1. La caduta - Dopo le epiche lotte contro i Turchi, la Repubblica di San Marco aveva iniziato la sua parabola discendente.http://www.centrostudiluccini.it/pubbli ... rangon.pdf Erano scomparse le generazioni dei sagaci ed intraprendenti mercanti veneziani e l’oligarchia nobiliare, da secoli al potere, si era arroccata nei suoi possedimenti di terraferma: un terzo delle campagne venete era posseduto dai nobili veneziani e solo un quinto dalla vecchia nobiltà locale. Questa ricca aristocrazia aveva perduto il contatto con la realtà adagiandosi in un indolente pragmatismo, preoccupata solo di conservare le sue rendite con il risultato di aggravare il distacco tra Venezia e la terraferma.
In buona sostanza in tutta la sua storia l’aristocrazia veneziana è stata prevalentemente, per non dire esclusivamente, interessata ai “schei” ???: prima a quelli provenienti dal ricco commercio con l’oriente, e negli ultimi secoli della sua storia a quelli derivanti dallo sfruttamento delle fertili campagne venete.
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I fatti ed i dati citati in questo intervento sono noti, e rinvenibili nelle copiosa letteratura esistente sull’argomento. Si omettono perciò i riferimenti testuali, superflui ai fini del ragionamento.
In quest’ultimo periodo vengono decisamente respinti i progetti riformatori di Andrea Memmo, un nobile illuminato, propugnatore della libertà di mercato e dell’instaurarsi di un nuovo rapporto tra la città e il territorio. A lui si deve l’iniziativa, solo parzialmente realizzata, della sistemazione del Prato della Valle padovano.
Vengono pure repressi con durezza i successivi tentativi riformatori di Anzolo Querini, e poi di Giorgio Pisani assieme a Carlo Contarini.
Non si capisce nulla o quasi di quanto sta avvenendo in Europa, e la Rivoluzione Francese viene a lungo considerata come una tempesta lontana che non riguardava direttamente la Serenissima e non certo una svolta epocale, ma solo come l’ultimo anello di quella serie di eventi che aveva avuto il suo inizio con la nascita degli Stati Uniti d’America.
Non si ha per niente la percezione dell’uragano che avrebbe sconvolto l’Europa e travolto la Serenissima. Non ci si preoccupa di cercare alleanze né di adottare un minimo di misure difensive.
Il doge Paolo Renier amaramente constatava: «No gavemo forze, non terrestri, non marittime, non alleanze; vivemo a sorte per accidente, e vivemo co la sola idea della prudenza del governo della Repubblica veneziana. Questa xe la nostra forza». Filosofia politica molto chiara: non muovere niente, altrimenti crolla tutto: galleggiare per sopravvivere.
Come aveva previsto sul letto di morte: «L’erario xe in sconquasso, ocore on ricon, e i farà Lodovico Manin». Costui infatti, pauroso grande latifondista friulano, divenne doge; la sua unica forza erano i soldi.
Di lui i veneziani dicevano:
El dose Manin
dal cuor picinin;
l’è streto de man,
l’è nato furlan.
Il governo della Serenissima controllava con i suoi “confidenti” (oggi li chiameremmo “infiltrati”) gli ambienti sospetti e, in particolare, quelli universitari di Padova. Il neutralismo e il pacifismo ad oltranza non si rifacevano a nobili ideali, ma piuttosto alla tradizionale gretta avarizia.
Giacomo Casanova scriveva che il riarmo «appariva troppo costoso alla schifosa avarizia e inutile alla vigliacca lungimiranza» della nobiltà veneziana che nel Settecento, come si è detto, si era opposta ad ogni azione riformatrice. Il neutralismo e il pacifismo avevano quindi un solo motivo: la paura di dover spendere per il riarmo; i nobili veneziani erano cioè neutrali per avarizia.
Nel maggio del 1794 la maggioranza dei senatori aveva votato a favore della neutralità armata, ma poi il doge negò al provveditore Francesco Pesaro i mezzi necessari al riarmo dell’esercito. Non si volle affidare la riorganizzazione dei presidi di terraferma ad un “Provveditor generale”, e ciò che emerse fu un «assoluto sprovvedimento di ogni mezzo militare».
