritti partecipanti.

2010 = il presidente del kenya, Mwai Kibaki, ha promulgato nella capitale Nairobi la nuova Costituzione approvata con referendum il 4 agosto.

2010 = Il 31 ottobre è stata approvata mediante referendum la nuova Costituzione del Niger. La carta costituzionale – la settima da quando il Paese ha ottenuto l’indipendenza nel 1960 – mette fine al periodo di vacanza costituzionale venutosi a creare a seguito della sospensione della precedente Costituzione, ordinata dal Conseil supreme pour la restauration de la démocratie (CSRD) all’indomani del colpo di Stato del 18 febbraio 2010 con cui i militari, sotto la guida di Salou Djibo, avevano destituito il Presidente Tandja.

2012 = L’Islanda approva la nuova Costituzione, con un referendum, il 21 ottobre.

2012 = L’Egitto ha una nuova Costituzione. stando ai dati diffusi dal partito dei fratelli musulmani, giustizia e libertà, la Costituzione è stata approvata dal 64% circa dei votanti. il referendum si è tenuto in due tornate, il 15 e il 22 dicembre.

2012 = Con il referendum costituzionale del 26 febbraio (si badi bene: siamo in piena guerra civile) è stata approvata la nuova Costituzione siriana, entrata poi in vigore a seguito del decreto del Presidente della Repubblica n. 94 del 28 febbraio. La nuova Carta costituzionale rappresenta un ulteriore capitolo del cambiamento politico-costituzionale in atto nel paese. La cosiddetta primavera araba e la repressione militare che ne è seguita da parte del Governo siriano, nonché la fine dello stato di emergenza proclamato nel 1963 – previsto con decreto legislativo n. 51 del 22 dicembre 1962 e proclamato con Ordinanza militare n. 2 del 8 marzo 1963 – costituiscono le premesse che hanno portato all’approvazione di una nuova Costituzione siriana.


Alberto Pento

Buon articolo.
Mi permetto solo di fare qualche osservazione aggiuntiva.

La "volontà popolare vera o presunta" non sempre è rispettabile e indice di "vera democrazia portatrice di pace, fraternità, giustizia e benessere per tutti":
un caso è quello egiziano dove la "nuova costituzione del 2012" è stata voluta dai nazi-maomettani della Fratellanza Mussulmana e votata dalla maggioranza degli egiziani maomettani, nuova costituzione che applica la Sharia e che discrimina e opprime i diversamente religiosi tra cui gli egiziani cristiani copti che sono il 10% della popolazione. Nuova Costituzione nazi-maomettana che ha provocato il colpo di stato di al-Sisi.


Da Mubarak a Morsi: l’Egitto tra militari e fratelli musulmani
By Andrea Castelli 2 November 2013
http://nomodos-ilcantoredelleleggi.it/2 ... -musulmani
Il 24 Giugno 2012 Mohamed Morsi viene dichiarato vincitore delle elezioni presidenziali in Egitto dalla commissione elettorale. Poco più di un anno dopo, il 3 Luglio 2013, viene deposto e messo agli arresti domiciliari su forte pressione del popolo egiziano.
Cosa è successo nell’anno di governo di Morsi? Le elezioni che lo hanno portato al potere sono realmente state democratiche? Perché il popolo egiziano ha votato in maggioranza per un esponente di un partito estremista quale quello dei Fratelli Musulmani?
...
Molti mezzi di informazione sostennero che Morsi era stato eletto tramite elezioni democratiche. In realtà tali elezioni furono esattamente il contrario, caratterizzate da corruzione, utilizzo da parte dei Fratelli Musulmani di risorse statali per la propaganda elettorale, propaganda e intimidazioni religiose e azioni dirette della confraternita, volte soprattutto ad impedire il voto dei cristiani copti. Consapevole potesse accadere quanto poi realmente verificatosi, l’esercito si era attivato prima delle elezioni presidenziali per ridurre i poteri del Presidente della Repubblica tramite una dichiarazione costituzionale. Venne sciolta la Camera Bassa del parlamento e ciò fece perdere a Morsi un gran numero di rappresentanti del suo partito e dei salafiti, su cui avrebbe potuto contare per emanare nuove norme.
...
Giunti a questo punto, infatti, Morsi, libero di agire, emanò un decreto con validità costituzionale in cui affermò l’impossibilità per qualsiasi giudice di annullare i suoi decreti presidenziali. Questo provvedimento fu dettato dal timore di Morsi che la Corte Suprema sciogliesse l’Assemblea Costituente, da lui voluta per la redazione di una nuova Costituzione di stampo teocratico. Detta Costituzione venne redatta totalmente da Fratelli musulmani e salafiti e approvata senza possibilità per alcuno di presentare emendamenti o fare discussioni. Non risultò essere una Costituzione pienamente teocratica, anche se conteneva articoli abbastanza ambigui, che miravano alla trasformazione dell’Egitto in uno Stato teocratico con l’andare del tempo.
...

