Democrazia, cittadinanza, valori, doveri e diritti umani

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Messaggioda Berto » dom ott 01, 2017 3:19 pm

Democrazia, cittadinanza, valori, doveri e diritti umani
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 183&t=2683

Filone dedicato ai venetisti venezianisti che credono che la democrazia e l'illuminismo siano un male a cui preferire l'idealizzata aristocrazia veneziana antidemocratica e quello che la loro frangia cattolico romana considera come un regime perfetto di teocrazia cristiana; tutto un mondo demenziale caratterizzato da
un forte antisemitismo.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Democrazia, cittadinanza, diritti e doveri umani

Messaggioda Berto » dom ott 01, 2017 3:21 pm

Non è la fede cristiano cattolico romana che ti da la coscienza, la forza e il diritto di essere uomo, comunità, popolo, stato libero e indipendente.
Venezia non è caduta perché ai veneziani è venuta meno la fede cristiana o cattolica, avendo molti veneziani abbracciato le idee democratiche (illuministiche), Venezia è caduta per la sua arroganza aristocratica e il suo disprezzo verso la democrazia.
La vera fraternità cristiana si realizza nella ugualianza dei diritti e dei doveri della democrazia (quella vera, comunitaria, clanico-preistorica e diretta) e non nella disugualianza della castualità aristocratica.
La democrazia è più cristiana dell'aristocrazia; checché ne dicano i teocratici cattolici veneti con il loro insulso mito aristocratico antidemocratico e antilluminista.


La fede en Cristo Dio e San Marco no te porta l'endependensa
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 167&t=1901

Immagine
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Coel Parlamento Veneto de tuti i veneti, mai nato e ke i venesiani ke łi gheva el poder no łi ga mai promòso
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 183&t=2597

Ensemense e peke venetiste e venesianiste
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 183&t=2389
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Re: Democrazia, cittadinanza, diritti e doveri umani

Messaggioda Berto » dom ott 01, 2017 3:23 pm

Questa invece è la teocrazia dell'orrore e del terrore islamico


Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine
viewtopic.php?f=141&t=2558

Nazismo maomettano = Islam = dhimmitudine = apartheid = razzismo = sterminio
viewtopic.php?f=188&t=2526

Utopie demenziali e criminali - falsi salvatori del mondo e dell'umanità
viewtopic.php?f=141&t=2593

Utopie che hanno fatto e fanno più male che bene e molto più male del male che pretenderebbero presuntuosamente e arrogantemente di curare.
Totalitarismi e imperialismi maomettano (mussulmano o islamista), comunista (internazicomunista), nazista (fascista e nazista), globalista, idolatria cattolico-ecumenista, ...
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Re: Democrazia, cittadinanza, diritti e doveri umani

Messaggioda Berto » dom ott 01, 2017 3:24 pm

La migliore democrazia del mondo: diretta, repubblicana e federale


Democrazia Svizzera, un buon modello per tutto il mondo
viewtopic.php?f=118&t=405
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Re: Democrazia, cittadinanza, diritti e doveri umani

Messaggioda Berto » dom ott 01, 2017 3:25 pm

Cittadinanza

Non esiste alcun diritto alla cittadinanza del mondo, poiché non esiste alcuna cittadinanza del mondo!



La cittadinanza esiste soltanto legata alle varie città, ai vari paesi, ai vari stati.
L'idea della cittadinanza mondiale è come quella funesta secondo cui la proprietà è un furto;
oppure come quella, altrettanto funesta, che la terra sarebbe in ogni sua parte indistintamente di tutti;
o come quella che le religioni sono tutte uguali e che gli idoli di ogni religione sono D-o;
o come quella che il terrorista assassino Maometto, fondatore del nazismo maomettano sia stato un santo, un uomo buono paragonabile all'ebreo Cristo e che l'Islam è una religione/ideologia politico religiosa che migliora l'umanità, che diffonde l'amore, la pace e la fratellanza.


La proprietà non è un furto e un male ma un bene prezioso e rubare non è un bene ma un male.
viewtopic.php?f=141&t=2495

La proprietà può essere un bene pubblico o privato.

Il territorio di uno stato è una proprietà o bene pubblico, di tutti i cittadini, come la terra e la casa di un qualsiasi cittadino è una proprietà e un bene privato.

Violare la proprietà di un privato è un reato, un delitto; allo stesso modo violare il territorio di uno stato è un reato, un delitto contro la proprietà pubblica.
La terra non è proprietà di tutti gli uomini indistintamente ma ogni territorio è proprietà di una qualche comunità particolare e pertanto chi non appartiene a quella comunità non può esercitare alcun diritto di proprietà.

Anche la cittadinanza è un bene pubblico, della città o paese o nazione che appartiene a tutti i suoi cittadini.

La cittadinanza come i suoi diritti e doveri civili di cittadinanza non sono beni umani universali ma beni che appartengono soltanto ai membri di quella comunità, di quella città.
Nell'elenco dei Diritti Umani Universali vi sono anche il diritto alla proprietà e alla cittadinanza ma tali diritti, ogni uomo, li esplica o li può esercitare soltanto nella propria terra e nella propria città o paese o nazione o stato e non in quella degli altri.



Diritti Umani Universali che non esistono
viewtopic.php?f=25&t=2584
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Re: Democrazia, cittadinanza, diritti e doveri umani

Messaggioda Berto » dom ott 01, 2017 3:25 pm

Ius soli e cittadinanza
viewtopic.php?f=141&t=1772



Ius soli, troppe ipocrisie - Corriere.it
Ernesto Galli della Loggia
Milano, 30 settembre 2017 - 20:35

http://www.corriere.it/opinioni/17_otto ... bc53.shtml

Se la legge sulla cittadinanza ha una sua necessità storica bisogna aprire gli occhi sugli effetti che avrà su di noi, cambiando la nostra identità

L’incerta gestione politica che il Pd ha fatto della legge sulla cittadinanza e il relativo rimpallo di responsabilità non devono far perdere di vista il merito del provvedimento. Che è giusto che vada in porto — dal momento che alla necessaria integrazione degli immigrati serve una simile legge — ma con alcune modifiche dettate da circostanze che fin qui, invece, non sembrano essere state prese in considerazione. Circostanze che secondo me sono soprattutto le seguenti: 1) Se è demagogica l’immagine agitata dalla Destra di un’Italia a rischio d’invasione dall’Africa, è pure demagogica e falsa l’idea divulgata da certa Sinistra e da certo cattolicesimo, che approvare la legge sarebbe dettato da un elementare dovere di umanità. Fino a prova contraria, infatti, coloro che oggi si trovano in Italia, tanto più se con un regolare permesso di soggiorno (ed è a questa condizione che fa sempre riferimento anche il progetto di legge) non si trovano certo in una condizione di reietti, di non persone prive di diritti. Non sono condannati a un’esistenza immersa nell’illegalità. Essi e i loro figli, nati o no che siano qui da noi, sono protetti dai codici e dalla giustizia della Repubblica, hanno diritto all’assistenza sanitaria, hanno diritto a fruire del sistema d’istruzione italiano, possono iscriversi a un partito o a un sindacato. Non sono dei paria, insomma.

