Coel parlamento veneto de tuti i veneti mai nato

Re: Coel parlamento veneto de tuti i veneti mai nato

Messaggioda Berto » sab mag 13, 2017 6:56 am

Fogliatta è l'esempio della manipolazione della storia fatta dagli "invasati o posseduti" dal mito di Venezia Serenissima aristocratica e marchesca.

Recuperare la storia negata o deformata è un bene,
ma deve essere la storia di tutti i veneti e non solo quella di Venezia, dei veneziani e della Serenissima,
ma anche quella di tutti gli altri che sono la maggioranza: dei regni goti e longobardi, dei ducati longobardi, dell'Impero Carolingio, della Marca Trevisana e della Marca Veronese, del Sacro Romano Impero, dell'Epopea Comunale delle città e delle autonomia territoriali;
e deve essere raccontata in modo corretto senza pregiudizi e senza spregi per gli uni ed esaltazioni per gli altri.

Fogliatta e i venezianisti hanno l'incoscienza di attribuire la fine della Repubblica Veneta a Napoleone, alla Francia, ai giacobini e alla Rivoluzione Francese senza riconoscere le responsabilità storiche di Venezia, dei veneziani e dei veneti che non sono affatto inesistenti e trascurabili ma che invece sono la causa prima che predispose la terra veneta e i veneti ad essere travolti da Napoleone e dallo spirito dei tempi.


Fu lo spirito del tempo che travolse la Serenissima dopo aver travolto la Francia e in parte provocato la reazione del giacobinismo e del bonapartismo; spirito che l'aristocrazia veneziana non seppe riconoscere e accettare e che ancor oggi questi nostalgici della Serenissima riconoscono a malapena e a cui attribuiscono ogni malvagità; spirito che si può identificare con l'illuminismo e con le sue idee di libertà democratiche.
Per questi venezianisti, invasati dal mito dell'aristocrazia veneziana, la democrazia illuminista sarebbe un male a cui preferirvi quello che per loro sarebbe il bene della repubblica dominata da un'aristocrazia illuminata;
per costoro l'illuminismo sarebbe un male se democratico (e laico) e un bene se aristocratico (e religioso, ma di una religiosità cristiana tutta veneziana svincolata da quella cattolica Roma).

No signori, la democrazia, quella vera, popolare o partecipata da tutti i cittadini, responsabile e diretta è uno dei massimi valori umani, civili, politici e culturali.
Democrazia che può essere interamente repubblicana e mista (in parte diretta e in parte rappresentativa) come quella svizzera o solo rappresentativa come in Italia, in Francia, in Spagna, in Germania, in Austria, ecc. (con anche elementi di vera democrazia diretta e referendaria in taluni paesi) o mescolata con la monarchia come in Gran Bretagna, in Belgio, in Olanda, in Danimarca, in Svezia.

No signori l'illuminismo laico e la democrazia popolare di tutti i cittadini non sono un male mentre invece la religiosità se idolatra, castuale o aristocratica e teocratica è sempre un male.

Lo spirito e la spiritualità non sono affatto monopolio delle religioni idolatre e della loro religiosità dogmatica ma esso esiste anche e sopratutto fuori dalle religioni dove esso può dispiegarsi libero dalle deformazioni, dagli annichilimenti e dalle falsificazioni dogmatiche e idolatre.