La nuova Costituzione in Egitto dopo quella dei nazi-maomettani
https://www.ilpost.it/2013/12/03/nuova- ... one-egitto
Per ora è ancora una bozza, sostituirà quella adottata dal presidente deposto Morsi e servirà un referendum: dà ampi poteri ai militari e penalizza i Fratelli Musulmani

Alberto Pento
Il referendo è vero e buon strumento di democrazia solo quando produce vera democrazia, più libertà e sovranità e quando allontana dalla dittatura e dal totalitarismo.
Diversamente, diventa una manipolazione della democrazia e la sua negazione.



Anche la Costituzione del Venezuela mi pare non abbia portato a una maggiore democrazia, nonostante i referendi popolari:
https://it.wikisource.org/wiki/Costituz ... _Venezuela

Venezuela e la nuova Costituzione, cronache di una dittatura annunciata
https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/0 ... ta/3744248
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Democrazia, cittadinanza, valori, doveri e diritti umani

Messaggioda Berto » ven feb 22, 2019 10:38 pm

Il ministro Fraccaro sollecitato sulla democrazia diretta
Enzo Trentin
20 febbraio 2019

https://www.vicenzareport.it/2019/02/il ... ia-diretta

Vicenza – Erwin Demichiel e Daniela Filbier, rispettivamente presidenti di “Iniziativa per più democrazia” di Bolzano, e l’organizzazione sorella “Più democrazia in Trentino”, in questi giorni hanno scritto al ministro per i rapporti con il parlamento e la democrazia diretta, Riccardo Fraccaro (M5s), una lettera nella quale sollecitano l’esecutivo ad attuare le raccomandazioni della Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa.

Per la prima volta in Italia, e probabilmente esempio unico al mondo, è stato istituito un Ministero che ha il compito di assicurare in ugual modo il buon funzionamento dei procedimenti parlamentari e quelli di partecipazione diretta dei cittadini. Ed è la prima volta in Italia che un contratto di governo prevede una riforma degli istituti di democrazia diretta che mira ad un effettivo ampliamento e a un considerevole miglioramento dei diritti di partecipazione diretta dei cittadini.

Questo ha generato ovviamente una forte aspettativa. Nella lettera vengono espressi i concetti base per un buon funzionamento della partecipazione diretto-democratica e, in forma operativa, le misure atte a realizzare una buona prassi di partecipazione democratica. Questi i macro-capitoli evidenziati nella lettera:

raccolta delle firme e loro certificazione
quorum di validità
referendum (confermativi)
presupposti procedurali e regolamenti

Come orientamento è fatto riferimento al Codice di Buona Condotta sui Referendum della Commissione di Venezia.

La lettera inviata al ministro Fraccaro trae origine dal fatto che sono giunte notizie che deludono profondamente le aspettative. Sembra prevalere nella ricerca di un compromesso l’intenzione di sostituire il quorum di partecipazione del 50%, di cui nel contratto di governo era prevista l’abolizione, con un quorum che richiede per l’approvazione di una proposta referendaria l’assenso del 25% degli aventi diritto al voto, il cosiddetto quorum di approvazione. La Commissione di Venezia nelle sue “raccomandazioni per l’abolizione del quorum“ si esprime in modo chiaro e convincente contro l’istituzione di un tale quorum. È un argomento che abbiamo più volte trattato anche qui.

Riguardo alla questione della raccolta delle firme, riteniamo sarebbe particolarmente importante far sapere a politici e funzionari pubblici di ogni livello amministrativo che l’autentica della firma non è in assoluto necessaria, ed è di per sé un ostacolo alla raccolta delle sottoscrizioni alle iniziative popolari. L‘autentica per la sottoscrizione di supporto ai referendum non è prevista in nessun altro ordinamento europeo. Neppure è prevista per l’iniziativa dei cittadini europei.