2) La cittadinanza una volta concessa non può essere tolta se non eccezionalmente. È una decisione in sostanza irrevocabile. Ma concederla o non concederla è una decisione che deve ispirarsi a criteri esclusivamente politici (non giuridici: nessuno ha diritto a divenire cittadino di alcun Paese se una legge non glielo riconosce. Non esiste, infatti, né può esistere, una sorta di diritto «naturale» a essere cittadino di questo o quello Stato: tanto più quando, come è ovviamente il caso di tutti coloro che mettono piede in Italia, si tratta di persone che una cittadinanza già ce l’hanno). Ho detto criteri politici: vorrei sottolineare «drammaticamente» politici, dal momento che con una nuova legge sulla cittadinanza come quella oggi in discussione si tratta niente di meno che di modificare il demos storico di un Paese. Proprio perciò nel definire i caratteri di una tale legge una classe politica degna del nome non dovrebbe guardare solo all’oggi ma al domani e al dopodomani. Immaginare tutti i possibili sviluppi della situazione attuale valutando attentamente ogni eventualità.

3) In questa valutazione non può esserci posto per alcuna ipocrisia dettata dal politicamente corretto: bensì solo per il realismo, per un saggio realismo. Ora questo ci dice che non tutte le immigrazioni sono eguali (e dunque alla cortese obiezione che mi ha mosso il direttore di Repubblica Mario Calabresi circa la mia proposta di vietare la doppia cittadinanza — «non si capisce perché sia lecito e pacifico poter avere il passaporto italiano e quello statunitense ma sospetto mantenere quello marocchino o senegalese» — la risposta è semplice: perché il Marocco e il Senegal non sono gli Stati Uniti). L’immigrazione islamica, infatti, è un’immigrazione particolare per almeno due ordini di ragioni: a) perché non proviene da uno Stato ma da una civiltà, da una cultura mondiale rappresentata da oltre una ventina di Stati, e con la quale la cultura occidentale ha avuto un aspro contenzioso millenario che ha lasciato da ambo le parti tracce profondissime; b) perché alcuni degli Stati islamici di cui sopra mostrano — non finga la politica di non sapere e non vedere certe cose — un particolare, diciamo così, dinamismo antioccidentale. Da un lato, alimentando sotterraneamente radicalismo e terrorismo, dall’altro (ed è soprattutto questo che deve interessarci) svolgendo un’insidiosa opera di penetrazione di natura finanziaria nell’ambito economico, e di natura politico-religiosa (apertura di moschee e di «centri culturali») all’interno delle comunità islamiche presenti nella Penisola. Le quali da tutto questo lavorio ricavano la spinta a un forte compattamento cultural-identitario di un contenuto tutt’altro che democratico (ci si ricordi per esempio dei sentimenti antiisraeliani/antisemiti già così diffusi in quel mondo).

4) La cittadinanza significa il diritto di voto. In una tale prospettiva e alla luce di quanto appena detto è necessario evitare nel modo più assoluto che, complice il prevedibile aumento dell’immigrazione africana e no solo, domani possa sorgere la tentazione di un partito islamico. Il quale, sebbene forte di solo il 3-4 per cento dei voti, tuttavia, con l’aiuto del proporzionalismo congenito del nostro sistema politico, potrebbe facilmente diventare cruciale per la formazione di una maggioranza di governo. C’è qualcuno che ha pensato a queste cose, a evitare che esse possano prendere una simile piega? In realtà la legge di cui stiamo discutendo si chiama impropriamente dello ius soli mentre molto meglio sarebbe pensare a una legge fondata sullo ius loci. Il testo attuale, infatti, non riconosce per nulla l’essere nato in Italia come condizione sufficiente per ottenere la cittadinanza, come dovrebbe fare una legge realmente ispirata a quel principio. Vi aggiunge essa per prima condizioni ulteriori di natura culturale e non, le quali riguardano sia il richiedente sia la sua famiglia (l’adempimento di un ciclo scolastico, il possesso di un regolare permesso di soggiorno da parte di un genitore, ecc.) sono personalmente convinto che a queste condizioni sia opportuno aggiungerne altre, in obbedienza a un principio basilare: e cioè che vanno, e possono essere, integrate le persone, non le comunità. E che proprio per far ciò è necessario, nei limiti del possibile e rispettando i diritti di tutti, cercare di allentare il più possibile il vincolo identitario-cultural-comunitario che spesso, specialmente nelle comunità islamiche, chiude gli individui in un involucro antropologico ferreo (si pensi alla condizione delle ragazze e delle donne in genere). Solo allentando un tale vincolo è possibile il reale passaggio ad una nuova appartenenza ideale e pratica quale è richiesta dal partecipare realmente ad una nuova cittadinanza.

Per favorire e insieme accertare quanto ora detto penso che almeno queste altre tre condizioni dovrebbero essere poste per ottenere la cittadinanza italiana da parte degli immigrati: l’obbligo di abbandonare la cittadinanza precedente; la conoscenza della lingua italiana in entrambi i genitori del giovane candidato, non già solo in uno di essi come nel testo attuale (genitore che poi finirebbe per essere quasi sempre il genitore maschio: mentre la conoscenza dell’italiano anche nella madre costituirebbe un indizio assai significativo di superamento della condizione d’inferiorità della donna tipica di molte culture diverse dalla nostra); infine l’obbligo di accertamenti sull’ambiente familiare ad opera dei servizi sociali sotto l’egida di un apposito ufficio presso ogni prefettura.
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Re: Democrazia, cittadinanza, diritti e doveri umani

Messaggioda Berto » dom ott 01, 2017 3:26 pm

???

Principi di una vera cittadinanza di Tarcisio Bertone, quello dell'attico
22 novembre 2008

http://notedipastoralegiovanile.it/inde ... i&Itemid=1

1. Omaggio a Pirandello

È per me un grande onore presenziare a un atto così solenne in questo teatro che porta il nome del vostro illustre concittadino Luigi Pirandello. Premio Nobel per la letteratura nel 1934, Pirandello mi ha sempre colpito per la profondità con cui analizza l’esistenza umana, per l’inquietudine e la solitudine a tratti disperata della sua vita che definiva “l’involontario soggiorno sulla terra”, per la capacità d’introspezione con cui entra in se stesso chiamandosi scherzosamente “figlio del caos” e più in generale per il suo tentativo di penetrare nel mistero dell’uomo. Nel 1926, dieci anni prima della morte, pubblica il suo ultimo romanzo, frutto di una lunga gestazione - il ben noto Uno, nessuno e centomila - intessuto di interrogativi che il protagonista rivolge direttamente al lettore coinvolgendolo in una vicenda universale. Le tematiche che abborda sono di perenne attualità e stimolano una riflessione che in fondo è ricerca della verità, ricerca del senso della vita nella sua complessità umana, sociale e spirituale.