Poco più tardi alcuni giovani nobili proposero di «armare estraordinariamente» la Repubblica, ma la proposta venne respinta dal Senato a causa della «grandiosa spesa occorrente». Solo dopo che Parigi ebbe dichiarato guerra all’Austria e le vittorie di Napoleone in Piemonte (aprile 1796) ci si decise a tentare qualche passo, ma l’ambasciatore veneziano a Parigi, Alvise Querini, diede prova lampante di insipienza politica tentando di corrompere un membro del Direttorio (anche allora c’erano le bustarelle!) ma non aveva capito che Napoleone si muoveva autonomamente.
Intanto cominciava la disgregazione della Serenissima. Il 12 e il 18 marzo 1797 Bergamo e Brescia si ribellarono a Venezia, e si costituirono in libere repubbliche.
Poi gli eventi precipitarono rapidamente, e Napoleone mostrò di non tenere in alcun conto la libertà dei popoli dando prova di cinismo opportunista.
Gli accordi preliminari di pace con l’Austria (Leoben, aprile 1797), pur nella loro genericità, lasciavano intendere che la Repubblica di San Marco avreb-be continuato ad esistere come Stato sovrano. Lo stesso Bonaparte affermò che Venezia era «la plus digne de la libertè de toute l’Italie», ma erano solo parole. Venezia e il Veneto gli servivano come merce di scambio per la pace con l’Austria.
A dire il vero il Direttorio insistette perché Venezia non venisse sacrificata.
Ci fu anche chi propose un’alleanza con Venezia contro l’Austria, ma la conservatrice oligarchia nobiliare veneziana preferì la fine della Serenissima ad una alleanza con i giacobini francesi, e Napoleone aspettava solo un pretesto che puntualmente venne.
A Verona il 17 aprile 1797, secondo giorno di Pasqua, scoppiò una rivolta antifrancese (“le Pasque veronesi”), e dopo una settimana non rimase in città un solo francese. Non si trattava di fedeltà a San Marco, ma di reazione dei veronesi alle prepotenze e alle razzie dei soldati francesi. C’è anche chi sostiene che la rivolta era stata fomentata da agitatori francesi per giustificare l’occupazione.
I soldati rioccuparono infatti la città, ed imposero una contribuzione di 170.000 zecchini con la consegna delle opere d’arte e delle argenterie di tutte le chiese. Napoleone si mostrò infuriato e promise: «Sarò come un Attila per Venezia: basta Inquisitori di Stato, basta Libri d’oro; il vostro governo è decrepito».
Ai deputati veneziani Donà e Giustinian, che lo avevano raggiunto a Graz, Napoleone ribadì: «Non voglio più Inquisizione, non voglio più Senati. Sarò un Attila per lo Stato veneziano».
Poi arrivò il secondo pretesto. Dal forte di Sant’Andrea al Lido venne cannoneggiata e arrembata dai dalmati a servizio di Venezia la nave francese “Liberateur d’Italie” che aveva tentato di entrare in laguna all’inseguimento di una barca da pesca chioggiotta.
Il 1° maggio 1797 Napoleone dichiarò guerra alla Serenissima che cedette di colpo senza nemmeno un sussulto d’orgoglio. Eppure poteva difendersi: c’erano in città 11.000 fedelissimi dalmati (gli Schiavoni), 3.500 soldati veneti, 800 bocche da fuoco, 206 imbarcazioni di guerra.
Probabilmente con questo atteggiamento di totale remissività il patriziato pensava di salvare le sue vastissime proprietà terriere.
Alle tre pomeridiane del 12 maggio 1797 il Maggior Consiglio, in una convocazione formalmente illegale poiché per la validità della riunione sarebbero state necessarie 600 presenze mentre i patrizi presenti erano solo 537, «con voti 512 di sì, 20 di no e 5 non sinceri [e cioè astenuti]», deliberava
di trasferire i poteri a un “Provvisorio Rappresentativo Governo” sperando che ciò incontrasse i desideri del “generale”, vale a dire di Napoleone.
Non era l’ultimo ruggito del glorioso leone, ma solo un belato, un miagolio della “gatta” secondo l’ironica defi
nizione dei padovani. Finiva così, senza dignità, una storia gloriosa durata quattordici secoli.