Gli autori del memorandum al Ministro sottolineano che la richiesta di autentica è oggettivo ostacolo alla raccolta telematica delle sottoscrizioni, non solo è auspicabile una semplificazione, ma è un elemento di civiltà in quanto permette la sottoscrizione delle iniziative referendarie anche a chi, per motivi oggettivi, è impossibilitato o ha grandi difficoltà a muoversi. Infatti l’autentica prevede la presenza contemporanea della persona che sottoscrive e del pubblico ufficiale che autentica la sottoscrizione, cosa ovviamente impossibile per la sottoscrizione telematica.

Per le raccolte telematiche invece, potrebbe essere sufficiente la certificazione data dalla sottoscrizione con firma digitale, come avviene per molti altri procedimenti pubblici. Per quanto riguarda la sottoscrizione cartacea invece, l’autentica potrebbe essere utilmente sostituita dalla certificazione da parte di chi raccoglie le firme: costui certificherebbe, appunto, che la firma è stata raccolta in sua presenza con l’esibizione del documento di identità del sottoscrittore. L’ufficialità della sottoscrizione non sarebbe sminuita, ma la semplificazione sarebbe enorme.

Andrebbe anche sottolineato che il numero di sottoscrizioni e i tempi nei quali raccoglierle non possono costituire un ostacolo surrettizio alla possibilità di richiedere un referendum. Sono quasi 40 anni che si parla di dematerializzazione e c’è persino un “Codice dell’amministrazione digitale”. Però si fa fatica a semplificare. Sarebbe opportuno che si copiassero le buone pratiche della Regione autonoma Valle d’Aosta e della Provincia autonoma di Bolzano dove la raccolta dei certificati elettorali viene fatta via Pec direttamente dall’organo di verifica delle firme.

Il Codice di buona condotta sui referendum, per ragioni ben argomentate, invita a non prevedere quorum. Il quorum non è previsto negli ordinamenti delle democrazie avanzate. Ribadire che la previsione del quorum è sintomo di mancanza di civiltà giuridica e di rigetto degli standard democratici delle democrazie occidentali sarebbe una forma di educazione civile importante nel contesto italiano. In Italia il quorum è stato inserito unicamente nel referendum abrogativo. In quello costituzionale non c’è.

Il quorum non è semplicemente un ostacolo che equipara chi compie il suo dovere civico secondo il disposto dell’articolo 48 della Costituzione a chi decide di non esprimersi. Peggio ancora, sposta il dibattito dal merito del quesito referendario verso deprimenti appelli, fatti anche da rappresentanti delle istituzioni, al non voto. Il contrario della democrazia. Il non voto è una scelta legittima quando si decide di lasciare a chi lo esercita la responsabilità delle scelte. Non quando defrauda chi lo esercita dall’effetto del suo voto. Chi esercita il proprio diritto voto in una democrazia deve contare. Sempre. Non per nulla Costantino Mortati (uno dei più influenti “padri” della Costituzione) riteneva il quorum potesse andare bene solo se previsto anche per le elezioni e in un sistema con il voto obbligatorio.

Lo strumento di base e più efficace di democrazia diretta, quello che è sempre stato il primo strumento di intervento diretto del corpo elettorale nelle scelte pubbliche, è il referendum. Il referendum è la possibilità da parte degli aventi diritto al voto di porre un veto ad una norma approvata dal legislativo o (in alcuni casi) dall’esecutivo prima che questa entri in vigore. Da noi viene si chiama referendum confermativo, dato che ci siamo inventati (sostanzialmente solo noi) il referendum abrogativo per le leggi ordinarie.

Tali limiti consigliano fortemente di non utilizzare il referendum abrogativo nelle norme referendarie degli enti locali. E soprattutto di tornare all’intendimento corretto e internazionalmente accettato di “iniziativa e referendum” presenti all’art. 123, adottando come strumenti di base il referendum nel senso di referendum confermativo di leggi e regolamenti e di iniziativa come referendum propositivo.

La sentenza 372/2004 della Corte costituzionale recita espressamente per le regioni “La materia referendaria rientra espressamente, ai sensi dell’art. 123 della Costituzione, tra i contenuti obbligatori dello statuto, cosicché si deve ritenere che alle regioni è consentito di articolare variamente la propria disciplina relativa alla tipologia dei referendum previsti in Costituzione, anche innovando ad essi sotto diversi profili, proprio perché ogni Regione può liberamente prescegliere forme, modi e criteri della partecipazione popolare ai processi di controllo democratico sugli atti regionali.”