2. Il premio internazionale “Empedocle”

Alla ricerca del senso della vita, ricerca indispensabile per costruire una società solidale e aperta alla speranza, vuole offrire un proprio contributo anche l’Accademia di Studi Mediterranei di Agrigento, che – come mi scriveva la Signora Assunta Gallo Afflitto, Presidente Onorario, che ringrazio per il cortese invito – ha cercato di realizzare il “Bello” attraverso la cultura intesa come trasmissione di saperi e di ideali, coltivati cercando di “capire e di trovare i fili nascosti del passato che conducono al presente”. È in quest’ottica che si colloca ed assume il suo giusto valore il conferimento del premio internazionale “Empedocle” assegnato ogni anno – siamo alla XVIª edizione – a personalità del campo della scienza, della filosofia e della cultura cristiana. Mi sento onorato per essere stato scelto quest’anno come destinatario del premio per le scienze umane. Esso è in memoria di Paolo Borsellino – sono lieto di salutare la moglie Donna Agnese, qui presente -, nobile esempio di magistrato al servizio dello Stato, caduto sulla breccia il 19 luglio del 1992 insieme agli uomini della sua scorta, 57 giorni appena dopo la strage di Capaci che segnò la morte di un altro magistrato amico di Borsellino, Giovanni Falcone. Grazie pertanto per questo alto riconoscimento; grazie per l’affetto e la stima con cui mi avete accolto in questa vostra Città di Agrigento che Pindaro, poeta greco del V secolo a.C, definì: “la più bella città dei mortali” e che nell’antichità era ritenuta una delle tre metropoli accanto ad Atene e Siracusa.

3. La Cittadinanza onoraria

Come allora non sentirmi profondamente emozionato per la scelta dell’Amministrazione comunale di associarmi alla vostra comunità come cittadino onorario? Grazie di cuore anche per questo gesto, che considero un atto di omaggio non tanto alla mia persona quanto al ruolo che la Provvidenza mi ha chiamato a ricoprire al servizio diretto del Santo Padre Benedetto XVI. Di lui mi preme trasmettervi il saluto cordiale e l’apostolica benedizione che invia a voi qui presenti ed estende all’intera popolazione di Agrigento. Con questi sentimenti saluto Lei, Signor Sindaco, e gli altri Amministratori locali, provinciali e regionali presenti; saluto l’Arcivescovo, i sacerdoti, le autorità e le personalità che sono intervenute; saluto con affetto tutti voi, cari amici, che affollate questo teatro in una circostanza così significativa. È per me un vero piacere trovarmi in mezzo a voi, attorniato dalla cordialità tipica dei siciliani, insieme a tanti illustri rappresentanti delle istituzioni della cultura, della politica, della vita civile ed ecclesiale. Ricevere un premio porta con sé la responsabilità e l’impegno a tradurre in atti concreti le motivazioni che lo giustificano, tanto più quando è promosso da un’Accademia come la vostra che ha così nobili ed alti ideali. Il premio che oggi mi viene conferito è per me stimolo ad un ulteriore sforzo nel servire la causa dell’uomo, a difenderne la vita e la dignità per costruire una società libera e solidale; è ragione per contribuire con il mio servizio di Segretario di Stato di Sua Santità ad improntare la comunità mondiale ai valori della giustizia e della pace, incrementando la diffusione di quella che già Paolo VI, ed ancor più Giovanni Paolo II e l’attuale Pontefice Benedetto XVI ripetutamente hanno definito la “civiltà dell’amore”.

4. Principi su cui radicare la propria cittadinanza

Sono così giunto, cari amici, al tema che vorrei affrontare in questo nostro incontro, alla riflessione che mi piacerebbe condividere con voi e che concerne i “principi su cui radicare e vivere la propria cittadinanza” per dar vita appunto a un mondo più giusto e solidale, vivificato da una speranza che si traduca in operosità quotidiana al servizio del bene comune.
Fra non molti giorni , il 10 dicembre p.v., commemoreremo il 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, occasione quanto mai propizia per domandarci quanta strada l’umanità abbia percorso in questi 6 decenni rispetto a un reale riconoscimento dei diritti umani in ogni parte del mondo; quanto cammino resti da fare perché ogni essere umano si senta a pieno titolo cittadino del nostro pianeta; quale sforzo sia necessario nell’epoca della globalizzazione per dar vita a un dialogo capace di sfociare in una pace duratura, per concretizzare una giustizia non solo formale e una solidarietà che sia effettiva condivisione delle disponibili risorse materiali, umane e culturali. Ci si può infine chiedere quale futuro sia possibile costruire insieme e come costruirlo. Tutti questi interrogativi mi affollano la mente in questo momento.

5. L’onestà è un bene a vantaggio di tutti

Mi torna alla memoria una illuminante affermazione di Giovanni Paolo II contenuta nell’enciclica Centesimus annus del 1991: “L’uomo tende verso il bene – scriveva Papa Woytjla – ma è pure capace di male; può trascendere il suo interesse immediato e, tuttavia, rimanere a esso legato”. “L’ordine sociale sarà tanto più solido – egli proseguiva – quanto più terrà conto di questo fatto e non opporrà l’interesse personale a quello della società nel suo insieme, ma cercherà piuttosto i modi della loro fruttuosa collaborazione” (n.25). Intravediamo qui un criterio realistico di fondo molto efficace: puntare cioè sui comportamenti virtuosi dell’uomo è non solo un valore, ma un bisogno. Poiché la corruzione e la carenza di onestà, a qualsiasi livello della vita sociale ed economica si registri, non sono solo un male, ma hanno pure un grave costo sociale ed economico. Pertanto, rifiutare comportamenti disonesti è un bene che reca vantaggi effettivi per tutti. Ecco perché vanno incentivati i comportamenti onesti e puniti quelli disonesti. Esprimo la mia ammirazione per il coraggio dimostrato nei giorni scorsi da un gruppo di imprenditori, che hanno risentito e tradotto in impegno concreto, il grido-denuncia di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi. Illuminante è al riguardo una nota del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace di due anni or sono che tratta un tema sempre attuale, quello della “lotta alla corruzione” (Nota La lotta contro la corruzione, 21 settembre 2006). Occorre scardinare una idea di fondo che spesso sembra guidare il pensare e l’agire della società contemporanea impregnata di un pervasivo individualismo che porta a un pericoloso relativismo culturale ed etico. Il vantaggio personale ricercato e costruito in modo disonesto, non va solo a danno della società, ma finisce per danneggiare lo stesso individuo. La beata Madre Teresa di Calcutta, che con le sue attività a servizio dei poveri più poveri toccava il cuore di molti, amava ripetere che non si può essere felici da soli, che non è pensabile raggiungere una vera felicità dimenticando, peggio sfruttando gli altri.

