Democrazia, cittadinanza, valori, doveri e diritti umani

Re: Democrazia, cittadinanza, diritti e doveri umani

Messaggioda Berto » mar mag 08, 2018 6:05 pm

Democrazia diretta non nel genoma del centrodestra
Enzo Trentin
27/04/2018

https://www.vicenzareport.it/2018/04/de ... ntrodestra

Vicenza – Prendendola non troppo alla lontana, partiamo da Gianroberto Casaleggio che sosteneva come i vecchi partiti sono moribondi, e attraverso il M5S proponeva come soluzione la democrazia diretta. Noi potremmo anche esserci distratti, ma ad oggi di concrete proposte di riforma in questo senso non ne abbiamo viste. Abbiamo provato a sollecitare il candidato Francesco di Bartolo, ma non abbiamo ricevuto risposte esaurienti, al che abbiamo replicato senza ottenere più alcuna attenzione. Poco male, forse non conosce ancora bene la materia.

Anche l’altro candidato, quello di centrosinistra, Otello Dalla Rosa, ha pubblicamente avanzato intenzioni e proposte di maggiore partecipazione popolare; ma gli abbiamo fatto notare che le sue idee le ha tratte dall’ideologia comunista basata su modelli anacronistici. Anche lui non ha replicato. Forse ambedue leggono solo la pubblicazione dei loro comunicati, e quelli dei loro accoliti?

Oggi, per par condicio ci occuperemo del candidato di centrodestra, Francesco Rucco, cercando di dimostrare come nel genoma, ovvero il complesso dei geni di una cellula o nell’organismo di questa coalizione politica, non esista alcuna propensione alla democrazia diretta. Questa parte politica sembra scambiare l’ordine con l’autorità, mentre l’autorità politica deve essere esercitata entro i limiti dell’ordine morale e garantire le condizioni d’esercizio della libertà.

Il programma politico di questa fazione, che si dice concreto, sintetico e fattibile, è quanto di più banale si possa immaginare, e ci lascia completamente indifferenti. C’è forse qualcuno in città – anche senza essere candidato sindaco – che al pari del centrodestra non desideri la sicurezza dei cittadini? Una migliore viabilità e un più efficiente servizio di pubblico di trasporto? Una riqualificazione del territorio? Il rispetto dell’ambiente? L’innovazione digitale? La valorizzazione del commercio e della produzione in genere? Dei servizi sociali più efficienti e diffusi? E per i giovani delle attività produttive, sociali, culturali e sportive migliori? Lo sviluppo del brand Palladio, con una cultura diffusa e partecipata, la valorizzazione dei palazzi storici, della biblioteca Bertoliana, del teatro, della musica, delle esposizioni?

Insomma, un programma politico-amministrativo fatto di quelle buone intenzioni con cui sono lastricate le strade dell’inferno, e che si traducono in nient’altro che promesse elettorali. Ovvero fanfaluche che si distinguono per essere spesso disattese una volta che il politico viene eletto.

Quando noi rifiutiamo l’idea di un governo di politici “esperti”, centralizzato e pronto ad imporre la stessa soluzione a tutti, vogliamo sostenere la necessità di un’organizzazione incredibilmente complessa per risolvere i problemi con cui abbiamo a che fare. Nessuno, possiede di per sé le informazioni e le conoscenze sufficienti per determinare, o prevedere, quali particolari metodi siano i migliori per risolvere un problema.

Consigliare la democrazia diretta – indipendentemente dalla provenienza di quest’idea – è raccomandare di permettere a milioni di persone creative, ciascuna con la sua diversa prospettiva, i suoi differenti scampoli di conoscenza e le sue proprie intuizioni, di dare ciascuna un contributo con le proprie idee e i propri sforzi verso la risoluzione del problema. Non significa sostenere un’unica soluzione ma, invece, un processo decentralizzato capace di suscitare molti esperimenti concorrenti e, quindi, scoprire le soluzioni che funzionano meglio sotto le particolari circostanze.

Ma ritorniamo a Casaleggio che era associato con Sassoon nell’idea massonica del progetto Gaia, che vuole portare la democrazia diretta nel mondo, e che pensano che la democrazia rappresentativa e di delega sia alla fine, visto che con la rete non esisterà più il controllo mediatico del popolo. Non è un caso il 20 maggio 2012 circa 200 persone del Grande Oriente d’Italia si riuniscono nel castello del Buonconsiglio di Trento, dove tra l’altro vien detto: «L’Italia? Stato arcaico». Parola di massone. Critiche rinfocolate dal sociologo Morris Ghezzi che ha parlato di «Stato italiano premoderno e arcaico dove non c’è democrazia diretta».

Fu soprattutto per cautelarsi contro chi mirava a espropriarne il potere che la massoneria esasperò la propria idea di democrazia diretta fino al punto di inibire qualsiasi possibilità di nomina dall’alto: un accorgimento che valse per più di un secolo a ostacolare – per quanto era possibile – ogni forma di interferenza indesiderata dei poteri forti.

Passiamo quindi ad esaminare l’operato di pubblico amministratore di un autorevole massone di centrodestra, non senza prima aver parafrasato Alain Bernheim, uno dei più eminenti e rigidi storici della massoneria, che dice: «La fedeltà è una malattia del cane non trasmissibile all’uomo». E osserviamo preliminarmente che in uno dei club più esclusivi e ad alta concentrazione massonica, all’epoca affidato ad Alfred H. Heineken, industriale dell’omonima birra, il Club 1001, si nota l’iscrizione del vicentino Enrico Hüllweck.

Questo eminente personaggio sembra calzare con la definizione sopra riportata di Alain Bernheim. Per esempio, a differenza della maggior parte dei suoi coetanei che trascorrevano la loro adolescenza a giocare a calcio balilla negli oratori parrocchiali, il nostro passa i pomeriggi a disputare animate partite dello stesso gioco nella sede (di Contrà San Marco a Vicenza) del Movimento Sociale Italiano. A pagina 252 del libro “La Fiamma a Vicenza – Storia del Msi nella provincia di Vicenza”, si può notare la fotografia (del 1971) dove un azzimato venticinquenne, Enrico Hüllweck, è impegnato a relazionare un attento e interessato Giorgio Almirante, “patron” e fondatore di quel partito. Ciò nonostante è eletto deputato nelle politiche del 27 e 28 marzo 1994, nella Lega Nord del “federalista” (si fa per dire) e secessionista (si fa per dire) Umberto Bossi. Rimarrà in carica fino alla caduta della dodicesima Legislatura l’8 maggio 1996.

Nella Lega Nord non ci sta per molto poiché passa in successione ai federalisti e liberaldemocratici, poi al Centro Cristiano, per andare nel Polo delle Libertà, ed approdare infine in Forza Italia. Di questo periodo non conosciamo nessuna sua incisiva azione a favore del federalismo o della democrazia diretta. Invece dal 13 dicembre 1998 al 13 febbraio 2008 sarà sindaco di Vicenza. E qui è utile rendere conto di alcune sue pubbliche dichiarazioni a mezzo stampa in favore della corretta normazione degli istituti di democrazia diretta (si veda il ritaglio dal giornale “Il Gazzettino”).

È di quel periodo il deposito di una mozione, sottoscritta da centinaia e centinaia di vicentini che propongono una riforma dello Statuto nel senso condiviso da Hüllweck, che tuttavia viene bocciata tempo dopo dal Consiglio comunale, con la temporanea e “strategica” assenza dal voto del predetto sindaco. Insomma l’ennesima promessa elettorale mai realizzata. Eppure, che Enrico Hüllweck sia un autorevole massone dovrebbe evincersi anche dal fatto che nel 2004 sposa, in seconde nozze, l’ex architetto comunale Lorella Bressanello, e alla cerimonia in Cattedrale partecipa Silvio Berlusconi (tessera n. 1816 della loggia “Propaganda 2”, di Licio Gelli), in qualità di suo testimone di nozze.

Insomma nel Dna del centrodestra, malgrado importanti dichiarazioni d’intenti e non meno autorevoli personaggi, la democrazia diretta è una sconosciuta, e l’ennesima riprova la si può riscontrare nella presente candidatura a Consigliere comunale di Valerio Sorrentino, che all’epoca votò (dopo un intervento tenuto con sussiego) contro la mozione d’iniziativa popolare predetta, avanzata da centinaia a centinaia di vicentini. Non bastasse, la Lega Nord appoggia la candidatura di Francesco Rucco alle Comunali, ed anche qui torna utile rammentare che all’epoca dell’iniziativa popolare sunnominata, la Lega Nord, attraverso l’allora consigliere comunale Franca Equizi – che ammetteva a titolo personale di non disprezzare le proposte di riforma – votava contro per disciplina di partito.

Scrive Paolo L. Bernardini: «La “Padania” è stata una delle armi della colossale truffa che ha ingannato proprio i padani, organizzata ad arte dalla Lega Nord, nel corso di decenni; truffona che se non ha ucciso, ha ferito gravemente il federalismo e l’indipendentismo. Una truffa che ora cambia di segno, ma tant’è “vulgus vultdecipi, ergo decipiatur”, e questi faccendieri tutti pronti a gridare a “Roma ladrona” hanno se mai benissimo imparato a rubare, innanzi tutto la fiducia della gente».

Potremmo continuare, ma purtroppo, la follia vince spesso sulla razionalità. Troppo spesso le persone si convincono che i grandi problemi sociali possano essere risolti solo decidendo prima quale particolare gruppo di persone e quali particolari procedure siano la chiave per risolverli. Invece, è soltanto il segno di una fede ingenua e infondata che le persone investite da un potere non ne abuseranno; che i politici nominati possiedano o possano scoprire risposte migliori rispetto a milioni di persone impegnate a cercare una soluzione ognuna alla sua maniera, scommettendo le loro risorse e la loro reputazione sui propri sforzi; che solo le “soluzioni” definite negli Statuti e nei regolamenti, e che hanno degli ufficiali pagati per implementarle siano vere soluzioni.
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Re: Democrazia, cittadinanza, diritti e doveri umani

Messaggioda Berto » mar mag 08, 2018 6:06 pm

Politica, la gente vuole la democrazia diretta?
8 maggio 2018
Enzo Trentin

https://www.vicenzareport.it/2018/05/po ... ia-diretta

Vicenza – Argomento poco conosciuto in Italia, eppure non c’è praticamente nessun paese occidentale in cui non ci sia una maggioranza del popolo (di solito larga) che non voglia la democrazia diretta. Nel 1995 il sondaggio ‘stato della Nazione’ mostrò che il 77% dei cittadini britannici credeva che dovesse essere introdotto un sistema «…in cui certe decisioni vengono rimesse al popolo per decidere con referendum popolare» (Prospect Magazine, ottobre 1998). Secondo un sondaggio pubblicato dal Sun (15 marzo 2003) l’84% dei britannici voleva un referendum sulla Costituzione europea.

Contemporaneamente apparve un sondaggio sul Daily Telegraph secondo cui l’83% dei cittadini britannici voleva risolvere questioni di sovranità per mezzo di referendum nazionali; solo il 13% riteneva che questo fosse competenza del governo. Il Guardian (29 febbraio 2000) pubblicò un sondaggio secondo il quale il 69% dei britannici voleva un referendum sul nuovo sistema elettorale proposto dal primo ministro Tony Blair. Ciò dimostra chiaramente che il popolo britannico vuole l’ultima parola in merito all’organizzazione del suo sistema politico.