Le resistenze che s’incontrano da parte degli amministratori sono spesso mascherate da posizioni tecnico-giuridiche. Avere a supporto pareri o meglio ancora un libretto di buone pratiche di provenienza governativa sarebbe di grande aiuto. Anche, per esempio, dove insistiamo per l’introduzione dei referendum obbligatori, in particolare per spese che impegnino i bilanci comunali, per quote che lo vincolino oltre la consiliatura che delibera la spesa. Si dovrebbero poter fare iniziativa e referendum su tutti i temi di competenza dell’ente, che sia la Regione o siano gli enti locali, in particolare sulle principali scelte politico-amministrative. Insomma, è giunto il tempo di affermare chiaramente e pubblicamente che i referendum negli enti locali sono un elemento imprescindibile di democrazia. E chi dovrebbe farlo, se non il ministro per la democrazia diretta?

A livello locale, specialmente nei Comuni, anche quando il referendum è previsto dallo Statuto spesso mancano i regolamenti. È capitato che le richieste di cittadini di referendum comunali ai sensi dello Statuto non si siano potuti svolgere per mancanza dei regolamenti. E qui possiamo ipotizzare varie soluzioni:

Sollecitare l’esercizio del potere sostitutivo (difensore civico o procuratore civico)
Sanzioni amministrative agli amministratori inadempienti
Rimedi giurisdizionali accessibili economicamente e facilmente da parte dei comitati promotori.

In ogni caso dovrebbe essere possibile per chi chiede un referendum ai sensi dello statuto comunale avere gli strumenti per poter esercitare il diritto al referendum, superando l’inerzia dell’amministrazione. Un’altra questione spesso sottovalutata è che l’ammissibilità dei quesiti referendari deve essere svolta da un organo terzo rispetto al comitato promotore ma anche rispetto all’amministrazione, che sono parti in causa e in qualche modo in conflitto. Di conseguenza niente Commissioni di esperti atti a valutare la liceità dei quesiti referendari; soprattutto quando tali esperti sono nominati dall’amministrazione. Quis custodiet ipsos custodes? Inoltre la valutazione deve essere fatta esclusivamente in diritto, senza far pesare questioni di convenienza politica. Ora governo e parlamento sapranno deliberare in senso autenticamente democratico?
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Democrazia, cittadinanza, valori, doveri e diritti umani

Messaggioda Berto » lun mar 25, 2019 9:35 pm

Sulle riforme c'è poca gara d'intelletti
Enzo Trentin
Marzo 2019

https://www.vicenzareport.it/2019/03/su ... TSNpcA-_g4

Vicenza – Una volta un vecchio professore, riferendosi alla monografia che gli era arrivata sotto il naso, se ne uscì con una battuta fulminante: «Su questo libro nessuno potrà mai dissentire. Non dice nulla!». Analogamente non dice nulla la notizia che lo storico Valerio Castronovo (84enne intellettuale di riferimento per generazioni, docente a Milano e poi a Torino, e autore di numerosi libri) ha deciso di iscriversi all’Ordine dei Giornalisti. A consegnargli la tessera, il 18 marzo 2019 a Torino, è il presidente dell’Ordine regionale del Piemonte, Alberto Sinigaglia.

«Ho chiesto di iscrivermi all’Ordine dei Giornalisti perché credo nel magistero civile della stampa, nel suo valore come anello fondante dei sistemi democratici, in un momento delicato nel quale si crede di poter fare a meno dei corpi intermedi come il giornalismo, i partiti politici, la magistratura, l’associazionismo», spiega Castronovo e continua: «La libertà raggiunta dopo grandi battaglie sta correndo pericoli in un momento in cui si vuole promulgare la democrazia diretta come alternativa a quella rappresentativa. Il giornalismo ha il dovere, civile e morale, di tenere alta l’attenzione aiutando a distinguere il vero dalle campagne elettorali del momento.»

Ebbene, qui ci troviamo di fronte a un membro dell’Intelligencija che ha contribuito alla costruzione della repubblica nata dalla Resistenza. È ovvio che, sia pure in buona fede, desidera continuare a fare Dizinformacja. Siamo alla “Grande Depressione” delle idee, non solo degli spiriti, giacché scorgiamo all’orizzonte i barlumi d’una civiltà al tramonto. Infatti, affermare che c’è chi opera per “la democrazia diretta come alternativa a quella rappresentativa”, è un grande abbaglio. Infatti la democrazia diretta non è l’esercizio compulsivo del cittadino “sovrano” (Art. 1, Comma 2, di quella Costituzione più bella del mondo) ma uno strumento di deterrenza alle derive della democrazia rappresentativa.