6. Obblighi e doveri di ogni cittadino

La realizzazione di ogni diritto comporta la consapevole applicazione dei relativi doveri: non c’è insomma diritto reale senza corrispettivo dovere. A questo proposito mi sia permesso semplicemente accennare al fatto che oggi si parla spesso più che di diritti “umani” di diritti “individuali” trasformando desideri da soddisfare in diritti senza un vero fondamento ontologico e quindi universale. Ecco perché mi pare quanto mai opportuno riaffermare che i diritti umani sono universali non perché approvati e riconosciuti da maggioranze parlamentari o della pubblica opinione, bensì perché poggiano sulla natura dell’essere umano, che resta inalterata pur nel mutare delle condizioni sociali e storiche. Proprio per tale ragione, tutti i cittadini membri di una medesima comunità, hanno diritti correlati a corrispondenti doveri. La parola chiave è in proposito: responsabilità. Un'autentica democrazia non può in effetti costituirsi senza una forte assunzione, individuale e collettiva, di condivise responsabilità. Ed è in questa stessa direzione che occorre promuovere ed educare le nuove generazioni, contrastando quelle tendenze egoistiche che spingono a preoccuparsi unicamente dei propri interessi presenti senza tener conto del bene comune di oggi e di domani.

7. Carta dei doveri del cittadino

Il nostro secolo è stato giustamente definito «il secolo dei diritti», perché l'uomo ha preso coscienza di essere titolare di fondamentali esigenze che l'ordinamento giuridico è tenuto a riconoscere e a garantire, e perché la stessa comunità ha superato la nozione di sudditanza per approdare a quella di cittadinanza, mettendo in positiva discussione quel “progetto” di organizzazione dei rapporti tra cittadini e istituzioni, quel “sistema integrale ed integrato di diritti e di doveri, che ha costituito e deve tuttora costituire la misura e insieme il terreno di sviluppo di una convivenza solidale e responsabile nel Paese” (Doc. Stato sociale ed educazione alla socialità, n. 1). Si spiega così, in questo contesto, il fiorire - anche a livello internazionale - di Carte dei diritti del cittadino e di Carte dei diritti riguardanti soggetti particolarmente deboli, quali le donne, i minori, gli handicappati, gli anziani, ecc. Sarebbe però, oggi, assai opportuno porre mano alla stesura di una Carta dei doveri del cittadino, che integri le carte dei diritti e richiami ad ogni cittadino le sue responsabilità in ordine alla costruzione di una società – città, nazione e comunità internazione - che sia autentica “casa comune” di tutti, nessuno escluso.
Non si tratta certo di enfatizzare i doveri nei confronti della collettività, e delle istituzioni, per restringere o eliminare la sfera dei diritti del singolo. Si tratta invece di richiamare i doveri, affinché l'intero corpo sociale possa adeguatamente svolgere le proprie funzioni. Di fronte ai pericoli di un reale svuotamento della cittadinanza effettiva – intendendo per cittadinanza l’abilitazione di ogni persona a sentirsi compartecipe a pieno titolo delle sorti della propria comunità – , appare essenziale che ogni cittadino, cosciente della propria dignità di compartecipe della vita sociale, attivi tutte le sue potenzialità e costruisca insieme con gli altri una migliore casa comune. Più in profondità occorre rilevare che non si può costruire una comunità più giusta ed umana senza un disegno organico, senza una chiara visione dello “Stato” e della società di cui si è parte, e senza una visione lucida ed integrale della dignità dell’uomo e dei suoi complessi rapporti sociali. Indubbiamente una «Carta dei doveri del cittadino» non si esaurisce in una formale elencazione dei doveri del singolo nei confronti delle istituzioni e della società; è piuttosto un’educazione ad accettare la sfida indispensabile di assumersi in prima persona, con coraggio, le proprie responsabilità.

8. Doveri su cui radicare la cittadinanza

Ciò che più interessa è allora individuare alcuni principi e doveri su cui radicare e vivere la propria cittadinanza. Ed allo scopo di stimolare una approfondita riflessione a questo riguardo, vorrei qui indicarne alcuni.

A. Il dovere della partecipazione
Un primo fondamentale dovere del cittadino è quello della partecipazione alla costruzione di una buona convivenza per tutti. Nella “Nota dottrinale circa l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica”, pubblicata dalla Congregazione della Dottrina della Fede nel gennaio del 2003, proprio al n. 1 si legge che: “La vita in un sistema politico democratico non potrebbe svolgersi proficuamente senza l’attivo, responsabile e generoso coinvolgimento da parte di tutti, sia pure con diversità e complementarità di forme, livelli, compiti e responsabilità”. Si parla qui del coinvolgimento responsabile di ciascuno nel pieno rispetto di ogni specifica competenza, per il fatto che l'uomo si realizza compiutamente solo nella relazione con gli altri e anche perché è del tutto illusorio pensare di riuscire a preservare la propria vita rifugiandosi nel privato, dal momento che i problemi della collettività condizionano pesantemente anche l'esistenza del singolo. È invece indispensabile che il cittadino si riappropri della politica, la quale soprattutto oggi, per essere adeguata alle accresciute esigenze collettive, deve essere espressione di un impegno insieme personale e sociale. Va ricordato infatti che, accanto alle scelte alle quali si è chiamati alle scadenze elettorali, non si fa politica solo nei partiti e prendendo parte alle dinamiche interne che li segnano; al contrario si può e si deve fare politica anche nella società civile, impegnandosi per leggi giuste e attente ai reali bisogni della gente, per scelte condivise che rispettino e promuovano il vero ed autentico bene comune.
Che cosa significa accogliere il punto di vista dell’etica del bene comune? Per rispondere conviene chiarire che il tema centrale della dottrina sociale della Chiesa, cioè il fine cui essa mira, è quello dell’ordine sociale non solamente giusto, ma anche fraterno. In un mio saggio sull’etica del bene comune, facevo presente che a nulla gioverebbe, infatti, ridistribuire equamente una ricchezza che fosse stata ottenuta in modo efficiente ma offendendo la dignità di coloro che hanno concorso a produrla. Cosa ce ne faremmo di una società civile come sfera d’azione separata dalla società politica? Ecco perché l’agire socio-politico non può essere riduttivamente concepito nei termini di tutto ciò che serve ad assicurare la convivenza sociale (istituzioni, regole, strumenti), ma deve anche, e soprattutto, assicurare la vita “fraterna” in comune… Ne deriva che l’impegno socio-politico appartiene alla concezione cristiana della vita umana e quindi una critica morale alla vita politica va giudicata pertinente, non giustapposta, all’argomentazione politica (cfr L’etica del bene comune nella dottrina sociale della Chiesa, LEV 2008, pp.57-61).
A tale riguardo, rivolgendosi specialmente ai fedeli cattolici chiamati a testimoniare il Vangelo in ogni ambito della società, il Papa Giovanni Paolo II, rifacendosi all’insegnamento del Concilio Vaticano II, nell’Esortazione apostolica Christifideles laici, al n. 42, afferma che: “i fedeli laici non possono affatto abdicare alla partecipazione alla ‘politica’, ossia alla molteplice e varia azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale destinata a promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune”.
Per i cristiani poi la carità, che taluni intendono esclusivamente come aiuto e sostegno al singolo sofferente, è in realtà una virtù che punta a incidere positivamente nella società e al suo reale miglioramento. Lo ha ben ricordato Benedetto XVI nella sua prima enciclica Deus caritas est, dove nella seconda parte approfondisce gli aspetti concreti dell’amore di Dio da tradurre in gesti di servizio all’uomo e alla comunità. L’amore è risposta ai bisogni delle persone e questo comporta necessariamente cambiamenti nella società e nelle istituzioni. La carità è anche lotta per la rimozione delle «strutture sociali di peccato», è lotta alla corruzione e all’ingiustizia. Impegno questo che non può essere delegato esclusivamente a chi fa politica in senso stresso: è piuttosto una responsabilità che interessa tutti; una responsabilità che trova nella giustizia e nella carità i suoi stimoli più forti ed efficaci.