In Germania più di quattro cittadini su cinque desiderano che l’iniziativa di referendum popolare venga introdotta a livello nazionale. La Germania è una delle poche democrazie occidentali in cui non vi sono votazioni popolari nazionali. Da un sondaggio Emnid nel 2005 apparve chiaro che l’85% dei tedeschi ne erano convinti (Readers Digest, 10 agosto 2005), e dati simili sono pervenuti da decine di altri sondaggi. Nel 2004 Emnid chiese anche ai tedeschi se volevano un referendum sulla Costituzione europea; il 79% rispose in senso affermativo.

Precedenti sondaggi mostrarono che la preferenza tedesca per la democrazia diretta è trasversale a tutti i partiti: erano sostenitori il 77% degli elettori della Spd, il 68% degli elettori Cdu, il 75% degli elettori Fdp, il 69% degli elettori dei Verdi, il 75% degli elettori Pds (Zeitschrift für Direkte Demokratie 51 [periodico per la democrazia diretta no. 51], 2001, p. 7). «Ritengo che le votazioni popolari siano una buona cosa, perché i cittadini hanno così un’influenza diretta sulle decisioni», dice Sybille Heine, intervistata sulla Friedrichstrasse a Berlino. «Se i cittadini sono coinvolti, accettano le decisioni politiche e non si lamentano di quelli che sono in alto», aggiunge Irene Bamberger.

Ciò che non è accordato a livello nazionale, lo è almeno a livello regionale. Tutti i 16 Länder della Repubblica federale di Germania danno la possibilità ai loro cittadini di lanciare un’iniziativa. Tuttavia, finora le votazioni popolari si sono tenute solo in 6 dei 16 Länder. La domanda di democrazia diretta si fa sentire sempre di più. Nei negoziati per la coalizione di governo, lo scorso anno, sia i socialisti (Spd) sia i cristiano sociali (Csu) si sono espressi chiaramente a favore dell’introduzione di votazioni popolari a livello federale. I cristiani democratici (Cdu) di Angela Merkel sono però molto scettici in proposito e hanno impedito che le proposte fossero incluse nell’accordo di coalizione.

Da un sondaggio Scp del 2002, nei Paesi Bassi, l’81% degli elettori sostiene l’introduzione del referendum. Nel 1997 un’indagine della Scp mostrava che c’era una larga maggioranza a favore della democrazia diretta in tutti e quattro i più grandi partiti politici: il 70% degli elettori del Cda (Cristiano Democratici), l’86% degli elettori del PvdA (Laburisti), l’83% del Vvd (Liberali di destra), l’86% degli elettori del D66 (Democratici liberali di sinistra) [Kaufmann & Waters, 2004, p.131]. Secondo un sondaggio Nipo nell’aprile 1998 il 73% degli elettori voleva un referendum sull’introduzione dell’euro, ed un sondaggio del settembre 2003 mostrava che l’80% voleva un referendum sulla Costituzione europea (che venne effettivamente tenuto nel 2005. [Nijeboer, 2005]).

Oltretutto il popolo olandese si aspetta molto dalla democrazia. Il Nationaal Vrijheidsonderzoek (indagine sulla libertà nazionale) del 2004 mostra che la «promozione della democrazia» è stata scelta dalla maggior parte dei cittadini (il 68%) come una risposta alla domanda: «Che cosa, secondo voi, è particolarmente necessario per la pace nel mondo?» Gallup ha intervistato gli Europei, a metà del 2003, circa l’opportunità di un referendum sulla Costituzione europea. L’83% di essi consideravano un tale referendum come indispensabile oppure utile ma non indispensabile, ma solo il 12% pensava a un referendum inutile. La percentuale a favore era ancora più elevata tra i giovani e le persone con istruzione di livello superiore (Witte Werf, autunno 2003, p. 15). Secondo un sondaggio Sofres l’82% dei francesi sono a favore dell’iniziativa referendaria popolare; il 15% sono contrari (Lire la politique, del 12 marzo 2003).

Anche la maggior parte della gente negli Usa vuole la democrazia diretta. Tra il 1999 e il 2000 venne effettuato il più ampio sondaggio sulla democrazia diretta che sia mai stato fatto. In tutti i 50 Stati membri si è constatato che ci sono come minimo il 30% in più di sostenitori rispetto ai contrari; la media per tutti gli Stati Uniti è stata di 67,8% pro e 13,2% contro la democrazia diretta. Era sorprendente come più referendum si erano tenuti in uno Stato nei quattro anni precedenti al sondaggio più alto era il numero dei sostenitori della democrazia diretta. Negli stati con pochi o nessun referendum i sostenitori erano in media il 61%; negli Stati con un numero medio di referendum i sostenitori erano il 68% e gli Stati con più di 15 referendum avevano una media del 72% a sostegno.

«Le indagini del 1999-2000 hanno definitivamente dimostrato che l’esperienza di voto su iniziative popolari e referendum aumenta effettivamente il sostegno al processo», commenta Waters [M.D. Waters: «Initiative and referendum almanac», p. 477, Durham: Carolina Academic Press, 2003]. Ci fu anche un sondaggio circa l’opportunità di una iniziativa di referendum popolare a livello federale (gli Stati Uniti sono paradossalmente uno dei pochi paesi al mondo che non hanno mai tenuto referendum nazionali, anche se la democrazia diretta è molto diffusa a livello statale e locale). In questo sondaggio, i sostenitori erano il 57,7% e gli oppositori il 20,9%.

Nel nostro paese si fanno moltissimi sondaggi, ma su questo argomento sembra non ci siano dati o comunque non sono stati pubblicati a quanto ne sappiamo. È stato calcolato che in Parlamento e negli enti locali i cosiddetti “rappresentanti” sono in media solo il 0,003% della popolazione. Il termine democrazia deriva dal greco ed etimologicamente significa governo del popolo. Eppure i “rappresentanti” possono prendere tutte le decisioni.

Alexis de Tocqueville nel 1831 partì per gli Usa. Proprio dall’osservazione della realtà americana prende vita il suo studio che sfocerà nella sua opera più importante, “La democrazia in America”, pubblicata in due parti, nel 1835 e nel 1840 dopo il suo ritorno in Francia. Egli, aristocratico ammirato e turbato da questa mostruosità chiamata democrazia scrisse: «La libertà di informazione è la sola difesa reale contro la tirannide della maggioranza». Domanda: fosse ancora vivo Alexis de Tocqueville cosa scriverebbe della tirannide di una minoranza che anziché essere aristocratica (migliore), ricca, e potente, è invece solo “rappresentativa” e… “disinvoltamente depauperatrice”?




Alberto Pento
Non sempre le aristocrazie sono "i migliori". Infatti l'aristocrazia veneziana ha dimostrato di non essere affatto "i migliori": non ha promosso un popolo e una nazione veneta, non ha promosso uno stato a sovranità di tutti i veneti e non ha avuto il coraggio, la dignità e la responsabilità di combattere contro Napoleone che stava invadendo la terra veneta riducendola in sudditanza.
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Re: Democrazia, cittadinanza, diritti e doveri umani

Messaggioda Berto » gio mag 10, 2018 7:58 pm

Il referendum strumento di sovranità popolare
2018/05/10
Enzo Trentin

https://www.vicenzareport.it/2018/05/il ... a-popolare

Vicenza – La parola referendum indica lo strumento attraverso cui il corpo elettorale viene coinvolto direttamente su temi specifici; esso è uno strumento deliberativo di democrazia diretta, consente cioè agli elettori di fornire – senza intermediari – le proprie decisioni su un tema oggetto di discussione. Sorprende – ma non tanto – che politicanti di ogni specie mantengano attivi negli Statuti di quasi tutte le Regioni, le Province ed i Comuni italiani il referendum “consultivo”.

Sulla validità di un referendum consultivo, che dunque non è vincolante, senza tanti giri di parole, riportiamo di seguito quanto ha deliberato la sentenza della Corte costituzionale n. 334/2004, che chiarisce benissimo in cosa consista: «…dal momento che il referendum ha carattere consultivo e non priva il legislatore nazionale della propria assoluta discrezionalità quanto all’approvazione della legge che…». Dunque, per analogia, anche i consigli comunali, provinciali o regionali sono liberi di non tener conto dell’esito. È quindi politicamente immorale mantenere, e continuare ad utilizzare, uno strumento che inquina la dialettica e confonde l’opinione pubblica.

Per esempio, il mitologico referendum per fare uscire l’Italia dall’euro da poco rilanciato dal candidato premier del M5s, Luigi Di Maio. Egli ha detto che, se l’Europa non accogliesse le loro richieste, sarebbe inevitabile indire questo referendum, ed a quel punto lui voterebbe per l’uscita. Prendiamo anche a prestito le parole di Barbara Lezzi, senatrice pentastellata, così come consegnate al suo profilo Facebook: «Il referendum per uscire dall’Euro di cui ha parlato Di Maio sarebbe solo un referendum consultivo, come quello del 1989, ma ribadiamo che si tratta dell’ultima ratio nel caso in cui l’Europa continuasse a ignorare le richieste dell’Italia. Speriamo di non dover mai arrivare a tanto, ma in quel caso il M5s chiederebbe un mandato chiaro agli italiani».

Insomma si tratta di un uso bassamente speculativo per ottenere il consenso dell’opinione pubblica, non già per deliberare attraverso l’esercizio della sovranità popolare, ma solo per un diverso sfruttamento della dialettica politica. E a proposito di “consultazione” per via referendaria, nel 1981 Costantino Mortati, uno dei padri dell’attuale Costituzione italiana, ebbe a scrivere: «La posizione di organo supremo rivestita dal popolo in regime democratico non può in nessun modo conciliarsi con l’esercizio di una funzione subordinata, come quella che si sostanzia nell’emissione di pareri.»

La forma democratica appropriata in questo contesto è un sistema parlamentare integrato con l’iniziativa popolare referendaria obbligatoria (democrazia diretta o sovranità popolare), perché solo un tale sistema prevede un collegamento diretto tra i singoli individui e gli organi legislativi ed esecutivi. Questo meccanismo allontana il rischio della corruzione e affievolirebbe la pressione delle lobbies, perché ha poco senso ottenere dal Parlamento, come dai Consigli regionali, provinciali e comunali, un risultato che potrebbe essere facilmente ribaltato dagli elettori.

E bene chiarire meglio cos’è la democrazia diretta. Una buona definizione e sintesi di questa forma di democrazia è data da Andreas Auer, professore di Diritto costituzionale all’Università di Zurigo e direttore del Centro di studi e di documentazione sulla democrazia diretta (C2d): «La democrazia diretta si caratterizza per il fatto che il popolo è un organo dello Stato che esercita, oltre alle competenze elettorali classiche, delle attribuzioni specifiche in materia costituzionale, convenzionale, legislativa o amministrativa. Essa è dipendente o ‘addomesticata’ quando l’esercizio di queste attribuzioni dipende dall’intervento o dalla volontà di un altro organo dello Stato. Parlamento o capo di Stato. È indipendente o ‘propria’ quando il momento ed il tema sul quale il popolo interviene non dipende che dalla volontà di quest’ultimo, o da un criterio oggettivo sul quale gli altri organi dello Stato non hanno influenza.1» Auer prosegue «Così definita, la democrazia diretta non si oppone, ma completa la democrazia rappresentativa.»

Quanto maggiore è la propensione dei cittadini verso le opinioni individuali e la perdita da parte dei partiti politici del loro monopolio, come punti di mobilitazione ideologica, tanto più elevata è la domanda di strumenti decisionali democratico-diretti. Infatti la maggioranza dei cittadini nei Paesi occidentali vuole che venga introdotto il referendum. Si veda qui. Questo fatto da solo dovrebbe essere decisivo anche per la sua effettiva attuazione.