Di diverso avviso si mostrò il popolo veneziano. Quando Sebastisano Salimbeni annunciò l’evento alla folla
che gremiva la Piazzetta, concludendo con il grido “Viva la libertà”, la folla urlò “Viva San Marco”, e in città divampò la rivolta dimostrando così che non corrispondeva alla realtà la tesi di una popolazione veneziana oppressa perché se tale fosse stata sarebbe andata in piazza a manifestare la sua gioia. Va precisato che si parla di Venezia, e non delle città fino ad allora sottoposte al suo dominio.
Gli unici a resistere furono gli Schiavoni dalmati e croati, parte dei quali, guidati dal patrizio Foca Morosini, partì per Zara portando il gonfalone di San Marco che venne sepolto nell’altare del Duomo.
I francesi procedettero senza tanti scrupoli, trafugando un immenso patrimonio d’arte (opere del Carpaccio, dei Bellini, del Tiepolo, del Guardi, del Tintoretto...); si portarono a Parigi anche i quattro cavalli di bronzo della Basilica.
Tornati, dopo la breve parentesi dell’occupazione austriaca, tra il 1800 e il 1810, fecero demolire 72 chiese veneziane su 187, e soppressero quasi tutte le comunità religiose. Tra le chiese demolite vanno ricordate S. Geminiano del Sansovino, S. Paternian con il caratteristico ed unico campanile a pianta pentagonale, e Santa Lucia dove è ora la stazione ferroviaria.
Per far posto ai giardini venne demolito un intero quartiere con le chiese di S. Antonio e S. Nicolò nonché il seminario ducale. E S. Aponal divenne carcere politico; Santa Maria delle Vergini venne trasformata in penitenziario, Santa Marina in osteria.
Le spoliazioni e l’atteggiamento sprezzante dei francesi spiegano perché nel 1813 le truppe asburgiche furono accolte come liberatrici: anche quella era una illusione.
Si può anche rilevare che la dissoluzione della oligarchia veneziana nel 1797 anticipò, in qualche modo, l’8 settembre 1943: in entrambi i casi finì per ignavia una continuità statuale.
2. La breve illusione della Municipalità padovana Se Venezia pianse, Padova non rise. La città venne occupata dai francesi il 28 aprile 1797 e il generale Lamoz, accolto dall’abate Alvise Savonarola, animatore filo-francese del salotto dei Papafava, fece subito erigere in Prato della Valle un albero della Libertà.
Ma, ancora una volta si ebbe la dimostrazione che è precaria ogni libertà portata sulla punta di baionette straniere. Infatti l’occupazione francese segnò per Padova (e per il Veneto) l’inizio di una fase convulsa con otto avvicendamenti nel breve volgere di poco più di un quindicennio:
i francesi dal 28 aprile 1797 al gennaio del 1798;
gli austriaci dal 18 gennaio 1798 al 9 gennaio 1801;
i francesi dal 10 gennaio 1801 al 6 aprile 1801;
gli austriaci dal 7 aprile 1801 al 5 novembre 1805;
i francesi dal 6 novembre 1805 al 26 febbraio 1809;
gli austriaci dal 27 febbraio 1809 all’10 aprile 1809;
i francesi da metà aprile 1809 al 7 novembre 1813;
gli austriaci dal novembre 1813 fino al 1866.
La città, quindi, per quindici anni, venne continuamente sconvolta. Il giorno dopo il primo arrivo dei francesi (28 aprile 1797) il generale Teuliè insediò la Municipalità che, a ragione, venne definita “una rivoluzione ad opera della nobiltà”, la vecchia nobiltà terriera. Infatti ne facevano parte:
Girolamo Albertini,
Lorenzo Baldan,
Prosdocimo Brazzolo,
Girolamo De Rio,
Girolamo Dottori,
Gio Batta Ferrighi,
Giuseppe Fogarolo,
Stefano Gallino,
Girolamo Lazara,
Luigi Mabil,
Antonio Nalin ,
Giacomo Nalin
Fabrizio Orsato,
Girolamo Polcastro ,
Bartolomeo Prati,
Giuseppe Rossi,
Michele Salomon,
Alvise Savonarola,
Giovanni Scardova,
Simone Stratico,
Antonio Vigodarzere,
Francesco Zorzi.