Illuminismo
L'illuminismo fu un movimento politico, sociale, culturale e filosofico sviluppatosi intorno al XVIII secolo in Europa. Nacque in Inghilterra, ma ebbe il suo massimo sviluppo in Francia, poi in tutta Europa e raggiunse anche l'America.

https://it.wikipedia.org/wiki/Illuminismo

« L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d'intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell'Illuminismo. »
(Immanuel Kant da Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo?, 1784)


lluminismo nell'Enciclopedia Treccani

http://www.treccani.it/enciclopedia/illuminismo

Illuminismo Per I. si intende sia l’età della storia d’Europa compresa tra la conclusione delle guerre di religione del 17° sec. o la rivoluzione inglese del 1688 da un lato e la Rivoluzione francese del 1789 dall’altro, sia la connessa evoluzione delle idee in fatto di religione, scienza, filosofia, politica, economia, storiografia e il rinnovamento delle forme letterarie nel corso del 18° secolo. La metafora della luce contenuta nel termine (fr. Âge des lumières; ingl. Enlightenment; ted. Aufklärung) deriva dalla secolarizzazione e laicizzazione dell’idea di provvidenza o progresso, intesa come attività storica umana: così il concetto di ‘luce di natura’ fu anteposto e contrapposto dai deisti inglesi alla rivelazione cristiana in quanto possesso originario della mente umana; così pure la scoperta delle leggi naturali apparve una più piena rivelazione o ‘illuminazione’. Confluirono con questi due motivi le conclusioni ottimistiche del dibattito sulla teodicea, l’idea della superiorità dei moderni rispetto agli antichi prevalsa in un’annosa querelle, l’ideale continuità con la rivoluzione scientifica e con la rinascenza, lasciando emergere la caratteristica immagine del trionfo della ragione contro le tenebre del fanatismo e della superstizione, che divenne corrente verso la metà del secolo. I contenuti filosofici e scientifici della cultura dei lumi rinviano a un complesso programma di rinnovamento ideologico, civile, politico, che fu elaborato variamente nei diversi paesi (v. fig.) e accompagnò ovunque la crescente egemonia della borghesia commerciale e industriale in lotta con le strutture del sopravvivente mondo feudale.

1. Religione e ragione

L’affermazione solenne dell’autonomia della ragione, che è alla radice della cultura dei lumi, maturò in cerchie ristrette e assunse un peculiare significato politico e religioso negli ultimi decenni del 17° secolo. La superfluità di ogni rivelazione divina, il distacco dalle varie ortodossie ecclesiali, l’autonomia delle leggi morali, l’immagine razionale di un Dio architetto del cosmo svelato dalla nuova scienza, sono gli aspetti costruttivi del deismo, del quale si considera generalmente iniziatore E. Herbert of Cherbury. Ma le grandi linee della disputa settecentesca sulla religione naturale e rivelata hanno piuttosto la loro origine nella critica negativa del cristianesimo storico e della tradizione biblico-ecclesiastica, svolta sia dai grandi eruditi olandesi, sia dai libertini e spiriti forti francesi.

Le condizioni propizie per la maturazione del deismo si crearono in Inghilterra, quando gli eccessi fanatici dell’età puritana stimolarono la formazione di élite di eterodossi, dissenzienti e increduli. All’indomani della rivoluzione del 1688, si richiamarono a J. Locke i deisti e i freethinkers, radicalizzando però in senso antireligioso e politico le sue vedute di cristianesimo ragionevole, infrangendo la tregua con l’episcopato anglicano e il rispetto esteriore per le tradizioni. Si posero su questa strada J. Toland, J.A. Collins, M. Tindal, W. Wollaston e molti altri polemisti e libellisti, la cui rivendicazione di un «cristianesimo senza misteri» si modificò presto in posizioni panteistiche, materialistiche e ateistiche, consapevolmente legate alla critica dell’ideologia whig o tory, e della collusione tra potere politico e religione. Sostenitore di un deismo ‘cristiano’ fu S. Clarke, che combatté i deisti estremisti usando come argomento apologetico l’immagine newtoniana dell’universo-macchina.
...