I partiti si dimostrano democratici quando conviene loro, e vediamo che la maggior parte dei politici argomentano contro il referendum. Colpisce il fatto che più elevato è il livello di potere reale di cui dispongono, più vigorosamente molti politici fanno resistenza al referendum. Così facendo, essi adottano in pratica gli stessi argomenti che erano già stati utilizzati un tempo per opporsi al diritto di voto dei lavoratori e delle donne. Si può anche dimostrare che questi argomenti sono di valore molto scarso.

Da sondaggi d’opinione tenuti tra i politici in genere appare chiaro che la maggioranza di loro sono avversi all’esercizio della sovranità popolare. In Danimarca ai membri del Parlamento nazionale è stato chiesto il loro parere sull’affermazione: «Ci dovrebbero essere più referendum in Danimarca». La grande maggioranza dei membri del Parlamento era contraria a questo. In tre partiti: Socialdemocratici, Liberali di sinistra e Democratici di centro furono contrari al 100%; inoltre erano contro il 96% dei membri della Destra liberale e il 58% dei conservatori. Solo una (larga) maggioranza dei Socialisti e del Partito popolare danese erano a favore.2

Nel 1993 Il professor Tops di Tilburg (uno scienziato politico) condusse un sondaggio di opinione nei Paesi Bassi tra i membri di consigli comunali. Meno di un quarto erano a favore dell’introduzione del referendum obbligatorio.3 Un altro sondaggio, condotto dall’Università di Leiden, trovò che il 36% di tutti i consiglieri comunali si pronunciarono a favore della introduzione del referendum facoltativo e il 52% era contro. Consiglieri del Vvd (Liberali di destra) e del Cda (Democratici cristiani) erano contro addirittura con una media del 70%. Solo i Verdi di sinistra ed il D66 (Liberali di sinistra) presentavano una maggioranza dei consiglieri a favore del referendum facoltativo.4 L’Instituut voor Plaatselijke Socialistische Actie (Istituto per l’azione socialista locale) condusse in Belgio un sondaggio d’opinione tra i politici socialdemocratici locali sul referendum comunale. Solo il 16,7% erano sostenitori incondizionati del referendum obbligatorio.5

Le ricerche di Kaina (2002) hanno fornito un interessante quadro sulle dinamiche del sostegno delle élite. Esse hanno esaminato la volontà di varie élite tedesche di introdurre la democrazia diretta. Tra l’altro le ha suddivise in élite politiche, élite sindacali ed élite imprenditoriali. Sul totale delle élite il 50% espresse un grado «elevato» ovvero «molto elevato» di sostegno alla democrazia diretta (nel pubblico in generale questo dato è considerevolmente superiore: l’84%).

Ci sono però grandi differenze fra le varie élite. Nell’élite sindacale l’86% espresse un grado ‘elevato’ o ‘molto elevato’ di sostegno, mentre nell’élite imprenditoriale questo grado fu solo del 36%. Tra l’élite politica vediamo una rappresentazione di estremi. Nei post-comunisti Pds e nei Verdi il sostegno ‘elevato-molto levato’ non era meno del 100%; nei socialdemocratici SPD era il 95% e nei Liberali della Fdp il 78%, ma nella Cdu/Csu Solamente il 34%. Infatti una maggioranza del Parlamento tedesco aveva già approvato un emendamento alla Costituzione introducendo un sistema abbastanza buono di democrazia diretta; purtroppo, essendo richiesta una maggioranza dei due terzi, furono in particolare i politici del Cdu/Csu che lo bloccarono.

Se andiamo a vedere gli elettori di tutti i partiti, però, senza eccezione alcuna, hanno una larga maggioranza a sostegno della democrazia diretta. Per concludere: i politici della Cdu non rappresentano più il popolo riguardo a questo punto, e nemmeno i propri elettori, ma pare che si pieghino ai desideri dell’élite del business. Quello che molti politici pensano riguardo al se e in che misura i referendum siano auspicabili è molto legato alla loro propria vicinanza al potere politico. Più potere hanno acquisito in un sistema rappresentativo, più mostrano di opporsi all’esercizio della sovranità popolare.

Ecco alcuni esempi: in Svezia nel corso del ventesimo secolo si sono tenuti solo cinque referendum in totale. Le posizioni dei più importanti partiti svedesi – il partito socialista e il partito conservatore – variavano a seconda se erano o no al potere in quel momento. Prima della Seconda Guerra Mondiale il partito conservatore svedese era rigorosamente contro il referendum; dopo la guerra, quando questo partito fu all’opposizione per decenni, è diventato un sostenitore dei referendum.

Nel partito socialista svedese le cose si sono sviluppate esattamente nella direzione opposta: questo partito ha cominciato a rifiutare i referendum dal momento in cui guadagnò la maggioranza assoluta al ‘Rikstag’ svedese. O. Ruin6 riassume come segue: «I partiti che appartengono all’opposizione, oppure hanno una posizione subordinata, manifestano la tendenza a difendere il referendum. I partiti che siedono al governo o che hanno una posizione esecutiva tendono a mostrare un atteggiamento sprezzante.»

Molti demagoghi e populisti sostengono che la democrazia diretta o sovranità popolare violerebbe i diritti della minoranze. In realtà, i demagoghi hanno molte più opportunità in un sistema puramente rappresentativo, dove un piccolo gruppo di politici al vertice stabiliscono l’agenda e i cittadini vengono posti in secondo piano. Questo porta quasi sempre il malcontento tra la popolazione. La sola maniera in cui la gente può esprimere questa insoddisfazione è il voto a politici populisti che promettono che rimedieranno davvero al «caos» nel paese, se riceveranno abbastanza sostegno alle elezioni. Insomma, niente di nuovo, i politicanti reclamano sempre un maggior potere.

Al contrario in una democrazia diretta, ovvero con l’effettivo esercizio della sovranità popolare, i cittadini hanno solo un bisogno minimo di tali «leader forti», in quanto gli stessi cittadini possono proporre le loro soluzioni, e cercare di farle adottare attraverso iniziative popolari e referendum. È dunque il referendum uno degli strumenti principali per l’esercizio della sovranità popolare, sancita all’art. 1 della Costituzione della Repubblica Italiana. L’esito referendario è espressione di questa sovranità, ed è una fonte del diritto primaria che vincola i legislatori al rispetto della volontà del popolo.


1 AA.VV., Justice Constitutionnelle et démocratie référendaire, Strasbourg, 23-24 juin 1995, Council of Europe, p. 168.
2 giornale «Jyllands Posten», 30 dicembre 1998.
3 «NG Magazine», 31 dicembre 1993.
4 Binnenlands, Bestruur periodico del governo locale, 18 febbraio 1994.
5 giornale «De Morgen», 31 gennaio 1998.
6 «Sweden: the referendum as an instrument for defusing political issues», p. 171-184.
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Re: Democrazia, cittadinanza, diritti e doveri umani

Messaggioda Berto » lun mag 21, 2018 12:48 pm

Quella rappresentativa è vera democrazia?
21 maggio 2018
Enzo Trentin

https://www.vicenzareport.it/2018/05/ra ... democrazia

Vicenza – È vero, anche in altre nazioni si vivono fasi alterne e dense di retorica, ma di là di quello la politica si ritaglia una parte importante, che da noi è più invisibile della faccia nascosta della luna. L’altra parte della politica si chiama “policy”. Una policy è l’analisi pragmatica di un problema e la ricerca di una soluzione. Nei paesi di cultura anglosassone la politica oltre che “politics” è formata da questa parte sommersa, silenziosa, ma viva e salutare per la società. I policy maker lavorano in base a capacità e merito, tra i progressisti come tra i conservatori. Vale, come si dice, più che la parola l’esempio.

Tanto per cominciare, a un politico non importa un accidente di qualsiasi altra cosa che non siano i voti. Pesa tutto nei suoi pensieri secondo i voti, unità di misura per un uomo in quella posizione. Il fatto che alcuni tra i votanti siano matti, non ha nessuna importanza. È il loro voto che conta. Si consideri poi come a molti politicanti conviene sostenere che la democrazia diretta sarebbe in conflitto con la democrazia rappresentativa. Questa tesi è talvolta sostenuta da alcuni con l’argomentazione che l’autorità del Parlamento viene minata dai referendum e dagli altri strumenti di azione-deliberazione popolare, e che il primato della politica viene minacciato dai referendum.

Si noti l’inganno: la democrazia viene fatta coincidere con la democrazia rappresentativa, come se la rappresentatività fosse l’essenza della democrazia. I referendum minaccerebbero perciò la democrazia. In realtà, non è affatto la rappresentatività ad essere l’essenza della democrazia, ma la sovranità popolare. Non sono solo i dittatori, come Hitler e Stalin, ad aver dipinto se stessi come rappresentanti del popolo, ma anche vari re assolutisti nel corso della storia. Un sistema puramente rappresentativo è una corretta interpretazione della democrazia soltanto in una specifica circostanza: se i cittadini sono in accordo con esso. Tuttavia gli studi mostrano costantemente che non è più così a partire dagli anni ’70 del ventesimo secolo: la maggioranza della gente sostiene invariabilmente l’introduzione del processo decisionale democratico diretto.

In altre parole, l’affermazione che l’autorità parlamentare venga minata dai referendum e dagli altri strumenti di azione-deliberazione popolare non è rilevante. Che dire poi dei molti referendum voluti e votati dagli italiani ed elusi dal Parlamento? Un Parlamento non è un fine in sé: il Parlamento è lì per la democrazia; non è la democrazia che è lì per il Parlamento. Pertanto non si può chiedere che la democrazia venga limitata dal rispetto per il Parlamento. Il popolo è un organo dello Stato che esercita, oltre alle competenze elettorali classiche, delle attribuzioni specifiche in materia costituzionale, convenzionale, legislativa o amministrativa.

Se venisse introdotta la democrazia diretta, verrebbe in realtà ripristinato il valore del Parlamento (e ciò vale per Comuni, Province e Regioni), in quanto i cittadini sarebbero implicitamente invitati a dimostrare la loro fiducia ad ogni decisione parlamentare. Se essi non lanciano un’iniziativa dopo che il Parlamento ha passato una legge, ciò può sempre esser interpretato quale mozione di fiducia implicita. In un sistema puramente rappresentativo, il popolo non può pronunciarsi contro il Parlamento; di conseguenza non può nemmeno esprimere la sua fiducia nel Parlamento, neppure implicitamente. Può al massimo stare a casa nel giorno delle elezioni; ma l’astensione dal voto può essere interpretata in diversi modi.

Dove esiste un bilanciamento tra la democrazia rappresentativa e democrazia diretta, i politici appaiono rilassati e disinvolti, ma sono perennemente in campagna elettorale. Ogni giorno è per loro “il giorno prima delle elezioni”. La democrazia diretta, principalmente con la sua funzione di deterrenza, migliora la società, migliora i partiti politici, migliora i politici e migliora anche i cittadini. E nei rappresentanti lo scrupolo a conservare un determinato comportamento è mantenuto vivo dall’eterno quesito: «E se i cittadini prendono l’iniziativa…?», o anche: «Come reagiranno i cittadini quando sapranno che ci siamo attribuiti questo o quel privilegio?» Oppure: «abbiamo rispettato il “comune sentire” con questa delibera, o con la tal legge?»

Altrimenti, invece di essere limitati ai principi e ai nobili, in una democrazia unicamente rappresentativa i privilegi diventano alla portata di tutti: tutti possono partecipare al furto e vivere del bottino rubato se solo diventano pubblici ufficiali. La democrazia non pone quindi fine alle depredazioni della monarchia assoluta, ma di fatto le incrementa. Se si ha sempre la possibilità che un’iniziativa popolare venga lanciata, il Parlamento (come i Consigli comunali, provinciali o regionali) sarà sempre sotto pressione per legiferare in accordo con la volontà dei cittadini-elettori-contribuenti.