In seguito ad una ordinanza del generale Brune (16 giugno) i membri della Municipalità salirono a trenta.
In realtà i giacobini padovani erano solo alcune decine, e si trattava per lo più di membri di alcune famiglie aristocratiche (i Papafava, i Capodilista, i Dondi dall’Orologio, che si ritrovavano nei salotti di Arpalice Papafava e di Francesca Capodilista) o di grandi proprietari terrieri come i Cittadella ed i Vigodarzere.
Diversi erano giacobini e rivoluzionari solo a parole; se ne ebbe la riprova quando, dopo Campoformio, si mostrarono filo austriaci. Era chiaro che badavano solo a difendere le loro proprietà ed i loro privilegi, indifferentemente con i francesi o con gli austriaci.
Decomposta la Serenissima e crollate secolari strutture di potere, la Municipalità, per quanto affermasse di agire «in nome della sovranità del popolo» come si legge nel proclama del 18 maggio, non poté esercitare effettive prerogative proprie.
Neppure Venezia ebbe un trattamento diverso. Il 16 maggio era stato firmato a Milano il trattato di pace con condizioni molto dure: una indennità di tre milioni in merci, di tre milioni in attrezzature, la consegna di tre vascelli. Napoleone, con la tipica tattica del bastone e della carota, riconosceva alla Municipalità provvisoria prerogative costituzionali e il diritto di rappresentanza internazionale.
Ogni città veneta ebbe la sua Municipalità e tutte ebbero due caratteristiche comuni: erano antiveneziane e viziate da particolarismo municipale, il che fece il gioco di Napoleone e stemperò i grandi ideali di libertà e di eguaglianza.
Le diverse Municipalità non riuscirono a trovare una base, sia pur minima, di accordo tra loro. I tre congressi dei deputati veneti, tenutisi a Milano, Bassano e Venezia, fallirono poiché «invece di unirsi, furono maggiormente divise le veneta province». Prevalsero i campanilismi, nobilitati in tempi a noi più vicini dal termine “policentrismo”.
Già, allora ci fu chi propose la soluzione federalista, come il bellunese Giuseppe Fantuzzi: ogni Municipalità una repubblica, e tutte riunite in un governo federale. Ma la proposta cadde. Intanto il 29 luglio 1797 era stata proclamata la costituzione della Repubblica Cisalpina.
Dopo un plebiscito che aveva visto 78.382 sì e 34.259 no, la Municipalità di Padova dichiarò di preferire l’unione alla Lombardia piuttosto che quella con le altre città venete. Nella regione vennero raccolte 300.000 firme di adesione alla Repubblica Cisalpina, ulteriore conferma che non se ne voleva in alcun modo sapere di Venezia.
Padova, il 1° luglio 1797, divenne capoluogo di un Dipartimento comprendente, oltre al territorio padovano, anche il Polesine con Adria e Rovigo. La stagione delle illusioni e degli entusiasmi durò pochi mesi. Il 14 ottobre 1797 si riunì a Venezia il Congresso nazionale veneto con la partecipazione dei delegati di Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Udine e Venezia. Era l’estremo tentativo di salvare almeno l’unità dei veneti. Sembrò prevalere la tesi dell’unione alla Repubblica Cisalpina.
Venezia fu l'ultima delle Municipalità ad accettare la proposta di unione cullandosi ancora nell’ipotesi di una autonoma repubblica di Venezia e del Veneto.
Tre giorni dopo (il 17 ottobre) Napoleone firmò con l’Austria il trattato di Campoformio cedendole il Veneto con l’Istria e la Dalmazia; Bergamo e Brescia furono unite alla Repubblica Cisalpina, e la Francia si prese i possedimenti veneziani dell’Egeo.
In un disperato ma inutile tentativo di evitare la cessione all’Austria venne indetto un referendum per il 28 ottobre 1797: 12.725 furono coloro che confermarono la volontà di indipendenza e 10.843 quelli che si dichiararono per l’accettazione delle decisioni. Il 18 Gennaio gli austriaci entrarono a Venezia, e nello stesso giorno a Padova. Nello stesso mese commissari austriaci sostituirono le Municipalità.