B. Una prudenza sociale e politica
Per svolgere adeguatamente questa funzione di concreta partecipazione politica si richiede poi un’intelligenza critica - potremmo dire una prudenza sociale e politica - capace di individuare e di comprendere i reali rapporti esistenti nella comunità, gli effettivi schieramenti degli interessi in conflitto, le forze reali - anche se occulte - che operano nel tessuto sociale e che spesso lo condizionano, come pure i pericoli di manipolazione a cui si è purtroppo sottoposti. Senza un'adeguata vigilanza e un'attenta valutazione delle situazioni e dei problemi, la partecipazione rischia di divenire meramente declamatoria e il cittadino, sostanzialmente suddito, corre il pericolo di essere incanalato - specie nell'attuale società telematica e della comunicazione di massa - in una democrazia formale, che è l'antitesi di una vera democrazia diffusa. Questo dovere di discernimento impone la ricerca di strumenti di conoscenza, di analisi e di controllo, che aiutino a valutare in modo oggettivo la realtà che i vari poteri sono spesso tentati di rappresentare in modo interessato o deformato. Per questo i singoli avranno il compito di vigilare affinché anche lo Stato, per il fatto che si compone di persone ed è chiamato ad essere una comunità solidale, si adoperi per far rispettare, favorire ed esigere che vengano attuate tutte quelle condizioni che permettono alle persone di realizzarsi armonicamente: sia nella dimensione di autonomia, creatività e responsabilità personali, sia nella dimensione di interdipendenza e di solidarietà sociale.

C. L’esercizio effettivo dei propri diritti
Da ciò consegue che è dovere del cittadino esercitare effettivamente i suoi diritti, sia individuali che sociali. Vi è un dovere di denuncia delle ingiustizie e delle illegalità; un dovere di vigilanza sull'adempimento delle pubbliche funzioni e sul loro corretto esercizio; un dovere di esigere costantemente che i propri diritti siano rispettati, perché ogni violazione di un proprio e singolare diritto individuale facilita e incrementa la violazione dei diritti degli altri. Atteggiamenti di rinuncia e di paura spesso si traducono - al di là delle intenzioni - in sostanziale copertura e omertà.

D. Impegno per lo sviluppo dei diritti
È ancora dovere del cittadino impegnarsi in prima persona per lo sviluppo della propria sfera di diritti. Il cittadino non può in effetti aspettare che altri, privati o istituzioni, si preoccupino di dare risposte ai suoi problemi e di promuovere il superamento delle sue difficoltà. Il cittadino responsabile sa attivare le proprie potenzialità positive per divenire sempre più soggetto libero e artefice della storia propria e collettiva.

E. Aprirsi alla dimensione universale
Nel pianeta, diventato oggi un “villaggio globale”, è dovere di ogni persona non solo preoccuparsi della propria comunità sia essa locale e nazionale, ma aprirsi ai problemi dell'intera comunità umana. Per le profonde interconnessioni ormai esistenti si è infatti cittadini del mondo intero – ed io lo sperimento ogni giorno a 360° nella missione che svolgo - e va contrastata la tendenza a chiudersi in sterili localismi condizionati da una visione miope della vita sociale. Ciò non impedisce certo la giusta valorizzazione delle autonomie locali, che al contrario vanno salvaguardate perché il cittadino non diventi un anonimo abitante di un mondo spersonalizzato.

F. Aprirsi al futuro
Infine è dovere del cittadino non chiudersi nel presente, dimenticando il suo passato e disinteressandosi del futuro. Vi sono doveri nei confronti non solo di coloro che vivono con noi, bensì pure verso chi verrà dopo di noi; siamo responsabili del nostro e dell’altrui avvenire e non possiamo pregiudicare la vita delle nuove generazioni, ad esempio, con un selvaggio sfruttamento delle risorse ambientali. Quanto meriterebbe di essere approfondito questo discorso, considerando i disastri ecologici, i dissesti ambientali causati proprio da un uso egoistico delle risorse attuali dell’umanità! Indubbiamente potremmo ancor più addentrarci nell’argomento che è di grande attualità. Mi limito a queste semplici riflessioni e a poche indicazioni da integrare e sviluppare nella vita di tutti i giorni, tenendo sempre ben chiaro alla mente quel principio che enunciavo all’inizio e cioè: il perseguimento dei propri diritti e di quelli degli altri, passa attraverso la personale e comunitaria piena assunzione delle proprie responsabilità, secondo le regole dell’umana convivenza e dei dettami della democrazia improntata a principi e valori etici e morali.

9. I principi di responsabilità, di sussidiarietà e di solidarietà

Prima di concludere questo mio intervento, mi sia permesso di ribadire il principio di responsabilità, strettamente legato ai principi di sussidiarietà e di solidarietà. Questo principio implica che ogni cittadino, sentendosi responsabile, è portato ad assumere in prima persona il dovere di una attiva e creativa partecipazione alla costruzione del bene comune.
Il principio di responsabilità richiama, ad esempio, il pubblico amministratore o il funzionario a svolgere i suoi compiti e ad utilizzare i beni pubblici e le risorse collettive a lui affidate con la diligenza che il «paterfamilias» adotterebbe nei confronti delle cose di casa sua, e a ritenersi responsabile verso il cittadino che si rivolge a lui. Richiama anche l'operatore dei mezzi di informazione a rispettare la verità dei fatti e ad essere leale nei confronti della comunità e della buona fede dei cittadini, a salvaguardarne con un servizio imparziale la dignità e ad essere rispettoso di ogni persona coinvolta nell’ambito di ogni singola notizia ed informazione.
Il principio di responsabilità chiede anche ad ogni cittadino l'osservanza delle leggi, non solo e non tanto per timore delle sanzioni, quanto principalmente per dovere di partecipazione e di solidarietà. Esso invita anche chi si sente portatore di fondate ragioni di dissenso, ad esprimerle con chiarezza e nei modi previsti dalle regole della convivenza, consapevole che spesso nella storia l'obiezione aperta e argomentata e l’obbedienza a principi più alti della legge naturale scritta nel cuore (cf. Rm 2,14-15) hanno fatto da guida all’innovazione creativa e al cambiamento.
Da parte loro lo Stato e le istituzioni hanno il compito di creare le strutture giuridiche e favorire le condizioni culturali adatte che rendano possibile ai cittadini l'esercizio di questo principio. In proposito Giovanni Paolo II, nell’enciclica Sollicitudo rei socialis, al n. 44, affermava che “la «salute» di una comunità politica in quanto si esprime mediante la libera partecipazione e responsabilità di tutti i cittadini alla cosa pubblica, la sicurezza del diritto, il rispetto e la promozione dei diritti umani, è condizione necessaria e garanzia sicura di sviluppo di «tutto l'uomo e di tutti gli uomini”.