Rimarrebbe l’opportunità per il Parlamento di contribuire all’affinamento delle proposte referendarie, compreso il diritto parlamentare di presentare una proposta alternativa, com’è prassi da lungo tempo consolidata in Svizzera ed altrove. Quanti affermano che i referendum nuocciono alla credibilità pubblica del Parlamento devono comprendere che già da tempo il popolo ha perso ogni fiducia in tale istituto [ciò vale in larga misura anche per i Consigli degli enti locali] e questo molto prima che la maggioranza dei paesi introducesse importanti diritti democratici diretti a livello nazionale.

Nel 2002 Gallup ha condotto un enorme sondaggio col quale 36 mila persone di 47 paesi sono state interrogate sul loro grado di fiducia nei riguardi di 17 istituzioni. Questo piccolo elenco includeva l’esercito, il governo, il sistema educativo, i mass media, i sindacati, il Fmi, le multinazionali, etc.. Nella classifica della fiducia i Parlamenti erano molto in basso. Il 51% degli interrogati aveva poca o nessuna fiducia nel proprio Parlamento e solo il 36% aveva un fiducia moderata o elevata. Il Parlamento registrò un punteggio particolarmente basso nei paesi europei. I due terzi della gente consultata concordava che il loro paese non era governato dalla volontà della maggioranza.

Quando fu chiesto: «Le cose in genere stanno andando meglio nel mondo?», nella maggior parte dei paesi solo una minoranza dava una risposta affermativa: solo il 13% dei tedeschi, il 14% degli italiani, il 23% degli olandesi e il 25% dei britannici. In altre parole: coloro che sono felici di conservare i Parlamenti così come sono, si sforzano solo di salvare le apparenze. In realtà, la maggioranza ha perso da lungo tempo la sua fiducia nei Parlamenti nei sistemi fondamentalmente rappresentativi. La riprova ce l’abbiamo nell’ultimo decennio, all’incirca, con l’affermazione dei cosiddetti populismi.

Alcuni oppositori dei referendum formulano questo concetto: il primato della politica è compromesso dai referendum. L’ipotesi sottesa è, a quanto pare, che politica equivalga a Parlamento e Governo. La politica invece è idealmente un foro in cui tutti i cittadini partecipano. Vista sotto questa luce, la democrazia diretta non minerà mai l’importanza della politica, ma le darà invece una forte propulsione. La democrazia diretta può portare a un foro politico vivace e creativo.

L’impatto diretto del referendum d’iniziativa popolare (che in Italia non esiste, ma comincia ad apparire – sia pure osteggiato ed ignorato dai più – nei Comuni con la legge 3 agosto 1999, n. 265 denominata «Più autonomia per gli enti locali») non deve neppure essere sopravvalutato. Nel 1996, anno top per la democrazia diretta negli Usa, andarono al voto un totale di 102 referendum avviati dai cittadini in tutti gli stati americani, mentre lo stesso anno i legislatori eletti adottarono un totale di 17 mila leggi in tutti gli stati (M.D. Waters, 2002, «Initiative and referendum in the United States: a primer», Washington: Citizen Lawmaker Press, pag. 6).

Infine, appare contrario a qualsiasi principio democratico che una qualsiasi maggioranza di parlamentari o consiglieri comunali, provinciali e regionali (che è in ogni caso una minoranza dei cittadini-elettori-contribuenti) si arroghi la facoltà di deliberare a proprio insindacabile giudizio. In questo caso si tratta d’un vero e proprio «paradosso del Comma 22», ovvero: «Poiché i cittadini eleggono, e pagano, un certo numero di rappresentanti per delegare loro alcune decisioni, costoro vogliano deliberare come credono, anche quando gli elettori, attraverso il referendum o gli altri strumenti della democrazia diretta, intendono decidere da sé.» Esilarante!
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Re: Democrazia, cittadinanza, diritti e doveri umani

Messaggioda Berto » mar mag 22, 2018 7:18 am

IN DIFESA DELL’ANARCO-CAPITALISMO, NELL’EPOCA DELLO STATALISMO MAXIMO
GUGLIELMO PIOMBINI

https://www.miglioverde.eu/in-difesa-de ... smo-maximo

Se guardiamo ai numeri oggettivi, l’Occidente non è mai stato tanto socialista come nell’attuale epoca storica. Tutti i parametri lo dimostrano in maniera incontrovertibile. La ricchezza confiscata dai governi al settore produttivo ha raggiunto un livello (in Italia, oltre il 70% degli utili) che fino a qualche decennio fa era ritenuto incompatibile con un’economia di mercato; le normative e i controlli su ogni attività umana non sono mai stati così pervasivi; la spesa pubblica e l’indebitamento hanno superato ogni record storico in molti paesi; i privilegi della classe politico-burocratica e delle clientele parassitarie non sono mai stati così smisurati. Nemmeno il più forsennato degli statalisti avrebbe potuto sperare in un successo così rapido delle proprie idee.

Di fronte a questi fatti, che spiegano il vistoso declino dell’Occidente, nulla appare più urgente che una rinnovata esplosione di pensiero radicalmente antistatalista. Ha fatto quindi benissimo la casa editrice Liberilibri di Macerata a tradurre e pubblicare, a distanza di trenta anni dalla sua prima edizione francese, L’anarco-capitalismo di Pierre Lemieux (p. 168, € 16,00). Uscito originariamente nel 1988, il libro non ha perso nulla della sua freschezza. L’economista e politologo canadese presenta l’anarco-capitalismo come la corrente di pensiero che porta alle sue logiche conseguenze i principi antistatalisti del liberalismo, fino all’estremo limite dell’anarchia: «l’anarco-capitalismo – spiega Lemieux – è la dottrina secondo la quale una società capitalista senza Stato è economicamente efficace e moralmente desiderabile» (p. 3).

L’anarco-capitalismo si distingue dal liberalismo classico perché applica, senza eccezioni, i sacrosanti principi della libera concorrenza in tutti gli ambiti, compresi quelli tradizionalmente affidati al monopolio statale come la polizia, i tribunali, la difesa nazionale, le strade, la scuola o la sanità. Nello stesso tempo si differenzia dall’anarchismo tradizionale perché difende strenuamente la proprietà privata e la libera iniziativa imprenditoriale, e accetta le disuguaglianze economiche che possono sorgere dai liberi scambi nel mercato. L’anarco-capitalismo congiunge quindi, in un’unica teoria, il laissez-faire del liberalismo con il rifiuto delle istituzioni statali dell’anarchismo.

Dopo aver ricordato i precursori, tra i quali spicca l’economista belga Gustave de Molinari, il primo teorico della libera concorrenza tra compagnie private nella produzione della sicurezza, l’autore espone nella prima parte del libro le idee economiche dell’anarco-capitalismo, basate sul principio dell’ordine spontaneo e sulla critica alla teoria dei beni pubblici. Nella seconda parte affronta le basi filosofiche, facendo riferimento alle opere di Ayn Rand, Robert Nozick (i quali però sono un po’ fuori posto, dato che non sono anarco-capitalisti ma sostenitori dello Stato minimo), Murray N. Rothbard e Lysander Spooner. La parte finale del libro è invece riservata al dibattito delle idee, con le critiche liberali e le repliche anarco-capitaliste.

Il ripensamento di Pierre Lemieux
Nella nuova prefazione all’edizione italiana, Lemieux riconosce che rispetto al tempo in cui uscì la prima edizione del libro la situazione è peggiorata, e che l’ideale anarco-capitalista non ha perso il suo fascino: «Lo stato rimane il principale problema. Con l’aumento della sorveglianza, esso rappresenta una minaccia ben più grande rispetto a venticinque anni fa … Contro i nostri Stati mostruosi, è sempre vero, come scrivevo nel 1988, che “l’anarco-capitalismo rimane una dottrina di immenso potere attrattivo, perché impone un ripensamento radicale delle teorie collettiviste, stataliste ed egalitariste che tanto hanno caratterizzato il XX secolo”» (p. XI, XV).
Lemieux non è però più tanto convinto che le soluzioni proposte dagli anarco-capitalisti siano praticabili. Da un lato teme che una società priva di un apparato militare statale corra il rischio di diventare preda degli Stati più forti; dall’altro lato sospetta che la sicurezza sia un monopolio naturale (come pensava Nozick), e che l’anarchia sia quindi destinata a sfociare, presto o tardi, nella creazione di un nuovo Stato. Aggiunge che, sul piano storico, gli esempi di società che hanno fatto a meno di un potere politico centralizzato, come l’Irlanda e l’Islanda medievali, sono poco numerosi e non particolarmente brillanti.

L’argomento che Lemieux ritiene più forte contro l’anarchia è a suo avviso quello suggerito dall’economista della Public Choice Mancur Olson. Di recente anche Nicola Iannello, nella sua introduzione al libro di Murray N. Rothbard Potere e mercato (IBL, 2017), ha suggerito ai libertari di non prendere sottogamba le riflessioni di Mancur Olson, il quale si è chiesto come mai i casi di anarchia di successo sono così rari nella storia umana.

L’inefficienza dell’anarchia secondo Mancur Olson
Mancur Olson prende come esempio la Cina degli anni ’20, un’epoca di anarchia in cui il potere centrale si era liquefatto e nelle campagne imperversavano molte bande di briganti. Piuttosto che rimanere esposti ai saccheggi dei banditi, i contadini preferivano sottomettersi ai “signori della guerra”, militari che possedevano piccoli eserciti e che si proclamavano sovrani delle province che conquistavano. I signori della guerra vittoriosi tassavano duramente i contadini e non potevano rivendicare alcun tipo di legittimazione politica, eppure i cinesi che lavoravano nei campi li accoglievano con sollievo. Perché?
Secondo Olson dietro l’atteggiamento dei contadini cinesi c’è una logica razionale. Se si deve scegliere tra due mali, è meglio farsi rapinare da un unico predone stanziale (il governante) piuttosto che da tanti predoni nomadi. Infatti, in una situazione anarchica, i banditi nomadi saccheggiano più che possono e massacrano tutti quelli che resistono. Non hanno alcun interesse a limitarsi nell’uso della violenza, perché sanno che quello che uno non ruba, lo ruberà l’altro bandito che passerà dopo. Bisogna dunque saccheggiare tutto e subito, ma questo rende impossibile l’accumulazione e l’investimento produttivo del capitale.
Le cose però cambiano quando uno di questo predoni sconfigge tutti i propri rivali all’interno di un certo territorio e si proclama “sovrano”. Divenuto un bandito stanziale, cambierà anche il suo atteggiamento nei confronti delle vittime. I suoi furti avverranno sotto forma di tassazione regolare piuttosto che come saccheggio episodico. Se dunque un bandito nomade diventa stanziale e decide di rubare attraverso una tassazione regolare, proclamando di avere il monopolio del furto nel suo dominio, ne segue che i ceti produttivi saranno incentivati, nonostante l’esazione, a lavorare, a risparmiare e a investire. Il bandito stanziale infatti, se è ragionevole, prenderà solo una parte del reddito sotto forma di tasse, perché così facendo stimolerà i sudditi a produrre di più, e potrà quindi estorcere un più elevato ammontare di reddito in futuro.
Se il bandito sedentario monopolizza con successo il furto nel proprio dominio, le sue vittime non devono preoccuparsi del furto da parte di altri. Se egli ruba solo attraverso una tassazione regolare, i suoi sudditi sanno che, dopo aver pagato il tributo, ciò che rimane della propria produzione resta di loro proprietà. Questo aumenta notevolmente l’incentivo a risparmiare e a investire. Inoltre, poiché tutte le vittime del bandito stanziale costituiscono per lui delle fonti di entrate fiscali, egli sarà incentivato a impedire che altri uccidano o mutilino i suoi sudditi. Infine, poiché i signori della guerra si appropriano, sotto forma di tassa-furto, di una parte notevole della produzione totale, ciò fornirà loro un incentivo a provvedere a lavori di irrigazione o altri beni pubblici che possano aumentare il reddito tassabile.
«Il capo di una banda nomade – scrive Olson – è spinto, quasi fosse guidato da una mano invisibile, a stabilirsi in un posto e ad autonominarsi capo del governo; l’aumento consistente nella produzione, a seguito dell’instaurarsi di un ordine pacifico, garantisce al bandito che governa stabilmente un’entrata superiore a quella che avrebbe ottenuto se non avesse instaurato alcun tipo di governo» (Mancur Olson, Logica delle Istituzioni, Edizioni di Comunità, 1994, p. 48). L’emergere dei re, dei faraoni e degli imperatori, con un ruolo così rilevante nella storia umana, si spiega dunque con l’incentivo a sostituire il banditismo nomade con un furto fiscale sistematico e regolare. La pace di un dittatore razionale ed egoista, conclude Olson, è migliore dell’anarchia.

