Coel parlamento veneto de tuti i veneti mai nato

Re: Coel parlamento veneto de tuti i veneti mai nato

Messaggioda Berto » mer mag 03, 2017 8:58 am

Coando xe ke i veneti łi demostrarà così tanto amor par ła so tera cofà łi ebrei par Ixrael?

Par ogni graneto de ła so tera, par ogni contrà, par ogni cantonçeło;
par ła melma de łe łagune a łe prie dure dei monti;
par l'acoa fresca e ciàra de ła neve pena desfà a ła meskisa e salsa del mar;
par ogni mota, ogni montexeło e vałe, par łe bàse o łupie e łe barene;
par ogni arbaro, brusco e ogni fil de gràsa;
par ogni çità e paexeto del pian, de sora i monti e drio łe coste;
par tuti i troxi e i canałi, par ogni palù de càne e tute łe so póse, ...
par łe so bestie e łe so xenti, ogniona co ła so storia ke no ła ga da esar da manco de coela de staltre;
coando xe k'a i veneti łi sarà boni de cantar anseme, con entel cor tuta ła so e nostra tera veneta?




El grande amor de łi ebrei par ła so tera ke ai veneti forse 'l ghe manca


LA NASCITA DI ISRAELE
(Sir. Benjamin Rotchild e il Sionismo).
(condividete, che tutti sappiano).
(È un brano del libro che sto scrivendo).
Rotchild

https://www.facebook.com/permalink.php? ... index=0&ft[tn]=K&ft[qid]=6415790884267461820&ft[mf_story_key]=3422339566924154006&ft[ei]=AI%40750c05ca428dc816bbe001076dba749d&ft[top_level_post_id]=1776925739285373&ft[fbfeed_location]=1&ft[insertion_position]=1&__md__=1

"Sir Benjamin James Rotschild riceveva capi di stato e capitani di industria nel suo piccolo studio nel centro città, per quasi 12 ore al giorno. Era un uomo molto impegnato ed iniziava a ricevere alle 7.45.
L'appuntamento di quella mattina di novembre era un appuntamento importantissimo e fu concesso alle 7 in punto ma non si presentarono principi o imprenditori bensì modesti contadini e qualche contabile; erano i sionisti, i pionieri che stavano bonficando Israele.
Saltarono i convenevoli e vennero al dunque.
Aaron Zuckerman il capo della delegazione aprì la cartina sulla scrivania di James Rotschild e, puntando il dito in una zona tra Tel Aviv e Haifa, disse semplicemente : "è qui".
Rotschild : “cosa?”
Rotschild : “Ho gia' dato tanti soldi per comprare Rishon !” *
Rotschild : "gli arabi ci vendono le terre a prezzi dieci volte maggiori ill loro valore perche sanno che a noi servono. Sono terre sabbiose, malariche ed incoltivabili, questa zona è assolutamente inutilizzabile; non butto altri soldi in imprese folli"
Aaron Zuckerman: " Signor Rotschild, le terre che gli Inglesi ci hanno date sono poche, non bastano. Dobbiamo coninuare a comprare dagli Arabi, le bonificheremo, ci pianteremo gli eucalipti e poi piano piano..."
Rotschild:" piano piano cosa? Gli eucalipti non si mangiano. Ci vorranno decenni; non avete macchinari ne’ sementi nè attrezzature nè Forza lavoro, è una impresa impossibile,. NO no, la mia risposta è no."
Aaron Zuckerman rimase in piedi immobile come se non avesse sentito; No era una risposta che non poteva semplicemente accettare. Aveva negli occhi quella luce..quella luce che hanno i sognatori che non si arrendono mai, che vedono quello che non c'e' ma sanno che ci sara'.
Zuckerman : “ La prego Sir Rotschild, gli ebrei sono perseguitati in tutto il mondo e verrrano a rifugiarsi in Israele ma dobbiamo far trovare loro terre e campi coltivabili, per ora è solo deserto….non avranno di che nutrirsi…”
Rotschild: "E allora?, ho detto no; vi prego andate in pace ho mille impegni, faccio tanta beneficenza ma questo progetto è folle e assurdo. Andate in pace ora….., beazhlahà".
( Beazlaha=che abbiate successo -in ebraico).

Usciti i Pionieri, Rotschild prese la sua tazza di te- la prima della giornata- e scostò la tenda per guardare la città da dietro la finestra. Vide il fumo delle ciminiere, la pioggia e la nebbia di novembre che sovrastava il tutto…il fango nella strada di una Parigi invernale e triste…….
.. Poggiò la tazzina di scatto sul tavolo ed urlò alla segretaria di fermare i Zionisti prima che uscissero dall'edificio.
Aaron Zuckerman si ripresento immediatamente :" eccoci signor Rotschild, che c'è?"
Rotschild: " Va bene …..va bene ; avrete i soldi…. comprerò i terreni dagli Arabi ai loro prezzi gonfiati, non importa ma voglio una cosa, anzi due".
Zuckerman:"prego".
Rotschild:" voglio che costruiate una città, piccola ma bella bellissima, dovranno esserci giardini, piante, aiuole e tanti fiori… con tante panchine all'ombra che i vecchi possano riposare nei pomeriggi d'estate....dovrà sembrare un giardino....la dedicherete a mia moglie Chana.
I Sionisti si guardarono in faccia scettici: “ Vede Signor Rotschild non è cosi' facile nè sicuro che riusciremo a...."
Rotchild li interruppe : "Poi voglio un'altra cittadina, piccola ma con attorno boschi con animali selvatici liberi e anche dei vigneti per farne il nostro buon vino ebreo e ci metterete i cavi della elettricità, il telefono e tutte le cose moderne possibili. Sarà dedicata alla memoria di mio padre " Yaaqov" .
Aaron Zuckerman guardò il barone Rotchild senza riuscire a fermarlo...perchè poi fermarlo ?
In fondo, ora, vedeva negli occhi del barone quella stessa luce; quella luce che avevano i Sionisti , i sognatori folli. Far crescere frutta e fiori nel deserto? Un sogno, una follia niente di piu’.
Rotschild: “ allora Signor Zuckerman; se non credete nemmeno voi ai vostri sogni come potrò mai fidarmi di lei? Qual’è la vostra risposta dunque?”
Zuckerman avrebbe voluto dire che sarebbero stati fortunati a coltivare qualcosa di commestibile ma senza grosse aspettative; che le richieste del suo interlocutore erano esagerate ed impossibili ma si trattenne dal farlo , sorrise e disse semplicemente:
“' Signor Rotschild …...avrete le vostre due città, ve lo giuro sulla testa dei miei cinque figli”"

Che poi in fondo promettere non costa niente e tanto ci sarebbero voluti tanti di quegli anni, chissa' se mai...chissà.
Pomodori e fiori nel deserto? Giardini?........Ma su andiamo, siamo seri.
Però....però....

Però , se venite in Israele - e veniteci perchè è un paese bellissimo,. Da Tel Aviv prendete la strada per Haifa in direzione nord. La numero 4.
Dopo un’ora e mezzo circa Incontrerete una città giardino, - Pardes Chana- (Il giardino di Chana come la moglie del Barone Rotschild) Con tanti fiori e case basse ad un piano immerse nel verde e le panchine nelle piazze all’ombra per dare refrigerio ai vecchi d’estate.
.Andando avanti sulla stessa autostrada troverete una cittadina adagiata su due colline con un bel boschetto e delle vigne e con tanti bei viali alberati; ristorantini e boutique nelle stesse case coloniche utilizzate 100 anni fa per bonificare la zona….E i vigneti che ancora oggi producono il vino ebreo..

Ziqron Yaqov si chiama la città ( Ziqron= Ricordo-memoria di Yaqov il padre di Sir Rotschild.)
Ma aspettate, non è finita, in mezzo alle due cittadine ve ne è una terza: BENJAMINA, piccolina ma deliziosa….non era prevista e fu dedicata a Sir Benjamin James Rotschild che rese possibile tutto questo. Perchè in fondo quando ci vuole , ci vuole.

Giardini laddove c’era il deserto . Questo fu il Sionismo; il sogno impossibile di chi non ha mai smesso di sognare.

Buon compleanno Israele e che tutti sappiano come sei nata.

Tel Aviv 01 05 2017

*( Rishon Le Zion , rishon=primo, il primo appezzamento di terra comprata dai Zionisti in Israele ).



El sionixmo nol xe envaxion e gnanca cołognałixmo
viewtopic.php?f=197&t=2124
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Coel parlamento veneto de tuti i veneti mai nato

Messaggioda Berto » dom mag 07, 2017 4:58 pm

https://www.facebook.com/groups/2376236 ... f=NEWSFEED


Alberto Pento

Anca Trentin el ga senpre enamente Venesia come se el Veneto el fuse lomè ke Venesia e come se Venesia no la ghèse grandi colpe e grandi responsabełetà par ła mexera fine de ła Repiovega Veneta a domegno venesian, ke Venesia non ła ga vesto l'entełijensa poledego-storego-cultural e ł sentimento veneto de farla deventar domegno de tuti i veneti.

Coel parlamento veneto de tuti i veneti, mai nato e ke i venesiani ke łi gheva el poder no łi ga mai promòso
viewtopic.php?f=183&t=2597

Co l'exaltasion acretega de ła Serenisima e co l'idolatra mito de San Marco el Veneto nol gavarà mai pì gnaona endependensa.

I veneti, quando c'era la Repubblica Veneta a dominio veneto-veneziano, non hanno saputo/voluto creare-costruirsi una classe dirigente politica di tutti i veneti (e quindi formare un popolo, uno stato e una nazione veneta a partecipazione e sovranità di tutti i veneti), come pensi che possano farlo oggi che i veneti non sono più sudditi di altri veneti ma sono sudditi e servi e schiavi di gente non veneta a cui la libertà e l'indipendnza del Veneto e dei veneti è una eventualità da impedire a tutti i costi?


Raffaello Domenichini
Un tarlo fastidioso nella coscienza o meglio un'ombra che più si definisce quanto piú si illumina la facciata della questione. Ma (Pento) togliamo la tonaca di giudici, usiamo luci diffuse, antitarlo e lavoriamo ad una nuova coscienza. Che diresti?

Alberto Pento
Io lo sto facendo con me stesso; la tonaca di giudice è una reazione agli arroganti, antiveneti e antidemocratici atteggiamenti sentenzialisti altrui. Come vedi non vi è dibattito laddove la coscienza è preda o invasa dal dogma e dal mito che tutto oscurano, deprimono, falsificano, esaltano acriticamente ... . La storia va recuperata in modo corretto, quella di tutti e con le relative grandezze e miserie, colpe e responsabilità. Non si possono esaltare i veneziani e deprimere/disprezzare gli altri veneti che oltretutto sono la maggioranza e oggi quella che sorregge il Veneto e la stessa Venezia. Purtroppo si è formato un grumo castuale di potere sclerotizzato sul mito di Venezia e legato a taluni partiti politici, a una idolatria religiosa con punte di antisemitismo, a interessi di prestigio personali ed economici ... .

Alberto Pento
Na bona clàse dirixente ła cognose o ła çerca da cognosar tuta ła storia de ła so xente, ła ga enamente e 'ntel cor tuta ła so xente, ła ga amor e atension par tuta ła so tera e tuta ła so xente e no lomè ke par na parte;
na bona clàse dirixente no ła xe rogante e prexountuoxa, ła ga cosiensa de coel ke xe capità, de łe colpe, de łe peke, de łe magagne, de łe responsabełetà de ognoun e de tuti; no ła ga sprèso par gnaona parte de ła so tera e de ła so xente; ła dà el bon somexo e ła xe al servisio de ła so xente e soratuto no ła xe na casta.


Raffaello Domenichini
Quel pezzo di storia è come il nocciolo radioattivo che colate di cemento nascondono ma non spengono. Nemmeno a me piace quel discorso ma negarlo o nasconderlo sarebbe ipocrisia. Infatti, pur anch'io lasciandomi trascinare dall'entusiasmo, arrivo a certi "perché" dove la soluzione convincente, la trovo nei tuoi ragionamenti che quadrano.
Quel pezzo di storia è come il nocciolo radioattivo che colate di cemento nascondono ma non spengono. Nemmeno a me piace quel discorso ma negarlo o nasconderlo sarebbe ipocrisia. Infatti, pur anch'io lasciandomi trascinare dall'entusiasmo, arrivo a certi "perché" dove la soluzione convincente, la trovo nei tuoi ragionamenti che quadrano.
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Re: Coel parlamento veneto de tuti i veneti mai nato

Messaggioda Berto » dom mag 07, 2017 5:05 pm

Perché tanti veneti e lombardo-veneti han preferito Napoleone e la sue municipalità democratica e la sua Repubblica Cisalpina alo stato veneto veneziano con la sua aristocrazia veneziana?