A dimostrazione di quale fosse l’atteggiamento dei padovani c’è l’episodio del 20 gennaio 1798 quando Gerolamo Polcastro, membro della Municipalità padovana, assieme al medico Stefano Gallino, pure lui membro della Municipalità, si recò a Mestre per incontrare il generale austriaco Klenau.
C’erano con loro la moglie del Polcastro, la contessa Caterina Papafava, e la contessa Lazzara, moglie di Gerolamo Da Rio, altro nobile padovano pure lui membro della Municipalità. Quando, tornando da Mestre, arrivarono al Portello, furono quasi linciati dalla popolazione che temeva il ritorno del dominio veneziano.
È del tutto comprensibile il dramma e l’amarezza dei sostenitori della Municipalità che si sentirono traditi nei loro ideali, imparando così a proprie spese che la libertà è sempre una conquista, mai un dono. Paradigmatica è stata l’esperienza di Ugo Foscolo, decisamente giacobino e segretario provvisorio della Municipalità veneziana con l’incarico di compilare i processi verbali delle pubbliche discussioni.
È facile immaginare, quando venne a sapere di Campoformio, la sua cocente delusione che rimane documentata con trasfigurazione letteraria nelle “Ultime lettere di Jacopo Ortis”, scritte a Feriole di Abano. Il 9 novembre si dimise dall’incarico, e partì per Milano in volontario esilio.
Rimane da dire che le Municipalità venete, pur nello loro breve e tormentata esistenza, portarono ad un rilevante mutamento nella dislocazione del potere che passò definitivamente in buona parte dall’aristocrazia alla borghesia. E non fu certamente un fatto di poco conto.Andrea Memmohttps://it.wikipedia.org/wiki/Andrea_MemmoAndrea Memmo (Venezia, 29 marzo 1729 – Venezia, 27 gennaio 1793) è stato un letterato, politico e diplomatico italiano, al servizio della Repubblica di Venezia. Era figlio di Pietro e di Lucia Pisani e apparteneva a una delle cosiddette famiglie apostoliche, cioè quelle di più antica nobiltà in Venezia.
Andrea Memmo (Venezia, 29 marzo 1729 – Venezia, 27 gennaio 1793) è stato un letterato, politico e diplomatico italiano, al servizio della Repubblica di Venezia. Era figlio di Pietro e di Lucia Pisani e apparteneva a una delle cosiddette famiglie apostoliche, cioè quelle di più antica nobiltà in Venezia.
https://books.google.it/books?id=jkBmAA ... mo&f=false Angelo Querinihttps://it.wikipedia.org/wiki/Angelo_QueriniAngelo Querini (Venezia, 31 luglio 1721 – Venezia, 30 dicembre 1796) è stato un politico italiano della repubblica di Venezia, patrizio della famiglia Querini di San Severo.
Fu senatore e ricoprì anche altre importanti cariche nella Repubblica di Venezia. Convinto sostenitore delle idee di rinnovamento, si schierò col partito dei riformatori che fu regolarmente sconfitto fino alla nomina dell'ultimo doge, Ludovico Manin, che non riuscì ad opporsi al tramonto della Repubblica, passando alla storia come esempio di conservatorismo miope e arrogante.
La sua azione di contrapposizione all'ala moderata si risolse in una reclusione della durata di due anni, a partire dall'agosto 1761, trascorsa nel carcere di Castelvecchio (ora museo civico) a Verona. Il sospetto di essere portatore di idee liberali era accompagnato a quello di aver aderito alla massoneria. Poiché al momento dell'arresto Querini ricopriva la carica di avogador de comun il fatto trascese il caso personale e costituì una grave crisi istituzionale.
Disgustato dalla vita politica si ritirò, per la più parte del tempo, nella sua villa di Altichiero, presso Padova che divenne un esempio molto noto in Europa di domus patrizia di campagna, luogo di ritrovo per intellettuali e salotto culturale. La villa fu abbellita nel tempo da numerosissime statue e la sua struttura è stata tramandata da un libro (Alticchiero, Padova 1787) scritto da un'ospite assidua: Giustiniana Wynne.