Dalla padella dell’anarchia alla brace del totalitarismo
L’analisi di Mancur Olson sembra molto logica e convincente, ma ha dei limiti. Innanzitutto i benefici della legge e ordine compaiono solo se il monopolista della violenza ha di fronte a sé un lungo orizzonte temporale. Ciò implica che siano stati risolti i problemi riguardanti la stabilità e la legittimità del suo dominio. Se il governante teme di perdere in ogni momento il potere perché i rivali e i sudditi lo vedono come un usurpatore privo di legittimità, allora possono instaurarsi quei micidiali meccanismi di paranoia e paura reciproca tra governante e governati, così ben analizzati da Guglielmo Ferrero, che portano al terrorismo di Stato.
Si tratta della tragica logica perversa di tutti i governi rivoluzionari, i quali, essendo nati dalla distruzione improvvisa della legalità precedente, sono condannati a vivere in un clima di terrore. Di fronte all’opinione pubblica non hanno titoli che li legittimino ad esercitare il comando, e proprio per ciò sono psicologicamente sospettosi, diffidenti, insicuri, e questo li induce ad esercitare un controllo poliziesco sui governanti. A dispetto delle conclusioni di Olson, è probabile che i 170 milioni di civili inermi assassinati dai propri governi nel corso del XX secolo avrebbero preferito vivere in una condizione di anarchia, esposti alle rapine di qualche predone, piuttosto che sotto l’ordine di uno Stato totalitario.

Se Olson ha ragione, la democrazia è inferiore all’autocrazia
Olson sostiene che, grazie al diritto di voto e alla possibilità di cambiare il governo, in democrazia i cittadini possono proteggersi con maggior successo dalle rapine fiscali dei governanti. Questa affermazione, tuttavia, è in contraddizione con la sua analisi precedente. Infatti, se il problema dell’anarchia è il breve orizzonte temporale dei banditi nomadi, i quali sono spinti a saccheggiare tutto il più rapidamente possibile per non lasciare “avanzi” ai banditi che verranno dopo, lo stesso accade con i politici eletti, ai quali conviene trarre il massimo profitto dalla propria carica entro i quattro-cinque anno del proprio mandato. Le conclusioni di Olson finiscono, suo malgrado, per confermare quelle di Hans-Hermann Hoppe sulla superiore efficienza del governo “privato” di un re rispetto al governo “pubblico” democratico.
Infatti, mentre un monarca è paragonabile a un padrone di casa che ci tiene alla manutenzione e al decoro della sua proprietà, i governanti democratici assomigliano a un gruppo di inquilini con lo sfratto esecutivo a cui non interessa la valorizzazione del bene comune. Che importa a loro se diminuisce la ricchezza nazionale e se, di conseguenza, diminuiscono le entrate fiscali? L’importante è arricchirsi in fretta attraverso il saccheggio del bene pubblico, tanto è probabile che, fra poco tempo, saranno altri a governare.

Le implicazioni anti-democratiche dell’analisi di Olson sono state colte anche da Riccardo Viale: «In queste situazioni la democrazia sembra risultare inferiore all’autocrazia (di tipo oligarchico): si forma un mix perverso di aliquote marginali sempre più elevate e progressive (mentre all’autocrate interessa non elevarle troppo per non deprimere e disincentivare il produttore e risparmiatore), di inefficienza del sistema delle infrastrutture e servizi pubblici (l’autocrate ha, invece, interesse a fare funzionare il sistema, per aumentare le sue entrate e non è condizionato dal mercato della politica che produce posti di lavoro fittizi e nessun controllo sanzionatorio sull’efficienza) ed assenza di vincoli, costituzionali o parlamentari, del bilancio (all’autocrate preme, invece, non lasciare le finanze dissestate ai membri della sua stirpe che governeranno dopo di lui)» (Introduzione a Mancur Olson, Logica delle istituzioni, p. XXI).
Storicamente, questo spiega perché le monarchie tradizionali vantassero livelli di esazione fiscale, spesa pubblica, debito pubblico, inflazione, burocrazia, molto inferiori rispetto alle democrazie attuali. La stessa “logica delle istituzioni” che porta Olson a condannare l’anarchia dovrebbe portarlo a giudicare molto negativamente anche la democrazia.

L’anarco-capitalismo non è semplicemente anarchico
Olson ha dimostrato che, in linea di massima, per i sudditi è meglio vivere sotto la “protezione” e l’ordine garantiti da un bandito stanziale monopolista della violenza, piuttosto che in un territorio esposto al saccheggio imprevedibile di numerosi predoni o signori della guerra. Questa conclusione, in ogni caso, è ben lontana dall’essere un’accettabile giustificazione del potere statale. Il bandito stanziale rimane un bandito anche dopo che ha sconfitto tutti i suoi rivali. I suoi scopi e le sue intenzioni non sono cambiate, quindi non c’è ragione per modificare la valutazione morale nei suoi confronti. La sua imposizione fiscale, come riconosce lo stesso Olson, rimane pur sempre una forma odiosa di sfruttamento che può arrivare a livelli anche molto elevati, come conferma la storia dei dispotismi asiatici. Perché allora, viene da chiedersi, le persone dovrebbero essere contente di farsi dominare e sfruttare da un unico bandito, solo perché è più moderato ed efficiente nella spogliazione? Olson non prende in considerazione una terza possibilità, quella in cui la società civile si arma per difendersi da qualunque tipo di predone, nomade o stanziale che sia.

Una società anarco-capitalista senza predazioni, spogliazioni o tassazioni, fondata esclusivamente su rapporti contrattuali e volontari, non è semplicemente una società “anarchica”. È una società molto più sofisticata sul piano culturale e istituzionale. Il termine anarco-capitalista è particolarmente felice dal punto di vista descrittivo perché mette in luce i due caratteri inseparabili di questa società: l’assenza di un potere statale centralizzato (l’anarchia) e una cultura diffusa che consideri sacri e inviolabili i diritti naturali alla vita, alla libertà e alla proprietà (il capitalismo). Il primo è l’aspetto puramente negativo e materiale, il secondo è l’aspetto positivo e culturale. Non basta l’assenza di uno Stato per avere una società anarco-capitalista, perché occorre anche una cultura “borghese” e liberale tra la popolazione. Una società senza Stato, quindi, non è di per sé una società di mercato.
La Somalia in cui spadroneggiano le corti islamiche è anarchica perché manca di un governo centrale, ma non è affatto anarco-capitalista perché del tutto carente nel suo, ben più rilevante, elemento “sovrastrutturale”: una cultura favorevole alla proprietà privata e alla libertà individuale. Per questa ragione la Svizzera od Hong Kong, pur avendo un governo statale, sono più vicine all’ideale anarco-capitalista della Somalia o della Cina degli anni ’20 dilaniata dai signori della guerra. Una società in preda alla guerra civile in cui diverse fazioni si contendono con le armi il potere assoluto è una società temporaneamente anarchica, ma culturalmente non ha nulla in comune con una società anarco-capitalista.

Caos e stabilità sociale
Una delle critiche più frequenti all’anarco-capitalismo, ripetuta anche da Pierre Lemieux nella prefazione, è che una società in cui le funzioni di protezione sono svolte da diverse compagnie private in competizione tra loro sarebbe intrinsecamente instabile e caotica, e che dai loro interminabili scontri violenti alla fine ne emergerebbe una che diventerebbe lo Stato. Anche questa affermazione, tuttavia, non tiene conto del fatto che la stabilità o l’instabilità di un certo assetto politico non dipende dalle sue caratteristiche istituzionali, ma dalle convinzioni sociali prevalenti. Quale che sia la forma di governo, una società è politicamente stabile quando il potere gode di legittimazione; è invece caotica e instabile quando il potere non è legittimato agli occhi dell’opinione pubblica.
Come ha spiegato Guglielmo Ferrero nella sua analisi sulla legittimità, il potere non vive, non agisce e non si impone mai per la sua sola forza. Al contrario, deve sempre armonizzarsi con i costumi, gli usi, la religione, i valori e gli interessi materiali e morali più diffusi. Il potere legittimo è dunque il complesso delle strutture coercitive che operano in sintonia con la cultura dominante e con ciò che la morale pubblica definisce giusto. Finché tale corrispondenza tra istituzioni politiche e cultura permane, la società è stabile. Se invece tale corrispondenza viene a mancare, sorge la diffidenza, la paura, il conflitto e, nei casi limite, il terrore (Guglielmo Ferrero, Potere, 1942).
Un monarca per diritto divino o una dittatura golpista e autoritaria non riuscirebbero a governare senza contestazioni e violenze gli attuali paesi occidentali, nei quali solo i governi eletti a suffragio universale vengono considerati legittimi. Di converso, una democrazia avrebbe grosse difficoltà a mantenere l’ordine pacifico in una società in cui prevale una cultura politica non democratica: basti pensare alla Repubblica tedesca di Weimar, oppure a tutte le democrazie “fallite” nei paesi del Terzo Mondo. Ma per le stesse ragioni, nessun governo riuscirebbe a governare stabilmente una società composta in grande maggioranza da anarchici individualisti, dato che la sua pretesa di monopolizzare l’uso della forza e di tassare la popolazione susciterebbe vaste ribellioni.
Supponiamo infatti, come esperimento mentale, che la stragrande maggioranza degli abitanti di un paese si convertano alla filosofia politica libertaria di Murray N. Rothbard. A quel punto un governo che si ostinasse a imporre in via monopolistica i suoi servizi di protezione o d’altro genere sarebbe visto come un racket mafioso, e le sue imposizioni fiscali sarebbero respinte da tutti come oltraggiose. Solo le agenzie private di protezione e i tribunali di arbitrato che rispettano i diritti di proprietà, senza esigere tributi non volontari, godrebbero del rispetto e della legittimazione per compiere atti di coercizione come incriminazioni, arresti, perquisizioni.
Le probabilità dell’anarco-capitalismo
Per queste ragioni l’anarco-capitalismo non è “impossibile”, come sostengono i suoi critici. Se la legittimità del potere, e quindi la stabilità e l’ordine sociale, dipendono dalla corrispondenza tra le istituzioni e la cultura sottostante, allora una società anarco-capitalista sarà stabile, ordinata e non conflittuale se abitata da persone che pongono come valore sociale supremo il principio libertario di non aggressione, secondo cui nessun uomo o gruppo di uomini può dare inizio all’uso della violenza contro gli individui pacifici.
Naturalmente un mutamento troppo rapido in direzione dell’anarco-capitalismo, non accompagnato dalla persuasione, potrebbe essere controproducente, come aveva già osservato l’americano Benjamin Tucker più di un secolo fa: «Se il governo venisse soppresso da un giorno all’altro, noi assisteremmo probabilmente ad una serie di conflitti violenti per la conquista della terra e delle altre cose, risultandone forse una reazione con un possibile ritorno alla tirannia. Ma se tale abolizione si svolgerà gradatamente, estendendosi da un campo all’altro dell’attività sociale e con una progressiva diffusione fra le masse della verità sociale, nessun serio conflitto ne potrà allora risultare» (Benjamin R. Tucker, Instead of a Book, p. 329).
Il filosofo Michael Huemer è convinto che prima o poi questa società sarà realizzata, perché intravede nel cammino dell’umanità uno sviluppo intellettuale coerente con un movimento nella direzione dell’anarco-capitalismo, attraverso il progressivo riconoscimento dell’assioma libertario di non aggressione. La condanna universale della tassazione, in quanto istituzione violenta che autorizza alcuni individui ad espropriare con la forza i frutti del lavoro altrui, potrebbe avere una portata storica analoga alla messa la bando della schiavitù. Se riteniamo che l’umanità possa progredire intellettualmente e moralmente, allora l’avvento dell’anarco-capitalismo è non solo possibile, ma anche probabile.
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Re: Democrazia, cittadinanza, diritti e doveri umani