El caxo de Foscoło
https://it.wikipedia.org/wiki/Ugo_Foscolo
Ugo Foscolo, nato Niccolò Foscolo (Zante, 6 febbraio 1778 – Londra, 10 settembre 1827)
Foscolo nacque sull'isola greca di Zante (nota anche come Zacinto, cui dedicherà uno dei suoi più celebri sonetti), possesso plurisecolare della Repubblica di Venezia, il 6 febbraio del 1778, figlio di Andrea Foscolo (Corfù, 1754 - Spalato, 13 ottobre 1788), medico di vascello di origini veneziane, e della greca Diamantina Spathis (o Spathys; settembre 1747 - 28 aprile 1817), che si erano sposati a Zante il 5 maggio 1777 secondo il rito cattolico. Primogenito di quattro fratelli, lo seguivano la sorella Rubina (dal nome della nonna materna) (21 dicembre 1779 - 1867), e i due fratelli morti suicidi Gian Dionisio (detto Giovanni Dionigi o Giovanni; Zante, 27 febbraio 1781 - Venezia, 8 dicembre 1801) e Costantino Angelo (detto Giulio; Spalato, 7 dicembre 1787 - Ungheria 1838).

Il soggiorno a Padova e l'esilio sui colli Euganei (1796-1797)
Melchiorre Cesarotti

Intanto, il giovane poeta mostrava segni di insofferenza verso la società veneziana e i suoi salotti, votati all'esteriorità e alle convenzioni, e lontani quindi dal suo spirito libero. Decise pertanto di effettuare un soggiorno a Padova, stimolato dai fermenti culturali della città come dal desiderio di conoscere Cesarotti e i suoi seguaci. Nel luglio del 1796 giunse quindi a Padova, dove incontrò il traduttore dell'Ossian.[36]

Durante l'anno Foscolo scrisse alcuni articoli sul Mercurio d'Italia che destarono i sospetti del governo veneto; ai primi di settembre partì per un soggiorno sui colli Euganei. La tradizione critica ha pensato che tale spostamento fosse dovuto a una persecuzione politica nei suoi confronti[37], o ancora ad una necessità di riprendersi dopo una delusione amorosa[38]; tuttavia, sappiamo anche che in quei giorni Padova era funestata da un'epidemia di vaiolo, e le truppe militari francesi cominciavano inoltre a entrare in città. In mancanza di documenti storici e epistolari che dimostrino con certezza perché il Foscolo scegliesse il trasferimento in campagna, sono due elementi da tenere ugualmente in considerazione.[39]
I rapporti con il mondo rivoluzionario veneziano (1797)

Dopo il successo del Tieste, Foscolo fece con ogni probabilità un secondo soggiorno a Padova in marzo; frequentò verosimilmente le lezioni di Cesarotti all'università ma il rapporto con il padre spirituale andò progressivamente raffreddandosi, tanto che con il mese di marzo cessano i contatti epistolari tra i due, e l'uno si astiene addirittura dal nominare l'altro nelle proprie lettere per un periodo di quasi sei anni.[40] Tra le altre cose, Foscolo aderiva con fervore crescente agli entusiasmi repubblicani, mentre Cesarotti assisteva con disillusione agli sconvolgimenti politici; sappiamo che in aprile viveva di fatto confinato in campagna.[41]

In seguito Foscolo fu prima a Venezia e poi a Bologna, dove prestò brevemente servizio come volontario tra i Cacciatori a cavallo della Repubblica Cispadana. Chiese quasi subito con successo di esserne dispensato a causa della salute precaria e di una ferita.[42] Durante il breve periodo felsineo diede alle stampe l'ode A Bonaparte liberatore, molte copie della quale furono inviate dalla Giunta di Difesa bolognese alla Municipalità di Reggio Emilia, città cui il Foscolo aveva dedicato la poesia, in quanto era stata la prima a innalzare il tricolore.[43]

Foscolo tornò in laguna quando seppe che il 12 maggio a Venezia l'oligarchia dogale aveva ceduto alle pretese napoleoniche di costituire un « Provvisorio Rappresentativo Governo ».[44] Fu una lettera del patriota Almorò Fedrigo a informarlo; Foscolo la fece pubblicare il 16 maggio sul Monitore bolognese e nei medesimi giorni lasciò la città felsinea.[45]

Il 16 maggio stesso offriva con una lettera alla Municipalità di Reggio Emilia l'ode A Bonaparte liberatore dicendo di correre verso Venezia « a spargere le prime lagrime libere ». Annunciava inoltre di voler portare a compimento una « tragedia repubblicana », il Timocrate, e « una cantica lirica intitolata la Libertà italica », di cui l'ode « non era che un prodromo ».[46] In realtà né della tragedia né della Libertà italica è rimasta traccia; il Timocrate viene ancora nominato un'unica volta il 14 agosto 1798 quando Foscolo, rivolgendosi alla Società del Teatro patriottico di Milano, sostiene di lavorarci da mesi e promette, dopo averlo finito, di « assoggettarlo » alla Commissione della Società.[47] Appena ritornato in laguna, il 23 maggio ricevette da Bologna la nomina a tenente onorario aggregato alla Legione Cispadana.[48]

Tra il maggio e la fine dell'estate compose l'ode Ai novelli repubblicani, ricca di fervore libertario, dedicata al fratello « Gioan-Dionigi », che apparve prima in un opuscolo in cui, oltre alla poesia, figuravano « la dedica al fratello Gioan-Dionigi », « la lettera di Bruto a Cicerone tolta da Plutarco » e « i chiarimenti » di alcune strofe e, subito dopo, sull'Anno poetico del 1797, dove seguiva il sonetto A Venezia, scritto probabilmente nel 1796 e, a differenza dell'ode, prima della caduta della Serenissima.[49]

https://it.wikipedia.org/wiki/Ultime_le ... copo_Ortis
Il romanzo si ispira alla doppia delusione avuta da Foscolo nell'amore per Isabella Roncioni che gli fu impossibile sposare e per la patria, ceduta da Napoleone all'Austria in seguito al Trattato di Campoformio. Il romanzo ha, quindi, chiari riferimenti autobiografici. Nella forma e nei contenuti è molto simile a I dolori del giovane Werther di Goethe (anche se a tratti richiama la Nuova Eloisa di Jean-Jacques Rousseau); per questo motivo alcuni critici hanno addirittura definito il romanzo una brutta imitazione del Werther. Tuttavia, la presenza del tema politico, assai evidente nell'Ortis e appena accennato nel Werther segna una differenza rilevante tra i due libri. Inoltre si avvertono la presenza dell'ispirazione eroica di Vittorio Alfieri e l'impegno civile e politico del poeta in quegli anni.
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Re: Coel parlamento veneto de tuti i veneti mai nato

Messaggioda Berto » dom mag 07, 2017 5:09 pm

1. La caduta - Dopo le epiche lotte contro i Turchi, la Repubblica di San Marco aveva iniziato la sua parabola discendente.
http://www.centrostudiluccini.it/pubbli ... rangon.pdf

Erano scomparse le generazioni dei sagaci ed intraprendenti mercanti veneziani e l’oligarchia nobiliare, da secoli al potere, si era arroccata nei suoi possedimenti di terraferma: un terzo delle campagne venete era posseduto dai nobili veneziani e solo un quinto dalla vecchia nobiltà locale. Questa ricca aristocrazia aveva perduto il contatto con la realtà adagiandosi in un indolente pragmatismo, preoccupata solo di conservare le sue rendite con il risultato di aggravare il distacco tra Venezia e la terraferma.
In buona sostanza in tutta la sua storia l’aristocrazia veneziana è stata prevalentemente, per non dire esclusivamente, interessata ai “schei” ???: prima a quelli provenienti dal ricco commercio con l’oriente, e negli ultimi secoli della sua storia a quelli derivanti dallo sfruttamento delle fertili campagne venete.
*
I fatti ed i dati citati in questo intervento sono noti, e rinvenibili nelle copiosa letteratura esistente sull’argomento. Si omettono perciò i riferimenti testuali, superflui ai fini del ragionamento.
In quest’ultimo periodo vengono decisamente respinti i progetti riformatori di Andrea Memmo, un nobile illuminato, propugnatore della libertà di mercato e dell’instaurarsi di un nuovo rapporto tra la città e il territorio. A lui si deve l’iniziativa, solo parzialmente realizzata, della sistemazione del Prato della Valle padovano.
Vengono pure repressi con durezza i successivi tentativi riformatori di Anzolo Querini, e poi di Giorgio Pisani assieme a Carlo Contarini.
Non si capisce nulla o quasi di quanto sta avvenendo in Europa, e la Rivoluzione Francese viene a lungo considerata come una tempesta lontana che non riguardava direttamente la Serenissima e non certo una svolta epocale, ma solo come l’ultimo anello di quella serie di eventi che aveva avuto il suo inizio con la nascita degli Stati Uniti d’America.
Non si ha per niente la percezione dell’uragano che avrebbe sconvolto l’Europa e travolto la Serenissima. Non ci si preoccupa di cercare alleanze né di adottare un minimo di misure difensive.

Il doge Paolo Renier amaramente constatava: «No gavemo forze, non terrestri, non marittime, non alleanze; vivemo a sorte per accidente, e vivemo co la sola idea della prudenza del governo della Repubblica veneziana. Questa xe la nostra forza». Filosofia politica molto chiara: non muovere niente, altrimenti crolla tutto: galleggiare per sopravvivere.

Come aveva previsto sul letto di morte: «L’erario xe in sconquasso, ocore on ricon, e i farà Lodovico Manin». Costui infatti, pauroso grande latifondista friulano, divenne doge; la sua unica forza erano i soldi.
Di lui i veneziani dicevano:
El dose Manin
dal cuor picinin;
l’è streto de man,
l’è nato furlan.
Il governo della Serenissima controllava con i suoi “confidenti” (oggi li chiameremmo “infiltrati”) gli ambienti sospetti e, in particolare, quelli universitari di Padova. Il neutralismo e il pacifismo ad oltranza non si rifacevano a nobili ideali, ma piuttosto alla tradizionale gretta avarizia.
Giacomo Casanova scriveva che il riarmo «appariva troppo costoso alla schifosa avarizia e inutile alla vigliacca lungimiranza» della nobiltà veneziana che nel Settecento, come si è detto, si era opposta ad ogni azione riformatrice. Il neutralismo e il pacifismo avevano quindi un solo motivo: la paura di dover spendere per il riarmo; i nobili veneziani erano cioè neutrali per avarizia.
Nel maggio del 1794 la maggioranza dei senatori aveva votato a favore della neutralità armata, ma poi il doge negò al provveditore Francesco Pesaro i mezzi necessari al riarmo dell’esercito. Non si volle affidare la riorganizzazione dei presidi di terraferma ad un “Provveditor generale”, e ciò che emerse fu un «assoluto sprovvedimento di ogni mezzo militare».

Poco più tardi alcuni giovani nobili proposero di «armare estraordinariamente» la Repubblica, ma la proposta venne respinta dal Senato a causa della «grandiosa spesa occorrente». Solo dopo che Parigi ebbe dichiarato guerra all’Austria e le vittorie di Napoleone in Piemonte (aprile 1796) ci si decise a tentare qualche passo, ma l’ambasciatore veneziano a Parigi, Alvise Querini, diede prova lampante di insipienza politica tentando di corrompere un membro del Direttorio (anche allora c’erano le bustarelle!) ma non aveva capito che Napoleone si muoveva autonomamente.

Intanto cominciava la disgregazione della Serenissima. Il 12 e il 18 marzo 1797 Bergamo e Brescia si ribellarono a Venezia, e si costituirono in libere repubbliche.