10. Conclusione: ritrovare l’unità tra fede e ragione

Sorge qui spontanea una domanda: è possibile tutto questo semplicemente facendo appello a risorse umane? La vostra Accademia di Studi Mediterranei intende rilanciare un messaggio più “alto”, che senza nulla togliere alle capacità umane, richiami il “Bene” e il “Bello”, la verità e l’amore che si intrecciano nell’incontro tra Dio e l’uomo perché senza Dio l’uomo non può realizzare appieno se stesso. Per questo, come ripete Benedetto XVI, in ogni campo del vivere umano è necessario ritrovare l'unità tra fede e ragione, tra la dimensione materiale e quella spirituale in una visione integrale dell’uomo e del mondo. Si tratta, a ben vedere, di una necessità vitale in quanto il dramma della loro separazione ha portato e continua a portare ancora oggi a conseguenze nefaste. La ben nota enciclica Fides et Ratio di Giovanni Paolo II, al n. 45, ricorda che tra le conseguenze della separazione tra fede e ragione verificatesi nel corso dei secoli c’è anche quella di una diffidenza sempre più forte nei confronti della stessa ragione. “Alcuni – osserva il Papa - iniziarono a professare una sfiducia generale, scettica e agnostica, o per riservare più spazio alla fede o per screditarne ogni possibile riferimento razionale”. Non posso non chiudere senza rilanciare un appello soprattutto ai credenti perché siano testimoni con la vita di questa verità, recuperando l’unità profonda che rende la fede e la ragione capaci di essere coerenti con la loro natura nel rispetto della reciproca autonomia. Alla parresia della fede deve corrispondere l’audacia della ragione” (Fides et Ratio, n. 48). Soltanto se si impegna a sviluppare la propria vocazione nel mondo lasciandosi rinnovare nel cuore da Dio, il cristiano diviene testimone e costruttore della speranza che è in noi (cfr. 1Pt. 3, 15). Ecco la sfida che tutti ci interpella; la missione che tutti ci accomuna.
La presenza del cristiano nel mondo non potrà mai essere ridotta a un mero fatto privato, perché ciò in cui crede non è da nascondere, ma, invece, da partecipare. I valori che appartengono alla fede non sono estranei a quelli che la natura conserva e la ragione raggiunge; sono condivisibili con tutti.
Igino Giordani, deputato della prima generazione democristiana, costituente, ora Servo di Dio - nel suo saggio “Le due città”, scriveva: «Ora, la Chiesa che compie questa missione di vita contro la morte, non sta solo in chiesa (quella fatta di mura) né in canonica, né in convento, sta anche in casa e per istrada, nell’officina e nei campi, persino in banca e in parlamento… E’ la storia, è la vita che s’incarica di dar ragione all’universalità cristiana, la quale lotta, tra vessazioni e incomprensioni, da secoli, per abbattere i settori, onde è frantumata l’unica famiglia» (Città Nuova 1961, p. 490-491).
Giuseppe Tovini (1841-1897), avvocato e banchiere, padre di dieci figli, recentemente beatificato da Giovanni Paolo II, preoccupato della difesa della fede, ebbe ad affermare durante un congresso: «i nostri figli senza la fede non saranno mai ricchi, con la fede non saranno mai poveri».
Impegniamoci a incarnare e a trasmettere anche questi messaggi.
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Re: Democrazia, cittadinanza, diritti e doveri umani

Messaggioda Berto » sab mar 03, 2018 7:23 pm

La democrazia è il popolo, non i partiti

29 Ago 2017
http://www.lindipendenzanuova.com/la-de ... -i-partiti
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Re: Democrazia, cittadinanza, diritti e doveri umani

Messaggioda Berto » sab mar 03, 2018 7:25 pm

Politica, siamo l’ultima generazione di produttori
2018/02/27

https://www.vicenzareport.it/2018/02/po ... produttori

Vicenza – Cercare di aumentare la consapevolezza delle persone sui temi quali la democrazia rappresentativa, la democrazia diretta, la sovranità popolare, è un processo lungo e difficile, soprattutto perché si scontra con tutta una serie di “resistenze umane” che sono già state descritte sapientemente nel mito della Caverna di Platone, all’inizio del libro settimo de “La Repubblica”. Proviamo a elaborarne una versione liberamente modificata per adattarla ai nostri tempi.

Immaginiamoci dei prigionieri che siano stati incatenati, fin dalla nascita, nelle profondità di una caverna. Non solo le membra, ma anche testa e collo sono bloccati, in maniera che gli occhi dei malcapitati possano fissare solo la parete dinanzi a loro. Si pensi, inoltre, che alle spalle dei prigionieri sia stato acceso un enorme fuoco e che, tra il fuoco e i prigionieri, corra una strada lungo la quale i politici gestiscono vari tipi di argomenti: la giustizia civile e penale, l’ordine pubblico, la difesa, la politica estera, la moneta, la sanità, il welfare, l’ecologia etc. etc. per creare una “visione” sul muro di fondo della caverna in modo da attirare l’attenzione dei prigionieri.

Tra i politici e i prigionieri, però, è stato eretto un muro di leggi che impediscono loro di usare il proprio diritto a partecipare direttamente al processo decisionale insito nel sistema democratico, costringendoli ad usare solo la visione fittizia del fondo della caverna, spingendoli a pensare che questa versione sia quella vera. Mentre un personaggio esterno avrebbe un’idea completa della situazione, i prigionieri, non conoscendo cosa accade realmente alle proprie spalle e non avendo esperienza del mondo esterno (dove la democrazia è di proprietà dei cittadini e non dei politici), sarebbero portati a credere che la democrazia rappresentativa creata dai partiti politici sia l’unica possibile.

Si supponga, anche, che un prigioniero riesca a liberarsi dalle catene e sia costretto a guardare verso l’uscita della caverna: in primo luogo, i suoi occhi sarebbero abbagliati dalla luce e proverebbe dolore. Inoltre, l’agire democraticamente corretto dietro il muretto gli sembrerebbe meno reale delle versioni alle quali è abituato. Persino se gli fossero mostrati i risultati di altri Paesi e gli fosse spiegato il trucco, il prigioniero rimarrebbe comunque dubbioso e preferirebbe seguitare a usare la democrazia offerta dai partiti politici.

Allo stesso modo, se il malcapitato fosse costretto a uscire dalla caverna e gli fosse esposta la verità, rimarrebbe accecato e non riuscirebbe a credere ad alcunché. È troppo forte per essere accettata come possibile. Il prigioniero si troverebbe sicuramente a disagio e s’irriterebbe per essere stato trascinato a viva forza in quel luogo.
Volendo abituarsi alla nuova situazione, il prigioniero potrebbe inizialmente percepire l’importanza della questione, ma avrebbe necessità di un lasso di tempo per abituarcisi.