Messaggioda Berto » lun mag 28, 2018 3:21 pm

Chi non comprende l’essenza della democrazia?
Enzo Trentin
27/05/2018

https://www.vicenzareport.it/2018/05/co ... democrazia

Vicenza – Chi non comprende l’essenza della democrazia? Proveremo a fare qualche accenno sull’opportunità che siano i cittadini-elettori-contribuenti a dare ordini ai politici, e non viceversa. La Svizzera è il solo paese, se si eccettua il piccolo principato del Liechtenstein, ad avere un sistema di democrazia diretta molto strutturato a livello nazionale. Un simile sistema di processo decisionale diretto dei cittadini esiste solo in alcuni Stati americani, la California ne è l’esempio tipico. Però a livello federale negli Stati Uniti non esiste la democrazia diretta, il che vuole dire che tutta una serie di poteri rimangono fuori portata del referendum.

«La Svizzera è la sola nazione nel mondo dove la vita politica gira veramente attorno al referendum. Questo paese con 8,372 milioni (dati 2016) di leader politici rifuggenti la notorietà, e la divisione dell’autorità esecutiva tra i sette membri del Consiglio federale scoraggia ulteriormente la politica della personalità. Quando succede che un uomo politico si levi sopra la massa, è quasi sempre sull’onda di una campagna referendaria. L’attività legislativa in seno all’Assemblea federale è una intricata danza per schivare o guadagnare il suffragio popolare. I grandi momenti politici della Svizzera moderna non si sono verificati nella sequela di fieri statisti, ma in seno ai dibattiti nazionali che hanno condotto le masse alle elezioni per decidere del futuro del loro paese.» [K.W. Kobach, 1994, «Switzerland», p. 98].

La democrazia diretta in Svizzera trae origine da varie fonti. In primo luogo ci fu la tradizione delle assemblee pubbliche locali o cantonali in una parte della Svizzera attuale, in cui cittadini maschi si incontravano ogni anno sulla piazza del mercato per prendere le decisioni più importanti. Ciò risale almeno al 1200. In secondo luogo ci fu l’effetto delle rivoluzioni straniere. Analogamente ad altre regioni d’Europa, il primo referendum nazionale svizzero ebbe luogo nel 1802 su una nuova Costituzione, sotto il protettorato dell’invasore francese.

Un terzo fattore furono i nuovi movimenti politici. Nella prima metà dell’Ottocento furono principalmente i liberali radicali – che si distinguevano dai liberali ordinari perché non credevano che la democrazia rappresentativa fosse sufficiente – che diffusero l’uso dei referendum in Svizzera. Poi però i socialisti ed i cattolici si accorsero che i liberali non rappresentavano certamente la maggioranza dei cittadini su tutti i temi e così divennero loro la forza trainante più importante per l’ulteriore espansione della democrazia diretta [K.W. Kobach, 1993, «The referendum: direct democracy in Switzerland», Aldershot: Dartmouth Publishing].

Il tedesco Moritz Rittinghausen fu un personaggio importante del movimento socialista. Fu il primo ad elaborare il concetto d’iniziativa referendaria dei cittadini tramite il giornale «Neue Rheinische Zeitung». [Era il tempo in cui stava per essere pubblicato Karl Marx] Quando questo giornale venne vietato, Rittinghausen si rifugiò in Francia dove dal 1850 in poi scrisse una serie di articoli che promuovevano il processo decisionale democratico diretto. Le sue idee incontrarono grande approvazione, specialmente da parte dei sostenitori di Fourier. Attraverso questa deviazione francese le idee di Rittinghausen raggiunsero il movimento operaio svizzero [W. Weihrauch, 1989, «Der freie Mensch – die einzige Quelle des Rechts. Interview mit Wilfried Heidt», Flensburger Hefte 25, pp.15-16].

I socialisti svolsero un ruolo importante nel «Movimento democratico» che fece agitazione dal 1860 in poi per l’espansione dei diritti di democrazia diretta in gran parte della Svizzera. Un’iniziativa referendaria popolare obbligatoria (dove i cittadini possono avviare un referendum sulle proposte che essi stessi hanno scritto) si tenne per la prima volta nel 1869 nel cantone di Zurigo.

L’ideale di democrazia diretta fu anche popolare all’interno dei movimenti socialisti di parecchi Paesi europei. Ad esempio una «Volksgesetzgebung» (legislazione popolare) era già apparsa nel programma fondativo del German Sozialdemokratische Arbeiterspartei (partito socialdemocratico dei lavoratori) nel 1891. Anche nei programmi di Gotha nel 1875 [In passato la città fu capitale del ducato di Sassonia-Coburgo-Gotha] e di Erfurt nel 1891 [città extra circondariale tedesca, capitale e centro maggiore della Turingia] la democrazia occupò un posto chiave. Karl Marx espresse forti critiche sull’ideale di democrazia diretta. Sappiamo come il marxismo è andato a finire.

Non sorprendono quindi gli atteggiamenti avversi alla democrazia diretta da parte dei social-comunisti autoctoni, ovviamente imitati dal resto della partitocrazia del Paese di Arlecchino & Pulcinella, malgrado quanto prevede il Decreto legislativo 267/2000 – Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali. A Vicenza c’è chi ciancia di “partecipazione”, ed ecco l’offerta di partecipare ad un happening in bicicletta per visitare i luoghi della città che l’amministrazione precedente (dello stesso colore politico) ha lasciato nel degrado.

Sul versante opposto c’è chi vorrebbe giocare sul glamour che dovrebbe rendere irresistibilmente attraente “il contratto”, ovvero la presa sull’elettorato di una serie di promesse elettorali, che oramai sono sinonimo di promesse non mantenute. E comunque, i cittadini che firmassero il contratto proposto, che risarcimento avrebbero per mancanza delle qualità promesse? Otterrebbero la ricandidatura (a mandato scaduto, s’intende!) di chi ha fatto le promesse millantatrici, con la giustificazione che vuole il voto di riconferma per completare il programma?

In realtà centrodestra e centrosinistra sono solo consorterie fameliche. Entrambe le fazioni ritengono che la “rappresentanza” debba avere il controllo su tutto, ricompensando i propri amici e punendo i loro nemici, e allora abbiamo bisogno di porre fine a questo sistema. Per molti è difficile accettare queste idee; ma l’unico modo per risolvere questo problema è attraverso la concorrenza istituzionale tra “rappresentanza” e “democrazia diretta”, e mediante la competizione delle idee.


(*) — Didier Burkhalter (nato il 17 aprile 1960 a Neuchâtel) è un ex politico svizzero. È un membro di Fdp The Liberals. È stato eletto membro del Consiglio federale svizzero il 16 settembre 2009. Dal primo gennaio 2012 è stato a capo del Dipartimento degli affari esteri. Nel 2014 è stato presidente della Confederazione svizzera. È stato Presidente in esercizio dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) nel 2014. Ha lasciato il Consiglio federale il 31 ottobre 2017. Qui è fotografato (il 3 settembre 2014) alla stazione mentre aspetta il treno, assieme ai pendolari, per recarsi al lavoro. Si noti che è senza alcuna scorta. Eppure trovare un kalashnikov in Svizzera è abbastanza facile…


Gino Quarelo
Grazie. La democrazia diretta necessita ed è apprezzata al massimo grado solo dagli uomini liberi e di buona volontà. Tutti gli altri non la sanno comprendere o la disprezzano e la osteggiano. In Veneto vi sono tanti poveri veneti che preferiscono l'aristocrazia e che magari si credono loro i migliori, i superiori, i degni, ... magari perché veneziani, cattolici, marciani o di antiche origini nobiliari.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Democrazia, cittadinanza, valori, doveri e diritti umani

Messaggioda Berto » dom giu 03, 2018 9:16 pm

I tiranni si abbattono, non si votano di nuovo…
2018/06
Enzo Trentin

https://www.vicenzareport.it/2018/06/i- ... o-di-nuovo

Vicenza – Da quanto andremo ad argomentare, gli elettori dovrebbero smettere di votare i fabbricanti di fumo, e i cacciatori di nuvole che primeggiano grazie alla propaganda. I candidati dovrebbero, nel breve spazio che ancora rimane prima del 10 giugno, esibire nero su bianco le riforme che intendono apportare al Regolamento degli Istituti di Partecipazione http://www.comune.vicenza.it/file/145179-sei.pdf indicando le modifiche che intendono apportare per rendere gli strumenti di democrazia diretta facilmente e tempestivamente utilizzabili. Chi sono i tiranni odierni? Tra i tanti, ce ne dà una descrizione http://www.lindipendenzanuova.com/a-tir ... -bastiglia senza mezzi termini lo storico e giornalista Romano Bracalini.

Riforme? Andrebbe per esempio sfoltito il Quirinale che ha 1.800 dipendenti e spende ogni anno 228 milioni; andrebbe sfoltito il Parlamento, andrebbe sfoltita la Consulta, sinedrio di barbogi in ermellino e tocco. Ma la Costituzione, la più farragginosa del mondo occidentale, non lo permette perché ogni intervento inteso a ridurne le spese lederebbe la loro autonomia istituzionale. Ciascun potere in Italia ha le sue tutele. Si può bastonare il suddito, l’anello debole della catena, ma la partitocrazia e i suoi costosi apparati sono intoccabili, godono di garanzie medievali.

In Italia ogni regime eredita l’altro. Abbiamo ereditato molte delle leggi fasciste e lo stesso reato di vilipendio che ogni Stato civile rifiuta. Ne godeva il re, ne gode oggi il presidente della Repubblica. La legge ordinaria è per il popolo bue. Il carattere del paese continua ad essere quello di sempre: portato all’autoritarismo e al privilegio di casta. La tassazione iniqua – per riparare all’incapacità di ogni governo di utilizzare al meglio le risorse, senza sprechi e rispetto delle norme – ha una sua fatale continuità storica da quando questo paese disgraziatamente si è costituito in stato nazionale unitario.