Poi gli eventi precipitarono rapidamente, e Napoleone mostrò di non tenere in alcun conto la libertà dei popoli dando prova di cinismo opportunista.
Gli accordi preliminari di pace con l’Austria (Leoben, aprile 1797), pur nella loro genericità, lasciavano intendere che la Repubblica di San Marco avreb-be continuato ad esistere come Stato sovrano. Lo stesso Bonaparte affermò che Venezia era «la plus digne de la libertè de toute l’Italie», ma erano solo parole. Venezia e il Veneto gli servivano come merce di scambio per la pace con l’Austria.
A dire il vero il Direttorio insistette perché Venezia non venisse sacrificata.
Ci fu anche chi propose un’alleanza con Venezia contro l’Austria, ma la conservatrice oligarchia nobiliare veneziana preferì la fine della Serenissima ad una alleanza con i giacobini francesi, e Napoleone aspettava solo un pretesto che puntualmente venne.
A Verona il 17 aprile 1797, secondo giorno di Pasqua, scoppiò una rivolta antifrancese (“le Pasque veronesi”), e dopo una settimana non rimase in città un solo francese. Non si trattava di fedeltà a San Marco, ma di reazione dei veronesi alle prepotenze e alle razzie dei soldati francesi. C’è anche chi sostiene che la rivolta era stata fomentata da agitatori francesi per giustificare l’occupazione.
I soldati rioccuparono infatti la città, ed imposero una contribuzione di 170.000 zecchini con la consegna delle opere d’arte e delle argenterie di tutte le chiese. Napoleone si mostrò infuriato e promise: «Sarò come un Attila per Venezia: basta Inquisitori di Stato, basta Libri d’oro; il vostro governo è decrepito».
Ai deputati veneziani Donà e Giustinian, che lo avevano raggiunto a Graz, Napoleone ribadì: «Non voglio più Inquisizione, non voglio più Senati. Sarò un Attila per lo Stato veneziano».
Poi arrivò il secondo pretesto. Dal forte di Sant’Andrea al Lido venne cannoneggiata e arrembata dai dalmati a servizio di Venezia la nave francese “Liberateur d’Italie” che aveva tentato di entrare in laguna all’inseguimento di una barca da pesca chioggiotta.

Il 1° maggio 1797 Napoleone dichiarò guerra alla Serenissima che cedette di colpo senza nemmeno un sussulto d’orgoglio. Eppure poteva difendersi: c’erano in città 11.000 fedelissimi dalmati (gli Schiavoni), 3.500 soldati veneti, 800 bocche da fuoco, 206 imbarcazioni di guerra.
Probabilmente con questo atteggiamento di totale remissività il patriziato pensava di salvare le sue vastissime proprietà terriere.
Alle tre pomeridiane del 12 maggio 1797 il Maggior Consiglio, in una convocazione formalmente illegale poiché per la validità della riunione sarebbero state necessarie 600 presenze mentre i patrizi presenti erano solo 537, «con voti 512 di sì, 20 di no e 5 non sinceri [e cioè astenuti]», deliberava
di trasferire i poteri a un “Provvisorio Rappresentativo Governo” sperando che ciò incontrasse i desideri del “generale”, vale a dire di Napoleone.
Non era l’ultimo ruggito del glorioso leone, ma solo un belato, un miagolio della “gatta” secondo l’ironica defi
nizione dei padovani. Finiva così, senza dignità, una storia gloriosa durata quattordici secoli.
Di diverso avviso si mostrò il popolo veneziano. Quando Sebastisano Salimbeni annunciò l’evento alla folla
che gremiva la Piazzetta, concludendo con il grido “Viva la libertà”, la folla urlò “Viva San Marco”, e in città divampò la rivolta dimostrando così che non corrispondeva alla realtà la tesi di una popolazione veneziana oppressa perché se tale fosse stata sarebbe andata in piazza a manifestare la sua gioia. Va precisato che si parla di Venezia, e non delle città fino ad allora sottoposte al suo dominio.
Gli unici a resistere furono gli Schiavoni dalmati e croati, parte dei quali, guidati dal patrizio Foca Morosini, partì per Zara portando il gonfalone di San Marco che venne sepolto nell’altare del Duomo.
I francesi procedettero senza tanti scrupoli, trafugando un immenso patrimonio d’arte (opere del Carpaccio, dei Bellini, del Tiepolo, del Guardi, del Tintoretto...); si portarono a Parigi anche i quattro cavalli di bronzo della Basilica.
Tornati, dopo la breve parentesi dell’occupazione austriaca, tra il 1800 e il 1810, fecero demolire 72 chiese veneziane su 187, e soppressero quasi tutte le comunità religiose. Tra le chiese demolite vanno ricordate S. Geminiano del Sansovino, S. Paternian con il caratteristico ed unico campanile a pianta pentagonale, e Santa Lucia dove è ora la stazione ferroviaria.
Per far posto ai giardini venne demolito un intero quartiere con le chiese di S. Antonio e S. Nicolò nonché il seminario ducale. E S. Aponal divenne carcere politico; Santa Maria delle Vergini venne trasformata in penitenziario, Santa Marina in osteria.
Le spoliazioni e l’atteggiamento sprezzante dei francesi spiegano perché nel 1813 le truppe asburgiche furono accolte come liberatrici: anche quella era una illusione.
Si può anche rilevare che la dissoluzione della oligarchia veneziana nel 1797 anticipò, in qualche modo, l’8 settembre 1943: in entrambi i casi finì per ignavia una continuità statuale.

2. La breve illusione della Municipalità padovana

Se Venezia pianse, Padova non rise. La città venne occupata dai francesi il 28 aprile 1797 e il generale Lamoz, accolto dall’abate Alvise Savonarola, animatore filo-francese del salotto dei Papafava, fece subito erigere in Prato della Valle un albero della Libertà.
Ma, ancora una volta si ebbe la dimostrazione che è precaria ogni libertà portata sulla punta di baionette straniere. Infatti l’occupazione francese segnò per Padova (e per il Veneto) l’inizio di una fase convulsa con otto avvicendamenti nel breve volgere di poco più di un quindicennio:
i francesi dal 28 aprile 1797 al gennaio del 1798;
gli austriaci dal 18 gennaio 1798 al 9 gennaio 1801;
i francesi dal 10 gennaio 1801 al 6 aprile 1801;
gli austriaci dal 7 aprile 1801 al 5 novembre 1805;
i francesi dal 6 novembre 1805 al 26 febbraio 1809;
gli austriaci dal 27 febbraio 1809 all’10 aprile 1809;
i francesi da metà aprile 1809 al 7 novembre 1813;
gli austriaci dal novembre 1813 fino al 1866.

La città, quindi, per quindici anni, venne continuamente sconvolta. Il giorno dopo il primo arrivo dei francesi (28 aprile 1797) il generale Teuliè insediò la Municipalità che, a ragione, venne definita “una rivoluzione ad opera della nobiltà”, la vecchia nobiltà terriera. Infatti ne facevano parte:
Girolamo Albertini,
Lorenzo Baldan,
Prosdocimo Brazzolo,
Girolamo De Rio,
Girolamo Dottori,
Gio Batta Ferrighi,
Giuseppe Fogarolo,
Stefano Gallino,
Girolamo Lazara,
Luigi Mabil,
Antonio Nalin ,
Giacomo Nalin
Fabrizio Orsato,
Girolamo Polcastro ,
Bartolomeo Prati,
Giuseppe Rossi,
Michele Salomon,
Alvise Savonarola,
Giovanni Scardova,
Simone Stratico,
Antonio Vigodarzere,
Francesco Zorzi.

In seguito ad una ordinanza del generale Brune (16 giugno) i membri della Municipalità salirono a trenta.
In realtà i giacobini padovani erano solo alcune decine, e si trattava per lo più di membri di alcune famiglie aristocratiche (i Papafava, i Capodilista, i Dondi dall’Orologio, che si ritrovavano nei salotti di Arpalice Papafava e di Francesca Capodilista) o di grandi proprietari terrieri come i Cittadella ed i Vigodarzere.

Diversi erano giacobini e rivoluzionari solo a parole; se ne ebbe la riprova quando, dopo Campoformio, si mostrarono filo austriaci. Era chiaro che badavano solo a difendere le loro proprietà ed i loro privilegi, indifferentemente con i francesi o con gli austriaci.
Decomposta la Serenissima e crollate secolari strutture di potere, la Municipalità, per quanto affermasse di agire «in nome della sovranità del popolo» come si legge nel proclama del 18 maggio, non poté esercitare effettive prerogative proprie.

Neppure Venezia ebbe un trattamento diverso. Il 16 maggio era stato firmato a Milano il trattato di pace con condizioni molto dure: una indennità di tre milioni in merci, di tre milioni in attrezzature, la consegna di tre vascelli. Napoleone, con la tipica tattica del bastone e della carota, riconosceva alla Municipalità provvisoria prerogative costituzionali e il diritto di rappresentanza internazionale.

Ogni città veneta ebbe la sua Municipalità e tutte ebbero due caratteristiche comuni: erano antiveneziane e viziate da particolarismo municipale, il che fece il gioco di Napoleone e stemperò i grandi ideali di libertà e di eguaglianza.
Le diverse Municipalità non riuscirono a trovare una base, sia pur minima, di accordo tra loro. I tre congressi dei deputati veneti, tenutisi a Milano, Bassano e Venezia, fallirono poiché «invece di unirsi, furono maggiormente divise le veneta province». Prevalsero i campanilismi, nobilitati in tempi a noi più vicini dal termine “policentrismo”.
Già, allora ci fu chi propose la soluzione federalista, come il bellunese Giuseppe Fantuzzi: ogni Municipalità una repubblica, e tutte riunite in un governo federale. Ma la proposta cadde.


Intanto il 29 luglio 1797 era stata proclamata la costituzione della Repubblica Cisalpina.

Dopo un plebiscito che aveva visto 78.382 sì e 34.259 no, la Municipalità di Padova dichiarò di preferire l’unione alla Lombardia piuttosto che quella con le altre città venete. Nella regione vennero raccolte 300.000 firme di adesione alla Repubblica Cisalpina, ulteriore conferma che non se ne voleva in alcun modo sapere di Venezia.
Padova, il 1° luglio 1797, divenne capoluogo di un Dipartimento comprendente, oltre al territorio padovano, anche il Polesine con Adria e Rovigo.


La stagione delle illusioni e degli entusiasmi durò pochi mesi. Il 14 ottobre 1797 si riunì a Venezia il Congresso nazionale veneto con la partecipazione dei delegati di Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Udine e Venezia. Era l’estremo tentativo di salvare almeno l’unità dei veneti. Sembrò prevalere la tesi dell’unione alla Repubblica Cisalpina.
Venezia fu l'ultima delle Municipalità ad accettare la proposta di unione cullandosi ancora nell’ipotesi di una autonoma repubblica di Venezia e del Veneto.
Tre giorni dopo (il 17 ottobre) Napoleone firmò con l’Austria il trattato di Campoformio cedendole il Veneto con l’Istria e la Dalmazia; Bergamo e Brescia furono unite alla Repubblica Cisalpina, e la Francia si prese i possedimenti veneziani dell’Egeo.

In un disperato ma inutile tentativo di evitare la cessione all’Austria venne indetto un referendum per il 28 ottobre 1797: 12.725 furono coloro che confermarono la volontà di indipendenza e 10.843 quelli che si dichiararono per l’accettazione delle decisioni.

Il 18 Gennaio gli austriaci entrarono a Venezia, e nello stesso giorno a Padova. Nello stesso mese commissari austriaci sostituirono le Municipalità.
A dimostrazione di quale fosse l’atteggiamento dei padovani c’è l’episodio del 20 gennaio 1798 quando Gerolamo Polcastro, membro della Municipalità padovana, assieme al medico Stefano Gallino, pure lui membro della Municipalità, si recò a Mestre per incontrare il generale austriaco Klenau.
C’erano con loro la moglie del Polcastro, la contessa Caterina Papafava, e la contessa Lazzara, moglie di Gerolamo Da Rio, altro nobile padovano pure lui membro della Municipalità. Quando, tornando da Mestre, arrivarono al Portello, furono quasi linciati dalla popolazione che temeva il ritorno del dominio veneziano.
È del tutto comprensibile il dramma e l’amarezza dei sostenitori della Municipalità che si sentirono traditi nei loro ideali, imparando così a proprie spese che la libertà è sempre una conquista, mai un dono. Paradigmatica è stata l’esperienza di Ugo Foscolo, decisamente giacobino e segretario provvisorio della Municipalità veneziana con l’incarico di compilare i processi verbali delle pubbliche discussioni.
È facile immaginare, quando venne a sapere di Campoformio, la sua cocente delusione che rimane documentata con trasfigurazione letteraria nelle “Ultime lettere di Jacopo Ortis”, scritte a Feriole di Abano. Il 9 novembre si dimise dall’incarico, e partì per Milano in volontario esilio.
Rimane da dire che le Municipalità venete, pur nello loro breve e tormentata esistenza, portarono ad un rilevante mutamento nella dislocazione del potere che passò definitivamente in buona parte dall’aristocrazia alla borghesia. E non fu certamente un fatto di poco conto.