Giorgio Pisanihttps://it.wikipedia.org/wiki/Patriziato_(Venezia)
Una particolare categoria di patrizi era costituita dai nobili decaduti, detti Barnabotti, i quali, dissipatosi il patrimonio di famiglia, mantenevano ugualmente il proprio diritto al voto in maggior consiglio. Verso la fine della Repubblica essi rappresentarono spesso l'ago della bilancia tra le fazioni politiche del Maggior Consiglio, attraverso il mercimonio del proprio voto cui erano spesso dediti: dalla pratica di effettuare la vendita dei voti nel brolo (orto, giardino) di San Marco, deriva il termine odierno di broglio.
Nel corso del XVIII secolo il sistema politico veneziano andò incontro ad una sclerosi. L'aristocrazia nel XV e XVI secolo era molto numerosa, un elevato tasso di natalità tra la nobiltà, unito alla professione mercantile (e di mercante-imprenditore) intrapresa da una parte cospiqua di questo ceto, comportava un governo aristocratico ampio e dai variegati interessi, in cui i nobili poveri erano una minoranza, mentre numerose erano le vicende di mobilità sociale interne al ceto, i rapidi arricchimenti nei commerci con l'oriente e nelle nuove manifatture impiantate in laguna. Nel corso del XVII e XVIII secolo la congiuntura economica peggiorò, sempre più dopo il 1618, l'aristocrazia veneziana fu sempre più dipendente dalle proprie proprietà nella terraferma e nelle colonie, oltre che dalla sinecure pubbliche. In Europa si diffuse l'idea che il commercio e l'industria fossero indegni per l'aristocrazia, un'idea rifiutata dall'aristocrazia veneziana, ma che cambiò comunque la mentalità della nobiltà. Le guerre contro i turchi di metà e fine '600 chiusero per molti anni il commercio con il levante, così come anche nel primo '700, rovinando altre famiglie mercantili o che non avevano saputo diversificare nella terra e negli immobili i loro investimenti. Poche famiglie mutarono considerevolmente e rapidamente il proprio status economico verso l'alto, permettendo ad un gruppo di famiglie, sempre più ristretto, di mantenere una relativamente grande ricchezza, mentre molte altre perdevano costantemente la loro posizione, spesso rimanendo senza nemmeno il denaro per vivere "civilmente" e per avere abiti decenti.
Questo rese i Barnabotti un fenomeno evidente della società veneziana, mentre iniziò una riflessione sul come cambiare le forme di governo. Infatti un gruppo ,che i oligarchi, che raccoglieva le famiglie più ricche, riusciva, anche corrompendo i nobili più poveri, ad escludere i medi e i poveri che non erano al loro servizio, al silenzio. Il governo veneziano, tramite il consiglio dei dieci e gli inquisitori di stato, impediva però le riforme di qualunque tipo (anche perché questi organi erano in mano all'oligarchia che si stava impadronendo dello stato, a suo esclusivo vantaggio). Tentativi di riforma furono tentati, ma mai attuati, in particolare Angelo Querini nel 1761 cercò di ridare potere agli organi più collegiali dell'aristocrazia veneziana, mentre nei tardi anni '70 del XVIII secolo Giorgio Pisani e Carlo Contarini, attraverso la formazione di una sorta di "partito nobiliare", tentarono una riforma complessiva. Al centro delle loro proposte vi era proprio il recupero sociale e politico delle parti più povere e barnabotte della nobiltà veneziana (assegnazione alle giovani patrizie di doti, specie a quelle povere, aumento degli stipendi dei Quaranta e di altri Collegi, concessione di stipendi e donativi per alcune cariche politiche prestigiose, in precedenza gratuite e quindi monopolizzate dai nobili ricchi, in Terraferma e all'estero, fissazione di un'uniforme per i nobili al fine di distinguerli dai plebei, ecc. in pratica creazione di un'aristocrazia "politica" e di servizio, capace collettivamente di governare la città e l'impero); vi erano poi alcune questioni di ispirazione illuministica, come l'opposizione allo spionaggio interno, la libertà di parola, la difesa e ripresa dei commerci ecc. Proprio questo tentativo di "reazione nobiliare", non privo di manovre populistiche a favore dei barnabotti, fu stroncato dalle spie degli inquisitori, che, ben informati, prima accusarono i due (nella primavera del 1780 eletti ad importanti cariche) di aver comprato i voti dei barnabotti, poi, oramai accusandoli di congiurare, carcerano il primo a Cattaro (dove morì, forse avvelenato) e il secondo a Vicenza. Quando arrivarono i francesi e i giacobini Contarini cercò di legittimarsi come avversario del dispotismo degli inquisitori di stato, di cui era stato vittima, ma, riconosciuto per quello che era, e cioè un aristocratico che aveva cercato di modernizzare le strutture della repubblica di Venezia, rimanendo però all'interno della nobiltà, ed anzi rafforzandone il carattere aristocratico, lo emarginarono.