Oggi gli studi sui comportamenti umani hanno chiarito finalmente che non è la realtà che ci condiziona, ma la nostra percezione della realtà, che però dipende dalle convinzioni che abbiamo. Possiamo anche dimostrare che queste convinzioni sono sbagliate, ma accettare nuove idee che contrastano con quelle infette e già consolidate è difficile, perché si crea una dissonanza cognitiva. Piuttosto che vivere un enorme disagio-conflitto, che genera malessere, abbiamo un sistema interiore che rifiuta le nuove idee e difende le proprie convinzioni contro ogni evidenza dei fatti.

A livello statale, tre sono le convinzioni più diffuse e radicate nel nostro inconscio:

C’è bisogno di un leader illuminato.
Lo Stato non ha i soldi.
Il debito pubblico deve essere ripagato.

Come si curano queste convinzioni errate?

Corruzione e incompetenza spesso sono legati tra loro, ma l’incompetenza, anche senza corruzione, genera maggiori danni della corruzione stessa. Sull’argomento c’è un’ampia produzione normativa, sia a livello europeo che italiano a dimostrazione che la competenza, assunta come riferimento per qualità ed efficienza, è la chiave che porta a minori costi e maggiori benefici per l’economia.

Una vicenda, che per immoralità e incompetenza è utile per attirare l’attenzione dei lettori, è quella di Arera (Autorità per l’energia), che ha stabilito come ripartire fra tutti gli utenti del servizio elettrico gli oneri generali di sistema – una parte parafiscale della fattura elettrica – non pagati dai consumatori morosi. “Una socializzazione di una fetta degli insoluti”, scrive il quotidiano “Il Sole 24 Ore” del 14 febbraio. La vicenda è preoccupante e sintomatica nello stesso tempo.

Le sentenze del Tar, del Consiglio di Stato, e l’Autorità dell’energia hanno formalizzato che sarà distribuita fra tutti i consumatori una prima fetta di “oneri generali” elettrici pari a circa 200 milioni arretrati. A parte il fatto che si parla di “prima fetta”, e non si sa bene quante altre “fette” ci saranno: c’è chi parla di 35 euro in bolletta, mentre “la voce del padrone” dei Tg Rai ha “rassicurato” che saranno solo due euro l’anno. E poi, inserire la partita alla voce “oneri generali” la dice lunga, poiché vi si può inserire di tutto indefinendolo.

Ora, al di la’ dell’importo effettivo, rimane l’assenza di moralità e di etica di uno “Stato di diritto” (per i partiti) che anziché rivalersi sui debitori effettivi, preferisce – al solito – scaricare gli oneri indistintamente sugli utenti impossibilitati a difendersi. Qualsiasi imbecille è in grado di governare tassando oltre misura i cittadini. Ergo siamo governati da gente poco seria, e incapace di cogliere la realtà delle cose.

Ci rimane solo un’incognita che presto sarà svelata: nelle amministrative del 2017 l’affluenza al voto è scivolata nell’allarmante 46% complessivo. Un trend riconfermato nelle ultime settimane dell’anno con le elezioni a Ostia, dove l‘affluenza è stata del 33,6%, e di Trapani addirittura sotto il 27%. Quanti saranno quelli che, rifiutando questo sistema pseudo democratico, non si recheranno a votare il 4 marzo? Ormai il Re è nudo, perché abbiamo scoperto che solo in questo modo possiamo prendere coscienza di questa nuova visione della realtà, e modificare le convinzioni che abbiamo interiorizzato. È purtroppo un processo complesso e doloroso ma liberatorio, perché ci rende consapevoli che siamo noi gli artefici del nostro destino, basta volerlo.

Prendiamo coscienza che siamo all’ultima generazione utile di produttori. Gente che possiede ancora un know-how. Taxpayer che non hanno ancora gettato la spugna o delocalizzato o venduto il loro know-how ad altri popoli e Paesi. Scomparsi questi, non solo non ci sarà più chi finanzierà il welfare o le pensioni. Verremo precipitati nella miseria del Terzo Mondo, che già sta invadendoci proprio perché nei loro Paesi non c’è una generazione di produttori. Usciamo, dunque, dalla caverna.
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Re: Democrazia, cittadinanza, diritti e doveri umani

Messaggioda Berto » mar mag 08, 2018 6:04 pm

Sovranità popolare, è scontro tra stato moderno e stato federale
ENZO TRENTIN
20 Apr 2018

http://www.lindipendenzanuova.com/sovra ... o-federale

L’indipendentismo odierno non può che basare le proprie rivendicazioni sul potere del popolo che per rivendicare i propri diritti, deve avere il potere di privare le istituzioni di determinate funzioni o addirittura di cambiare le istituzioni stesse, poiché i diritti dei cittadini equivalgono a quelli che noi oggi diremmo indisponibili, inalienabili, come riteniamo sia la sovranità. Infatti, se attraverso le elezioni i cittadini delegano la propria sovranità ai “rappresentanti” sia pure eletti, ma pur sempre dei semplici delegati; che sovrani sarebbero?

Le ragioni dell’indipendentismo dall’Italia risiedono nel fatto che il “contratto” tra lo Stato italiano ed i suoi cittadini, non è mai stato stipulato, e ancor quando lo fosse stato, esso non è mai stato rispettato dalle istituzioni e dai loro reggitori. Quindi gli indipendentisti non hanno necessità di eleggere rappresentanti presso le istituzioni dello Stato Italiano. Si veda il “giochino” dei Consiglieri alla Regione Veneto: Tesserin e Toniolo, che all’apparire della della proposta di legge 342/2013 per un referendum consultivo per l’indipendenza, ne hanno immediatamente proposto uno di analogo, ma per l’autonomia. Che Carlo Alberto Tesserin, ora rappresentante del Ncd, abbia recentemente dichiarato: «Al di là di quelle che possono essere le posizioni di ognuno, è giusto che venga garantita l’espressione della volontà da parte dei veneti su questo importante argomento, perché questa è l’essenza della democrazia» nulla toglie alla manovre partitocratiche. Con queste modalità non si approderà a nulla d’innovativo. Gli indipendentisti hanno, al contrario, la necessità imprescindibile di trovare amici e alleati all’estero.

Ci sono un’infinità di popoli che aspirano ad affrancarsi dagli Stati ottocenteschi che li inglobano, come dall’attuale Unione europea. È lì che deve operare l’indipendentismo più avveduto ed avanzato. Tuttavia anche nella ricerca degli amici esterni, gli indipendentisti dal “Bel Paese”, debbono dotarsi di un progetto istituzionale spendibile. Infatti, a chi interesserebbe uscire dall’UERSS (Unione Europea delle Repubbliche Socialiste Sovietiche o UE) per entrare – per esempio – in un nuovo paese retto da un sistema comunista?