Andrea Memmo
https://it.wikipedia.org/wiki/Andrea_Memmo

Andrea Memmo (Venezia, 29 marzo 1729 – Venezia, 27 gennaio 1793) è stato un letterato, politico e diplomatico italiano, al servizio della Repubblica di Venezia. Era figlio di Pietro e di Lucia Pisani e apparteneva a una delle cosiddette famiglie apostoliche, cioè quelle di più antica nobiltà in Venezia.
Andrea Memmo (Venezia, 29 marzo 1729 – Venezia, 27 gennaio 1793) è stato un letterato, politico e diplomatico italiano, al servizio della Repubblica di Venezia. Era figlio di Pietro e di Lucia Pisani e apparteneva a una delle cosiddette famiglie apostoliche, cioè quelle di più antica nobiltà in Venezia.


https://books.google.it/books?id=jkBmAA ... mo&f=false


Angelo Querini
https://it.wikipedia.org/wiki/Angelo_Querini
Angelo Querini (Venezia, 31 luglio 1721 – Venezia, 30 dicembre 1796) è stato un politico italiano della repubblica di Venezia, patrizio della famiglia Querini di San Severo.
Fu senatore e ricoprì anche altre importanti cariche nella Repubblica di Venezia. Convinto sostenitore delle idee di rinnovamento, si schierò col partito dei riformatori che fu regolarmente sconfitto fino alla nomina dell'ultimo doge, Ludovico Manin, che non riuscì ad opporsi al tramonto della Repubblica, passando alla storia come esempio di conservatorismo miope e arrogante.
La sua azione di contrapposizione all'ala moderata si risolse in una reclusione della durata di due anni, a partire dall'agosto 1761, trascorsa nel carcere di Castelvecchio (ora museo civico) a Verona. Il sospetto di essere portatore di idee liberali era accompagnato a quello di aver aderito alla massoneria. Poiché al momento dell'arresto Querini ricopriva la carica di avogador de comun il fatto trascese il caso personale e costituì una grave crisi istituzionale.
Disgustato dalla vita politica si ritirò, per la più parte del tempo, nella sua villa di Altichiero, presso Padova che divenne un esempio molto noto in Europa di domus patrizia di campagna, luogo di ritrovo per intellettuali e salotto culturale. La villa fu abbellita nel tempo da numerosissime statue e la sua struttura è stata tramandata da un libro (Alticchiero, Padova 1787) scritto da un'ospite assidua: Giustiniana Wynne.



Giorgio Pisani
https://it.wikipedia.org/wiki/Patriziato_(Venezia)
Una particolare categoria di patrizi era costituita dai nobili decaduti, detti Barnabotti, i quali, dissipatosi il patrimonio di famiglia, mantenevano ugualmente il proprio diritto al voto in maggior consiglio. Verso la fine della Repubblica essi rappresentarono spesso l'ago della bilancia tra le fazioni politiche del Maggior Consiglio, attraverso il mercimonio del proprio voto cui erano spesso dediti: dalla pratica di effettuare la vendita dei voti nel brolo (orto, giardino) di San Marco, deriva il termine odierno di broglio.
Nel corso del XVIII secolo il sistema politico veneziano andò incontro ad una sclerosi. L'aristocrazia nel XV e XVI secolo era molto numerosa, un elevato tasso di natalità tra la nobiltà, unito alla professione mercantile (e di mercante-imprenditore) intrapresa da una parte cospiqua di questo ceto, comportava un governo aristocratico ampio e dai variegati interessi, in cui i nobili poveri erano una minoranza, mentre numerose erano le vicende di mobilità sociale interne al ceto, i rapidi arricchimenti nei commerci con l'oriente e nelle nuove manifatture impiantate in laguna. Nel corso del XVII e XVIII secolo la congiuntura economica peggiorò, sempre più dopo il 1618, l'aristocrazia veneziana fu sempre più dipendente dalle proprie proprietà nella terraferma e nelle colonie, oltre che dalla sinecure pubbliche. In Europa si diffuse l'idea che il commercio e l'industria fossero indegni per l'aristocrazia, un'idea rifiutata dall'aristocrazia veneziana, ma che cambiò comunque la mentalità della nobiltà. Le guerre contro i turchi di metà e fine '600 chiusero per molti anni il commercio con il levante, così come anche nel primo '700, rovinando altre famiglie mercantili o che non avevano saputo diversificare nella terra e negli immobili i loro investimenti. Poche famiglie mutarono considerevolmente e rapidamente il proprio status economico verso l'alto, permettendo ad un gruppo di famiglie, sempre più ristretto, di mantenere una relativamente grande ricchezza, mentre molte altre perdevano costantemente la loro posizione, spesso rimanendo senza nemmeno il denaro per vivere "civilmente" e per avere abiti decenti.

Questo rese i Barnabotti un fenomeno evidente della società veneziana, mentre iniziò una riflessione sul come cambiare le forme di governo. Infatti un gruppo ,che i oligarchi, che raccoglieva le famiglie più ricche, riusciva, anche corrompendo i nobili più poveri, ad escludere i medi e i poveri che non erano al loro servizio, al silenzio. Il governo veneziano, tramite il consiglio dei dieci e gli inquisitori di stato, impediva però le riforme di qualunque tipo (anche perché questi organi erano in mano all'oligarchia che si stava impadronendo dello stato, a suo esclusivo vantaggio). Tentativi di riforma furono tentati, ma mai attuati, in particolare Angelo Querini nel 1761 cercò di ridare potere agli organi più collegiali dell'aristocrazia veneziana, mentre nei tardi anni '70 del XVIII secolo Giorgio Pisani e Carlo Contarini, attraverso la formazione di una sorta di "partito nobiliare", tentarono una riforma complessiva. Al centro delle loro proposte vi era proprio il recupero sociale e politico delle parti più povere e barnabotte della nobiltà veneziana (assegnazione alle giovani patrizie di doti, specie a quelle povere, aumento degli stipendi dei Quaranta e di altri Collegi, concessione di stipendi e donativi per alcune cariche politiche prestigiose, in precedenza gratuite e quindi monopolizzate dai nobili ricchi, in Terraferma e all'estero, fissazione di un'uniforme per i nobili al fine di distinguerli dai plebei, ecc. in pratica creazione di un'aristocrazia "politica" e di servizio, capace collettivamente di governare la città e l'impero); vi erano poi alcune questioni di ispirazione illuministica, come l'opposizione allo spionaggio interno, la libertà di parola, la difesa e ripresa dei commerci ecc. Proprio questo tentativo di "reazione nobiliare", non privo di manovre populistiche a favore dei barnabotti, fu stroncato dalle spie degli inquisitori, che, ben informati, prima accusarono i due (nella primavera del 1780 eletti ad importanti cariche) di aver comprato i voti dei barnabotti, poi, oramai accusandoli di congiurare, carcerano il primo a Cattaro (dove morì, forse avvelenato) e il secondo a Vicenza. Quando arrivarono i francesi e i giacobini Contarini cercò di legittimarsi come avversario del dispotismo degli inquisitori di stato, di cui era stato vittima, ma, riconosciuto per quello che era, e cioè un aristocratico che aveva cercato di modernizzare le strutture della repubblica di Venezia, rimanendo però all'interno della nobiltà, ed anzi rafforzandone il carattere aristocratico, lo emarginarono.


Giuseppe Fantuzzi
http://www.treccani.it/enciclopedia/giu ... Biografico)
di Paolo Preto

FANTUZZI, Giuseppe. - Nato a Belluno il 10 ott. 1762 da Francesco e Bernardina de Castello, trascorse l'adolescenza e la prima giovinezza trasportando abeti e pini sul Piave e di questa sua origine da "un'ignobile famiglia di zatteri" si fece vanto per tutta la vita. A vent'anni fu inviato dal padre, che aveva assunto l'appalto del dazio dei vitelli, a Venezia a curare gli interessi dell'impresa: nella splendida capitale della Repubblica il F. si abbandonò ad una vita dissipata, "distinto" nel gioco delle carte, "più che eccellente" nel biliardo, ma poco attento agli affari della famiglia, che nel frattempo si era aggiudicata anche i lavori di riparazione della rotta del Piave a Quero; egli fece, comunque, fortuna e acquistò una casa in Riva degli Schiavoni. Richiamato a Belluno, si dedicò a studi di storia e fisica, si appassionò agli "enciclopedisti", frequentò i circoli colti e, spinto dall'amore per l'istruzione e dall'"odio per la tirannia", compì un lungo viaggio in Germania e in Russia. Tornato a Venezia, vi conobbe un principe polacco e lo seguì a Varsavia (1793), dove diventò amico di T. Kościuszko ed appassionato sostenitore dei "diritti del popolo"; combatté eroicamente e venne ferito nella battaglia di Praga (vicino a Varsavia) e guidò l'ultima disperata resistenza antirussa, poi, caduta la Repubblica polacca, fuggì travestito da donna a Vienna e rientrò a Belluno.

In una lettera al fratello Luigi, cui suggeriva di cercarsi un mestiere "non di lusso, ma utile alla società", ricordava la sua prima giovinezza trascorsa in un ozio degradante, narrava con ricchezza di particolari la sua partecipazione alla guerra antirussa e traeva una "grande e terribile lezione" da quelle vicende: "Avreste veduto da per voi quai sforzi è obbligato a fare un Popolo per acquistare la sua libertà una volta che l'ha perduta: sforzi degni dell'uomo, ma pur troppo sovente inutili" (Pellegrini, Tre lettere..., p. 11).

Passato "dal remo alla spada e da questa alla penna", promise di stendere le Osservazioni storico-politico-filosofiche sopra gli avvenimenti della Polonia, per presentare all'Europa il "grand'avvenimento della Polonia" "nel suo vero punto di vista", e forse le scrisse davvero negli ozi di Belluno e di Abano tra il 1795 e il 1796, ma sono andate perdute. Inebriato dalla "musica del cannone" (la vera "musica dell'uomo" non quella delle "opere buffe e serie"), trascorreva i suoi giorni tra Venezia e la città natale, tra lo studio e la fremente attesa di un'azione politica che desse concreta realizzazione ai suoi ideali "democratici". Nel gennaio 1795 stampò a Venezia, per i tipi di Antonio Zatta, il volumetto Dei fiumi in cui il "violento disprezzo verso la cultura astratta" si fondeva con "l'avversione ... contro tutti i governi tirannici ed assoluti, ammassi inerti dì leggi, pure teorie che un dispotico atto di arbitrio può sconvolgere a suo piacimento" (Berengo, La società veneta..., p. 217).
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Coel parlamento veneto de tuti i veneti mai nato

Messaggioda Berto » dom mag 07, 2017 5:10 pm

Repubbliche Bresciana e Bergamasca

https://it.wikipedia.org/wiki/Repubblica_Bresciana
Il nome di Repubblica bresciana fu l'appellativo del Governo provvisorio bresciano (18 marzo - 20 novembre 1797), l'amministrazione insurrezionale insediatasi in epoca napoleonica nel territorio dell'attuale provincia di Brescia.
Nacque insieme alla Repubblica Bergamasca a seguito dell'occupazione militare francese delle città di Brescia e Bergamo, allora appartenenti alla Repubblica Veneta. Il 21 novembre confluì nella Repubblica Cisalpina.
A seguito della vittoria presso Lodi (10 maggio 1796), alcune colonne dell'Armata d'Italia entrarono nel territorio della Repubblica di Venezia allo scopo di inseguire l'esercito austriaco sconfitto. Il generale francese Jean-Baptiste Dominique Rusca si incontrò il 25 maggio con il Capitano e Vice-Podestà di Brescia Pietro Alvise Mocenigo presso Coccaglio. Mocenigo accordò a Rusca e ai suoi ufficiali l'ingresso in città a patto che l'esercito francese fosse rimasto all'esterno della cinta muraria. La sera stessa i generali francesi furono ospitati nelle case dei nobili locali, mentre l'esercito si accampò a Canton Mombello. Tuttavia molti soldati francesi scalarono le mura, dato che le porte erano state sbarrate, ed entrarono in città. Due giorni dopo Napoleone Bonaparte fece il suo ingresso a Brescia intrattenendosi con il rappresentante veneto per circa un'ora[3].
L'occupazione della fortezza di Peschiera da parte delle forze austriache comandate dal Generale Liptay e l'ospitalità che Verona diede al "nemico della Repubblica francese, il fratello del condannato Re" servirono a pretesto per occupare militarmente la città il 30 maggio. Al fine di limitare i danni, il Collegio dei Savi propose Francesco Battagia nel ruolo di Provveditore straordinario di Terraferma visto il ruolo svolto da questi come commissario presso l'esercito francese e per la fiducia che Bonaparte pareva riconoscergli.