I grandi burocrati di Stato – di uno Stato pletorico che sperpera e non funziona – vivono sui tributi carpiti al popolo angariato. Dal Medioevo il tempo sembra essere passato invano in Italia. La storia non insegna niente ai signori del governo. Da Masaniello a Prina la rivolta fiscale scaturita spontaneamente dal popolo ha sempre dato l’avvio a tutte le moderne rivoluzioni. Basta una scintilla, un grido; e la Bastiglia è presa d’assalto. Insomma si stava meglio quando andava peggio. Il nome di Giovanni Althusius è oggi del tutto dimenticato. E ciò quantunque fosse un tedesco a portarlo, o forse proprio per questa ragione. Nel 1603 l’Althusius pubblicò a Herborn un compendio di Politica ordinato secondo il metodo sistematico: sotto quel nome egli comprendeva la parte generale del diritto pubblico.

Quest’opera è il più antico tentativo, dal punto di vista formale, di un’esposizione rigorosamente sistematica e completa della cosiddetta politica. Ma è ancor più notevole per il suo contenuto. Con essa l’autore mostra di aderire senza riserve alle concezioni di quei pubblicisti – in gran parte coinvolti nelle guerre civili francesi di quegli ultimi decenni – i quali dal principio della sovranità popolare avevano tratto la conseguenza rivoluzionaria di un diritto di resistenza attiva contro i signori fedifraghi, e perciò già dai contemporanei loro avversari erano stati denominati «monarcomachi». Ma ciò che fino allora era stato espresso a fini pratici attraverso scritti di partigiani e di esuli, egli lo parò di una veste dottrinale astratta e metodica.

E meglio di qualsiasi suo predecessore egli fondò la sua teoria su basi ampie e coerenti, affermando per primo l’assoluta inalienabilità del diritto sovrano del popolo e l’essenza del contratto sociale che ne è il fondamento. Qui l’Althusius si allontana davvero radicalmente dall’opinione dominante, rappresentata soprattutto dal francese Jean Bodin. Egli infatti, seguito da pochi simpatizzanti, attribuisce i diritti di sovranità non al principe bensì interamente al popolo. I diritti sovrani appartengono necessariamente ed esclusivamente al corpo sociale («corpus symbioticum»); sono il suo spirito, la sua anima, il suo respiro vitale; solo possedendoli esso vive, e perdendoli viene meno oppure diventa indegno del nome di «res publica».

Chi li amministra è naturalmente un altissimo magistrato, ma la proprietà e l’usufrutto di essi sono inseparabili dal popolo nel suo complesso (dal «populus universus», dalla «consociatio universalis, dal «regnum ipsum»). Anzi, essi gli sono a tal punto propri che il popolo non può rinunciarvi ed alienarli e trasmetterli ad altri quand’anche lo voglia, cosi come nessuno può spartire con un altro la vita che gli appartiene (vedasi Otto Von Gierke «Giovanni Althusius e lo sviluppo storico delle teorie politiche giusnaturalistiche» – Copyright 1943 by Giulio Einaudi editore). E il popolo, mentre è la sola fonte concepibile della sovranità, ne è per la stessa ragione il solo soggetto concepibile e stabile, e con la sua immortalità la custodisce e la protegge.

Anche l’esercizio di essa viene ripreso dal popolo e conferito ex novo, non appena colui che vi era preposto cessa dalla carica o decade dal proprio diritto. E poiché per la loro stessa natura questi diritti sono esclusi da qualsiasi commercio e proprietà da parte del singolo, il principe, accaparrandosene la proprietà, cessa eo ipso di essere sovrano e diviene un privato e un tiranno. Con questo scenario la sovranità popolare è legittimata ad abbattere i tiranni e a denunciare i Trattati internazionali che rendono schiavi più popoli. Altro che votarli. I politicanti dei nostri giorni hanno trovato l’ennesimo inciucio per ammagliare gli elettori: parlano di stipulare un contratto.

Ebbene la caratteristica fondamentale del “Contratto politico” è che è limitato ai singoli fatti, ed è stabilito sul procedimento democratico sulla base della mutualità (reciprocità) e della convenienza dei singoli partecipanti al voto. In questo modo la Legge viene formata indipendentemente dalle convenienze elettorali dei gruppi politici e delle persone che questi fanno eleggere (i rappresentanti). I cittadini, chiamati a scegliere sui fatti con i referendum, sono così svincolati dal legame ideologico e possono scegliere esclusivamente in base ai loro interessi e alle loro aspettative di vita.

La conseguenza di ciò è duplice: viene meno il potere dei partiti che vengono ridotti a fornitori di informazioni su ciò che è oggetto di volta in volta della singola scelta, e viene realizzata una forma di Stato e di Governo sempre aderente alle attese ed agli interessi della maggioranza degli aventi diritto al voto che partecipano. A questo punto, essendo stabilita e accettata dalla maggioranza a priori la garanzia del procedimento democratico, e variando in continuazione le persone che formano la maggioranza e la minoranza sui fatti limitati, non è neppure immaginabile l’esclusione della minoranza o il dominio assoluto della maggioranza, semplicemente perché verrebbe meno la garanzia del procedimento democratico che costituisce la base dell’eguaglianza e della libertà sulla quale si è originariamente fondata la società e lo Stato.

A questo punto ognuno può pensarla come vuole; ma se un tempestivo referendum comunale deve essere fatto, esso dovrebbe avere per oggetto un nuovo assetto istituzionale possibile in conseguenza della Carta europea delle Autonomie locali, e del conseguente Decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 – Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali -, che la sovranità popolare potrà accettare o rifiutare.



Gino Quarelo
Bon toco. Ovviamente le caste remano contro, sempre; come a suo tempo ha remato contro la democrazia anche l'arrogante, presuntuosa e ignorante aristocrazia veneziana, con le conseguenze che abbiamo tutti sotto i nostri occhi e che sperimentiamo ogni giorno come un male.

Orazio Scavazzon
Ma se sono tutti tiranni perchè il sistema creato è un regime partitocratico dove vincono sempre loro
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Re: Democrazia, cittadinanza, valori, doveri e diritti umani

Messaggioda Berto » ven giu 08, 2018 7:49 pm

Politica, sussidiarietà e democrazia diretta
2018/06
Enzo Trentin

https://www.vicenzareport.it/2018/06/po ... ia-diretta

Vicenza – Nella campagna elettorale che si concluderà con le elezioni del 10 giugno, abbiamo sentito pochi politici (la parola indica coloro che si occupavano del governo della cosa pubblica), e molti politicanti (un termine derivato per indicare chi, in politica, si occupa solo degli affari propri a danno di tutti gli altri). Qua e là, nel corso dei vari sproloqui elettorali, è riecheggiata la parola “sussidiarietà”, e mai come in questi casi il suo significato è stato stravolto e addomesticato a interessi di partito.

La Chiesa, nella sua secolare saggezza sociale, perfezionando il pensiero di San Tommaso d’Aquino relativo al principio di sussidiarietà, pone in termini innovativi l’idea del giusto ordine sociale come uno dei fondamenti della sua dottrina sociale. Papa Leone XIII nell’enciclica «Rerum Novarum» (15 maggio 1891), affronta in questi termini il tema dell’intervento dello Stato nei confronti delle persone e della famiglia:

“Non v’è ragione di ricorrere alla provvidenza dello Stato perché l’uomo è anteriore alto Stato: quindi prima che si formasse il civile consorzio egli dovette aver da natura il diritto di provvedere a se stesso. È dunque un errore grande e dannoso volere che lo Stato possa intervenire a suo talento nel santuario della famiglia. Certo, se qualche famiglia si trova per avventura in sì gravi strettezze che da se stessa non le è affatto possibile uscirne, è giusto in tali frangenti l’intervento dei pubblici poteri, giacché ciascuna famiglia è parte del corpo sociale. […] Qui però deve arrestarsi lo Stato; la natura non gli consente di andare oltre”.

Papa Pio XI nell’enciclica «Quadragesimo anno» (1931) dà la seguente definizione del Principio di sussidiarietà: “… siccome non è lecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le loro forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ne deriverebbe un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società poiché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva (subsidium afferre) le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle.”

«La pratica del “Principio di sussidiarietà” è strettamente legata alle regole della Democrazia diretta.» scrive Remigio Ratti (dell’Istituto di ricerche economiche del Canton Ticino e Università di Friburgo) in: “Federalismi falsi e degenerati”, di Gianfranco Miglio, Sperling & Kupfer, Milano, 1997, p. 178. Se guardiamo al nostro quotidiano, all’«uomo qualunque» sembra che le istituzioni pubbliche (assediate da un mix di politicanti e burocrati) non siano fatte per dare servizi al pubblico, ma sia il cittadino fatto per servire la politica e la burocrazia.

La democrazia diretta, invece, consiste in un dialogo tra cittadini e autorità volto al raggiungimento di un compromesso e non in un confronto ostinato. Le votazioni popolari su temi specifici godono di grande successo. Dalla Catalogna alla Turchia, passando per l’Australia, la California, Berlino e il Regno Unito: negli ultimi tempi le votazioni popolari hanno fatto il giro del mondo, e su questioni talvolta molto controverse. L’andamento è chiaro: capita sempre più spesso che gli elettori non siano più solo chiamati a esprimere il proprio voto su chi li rappresenterà al Governo o in Parlamento, ma che si rechino alle urne anche per prendere posizione su progetti concreti. In questi casi non sono solo i temi in votazione a infiammare i dibattiti pubblici, ma anche le «regole del gioco».

Nei precedenti interventi abbiamo cercato di documentare come in una democrazia puramente rappresentativa, i cittadini non hanno quasi nessuna opportunità d’influire in qualche modo nella politica. Hanno solo l’opportunità di votare ogni tot anni. In un sistema puramente rappresentativo, insomma, c’è una frustrante mancanza d’opportunità di dare il proprio contributo partecipativo com’è naturale in ogni autentica democrazia. In un sistema di democrazia diretta ben sviluppato, invece, offerta e domanda rispetto alla possibilità d’esprimere opinioni-deliberazioni sono assai più equilibrate e la gente sente che ha più libertà di scegliere tra partecipare direttamente al processo decisionale o demandare ad altri la responsabilità.

In “La democrazia diretta vista da vicino!” (Ed. Mimesis) Leonello Zaquini, ingegnere italiano emigrato in Svizzera, nei primi anni ’90, a p. 33, riporta quanto segue a proposito della sua elezione nel “Conseil gènéral ” di Le Locle (Cantone di Neuchâtel) città in cui vive e lavora da uomo libero: È solo lì che ho ho veramente capito a cosa serve questa forma di democrazia (la democrazia diretta). La sua esistenza determina il fatto che ad ogni seduta del Consiglio, come in tutte le riunioni delle commissioni, ma anche nelle riunioni preparatorie interne ai gruppi consiliari, (i partiti), insomma sempre, la domanda ricorrente tra i rappresentanti eletti sia: «…e se poi i cittadini prendono l’iniziativa?» Un intervento in Consiglio comunale può terminare con la seguente frase conclusiva: «…per cui, cari colleghi consiglieri, teniamo conto che questa sera prendiamo noi questa decisione, oppure non è affatto escluso che i cittadini prenderanno loro stessi l’iniziativa di…»

I cittadini questa benedetta iniziativa non la prendono quasi mai, eppure questa semplice eventualità influenza tutto il sistema rappresentativo nel suo agire quotidiano. Se poi i cittadini “prendono l’iniziativa” non succede niente di grave per i rappresentanti, resta il fatto che questi sono come forzati a fare veramente i “rappresentanti”, nel senso corretto e proprio del termine, dato che si domandano continuamente se e cosa i cittadini deciderebbero al posto loro. E se lo domandano perché questi possono effettivamente decidere al posto loro.