L’idea che «Il popolo non è un qualsiasi agglomerato di uomini riuniti in un modo qualsiasi, ma una riunione di gente associata per accordo nell’osservare la giustizia e per comunanza di interessi.» è di Marco Tullio Cicerone che visse decenni prima della nascita di Cristo. Più recentemente Edward N. Luttwak, un economista, politologo e saggista rumeno naturalizzato statunitense, conosciuto per le sue pubblicazioni sulla strategia militare e politica estera; ha scritto: «Questa concezione romana è all’origine del contrattualismo per il quale lo Stato è il risultato di un patto, di un “contratto” tra gli individui. Quindi l’unità e i poteri dello Stato non precedono, ma conseguono da questo accordo stipulato tra i cittadini. Lo Stato inteso come prodotto di un “contratto” è la giustificazione teorica dello stato moderno; essa è strettamente legata al concetto di sovranità e più precisamente di sovranità popolare, ossia l’emanazione umana del Potere.» Per comprendere come si sia arrivati, nel tempo, al consolidamento di queste idee, citeremo qui solo alcuni personaggi autorevoli.

La teoria del contratto sociale e successivamente politico trova le sue origini nella disputa storica fra sostenitori del più insigne dei maremmani del Medioevo, papa Gregorio VII (Gregoriani), e quelli dell’Imperatore (Antigregoriani), verso l’anno 1075. I Gregoriani sostengono che l’imperatore Enrico IV non governa i sudditi per diritto divino illimitato, ma per un contratto tacito esistente fra lui e gli individui che si impegna a governare, rispettando alcuni principi e regole morali e religiose, violando le quali rimane privo del suo diritto davanti al popolo. Gregorio VII, con un piccolo gruppo di uomini colti ed onesti a lui fedeli, si pone contro lo stato di cose consolidato nei secoli per chiarire alle autorità politiche i limiti delle loro attribuzioni. Gli effetti della sua “Riforma” furono di tale importanza che andarono oltre quello che gli stessi protagonisti potevano immaginare. Essi avviarono la formazione di una nuova società europea, lo sviluppo di forze sociali popolari (i Comuni) e la fioritura di una spiritualità diversa rispetto al passato.

Per S. Tommaso d’Aquino il “diritto” è «la proporzione tra il profitto che il mio atto produce ad un altro e la prestazione che questi mi deve in cambio», (definizione di “contratto”). Per lui la legge umana ha come fondamento sia la legge divina sia quella naturale. «…il re non è il tiranno, ma colui al quale il popolo ha delegato la propria libertà e sovranità in nome della pace, dell’unità e del buon governo (ovvero il bene comune).»San Tommaso è considerato il primo ad enunciare il principio di sussidiarietà. Questi concetti sono propri del “contratto politico o di federazione”, e saranno introdotti nei secoli successivi nella teoria dello Stato contrattuale o federale dai grandi teorici del federalismo.

Marsilio da Padova nel Defensor Pacis, (“difensore della pace”. La sua opera più conosciuta), scritto nel 1324, dove tratta, fra l’altro, dell’origine della legge, sostiene che è la volontà dei cittadini che attribuisce al Governo, Pars Principans, il potere di comandare su tutte le altre parti, potere che sempre, e comunque, è un potere delegato, esercitato in nome della volontà popolare. La conseguenza di questo principio era che l’autorità politica non discendeva da Dio o dal papa, ma dal popolo, inteso come sanior et melior pars.

Thomas Hobbes, nel suo trattato più conosciuto, il Leviatano, afferma che nello stato di natura gli uomini nascono nell’eguaglianza, ma non possono restarci, dunque è la ricerca dell’eguaglianza che provoca e mantiene lo stato di guerra fra gli uomini. Dall’ineguaglianza – scrive – procede la diffidenza e dalla diffidenza la guerra. Considera lo Stato come il risultato di un “contratto” fra il sovrano ed i cittadini, inteso a salvaguardare la pace ed a conservare la vita degli individui.

Alexis de Tocqueville scrisse: «Se la democrazia è solo una vuota affermazione di uguaglianza e non funziona perché esclude la viva partecipazione, il suo contravveleno è il federalismo come l’ha conosciuto in America. […]Eliminando l’accentramento all’interno della struttura dello stato, il Federalismo moltiplica le occasioni di partecipazione, mentre il Centralismo tende a soffocarle.» È nelle istituzioni comunali che si impara la Democrazia.

Giuseppe Ferrari, grande amico di Pierre Joseph Proudhon con cui condivideva l’idea del carattere contrattuale dello Stato, aveva la visione politica di un’Italia costituita come Federazione dei suoi popoli. Per lui l’opinione pubblica doveva essere preparata alla Rivoluzione Federalista (che doveva avvenire spontaneamente) per la nascita di un partito di stampo popolare, democratico e repubblicano. La questione sociale era infatti per Ferrari inscindibile da quella istituzionale. Il futuro stato federale italiano sarebbe stato gestito da una assemblea democraticamente eletta e da tante assemblee regionali.

Mentre in Europa imperversa la seconda guerra mondiale, Adriano Olivetti si rifugia in Svizzera dove completa la stesura del libro: L’ordine politico delle comunità. Nella sua critica ai partiti ed al parlamentarismo integrale, partendo dagli studi di Ferdinand Tönnies derivava l’idea di comunità come spazio naturale dell’uomo. I termini comunità e società indicano per Olivetti due modi diversi di concepire le associazioni di individui e generano due differenti tipi di rapporti sociali: umani e virtuali. Così supera l’idea della contrapposizione fra comunità e società di Tönnies e pone la prima come la nuova misura dell’ordine politico fondata sul federalismo, punto di convergenza fra la persona e lo stato e fra la necessità della dimensione limitata della comunità in rapporto alla grande babele della società moderna e delle sue metropoli. Questo assunto gli serve a dimostrare che non ci può essere democrazia senza quella base di esperienza umana ed affettiva dei rapporti interpersonali che è possibile alimentare e conservare solo a livello di una comunità naturale, federale e di dimensioni limitate.

Il pensiero di Gianfranco Miglio, grande scienziato della politica e del federalismo, è vastissimo ed articolato. Crediamo che si possa riassumere in queste poche, profetiche parole circa le radici del federalismo: «…la sua vittoria è la vittoria del “contratto” sul “patto politico”, nell’Europa statalista. […] Con il consenso della gente si può fare di tutto: cambiare il governo, sostituire la bandiera, unirsi a un altro paese, formarne uno nuovo».

Concludendo, affinché il Contratto politico o di Federazione sia vantaggioso ed utile per tutti, occorre che il cittadino, entrando nella associazione tra sé e lo Stato:

abbia tanto da ricevere dallo Stato, quanto ad esso sacrifica;
conservi tutta la propria libertà, sovranità e iniziativa, meno ciò che è la parte relativa all’oggetto speciale e limitato per il quale il contratto è stipulato e per la quale si chiede la garanzia allo Stato;
3. che la quantità di “sovranità” che gli aventi diritto al voto cedono ai loro “rappresentanti” sia sempre inferiore a quella che riservano per sé.

Così regolato ed inteso, il “contratto politico” è una federazione. La grande battaglia politica (che potrebbe decidere le sorti della nostra specie) si svolgerà tra due diverse concezioni della forma di Stato e di governo:

Lo Stato moderno, unitario, indivisibile ed accentrato, in cui “sovrano” è lo Stato;
Lo Stato federale o contrattuale in cui “sovrano” è il Cittadino, la persona.
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