https://it.wikipedia.org/wiki/Repubblica_Bergamasca
La Repubblica Bergamasca (13 marzo - 29 luglio 1797) fu una municipalità giacobina di epoca napoleonica. Aveva come territorio gran parte dell'attuale Provincia di Bergamo, ossia quella che aveva costituito il Territorio di Bergamo.
Nacque a seguito dell'occupazione militare francese della città di Bergamo, allora appartenente alla Repubblica Veneta, e confluì infine nella Repubblica Cisalpina.
Le truppe francesi del generale Bareguey fecero ingresso a Bergamo il giorno di Natale del 1796, senza combattimenti. In accordo con il podestà veneto, il Conte Ottolini, e il Provveditore Straordinario di Terraferma, Francesco Battaglia,si concordò anche il ritiro delle truppe veneziane dalla città.
Il 13 marzo 1797 veniva così proclamata la Repubblica Bergamasca. Il capitano Ottolini, minacciato di arresto, partiva per Brescia, mentre veniva eletta la nuova municipalità, formata da 24 persone, che istituiva anche la formazione militare della Legione Bergamasca.
Due giorni dopo la Repubblica votava l'annessione alla Repubblica Cispadana, e venivano rimossi i simboli veneti dalle porte delle Mura. L'Albero della libertà veniva eretto in Piazza Vecchia, oltre che nelle contrade.
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Re: Coel parlamento veneto de tuti i veneti mai nato

Messaggioda Berto » dom mag 07, 2017 5:18 pm

L'ultima fase della serenissima - La politica: LA MUNICIPALITA DEMOCRATICA
Storia di Venezia (1998)
di Giovanni Scarabello
capitolo iv

La municipalità democratica
http://www.treccani.it/enciclopedia/l-u ... Venezia%29

2. Le prime municipalità democratiche nei territori della Repubblica Veneta

Avvisaglie di una più scoperta e decisa politica napoleonica di sovversione degli assetti statali veneti si erano avute già prima di Leoben.

Il 12-13 marzo a Bergamo, il 17-18 marzo a Brescia, il 25 a Salò, il 27 a Crema, con una dissimulata copertura dei Francesi (ottimi i servizi segreti dell'armata diretti dal generale Jean Landrieux), si erano avuti i primi pronunciamenti democratici e la costituzione di municipalità provvisorie che avevano preso in mano il governo di quelle città. Le forze sociali maggiormente rappresentate in quei governi municipali erano quelle dei possidenti (ex nobili e no), dei commercianti, dei professionisti, degli studiosi e letterati, con in più qualche prete e qualche artigiano. Scarso era apparso il consenso fra la popolazione.

Quasi subito, pur non incoraggiate concretamente da Venezia, nelle campagne e nelle valli attorno alle città democratizzate si erano manifestate delle resistenze filoveneziane, antifrancesi, anticittadine. Nelle campagne, nelle valli, in montagna, si stava vivendo l'esperienza concreta e durissima del contatto con gli eserciti belligeranti, in particolare quello francese (requisizioni, vessazioni, saccheggi, violenze di ogni tipo). Si temeva che i privilegi, le esenzioni, gli appoggi, che il governo centrale veneziano aveva in ogni tempo bene o male garantito, potessero essere negati dalle città ora che stavano tornando indipendenti da Venezia e perciò si credevano padrone piene, pur se democratizzate, dei territori ad esse afferenti. Poco interessanti, nel concreto, apparivano le novità democratiche. Se c'erano delle categorie sociali cui, con i fatti e con la propaganda, i democratici (specie quelli di Lombardia che già militavano tra le truppe francesi come Legione Lombarda) si rivolgevano, erano le categorie dei "possidenti", non certo quelle dei contadini e dei popolari.

Nel Salodiano, in val Sabbia, val Seriana, val Trompia, val Camonica, migliaia di valligiani e contadini armati si erano messi in disegno di bloccare Brescia democratizzata. Venezia aveva mandato qualche rappresentante presso i resistenti ed aveva inviato qualche sussidio, ma aveva raccomandato di non attaccare in nessun caso i Francesi. I generali napoleonici in zona erano furiosi. L'aiutante di campo di Napoleone, Andoche Junot, il 15 di aprile era venuto in collegio a leggere un minaccioso messaggio del comandante in capo nel quale si denunciava che tutta la Terraferma era in armi e che "in ogni parte i villici sollevati ed armati" gridavano morte ai Francesi. Un messaggio nel quale si minacciava che se il governo veneziano non avesse disarmato le masse ci sarebbe stata la guerra (5).

A metà di aprile i Francesi e i democratici bresciani e bergamaschi avevano contrattaccato i territoriali filoveneziani ed avevano riassunto il controllo di Salò, della val Camonica e di buona parte della val Trompia. Alla fine, anche i resistenti della val Sabbia, che invano avevano atteso il sostegno armato da parte del governo veneziano, si erano resi conto che il vecchio regime stava preparandosi ad abbandonare la partita ed avevano fatto sapere al provveditore straordinario Iseppo Giovanelli (6) che erano sul punto di cedere alla imposizione delle novità democratiche, dicendosi però pronti a disseppellire l'antica fedeltà a San Marco solo che fosse giunto un segnale di riscossa.

Dopo Leoben, Napoleone, il quale già aveva utilizzato la provocazione di un apocrifo manifesto reso pubblico ai primi di aprile in cui il provveditore straordinario veneziano Francesco Battagia (era stato nominato nel giugno del 1796) figurava incitare i sudditi veneti all'insurrezione, moltiplicò le manifestazioni di ostilità contro Venezia. Un buon pretesto gli venne offerto, oltre che dalla resistenza antifrancese che si era generalizzata nelle campagne venete e friulane, anche dalla insurrezione dei Veronesi i quali, tra il 17 e il 24-25 aprile, tennero bravamente testa ai Napoleonici estromessi dalla città e costretti a rinserrarsi nel castello (le cosiddette "Pasque Veronesi"), ed anche dal cannoneggiamento il 20 di aprile ad opera delle batterie veneziane di una nave francese (Le Libérateur d'Italie) che, ostilmente, aveva tentato di forzare il porto del Lido (il comandante ed alcuni marinai erano stati trucidati). Piegata con la forza l'insurrezione di Verona, i Napoleonici vi promossero la costituzione di una municipalità democratica.

La sequenza della democratizzazione si ritualizzò rapidamente in altre città venete: il 27 aprile toccò a Vicenza, il 28 a Padova. Qualche cannone piazzato dai Francesi agli angoli delle strade, riunione di notabili variamente risentiti contro il governo veneziano ed ansiosi di autonomia, creazione della municipalità e dei suoi comitati, erezione dell'albero della libertà, partenza di delegazioni composte da esponenti delle intellettualità locali per omaggiare Napoleone il "liberatore", soppressione di certi dazi ed attenuazione di certi prezzi subito controbilanciate dal rastrellamento di contributi forzosi a favore dei Francesi.

A sedere provvisoriamente nelle assemblee municipaliste si prestarono degli ex nobili locali, dei proprietari terrieri, degli imprenditori dei commerci e delle manifatture, degli intellettuali delle professioni, dei letterati, qualche ecclesiastico di rango. Alcuni di loro avevano più o meno apertamente manifestato da tempo il loro risentimento contro il governo centrale, qualcuno era stato anche perseguitato, altri si aggiunsero all'ultima ora. Qua e là, non si tralasciò di immettere nelle municipalità "alcuni popolani scelti a formale ossequio del principio di uguaglianza".

Finalmente, il 1° maggio, Napoleone, pur riservando al direttorio la formale dichiarazione di guerra, proclamò la belligeranza di fatto contro la Repubblica di Venezia. Il suo proclama, lanciato dal quartier generale di Palmanova, conteneva quindici capi di accusa contro la Serenissima: quarantamila contadini in armi contro i Francesi più dieci reggimenti di soldati schiavoni; persecuzione dei sudditi veneti filofrancesi e incoraggiamento di quelli contrari; malegrazie per le strade e i caffè di Venezia ai Francesi insultati come "giacobini, regicidi, atei"; la popolazione di Verona, Padova, Vicenza tenuta pronta per "rinovellar finalmente i Vespri Siciliani"; prediche e libelli antifrancesi tollerati se non incoraggiati dal governo; sangue di Francesi assassinati in ogni parte del Veneto sia dai resistenti popolari che da elementi dell'esercito regolare veneziano; orrendi massacri di soldati francesi nell'insurrezione di Verona; la casa del console di Francia a Zante bruciata; la fregata francese La Bruna cannoneggiata da un vascello veneziano; il Libérateur d'Italie affondato al Lido e il suo comandante e molti marinai trucidati. Continuava il manifesto recitando che in rapporto a tali atti ostili, in base al titolo 12, articolo 128, della Costituzione francese e date le urgenti circostanze, il generale in capo ordinava al rappresentante diplomatico francese a Venezia Giovanni Battista Lallement di lasciare la città, ai funzionari del governo veneziano di evacuare entro ventiquattro ore la Terraferma, alle truppe francesi di trattare da nemiche quelle venete e di far abbattere in tutte le città del Dominio di terra il leone di San Marco (7).

3. La fine della Repubblica

Dopo il proclama di guerra di Napoleone del 1° maggio, il gruppo di patrizi che sedeva negli organismi decisivi di governo affannosamente e più scopertamente di prima si adoperò per cercare i modi meno pericolosi e meno dolorosi per lasciare il potere.

A fine aprile era stata creata una struttura a carattere straordinario per gestire la crisi. Una struttura non troppo ortodossa dal punto di vista costituzionale, la quale era stata denominata "conferenza" ed era costituita dalla signoria (doge, minor consiglio e capi di quarantia), dai capi del consiglio dei dieci, dai savi del collegio (anche quelli appena usciti di carica) e dagli avogadori di comun. Ippolito Nievo, intelligentissimo narratore di quei giorni, ne Le confessioni di un italiano la definirà "magistratura funeraria".

...
A Venezia, già dalla fine di aprile erano venuti allo scoperto i simpatizzanti della democrazia e dei Francesi. Taluno di essi si era segnalato da tempo ed aveva avuto a che fare con la repressione degli inquisitori di stato. Si trattava di un gruppetto che in quei giorni si organizzò in una sorta di comitato rivoluzionario. Luogo frequentemente usato per le riunioni era la casa di Giuseppe Ferratini a San Polo. Fra i più attivi si annoveravano Andrea Spada, un appaltatore dei dazi appena uscito di prigione, l'avvocato Tommaso Gallino, Tommaso Pietro Zorzi commerciante di prodotti di drogheria. Non mancava qualche patrizio.
...

6. La municipalità democratica tra speranze e illusioni

La municipalità veneziana, forte di quella sorta di investitura di reggente della statualità veneta ricevuta dal cessato corpo sovrano patrizio il 12 maggio, si adoperò subito per creare situazioni che favorissero un'unione con quante più municipalità possibile dei territori dell'ex Repubblica, unione da farsi possibilmente attorno a un governo centrale rappresentativo da stabilirsi a Venezia. Il tentativo era quello di creare una dimensione statuale democratica veneta con la quale proporsi a livello internazionale, inserirsi nelle trattative di pace ed eventualmente contrattare prospettive di convergenza in processi di costruzione di un più vasto conglomerato statuale italiano avente nucleo forte in Lombardia, là dove stava per costituirsi la Repubblica Cisalpina (56).