Insomma, laddove non si fosse capito, in un sistema politico chi dispone già di grandi poteri decisionali è solitamente contrario all’introduzione di processi di democrazia diretta, come l’iniziativa popolare e il referendum. La partitocrazia in mancanza dell’esercizio della sovranità popolare finanzierà malgrado la recessione le cose più… “singolari”. In un paese come il nostro, che va a pezzi ad ogni pioggia per incuria ambientale e culturale, e chi più ne ha più ne metta; malgrado tutto ciò il potere incontrollato continuerà ad autofinanziarsi e a foraggiare una stampa “di regime” che altrimenti non saprebbe come sopravvivere. Davvero i comuni cittadini dovrebbero votare dei politicanti rimpannucciati da liste civiche, perché non saprebbero essere meno irresponsabili di questa classe politica che invece d’essere dirigente è solo dominante?
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Re: Democrazia, cittadinanza, valori, doveri e diritti umani

Messaggioda Berto » lun giu 11, 2018 8:06 pm

Politica, la pseudo democrazia e la banalità del male
2018/06/10
https://www.vicenzareport.it/2018/06/ps ... alita-male

Vicenza – We have the Mayor, cheers! (abbiamo il sindaco, evviva!). Scriviamolo in inglese così anche la comunità statunitense potrà condividere il tripudio. Com’era nella banalità delle cose è diventato sindaco Francesco Rucco con 24.271 (50,64%) voti (di propri solo 1.480). I votanti sono diminuiti. Ma guai a dire che si tratta di disaffezione alla politica. Meno che mai c’è da sottolineare che l’odierno sindaco perde sul piano dell’affezione all’istituzione. Infatti, il suo predecessore: Achille Variati, fu votato da 28.098 su 85.710 aventi diritto. Insomma, a votare il nuovo sindaco – come il suo predecessore – è stato all’incirca un cittadino su tre. Loro la chiamano “democrazia rappresentativa”.

I due protagonisti maggiori sono stati pur sempre aderenti alla partitocrazia, e per raggiungere questi risultati i candidati di centrodestra (il vincitore) e del centrosinistra (il perdente ma di poco) si sono camuffati con numerose liste civiche per confondere l’elettorato più ingenuo, sprovveduto e credulone. Questa destra e questa sinistra altro non sono che i figli degeneri del socialismo. Intanto, abbiamo già assistito all’abusato rito – seppur obtorto collo – delle congratulazioni fatte al vincitore da parte del suo più diretto avversario: Otello Dalla Rosa.

E, banalmente, il vincitore dichiara la sua soddisfazione unitamente al tartufesco impegno di voler essere il sindaco di tutti (nient’altro che un’aspirazione, un annuncio per la plebe). È ovvio che dovrà pagare dei “prezzi politici”. Sorvoliamo anche sull’operato di alcuni giornalisti che trattano questi accadimenti politici con un inappropriato linguaggio, ed uno stile da stadio. Questa ritualità, questi infingimenti, questo politically correct ci orienta il pensiero ad alcuni versi del poeta Trilussa in:

Ninna nanna della guerra (1914)

[…]
rivedremo li sovrani
che se scambieno la stima,
boni amichi come prima;

so’ cuggini, e fra parenti
nun se fanno complimenti!
Torneranno più cordiali
li rapporti personali
e, riuniti infra de loro,
senza l’ombra de un rimorso,

ce faranno un ber discorso
su la pace e sur lavoro
pe’ quer popolo cojone

Certo, il pensiero politico, economico ed istituzionale si fonda su teorie e prassi consolidate, e istituzionalizzate; ma siamo sicuri di vivere in una democrazia compiuta considerato che ogni giorno di più le attuali regole democratiche mostrano la loro senescenza e inadeguatezza?

A Vicenza abbiamo assistito ad una campagna elettorale banale. Tra le centinaia di candidati al consiglio comunale non c’è stato praticamente nessuno che non abbia rilevato una “magagna” nel tessuto cittadino, e non abbia promesso di porvi rimedio se eletto. Moltissimi non si sono nemmeno resi conto che evidenziando lo sfacelo, denunciavano implicitamente di inefficienza la parte che hanno scelto di sostenere. In molti c’è la convinzione che il potere costituito, nel momento in cui lui ne fa parte (o ne vuole far parte), produca il migliore dei mondi possibili. Un mondo che è tale non perché le persone, usando la loro conoscenza che è anche di tempo e di luogo, scelgono liberamente di starci, ma perché chi lo controlla con la forza e trae da questo controllo rendite parassitarie ha deciso arbitrariamente che sia così (o che sarà così). Per cui da questo mondo non deve essere possibile uscire (nel senso che uscirne deve essere reso sempre più difficile e costoso); questo mondo non può e non deve essere messo in competizione con altri.

Come scrivono F. Karsten – K. Beckman (in “Oltre la Democrazia” – Usemlab, 2012): Sebbene la crisi della democrazia venga ampiamente riconosciuta, di fatto il sistema democratico è immune da critiche che lo mettano seriamente in discussione. Nessuno incolpa la democrazia in quanto tale attribuendole l’origine dei guai che stiamo vivendo. Immancabilmente, i vertici politici, siano essi di destra, sinistra o di centro, promettono di affrontare i problemi rafforzando le istituzioni, ovvero ricorrendo a ulteriori dosi di democrazia. Garantiscono di dare ascolto alla gente anteponendo l’interesse comune a quello privato. Si impegnano a ridimensionare l’apparato burocratico, a fornire maggior trasparenza, a garantire migliori servizi al cittadino. In poche parole promettono di ripristinare un sistema nuovamente funzionante.

Mai nessuno di loro mette in dubbio l’opportunità, e la desiderabilità di un sistema autenticamente democratico in quanto tale. Piuttosto che additare come causa dei nostri problemi l’eccesso di democrazia, accusano l’eccesso di libertà individuale. La sola differenza tra progressisti e conservatori sta nel fatto che mentre i primi accusano più volentieri l’eccesso di libertà economiche i secondi si lamentano dell’eccesso di libertà civili. Per assurdo tutto ciò accade proprio in un’epoca contrassegnata da una quantità di leggi, e da un grado di imposizione fiscale che sono i più alti mai sperimentati nella storia dell’umanità!

Di fatto, le critiche all’ideale democratico costituiscono, nella odierna società occidentale, un vero e proprio tabù. Ci è concesso di criticare i metodi che il processo democratico utilizza per realizzarsi, o di condannare duramente i partiti e i singoli esponenti politici, tuttavia le accuse dirette contro l’ideale democratico “rappresentativo” in quanto tale non sono permesse, semplicemente costituiscono qualcosa che “non si fa”. Non è esagerato affermare che la democrazia è diventata una religione, una sorta di culto secolare moderno. Oramai la si può ben considerare come la religione più diffusa sul pianeta terra.

Ma non ci sono solo i politici sotto accusa. Quasi nessuno si avvede che c’è una banalità del male anche nei burocrati. E nella pubblica amministrazione i burocrati più anziani predicano che l’arretrato è potere. Più carte da smaltire ci sono sulla loro scrivania, più favori potranno distribuire, estraendo dal mucchio la pratica giusta. Un’alleanza, quella dei politici con i burocrati, che non ha alcun barlume di soluzione positiva per il cittadino comune. Non è storia di oggi. Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, l’economista e sociologo Vilfredo Pareto, nell’analisi dell’impoverimento, utilizzò il concetto di “spogliazione”, elaborato da Frédéric Bastiat per mettere in luce la sistematica attività di sfruttamento posta in essere dagli uomini che controllano lo Stato. In ogni luogo, scrive Pareto, le classi al potere hanno un solo pensiero, i propri interessi personali, e usano il governo per soddisfarli. Ogni classe, infatti, si sforza d’impossessarsi del governo per farne una macchina con cui spogliare le altre.

Il problema, continua Pareto, nasce dal fatto che depredare gli altri per mezzo del governo costituisce un’alternativa molto più facile e attraente del duro lavoro di produzione della ricchezza: «La produzione diretta dei beni economici è spesso molto penosa; l’appropriazione di tali beni, prodotti da altri, è talora assai facile. Questa facilità è stata grandemente accresciuta da quando si è pensato di effettuare la spogliazione non contro la legge, ma per mezzo della legge […] Andare a deporre una scheda di voto è cosa assai agevole, e se, con questo mezzo, ci si può procurare il vitto e l’alloggio, tutti e specialmente gli inadatti, gli incapaci, i pigri si affretteranno ad adottarlo». (in “I sistemi socialisti”, 1902).

Eppure la storia ci dice che la banalità del male potrebbe essere superata. Ce ne dà conto Hannah Arendt. La filosofa ebrea tedesca allieva di Martin Heidegger e di Karl Jaspers, nell’edizione definitiva del suo libro “Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil”, frutto del lavoro svolto a Gerusalemme come inviata del “New Yorker” per seguire lo storico processo al criminale nazista responsabile dello sterminio di milioni di Ebrei che era stato catturato l’anno prima a Buenos Aires dove aveva vissuto indisturbato per anni.

Un sinonimo di banalità potrebbe essere stupidità, o assenza di pensiero. Adolf Eichmann non era la bestia degli abissi; non aveva nulla di demoniaco, né di profondo o addirittura abissale. A guardarlo da vicino era un piatto e grigio impiegato, una rotella all’interno di un ingranaggio che, anche senza di lui, avrebbe comunque funzionato. Per questa scandalosa banalità Eichmann appariva agli occhi della filosofa il prototipo del burocrate, incapace di «mettersi nei panni degli altri», al quale si poteva imputare l’unica colpa di non aver «pensato» e non aver agito, sottraendosi ai suoi compiti, con la «disobbedienza civile».

Durante il processo che si svolgeva stancamente al ritornello del gerarca nazista che sosteneva d’aver sempre obbedito, e agito in base alle leggi vigenti, ad un certo punto saltò fuori che il pianificatore dello sterminio ammise di aver fatto un’eccezione in due casi, nel periodo in cui “ottanta milioni di tedeschi” avevano ciascuno “il suo bravo ebreo”, aveva aiutato una cugina mezza ebrea e una coppia di ebrei viennesi, cedendo alle raccomandazioni di suo “zio”. Incalzato da uno dei tre giudici ebrei: Yitzhak Rawe, ad un certo punto rispose spazientito: «ma in fondo in qualsiasi legge si trova un cavillo». Al che il collegio giudicante trovò le ragioni morali per la condanna di Eichmann: se aveva trovato l’eccezione per quei due casi, perché non aveva “interpretato” le leggi per tutti gli altri? Così abbiamo il paradosso di un Adolf Eichmann a cui non si poteva imputare direttamente l’uccisione di nessun ebreo, che fu impiccato per averne salvati due.

Nella banale campagna elettorale della città del Palladio testé trascorsa, nessun candidato sindaco ha sinora manifestato il proposito d’incaricare uno o più burocrati di trovare un cavillo a tutte quelle leggi che limitano il corretto esercizio della democrazia diretta. Anche senza toccare i temi della libertà, dell’economia, e dell’ambiente, l’arroganza di pensare in buona fede che il territorio vicentino possa essere il migliore dei mondi possibili grazie alla sua opera (e a quella dei suoi pochi accoliti) è, nell’opinione di molti che non si sono recati alle urne (circa il 50%), una forma di patologia mentale.
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Re: Democrazia, cittadinanza, valori, doveri e diritti umani

Messaggioda Berto » lun giu 11, 2018 8:07 pm

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