Giuseppe Fantuzzihttp://www.treccani.it/enciclopedia/giu ... Biografico)
di Paolo Preto
FANTUZZI, Giuseppe. - Nato a Belluno il 10 ott. 1762 da Francesco e Bernardina de Castello, trascorse l'adolescenza e la prima giovinezza trasportando abeti e pini sul Piave e di questa sua origine da "un'ignobile famiglia di zatteri" si fece vanto per tutta la vita. A vent'anni fu inviato dal padre, che aveva assunto l'appalto del dazio dei vitelli, a Venezia a curare gli interessi dell'impresa: nella splendida capitale della Repubblica il F. si abbandonò ad una vita dissipata, "distinto" nel gioco delle carte, "più che eccellente" nel biliardo, ma poco attento agli affari della famiglia, che nel frattempo si era aggiudicata anche i lavori di riparazione della rotta del Piave a Quero; egli fece, comunque, fortuna e acquistò una casa in Riva degli Schiavoni. Richiamato a Belluno, si dedicò a studi di storia e fisica, si appassionò agli "enciclopedisti", frequentò i circoli colti e, spinto dall'amore per l'istruzione e dall'"odio per la tirannia", compì un lungo viaggio in Germania e in Russia. Tornato a Venezia, vi conobbe un principe polacco e lo seguì a Varsavia (1793), dove diventò amico di T. Kościuszko ed appassionato sostenitore dei "diritti del popolo"; combatté eroicamente e venne ferito nella battaglia di Praga (vicino a Varsavia) e guidò l'ultima disperata resistenza antirussa, poi, caduta la Repubblica polacca, fuggì travestito da donna a Vienna e rientrò a Belluno.
In una lettera al fratello Luigi, cui suggeriva di cercarsi un mestiere "non di lusso, ma utile alla società", ricordava la sua prima giovinezza trascorsa in un ozio degradante, narrava con ricchezza di particolari la sua partecipazione alla guerra antirussa e traeva una "grande e terribile lezione" da quelle vicende: "Avreste veduto da per voi quai sforzi è obbligato a fare un Popolo per acquistare la sua libertà una volta che l'ha perduta: sforzi degni dell'uomo, ma pur troppo sovente inutili" (Pellegrini, Tre lettere..., p. 11).
Passato "dal remo alla spada e da questa alla penna", promise di stendere le Osservazioni storico-politico-filosofiche sopra gli avvenimenti della Polonia, per presentare all'Europa il "grand'avvenimento della Polonia" "nel suo vero punto di vista", e forse le scrisse davvero negli ozi di Belluno e di Abano tra il 1795 e il 1796, ma sono andate perdute. Inebriato dalla "musica del cannone" (la vera "musica dell'uomo" non quella delle "opere buffe e serie"), trascorreva i suoi giorni tra Venezia e la città natale, tra lo studio e la fremente attesa di un'azione politica che desse concreta realizzazione ai suoi ideali "democratici". Nel gennaio 1795 stampò a Venezia, per i tipi di Antonio Zatta, il volumetto Dei fiumi in cui il "violento disprezzo verso la cultura astratta" si fondeva con "l'avversione ... contro tutti i governi tirannici ed assoluti, ammassi inerti dì leggi, pure teorie che un dispotico atto di arbitrio può sconvolgere a suo piacimento" (Berengo, La società veneta..., p. 217).