Ai primi inviti diramati dalla municipalità per l'unione (già nel manifesto del 16 maggio si parlava di dipartimento e di "richiamo alla Madre Patria" degli abitanti della Terraferma e di una "amministrazione centrale" con Venezia come capitale), le città e i territori dell'ex stato veneto risposero per lo più con nette resistenze. Solo qualche centro dell'ex Dogado (Pellestrina, Murano, Gambarare...) dette segno di qualche buona disposizione mandando delegati a "fraternizzare".
Persino la piccola isola di Burano voleva rimanere autonoma per potersi regolare da sé quanto a pesca in laguna. Il rappresentante diplomatico austriaco a Venezia Carl von Humburg, il quale era rimasto al suo posto, noterà quasi subito nei dispacci al suo governo (per esempio in un dispaccio del 3 giugno) che la posizione della municipalità veneziana era estremamente debole anche perché le grandi città venete di Terraferma non erano disponibili all'unione e ancor meno lo erano le città e i territori istriani e dalmati (57).

L'azione politica della municipalità per promuovere l'unione fu condotta nelle prime settimane con qualche confusione e qualche reticenza circa la parità di cui tutti avrebbero dovuto godere nella ipotizzata nuova entità statuale veneta. Le grosse municipalità della Terraferma (soprattutto Padova, Verona, Vicenza) temevano che Venezia volesse proporsi nuovamente come centro, come città dominante, e non gradirono che la municipalità veneziana avesse proceduto alla stipula del trattato di pace con la Francia quasi in qualità di rappresentante, di erede, della sovranità dell'ex Repubblica Veneta.

Ovviamente, per Venezia i vantaggi politici dell'unione sarebbero stati molteplici, ed importanti sarebbero stati anche i vantaggi pratici immediati, primieramente quello di veder ripartito fra tutti il peso economico del trattato di pace e veder liberati i beni di proprietà dei Veneziani posti sotto sequestro in parecchie zone del Veneto. Per le municipalità della Terraferma, l'unione con quella di Venezia avrebbe rappresentato un elemento di legittimazione stante il fatto che, bene o male, era la municipalità veneziana quella che aveva ereditato la titolarità statuale dell'ex Repubblica (non per niente Napoleone l'aveva ritenuta idonea a firmare il trattato di pace) mentre esse non avevano base che nel fatto bellico dell'occupazione militare francese.

Comunque, l'unione avrebbe rappresentato un vantaggio per tutti in quanto avrebbe dato maggior forza contrattuale alla "Nation Veneta" laddove si fosse creata la possibilità di confluenza in una vagheggiata repubblica democratica italiana, o, molto più concretamente, la possibilità di unione con la Repubblica Cisalpina, e in quanto, all'occorrenza, avrebbe dato più forza per resistere agli eventuali sgraditi destini che gli accordi in discussione tra Francia ed Austria avessero configurato.

Resisi conto della situazione, i Veneziani cercarono in vari modi di dissipare i timori e di chiamare all'unione.
Il 22, il 27 e il 30 maggio inviarono alle municipalità della Terraferma dichiarazioni solenni nelle quali si proclamava che Venezia si poneva su un piede di uguaglianza con le altre municipalità, che non aveva pretese di capitale, che chiedeva alle città di inviare anch'esse propri rappresentanti a Milano, che chiedeva a tutti di operare per l'unione in vista di un "governo centrale" rappresentativo di tutti, della elaborazione di una "costituzione puramente democratica", di un'unione con "i popoli liberi d'Italia".
In quelle dichiarazioni si segnalavano inoltre gli sforzi in atto per mantenere i legami con l'Istria, la Dalmazia, le isole Ionie.
Quanto al trattato di pace ratificato il 26 maggio su invito di Napoleone, si sottolineava che esso avrebbe consentito di toglier di mezzo i governi militari francesi cui erano sottoposte le città della Terraferma ridando ad esse la possibilità di inserirsi in uno stato sovrano veneto democratico, il quale avrebbe potuto confluire poi in una costituenda repubblica italiana.
Si chiedeva alle municipalità di Terraferma di abbandonare le prevenzioni, di liberare dai sequestri i beni privati dei Veneziani e i beni "nazionali", cioè, per esempio, i boschi demaniali vincolati al servizio delle costruzioni navali (58).

...
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Re: Coel parlamento veneto de tuti i veneti mai nato

Messaggioda Berto » mar mag 09, 2017 9:52 pm

Impariamo il Federalismo dalla Germania. Altro che abbasso Merkel!
9 Mag 2017

http://www.lindipendenzanuova.com/impar ... sso-merkel

Già nello nome dello Stato Repubblica federale di Germania si manifesta la struttura federale dello Stato tedesco. La Repubblica federale di Germania è formata dai “Länder” federali che sono stati in parte rifondati e in parte creati dopo il 1945, ma sono nati tutti prima del “Bund”, la Federazione. Non sono semplici province, bensì Stati con propri poteri statali. Ogni Land ha una propria Costituzione che deve corrispondere ai principi dello Stato di diritto repubblicano, democratico e sociale in aderenza alla legge fondamentale. Per il resto i Länder sono liberi nella formulazione della loro Costituzione.

TRADIZIONI TEDESCHE
La struttura federativa è un’antica tradizione costituzionale tedesca in-terrotta solo dal regime hitleriano a partire dal 1933. Il Federalismo tedesco, pur avendo profonde radici storiche, è stato in passato considerato spesso espressione di spezzettamento della nazione se non addirittura sciagura nazionale (ahimè!). Oggi si costata che la struttura federale del Paese comporta grandi vantaggi, consentendo di rispettare o soddisfare ampiamente aspirazioni, usanze e peculiarità regionali.
In numerosi Stati la concentrazione delle funzioni amministrative, dell’attività economica e delle istituzioni culturali nella capitale o in pochi grandi centri si è rivelato uno svantaggio e fonte di difficoltà; per cui la richiesta di regionalizzazione, sempre più insistente, si è estesa su scala mondiale. Il tradizionale Federalismo tedesco ha contribuito a risparmiare alla Repubblica federale quelle difficoltà. Ma anche le tendenze centrifughe, spesso indicate come risvolto negativo del Federalismo, non si sono quasi manifestate nella Germania federale. La sua popolazione è più omogenea che non in molti altri Stati.

Le differenze etniche, una volta piuttosto marcate, sono state stemperate dai grandi spostamenti della popola-zione nel dopoguerra e dall’elevata mobilità imposta dalla moderna vita economica. Perché il Federalismo? Pertanto oggi, pur potendo sembrare un paradosso, nel caso della Germania federale il senso del Federalismo va visto in prevalenza sotto un aspetto generale dello Stato. La democrazia acquista maggiora concretezza quando il cittadino confrontato con esigenze e problemi che ovviamente può meglio seguire nel più ristretto ambito del suo “Land” (Stato confederato), può col suo voto, partecipare più consapevolmente al processo democratico.
La pubblica amministrazione, operando in un “Land” federale con maggiore aderenza alla realtà locale, riscuote presso il cittadino, che le è anche più vicino, maggiore fiducia che non le autorità insediate nella spesso lontana capitale federale. L’amministrazione del “Land”, potendosi giovare della conoscenza delle condizioni regionale, può contribuire alla cura e conservazione di valori culturali e costumi locali nelle loro molteplici forme. Nell’ambito della sua autonomia un “Land” potrebbe anche sperimentare nuove iniziati-ve in determinati settori, per esempio in quella dell’istruzione, fornendo modelli per adeguate riforme.
Si dà non di rado il caso che partiti politici, che a livello federale stanno all’opposizione, in alcuni “Länder” siano invece al governo. Così tutti i partiti hanno la possibilità di assumersi democraticamente responsabilità di governo e di dimostrare la loro capacità di governare.

Ma i “Länder” possono soprattutto costituire, specialmente con la loro partecipazione all’attività legislativa attraverso il Bundesrat (Consiglio federale), un utile elemento di equilibrio del potere. Infatti la Legge Fondamentale considera di tale importanza la struttura federale in “Bund” (Federazione) e “Länder” (Stati confederati), e il concorso di questi alla legislazione federale, che queste due norme sono state sottratte a qualsiasi modifica anche costituzionale.

LE COMPETENZE DEI“LÄNDER”
L’attività maggiore dei “Länder” si esplica nell’amministrazione. Se si eccettuano le poche autorità di vertice federale con base amministrativa propria (ad esempio, l’amministrazione delle dogane o delle forze armate), la fase esecutiva delle leggi federale è devoluta interamente alle autorità dei ”Länder”, rispettando in ciò la tradizione tedesca. I “Länder” attuano le leggi federali con ampia autonomia e senza specifiche diret-tive del Bund. Il Governo tedesco si limita a vigilare che l’esecuzione delle leggi federali avvenga in aderenza al diritto vigente. Solamente alcune funzioni amministrative espressamente indi-cate nella legge fondamentale vengono esercitate dai “Länder” su delega del “Bund”. In questi casi i “Länder” sono soggetti alle direttive del Governo federale non solo sotto il profilo del controllo giuridico degli atti amministrativi, ma anche sotto quello della loro discrezionalità.

Tra i settori alla facoltà legislativa dei “Länder” figurano il diritto comunale, alcuni aspetti di ecologia e la maggior parte dell’ordinamento di polizia. Ma è nel campo culturale che le leggi dei “Länder” hanno maggiore rilevanza. La scuola dell’obbligo, le scuole tecniche, i ginnasi, i licei e le scuole speciali (per gli handicappati) sono regolate da leggi regionali, ossia dei “Länder”, come lo è pure l’istruzione degli adulti.
Anche gli aspetti essenziali delle scuole professionali e del perfezionamento, nonché degli studi universitari, sono regolati da leggi dei “Länder”, con competenza parziale del legislatore federale.

AUTONOMIA AMMINISTRATIVA COMUNALE
L’autonomia amministrativa comunale come espressione della libertà dei cittadini ha in Germania un’antica e salda tradizione, che si può forse ricondurre ai privilegi delle città libere del medioevo, allorché il diritto civile comunale sciolse gli individui dalle catene della feudale servitù della gleba. Questa tradizione di libertà civica si manifesta nell’autonomia amministrativa delle città, dei comuni e delle province, libertà esplicitamente garantite dalla legge fondamentale e da tutte le Costituzioni dei “Länder”.
La legge fondamentale stabilisce due principi diversi: i “Länder” devono garantire ai Comuni la facoltà di gestire sotto propria responsabilità -nell’ambito della legge – tutte le questioni della comunità locale; tutte le città, i Comuni e le Province debbono essere organizzate democraticamente. Per motivi storici gli statuti comunali si differenziano fortemente da “Land” a “Land”, sebbene la prassi amministrativa comunale fosse ovunque largamente omogenea.

Fra questi rientrano specialmente i trasporti pubblici urbani e vicinali, la costruzione di strade locali, l’approvvigionamento idrico, elettrico, del gas, l’edilizia abitativa, la costruzione e manutenzione di scuole elementari, medie, ginnasi, teatri e musei, di ospedali e impianti sportivi e di piscine, l’istruzione degli adulti e la cultura dei giovani.

In questo “ambito opperativo proprio” le amministrazioni comunali sono soggette solo a un controllo di legalità. Lo Stato cioè, può solo vigilare sull’osservanza delle leggi; ogni comune opera secondo un proprio potere discrezionale. Molti dei compiti elencati superano talvolta le possibilità ecomiche ed organizzave dei comuni e piccoli centri; essi possono allora venire assolti dalla provincia (Landkkreis), l’ente territoriale superiore, anche essa organo dell’autonoma locale, il cui Consiglio (Kreistag) risulta dalle elezioni provinciali a suffragio diretto. In molti casi i Comuni e le Province operano anche da organi esecutivi di leggi regionali e federali. In questi casi le amministrazioni comunali sono soggette non solo ad un controllo di legalità, ma ricevono a volte al riguardo dalle autorità regionali precise e dettagliate direttive.

FINANZIAMENTO DELL’AUTONOMIA AMMINISTRATIVA
L’ autonomia e l’autogestione co-munale si atrofizzano se ai Co-muni mancano i fondi di cui hanno bisogno per l’espleta-mento dei loro compiti. Le più importanti fonti d’entrata dei Comuni sono le imposte. I Comuni hanno un diritto costituzionalmente garantito di riscuotere determinate imposte. Tra que-ste rientrano in prima luogo l’imposto sull’industria e i commerci e l’imposta immobiliare, come altre imposte minori tipo quelle sulle bevande: Inoltre i comuni ricevono dallo Stato e dai “Länder” fede-rali quote di altre entrate tributarie, ad esempio quelle sui salari e sui redditi. In cambio i comuni devono versare allo Sta-to e ai “Länder” federali una parte delle loro entrate dall’imposta sulle industrie e i commerci.