Non so come la pensiate voi lettori, ma io provo sgomento quando annego nel fiume di commenti sulla nuova legge elettorale o sul reddito di cittadinanza o sull’autonomia del Veneto e della Lombardia o su qualche altra invenzione della partitocrazia che cerca di stare a galla. Certo è che se in Italia azzardi un’idea fuori dal coro ricevi critiche taglienti come scudisciate.

Dovrebbe valere la massima di Voltaire: «Volete buone leggi? Bruciate quelle che avete, e fatene di nuove». Ma abbiamo visto che la partitocrazia (ovvero la democrazia rappresentativa) non solo non è capace di fare buone leggi, non ne ha proprio l’interesse. Ecco quindi la funzione della democrazia diretta. In altre parole: tu rappresentante (che non dimentichiamolo sei un delegato) non prendi questo o quel provvedimento? Allora siamo noi cittadini “sovrani” che indiciamo un’iniziativa, e chiediamo alla maggioranza del “popolo sovrano” di decidere con il voto.

Ciò premesso, in questa occasione mi occuperò di due strumenti per l’esercizio della democrazia diretta che tanto spaventano il potere costituito in Italia.

Il Recall è un’elezione di richiamo (chiamata anche referendum di richiamo o richiamo rappresentativo), che è una procedura mediante la quale, in alcuni Stati, gli elettori possono rimuovere un funzionario eletto tramite un voto diretto prima che il mandato di quel funzionario sia terminato.

Negli Usa per il Recall ogni Stato ha le sue regole e qui si possono rilevare motivi ammissibili. Per esempio:

Florida: Malcontento, negligenza, ubriachezza, incompetenza, incapacità permanente di svolgere compiti ufficiali, e convinzione di un crimine che comporta turpitudine morale.
Georgia: Atto di comportamento illecito o condotta scorretta in ufficio; violazione del giuramento d’ufficio; mancata esecuzione dei compiti prescritti dalla legge; abuso volontario, convertito o altrimenti sottratto, senza autorizzazione, proprietà pubblica o fondi pubblici affidati o associati all’ufficio elettorale a cui il funzionario è stato eletto o nominato. Esecuzione discrezionale di un atto legittimo o di un dovere prescritto non costituisce un motivo per il richiamo di un funzionario pubblico eletto.
Kansas: Condanna per un crimine, una cattiva condotta in ufficio, incompetenza o mancata esecuzione dei compiti prescritti dalla legge. Nessun richiamo presentato agli elettori sarà annullato a causa dell’insufficienza dei motivi, della domanda o della petizione con la quale è stata fornita la richiesta.

Qui un elenco e i risultati delle azioni di Recall, e qualsiasi disarmato elettore italiano comprende all’istante che se questo istituto di sovranità popolare o democrazia diretta fosse esercitabile in Italia, il Parlamento e i Consigli regionali, provinciali e comunali, sarebbero totalmente differenti.

Il sorteggio

Per superare le inefficienze e i malanni della partitocrazia, l’ispirazione di Beppe Grillo (in realtà arriva buon ultimo, ma la sua è una ridondanza mediatica che lo fa prevalere sugli altri) risiede nell’introdurre il sorteggio al posto delle elezioni almeno per un ramo del Parlamento. Oltre, beninteso, negli Enti Locali. L’idea – come detto – non è nuovissima ed è stata sperimentata nel corso della storia in vari modi e varie gradazioni dalla Boulé dell’Atene classica alla Venezia dei Dogi, alla Signoria di Firenze. Ma la Boutade del Beppe nazionale, non sembra ancora essere interiorizzata dal M5s. E questo quotidiano, sul sorteggio ha già pubblicato qui,
https://www.vicenzareport.it/2018/02/el ... -autentici
qui
https://www.vicenzareport.it/2018/04/so ... -elezioni/

e qui.
https://www.vicenzareport.it/2018/11/so ... dirigente/

Se si guardasse con arguzia all’alito vitale della Carta Europea dell’Autonomia Locale (“proposta” dalla Ue) si scoprirebbe che a livello comunale si può avanzare una “moderna” e “rivoluzionaria” iniziativa puntando, per esempio, sull’utilizzo della struttura dell’ufficio elettorale comunale, al quale tutti per diritto sono iscritti.
Da qui sottoporre a sorteggio l’equivalente degli “aristocratici” (i migliori), la riforma potrebbe consistere nell’iscrizione a un preciso “comparto” su base volontaria i candidati. In tal modo le persone che non hanno tempo o voglia da dedicare alla Res Publica o si sentono inadeguate al ruolo, verrebbero auto-escluse preventivamente. Mentre (e questo è determinante) le persone da includere nel sorteggio esprimerebbero così un preciso impegno. Infine per constatare la rispondenza all’incarico per loro sorteggiato, dovrebbero superare aprioristicamente un apposito esame.