Si è d’accordo sul fatto che l’autogestione comunale va mantenuta e rafforzata. Essa fornisce al cittadino, in modo semplice, la possibilità di cooperazione e di controllo, ad esempio attraverso il colloquio con i consiglieri comunali, attraverso la presa in visione dei piani urbanistici o di bilanciodel proprio comune. In questo modo città e comuni sono in un certo senso le più piccole celle politiche dello Stato, il cui funzionamento autonomo e democratico è un premessa dell’esistenza della libertà e del diritto nello stato e nella società.

I PICCOLI PARTITI E LA CLAUSOLA DEL 5 PER CENTO
Un numero oscillante di piccoli partiti ha sempre cercato di entrare nel Parlamento federale e nei parlamenti regionali. Alle prime elezioni per il “Bundestag” (Dieta federale) nel 1949, questi piccoli partiti ottennero insieme il 27,9% dei voti; nel 1987, alle votazioni per l’11ª legislatura, hanno ottenuto insieme solo l’1,3%. Questo vistoso regresso è dovuto non per ultimo alla clausola di sbarramento del 5 %, contenuta nella legge elettorale federale ed in quelle di tutti i “Länder”. Essa stabilisce che possono inviare deputati in parlamento solo quei partiti che nel relativo territorio abbiano ottenuto almeno il 5% dei voti. La Corte Costituzionale federale ha espressamente dichiarato la conformità di questa clausola alla Legge Fondamentale. Solo poche volte partiti di estrema destra o di estrema sinistra sono riusciti superare questa clausola di sbarramento. Il Partito Comunista di Germania (Kpd) è stato rappresentato al “Bundestag” solo una volta: dal 1949 al 1953 con 15 deputati. Tra i partiti di estrema destra, solo il “Deutsche Reichspartei” ebbe dal 1949 al 1953 con cinque deputati una esigua rappresentanza al “Bundestag”. Dopo l’introduzione della clausola del 5% i partiti radicali di destra non sono mai più riusciti a superare questo ostacolo alle elezioni per il “Bundestag”.

Per la rappresentanza di minoranze etniche si rinuncia alla clausola del 5%. Per questo il “Südschleswigsche Wählerver-band”, che raccoglie la locale minoranza danese, è rappresentata al Parlamento re-gionale dello “Schleswig-Holstein”, seb-bene ottenga meno del 5% dei voti. Le elezioni comunali offrono talvolta un’immagine molto diversa dalle elezioni per il “Bundestag” e per i Parlamenti regionali. A livello comunale spessosvolgono un ruolo importante i cosiddetti “partiti municipali”, cioè raggrup-pamenti elettorali indipendenti al di fuori dei partiti affermati.

IL DIVIETO DI PARTITI
“I partiti che per le loro finalità o per il comportamento dei loro aderenti tentano di pregiudicare o abbattere l’ordinamento fondamentale democratico e liberale o di minacciare l’esistenza della Re-pubblica Federale di Germania” (art. 21 secondo comma della Legge Fondamentale) possono essere dichiarati incostituzionali dalla Corte Costituzionale federale e di conseguenza venire sciolti. In base a queste disposizioni fu vietato, già nel 1952, il “Sozialistische Reichspartei”, senza dub-bio il partito di destra più estremista del dopoguerra. Nel 1956 fu dichiarato incostituzionale anche il Partito Comunista di Germania (Kpd); ne ha raccolto l’eredità il Partito Comunista tedesco (Dkp), fondata nel 1968, senza tuttavia raggiungere la consistenza del precedente Kpd. Né il Governo federale né il “Bundestag” o il “Bun-desrat” (consiglio federale) hanno fatto uso della loro facoltà di chiedere alla Corte costituzionale federale il divieto del Dkp (nota personale: tanto in Germania i comunisti non costituiscono una minaccia).

IL SISTEMA ELETTORALE
Le elezioni per tutte le rappresen-tanze popolari sono per principio generali, dirette, libere uguali e segrete. È elettore ed è eleggibile ogni tedesco che abbia compiuto il 18° anno di età. Nella Repubblica Federale di Germania non esistono elezioni preliminari. I candidati per le elezioni vengono designati dagli iscritti ai partiti (e solo da questi). Il sistema elettorale per le elezioni al “Bundestag” è complesso, è un cosiddetto “sistema pro-porzionale-personale. 248 deputati, ossia la metà dei membri del “Bundestag”, vengono eletti in collegi elettorali secondo il sistema della maggioranza relativa. Gli altri 248 deputati vengono eletti attraverso le liste regionali dei partiti. Ma il conto di tutti i voti avviene in modo che il “Bundestag” risulta com-posto in misura quasi pro-porzionale alla distribuzio-ne dei voti (con la limitazione della clausola di sbarramento del 5 per cento illu-strata prima). Il partito che ha ottenuto nella circoscrizione elettorale più mandati di quanti gliene spetterebbero in base alla percentuale dei suoi voti nella lista regionale, può conservare questi cosiddetti “Überhangsmandate” (mandati in eccedenza). Il tal caso il “Bundestag” ha più di 496 membri con pieno diritto di voto.
(a cura di Veronika Holzner) da Il Federalismo, direttore responsabile Stefania Piazzo
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Re: Coel parlamento veneto de tuti i veneti mai nato

Messaggioda Berto » ven mag 12, 2017 7:05 am

Le buxie o łe 'gnoranse de Franco Roketa:


... "Il 12 Maggio del 1797 con grande coraggio gli organi sovrani della Veneta Repubblica votano, incombendo una temperie hitleriana e stalinista, una importante riforma dello Stato. Nel corso dei lavori del Veneto Governo Provvisorio, il 16 Maggio, il feltrino Mengotti ribadisce che «fu sempre preferita dal Popolo Veneto una Forma Repubblicana», e conferma che la presente «Rivoluzione nella Repubblica» non significa «distruzione della Repubblica», bensì «anzi la riforma del Governo divenuto col tempo difettoso, per renderlo più attivo, più vigoroso».
La Repubblica Veneta non è mai caduta. Il leone alato vola sempre. Il Trattato di Campoformido è invalido, e reso anche nullo dal voto popolare veneto dell'Ottobre 1797." ...




1) Non c'è stato nessun coraggio ad abdicare, anzi è la prova della viltà dell'aristocrazia veneziana; il governo veneto poteva andare in esilio e prima ancora poteva combattere contro l'invasione napoleonica, ma sempre da vile non l'ha fatto;

2) il 16 maggio non fu il Governo Provvisorio dei Veneti ma di Venezia perché con l'abdicazione del 12 maggio il Governo Veneto non esisteva più ed era stato sostituito da una Municipalità Democratica Provvisoria in ogni città; quello di Venezia era soltanto la Municipalità Democratica Provvisoria di Venezia. La municipalità veneziana non aveva alcuna giurisdizione sul resto della terra veneta;

3) la retorica di Mengotti non fa altro che confermare come la Repubblica Veneziana non fosse più al passo coi tempi e causa del suo male e di quanto poi accadde;

http://www.treccani.it/enciclopedia/fra ... Biografico)/
La breve ma intensa stagione della Municipalità democratica lo vide molto attivo a Venezia: animato da profonda convinzione, ma senza raggiungere l’estremismo di alcuni, il M., come ebbe a ricordare al governo austriaco qualche anno dopo, aveva vivacizzato le sessioni del Comitato finanze con una partecipazione che era la naturale conseguenza di quel vasto movimento riformatore del quale si era sentito interprete con i suoi fortunati studi di economia. Per questo aveva fortemente sostenuto la necessità di uno stabile collegamento – politico, prima che geografico – tra laguna e Terraferma. Venezia era ormai divenuta, nella concezione sua e di altri protagonisti illuminati come Vincenzo Dandolo, una semplice città municipalista, non più la Dominante dispotica, ma nemmeno una capitale: poteva diventare l’autorevole membro di un’ipotetica federazione delle città libere d’Italia, tutte egualmente autonome, in grado di superare gli antichi odi e le rivalità campanilistiche. Questo aveva probabilmente rappresentato a Napoleone Bonaparte, nel corso dell’ambasciata che la Municipalità veneziana aveva inviato a Milano al generale, da maggio alla fine di luglio del 1797. Il suo ruolo era stato apprezzato indipendentemente dalle sorti del Veneto, segnate dal successivo trattato di Campoformio, tanto che era stato nominato membro del Corpo legislativo della Cisalpina, tra i seniori del Dipartimento dell’Alto Po, incarico dal quale il M. si dimise il 17 dicembre di quello stesso anno per ritirarsi nuovamente a Feltre.
La nuova organizzazione delle province austro-venete del 1803 collocò il M. in un oscuro ruolo di burocrate, molto limitativo rispetto alle sue doti di studioso, su cui pesava tuttavia l’eco della sua partecipazione alla Municipalità veneziana del 1797: nominato «aggiunto» all’ispettorato di finanza di Treviso, era stato distaccato presso il Capitanato provinciale «per gli affari di censimento tasse». Da qui lo trasse il nuovo governatore, conte Ferdinand von Bissingen, per porlo a capo nel 1804 della Commissione centrale per il censo, su probabile suggerimento del lombardo Pietro Bellati, consigliere di governo che, sulla scorta dell’analoga, diretta esperienza vissuta come segretario del governo asburgico a Milano, era stato preposto all’ambiziosa operazione catastale: la scelta rispondeva a un nuovo criterio di professionalità che l’Austria stava cercando di attuare nei territori un tempo appartenuti alla Serenissima.


4) la Repubblica Veneta è caduta. Il leone alato non vola più. Il Trattato di Campoformido è valido, e non è stato reso nullo dal voto popolare veneto dell'Ottobre 1797." ...
perché questo voto popolare avvenne solo a Vnezia in quanto i veneti delle altre città venete erano tutti a favore dell'unione con la Repubblica Cisalpina e furono soltanto i veneziani a votare, ma il loro voto non aveva alcun valore simbolico per il resto dei veneti.


L'ultima fase della serenissima - La politica: LA MUNICIPALITA DEMOCRATICA
Storia di Venezia (1998) di Giovanni Scarabello
capitolo iv
La municipalità democratica
http://www.treccani.it/enciclopedia/l-u ... Venezia%29


Il referendo fu fatto solo a Venezia.

Il 14 ottobre 1797 si riunì a Venezia il Congresso nazionale veneto con la partecipazione dei delegati di Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Udine e Venezia. Era l’estremo tentativo di salvare almeno l’unità dei veneti. Sembrò prevalere la tesi dell’unione alla Repubblica Cisalpina.
Venezia fu l'ultima delle Municipalità ad accettare la proposta di unione cullandosi ancora nell’ipotesi di una autonoma repubblica di Venezia e del Veneto.
Tre giorni dopo (il 17 ottobre) Napoleone firmò con l’Austria il trattato di Campoformio cedendole il Veneto con l’Istria e la Dalmazia; Bergamo e Brescia furono unite alla Repubblica Cisalpina, e la Francia si prese i possedimenti veneziani dell’Egeo.
In un disperato ma inutile tentativo di evitare la cessione all’Austria venne indetto un referendum per il 28 ottobre 1797: 12.725 furono coloro che confermarono la volontà di indipendenza e 10.843 quelli che si dichiararono per l’accettazione delle decisioni.


Ecco l'articolo intero di Franco Rocchetta

NAZIONALISMO - COLONIALISMO - IMMIGRATI - STATO ITALIANO - POPOLI ITALICI - SERENISSIMA REPUBBLICA VENETA

Oggi migliaia di bambini veneti (indigeni e d'importazione) vengono travestiti da Figli della Lupa, e vaste aree venete sono protervamente ricoperte con bandiere ambigue più numerose che in Turchia. E intanto, con calcolata perversione, i nuovi Veneti sono spinti a cantare «a squarciagola» (così la stampa) un inno coloniale e sanguinario : si ritenta di degradare la Piave a «il Piave» e la civiltà veneta a macchietta, e di spacciare i genocidi della Grande Guerra per una epopea santa e giusta.