Di questo orientamento ci sono degli autorevoli cattedratici come per esempio Michele Ainis
https://it.wikipedia.org/wiki/Michele_Ainis
che da molti anni si occupa di democrazia diretta, e già nel 2012 scriveva: «C’è poi l’idea di trasformare il Senato in una Camera dei cittadini designati per sorteggio. È un’idea eretica, lo so, benché sperimentata già nell’antica Atene, e secoli dopo anche a Venezia.
https://www.youtube.com/watch?reload=9&v=QZp4f-eQwJc
Come funzionerebbe? Intanto con due Camere, non con tre né con trentatré. La Camera dei deputati resterebbe tale e quale: eletta, ma sottoposta a Recall. Se la revoca anticipata vale per il governatore della California, può applicarsi pure al parlamentare Domenico Scilipoti. A questa Camera spetterebbe il compito di scrivere le leggi e decidere la sorte dei governi; rispetto al nostro bicameralismo paritario, mi sembra una bella semplificazione.

Quanto alle leggi d’iniziativa popolare, potrà approvarle o rifiutarle entro sei mesi; altrimenti la proposta diventa un referendum propositivo, istituto già previsto nella Costituzione di Weimar del 1919. E l’altra Camera? Propone, verifica, controlla. E decide sugli argomenti che pongono i deputati in conflitto d’interessi. Per esempio l’indennità parlamentare, la verifica delle elezioni, il finanziamento dei partiti. Io credo che otterremmo un grado di corruzione in meno, non uno in più.» E ancora qui un altro articolo di Ainis che tratta lo stesso argomento con il titolo: ”La Democrazia a Sorteggio”
https://ricerca.repubblica.it/repubblic ... refresh_ce

Quali sarebbero i vantaggi del sorteggio? Come ha dimostrato la teoria della scelta pubblica (ad esempio, “Il calcolo del consenso” di Buchanan e Tullock), i politici, agendo come individui sufficientemente razionali e quindi volti a massimizzare il loro utile, hanno in primo luogo interesse ad essere rieletti e quindi a procacciarsi il favore di piccoli gruppi d’interessi e lobby che possono rivelarsi determinanti per la vittoria elettorale.
https://www.academia.edu/9647278/BUCHAN ... L_CONSENSO


L’interesse generale passa in secondo piano.

Inoltre, un politico eletto di sicuro non ha interesse a promuovere delle azioni che risultano elettoralmente svantaggiose nel breve termine. Queste criticità del sistema elettivo, che possiamo pensare siano spesso alla base di protezionismi che rallentano la crescita, di iniquità, della produzione eccessiva di legislazione, dell’aumento del debito pubblico, vengono meno con un sistema di sorteggio. Come divengono assenti le costose campagne elettorali intrise di promesse mai mantenute.

Introdurre dei sistemi di sorteggio per la scelta dei rappresentanti non risolve sicuramente buona parte dei problemi del Paese, che andrebbero affrontati con un approccio opposto a quello attualmente in voga, ossia con un abbandono delle politiche estese di intervento pubblico e di quelle regolatrici, con una minor tassazione, con maggiori autonomie per gli enti locali, con liberalizzazioni; ma sicuramente l’introduzione di sistemi a sorteggio dei rappresentanti è un tema che deve essere capace di avvicinare la verità attraverso la ragione, e va affrontato con attenzione e approfondimento.

Ed è singolare l’assordante silenzio su questi temi da parte di Riccardo Fraccaro (M5s), ministro per la democrazia diretta e i rapporti con il Parlamento, segno evidente che la prima è a mezzo servizio. Silenzio anche da parte delle liste civiche che troppo spesso hanno poco di “civico”. Silenzio dagli autonomisti che sembra non comprendano che il parlamento è concepito in modo tale da impedire la decentralizzazione del potere. Silenzio dai sedicenti indipendentisti che vorrebbero provare a cambiare le cose attraverso le urne. Non funziona! Sono pregati di guardare alla Catalogna. È necessario che la maggior parte dei cittadini, oggi completamente inconsapevoli della realtà, comincino a riflettere sul fatto che stando così le cose, e perdurando il loro silenzio, non potranno continuare normalmente le loro vite.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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