Il 12 Maggio del 1797 con grande coraggio gli organi sovrani della Veneta Repubblica votano, incombendo una temperie hitleriana e stalinista, una importante riforma dello Stato. Nel corso dei lavori del Veneto Governo Provvisorio, il 16 Maggio, il feltrino Mengotti ribadisce che «fu sempre preferita dal Popolo Veneto una Forma Repubblicana», e conferma che la presente «Rivoluzione nella Repubblica» non significa «distruzione della Repubblica», bensì «anzi la riforma del Governo divenuto col tempo difettoso, per renderlo più attivo, più vigoroso». La Repubblica Veneta non è mai caduta. Il leone alato vola sempre. Il Trattato di Campoformido è invalido, e reso anche nullo dal voto popolare veneto dell'Ottobre 1797.

Di generazione in generazione, attraverso le proprie figlie ed i propri figli serenissimi, il popolo veneto conferma questa continuità con sempre nuovi positivi exploit di grande rilevanza internazionale. Nel mentre la Regione (dimenticando spesso gli insegnamenti del suo stesso padre Eugenio Gatto) sovente si presta ad amplificare ingannevoli cliché antistorici volti a nascondere le grandi civiltà dei popoli italici. Ma una nazione plurimillenaria come la veneta o come la cinese mantiene e riproduce entro di sé energie, e meccanismi, che la riportano alla libertà ed alla fioritura.
A Ottobre si andrà al voto per avvicinare il Veneto ai diritti sacrosanti che la Costituzione Italiana ha riconosciuto ai Trentino-Tirolesi, ma che lo Stato Italiano ha per avidità negato al popolo veneto.
Voto che ho invocato senza interruzione ad alta voce fin dagli anni delle Medie, pagando sempre cara, anche col sangue, questa sete di giustizia. Nel Maggio del 1988 indicavo i vantaggi di un tale voto dalla prima pagina del Gazzettino. Da allora sono stati sprecati altri tre decenni. Un trentennio che ha devastato la Venetia ancor più di quanto la hanno devastata le truppe napoleoniche e austrorusse, savoiarde e nazifasciste, titine ed angloamericane.
Il referendum veneto del 22 Ottobre vedrà molti SÌ ai diritti fondamentali dell'uomo e dei popoli. Ma se in questi decenni la Regione avesse consegnato una bandiera veneta ad ogni nuovo nato e ad ogni nuovo cittadino, spiegandone il significato vero, se avesse seriamente coltivato l'identità e l'ambiente e l'economia veneta, e la lingua veneta (con il rigore, la lungimiranza e l'onestà impegnati in Catalogna) invece di asservirla a clan di amici e di editori senza scrupoli, se con le armi della cultura avesse impedito che masse crescenti di immigrati (mori o biondi che siano) diventassero cavalli di Troia del nazionalismo, delle mafie e del colonialismo, non solo il risultato avrebbe numeri maggiori, ma sarebbe, soprattutto, più concreto, ben fondato, vigoroso ed organico.
In una parola, molto più fecondo.

Franco Rocchetta.
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Re: Coel parlamento veneto de tuti i veneti mai nato

Messaggioda Berto » ven mag 12, 2017 7:49 pm

El mito de Venesia lè n'entrigo par l'endependensa veneta
viewtopic.php?f=183&t=1816

L'idolatria dei nostalxeghi de ła Serenisima


IL CORAGGIO: 12 MAGGIO, A TE SOLO LA NOSTRA FEDE! VIVA SEMPRE SAN MARCO!
Ieri un amico scriveva:

https://dalvenetoalmondoblog.blogspot.i ... ostra.html

domani è il 12 maggio 2017, 220 anni sono passati dal giorno funesto, disperarsi non serve, piangere neppure ricordiamo quel giorno in altra maniera... sollevando la testa... "il 7 aprile 1797 comparvero in Senato i Deputati della Val Troppia... , di Serravalle e Ceneda quindi quelli di Lendinara e di Conegliano. Giunsero pure i Trevisani, che si distinquevano per aver sul cappello la coccarda della Repubblica col Leone di San Marco contornato dalla scritta : tibi soli fides tarvisiana ( a te solo, la fede trevisana)."
Chiedevano tutti solo polvere e munizioni.... se vi foste data un'altra occasione, cosa chiedereste voi????
Dan Morel Danilovich
Era il popolo dei "campagnoli", non i ricchi, non gli aristocratici, a invocare San Marco, come accadrà nei mesi seguenti in Istria e in Dalmazia. Volevano difendere un mondo, un sistema di vivere, di governare, che aveva garantito a tutti, facendo delle varie piccole Patrie una ricchezza, la massima libertà ed autonomia.
Erano disposti, e lo misero pure per iscritto i deputati di Terzo, ad offrire i propri averi, le proprie vite per fermare il nemico del Leone, sotto le cui ali volevano rimanere per sempre. E' una delle tante pagine non scritte, poco divulgate, ma che spiegano bene come ancor oggi il problema veneto esista e non si sia certo risolto con l'annessione ad uno stato che nega addirittura la nostra esistenza come Nazione plurimillenaria.
Torniamo a lottare, per tornare ad esser liberi, e ripetiamo la frase dei delegati di Treviso; A TE SOLO LA NOSTRA FEDE! VIVA SEMPRE SAN MARCO!

il brano sopra è tratto da. Miscellanea di Storia Veneta edito nel 1912 dall'Ateneo Veneto.
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Re: Coel parlamento veneto de tuti i veneti mai nato

Messaggioda Berto » sab mag 13, 2017 6:56 am

Fogliatta è l'esempio della manipolazione della storia fatta dagli invasati del mito di Venezia Serenissima aristocratica e marchesca.

Recuperare la storia negata o deformata è un bene,
ma deve essere la storia di tutti i veneti e non solo quella di Venezia, dei veneziani e della Serenissima,
ma anche quella di tutti gli altri che sono la maggioranza: dei regni goti e longobardi, dei ducati longobardi, dell'Impero Carolingio, della Marca Trevisana e della Marca Veronese, del Sacro Romano Impero, dell'Epopea Comunale delle città e delle autonomia territoriali;
e deve essere raccontata in modo corretto senza pregiudizi e senza spregi per gli uni ed esaltazioni per gli altri.

Fogliatta e i venezianisti hanno l'incoscienza di attribuire la fine della Repubblica Veneta a Napoleone, alla Francia, ai giacobini e alla Rivoluzione Francese senza riconoscere le responsabilità storiche di Venezia, dei veneziani e dei veneti che non sono affatto inesistenti e trascurabili ma che invece sono la causa prima che predispose la terra veneta e i veneti ad essere travolti da Napoleone e dallo spirito dei tempi.


Fu lo spirito del tempo che travolse la Serenissima dopo aver travolto la Francia e generato il Giacobinismo e Napoleone; spirito che l'aristocrazia veneziana non seppe riconoscere e accettare e che ancor oggi questi nostalgici della Serenissima riconoscono a malapena e a cui attribuiscono ogni malvagità; spirito che si può identificare con l'illuminismo e con le sue idee di libertà democratiche.
Per questi venezianisti, invasati dal mito dell'aristocrazia veneziana, la democrazia illuminista sarebbe un male a cui preferirvi quello che per loro sarebbe il bene della repubblica dominata da un'aristocrazia illuminata;
per costoro l'illuminismo sarebbe un male se democratico (e laico) e un bene se aristocratico (e religioso, ma di una religiosità cristiana tutta veneziana svincolata da quella cattolica Roma).

No signori, la democrazia, quella vera, popolare o partecipata da tutti i cittadini, responsabile e diretta è uno dei massimi valori umani, civili, politici e culturali.
Democrazia che può essere interamente repubblicana e mista (in parte diretta e in parte rappresentativa) come quella svizzera o solo rappresentativa come in Italia, in Francia, in Spagna, in Germania, in Austria, ecc. (con anche elementi di vera democrazia diretta e referendaria in taluni paesi) o mescolata con la monarchia come in Gran Bretagna, in Belgio, in Olanda, in Danimarca, in Svezia.

No signori l'illuminismo laico e la democrazia popolare di tutti i cittadini non sono un male mentre invece la religiosità se idolatra, castuale o aristocratica e teocratica è sempre un male.

Lo spirito e la spiritualità non sono affatto monopolio delle religioni idolatre e della loro religiosità dogmatica ma esso esiste anche e sopratutto fuori dalle religioni dove esso può dispiegarsi libero dalle deformazioni, dagli annichilimenti e dalle falsificazioni dogmatiche e idolatre.


Illuminismo
L'illuminismo fu un movimento politico, sociale, culturale e filosofico sviluppatosi intorno al XVIII secolo in Europa. Nacque in Inghilterra, ma ebbe il suo massimo sviluppo in Francia, poi in tutta Europa e raggiunse anche l'America.

https://it.wikipedia.org/wiki/Illuminismo

« L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d'intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell'Illuminismo. »
(Immanuel Kant da Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo?, 1784)


lluminismo nell'Enciclopedia Treccani

http://www.treccani.it/enciclopedia/illuminismo

Illuminismo Per I. si intende sia l’età della storia d’Europa compresa tra la conclusione delle guerre di religione del 17° sec. o la rivoluzione inglese del 1688 da un lato e la Rivoluzione francese del 1789 dall’altro, sia la connessa evoluzione delle idee in fatto di religione, scienza, filosofia, politica, economia, storiografia e il rinnovamento delle forme letterarie nel corso del 18° secolo. La metafora della luce contenuta nel termine (fr. Âge des lumières; ingl. Enlightenment; ted. Aufklärung) deriva dalla secolarizzazione e laicizzazione dell’idea di provvidenza o progresso, intesa come attività storica umana: così il concetto di ‘luce di natura’ fu anteposto e contrapposto dai deisti inglesi alla rivelazione cristiana in quanto possesso originario della mente umana; così pure la scoperta delle leggi naturali apparve una più piena rivelazione o ‘illuminazione’. Confluirono con questi due motivi le conclusioni ottimistiche del dibattito sulla teodicea, l’idea della superiorità dei moderni rispetto agli antichi prevalsa in un’annosa querelle, l’ideale continuità con la rivoluzione scientifica e con la rinascenza, lasciando emergere la caratteristica immagine del trionfo della ragione contro le tenebre del fanatismo e della superstizione, che divenne corrente verso la metà del secolo. I contenuti filosofici e scientifici della cultura dei lumi rinviano a un complesso programma di rinnovamento ideologico, civile, politico, che fu elaborato variamente nei diversi paesi (v. fig.) e accompagnò ovunque la crescente egemonia della borghesia commerciale e industriale in lotta con le strutture del sopravvivente mondo feudale.

1. Religione e ragione

L’affermazione solenne dell’autonomia della ragione, che è alla radice della cultura dei lumi, maturò in cerchie ristrette e assunse un peculiare significato politico e religioso negli ultimi decenni del 17° secolo. La superfluità di ogni rivelazione divina, il distacco dalle varie ortodossie ecclesiali, l’autonomia delle leggi morali, l’immagine razionale di un Dio architetto del cosmo svelato dalla nuova scienza, sono gli aspetti costruttivi del deismo, del quale si considera generalmente iniziatore E. Herbert of Cherbury. Ma le grandi linee della disputa settecentesca sulla religione naturale e rivelata hanno piuttosto la loro origine nella critica negativa del cristianesimo storico e della tradizione biblico-ecclesiastica, svolta sia dai grandi eruditi olandesi, sia dai libertini e spiriti forti francesi.

Le condizioni propizie per la maturazione del deismo si crearono in Inghilterra, quando gli eccessi fanatici dell’età puritana stimolarono la formazione di élite di eterodossi, dissenzienti e increduli. All’indomani della rivoluzione del 1688, si richiamarono a J. Locke i deisti e i freethinkers, radicalizzando però in senso antireligioso e politico le sue vedute di cristianesimo ragionevole, infrangendo la tregua con l’episcopato anglicano e il rispetto esteriore per le tradizioni. Si posero su questa strada J. Toland, J.A. Collins, M. Tindal, W. Wollaston e molti altri polemisti e libellisti, la cui rivendicazione di un «cristianesimo senza misteri» si modificò presto in posizioni panteistiche, materialistiche e ateistiche, consapevolmente legate alla critica dell’ideologia whig o tory, e della collusione tra potere politico e religione. Sostenitore di un deismo ‘cristiano’ fu S. Clarke, che combatté i deisti estremisti usando come argomento apologetico l’immagine newtoniana dell’universo-macchina.
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Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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