I veneziani furono travolti perché non vollero mollare il loro privilegio aristocratico di essere i sovrani dello stato repubblicano a spese e a danno degli altri. Furono travolti come fu travolta l'aristocrazia nobiliare e terriera francese con la sua monarchia assolutista.
Si salvarono solo le monarchie o i regimi monarchici che seppero adeguarsi allo spirito dei tempi, divenendo illuminate e democratiche come l'Inghilterra, l'Olanda, la Danimarca, la Svezia.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Coel parlamento veneto de tuti i veneti mai nato

Messaggioda Berto » sab mag 13, 2017 7:02 pm

Dopo l'abdicazione del Governo Veneto, del Doge e del Maggior Consiglio Veneziano in favore della Municipalità Democratica Provvisoria istituita a Venezia ed in ogni altra città veneta, solo a Venezia vi fu una specie di breve guerra civile, tra il popolo che voleva il ritorno del vecchio regime e quello nuovo. Mentre il tutte le altre città venete non vi furono rivolte, ribellioni e sommosse.


Ecco una storia inventata costruita su un fatto vero che ha segnato questa rvolta popolare

LA VERA STORIA DELL'EROE VENETO ANTONIO MANGARINI IN QUEI TRAGICI GIORNI DEL MAGGIO 1797
di Umberto Sartori e Federico Fontanella

Antonio Mangarini fu uno dei capi della resistenza del Popolo Veneziano all'invasione Napoleonica. Una rivolta spontanea, imprevista e improvvisa, del Popolo che non accettò né la sottomissione data a Napoleone dal Senato imbelle né la Municipalità provvisoria instaurata dai giacobini.
Una rivolta che la Municipalità provvisoria, armata da Napoleone, represse nel sangue usando persino l'artiglieria sui dimostranti al Ponte di Rialto.
Seguì una operazione di polizia politica che portò tra l'altro all'arresto e alla fucilazione di Antonio Mangarini.
I pochi dati su questo eroe, sopravvissuti a censure antiche e moderne, sono elencati da Federico Fontanella nella sua prefazione al racconto storico che la figura di Antonio Mangarini gli ha ispirato.
Nel testo originale di Federico Fontanella il ragazzo era indicato con il cognome di Margarini, a causa di un errore di lettura o trascrizione della fonte. Successivi accertamenti hanno appurato che il nome era invece Mangarini. Ho ritenuto segno di rispetto per il Martire restituirgli il vero nome anche nell'elaborato poetico di Federico.

Storia di Venezia, I soldati della Municipalità Provvisoria sparano a mitraglia dal ponte di Rialto sul Popolo veneziano in rivolta
I soldati della Municipalità Provvisoria dal ponte di Rialto sparano a mitraglia sul Popolo veneziano in rivolta (courtesy of cronologia.leonardo.it).

Antonio Mangarini
racconto storico di Federico Fontanella
Prefazione:
Si sa che era stato veneziano dello Stato da Mar, in quanto nativo di Zara, alla pari del Foscolo, che egualmente lo era, in quanto nativo di Zante.
Si sa che era stato ufficiale della Marina veneziana, e che nel 1797 si trovava nel suo venticinquesimo anno di vita, e che la sera del 12 maggio 1797 egli aveva e capeggiato e guidato una sollevazione popolare, la quale avrebbe voluto contrapporsi e scalzare la Municipalità Provvisioria, che aveva sostituito il Governo della Serenissima, al fine di riprestinare quest’ultimo e di unire le forze rimaste per far fronte all’Armata del Buonaparte, in difesa della Patria.
Questa sollevazione si scatenò nelle vicinanze del Ponte di Rialto, e le forze della Municipalità ebbero la meglio e poterono domarla, grazie anche al fatto che vennero impiegati perfino i cannoni contro i rivoltosi, armati soltanto di sciabole e moschetti.
Sappiamo che il Mangarini riuscì al momento a sottrarsi alla cattura, ma che venne individuato e preso qualche giorno dopo.
Sottoposto a processo, venne condannato alla pena capitale mediante fucilazione, che venne eseguita la sera del 23 giugno 1797, alle ore 21, nel Campo di san Francesco della Vigna.
Null’altro, fino ad ora, dalla documentazione pervenuta e rimasta che lo riguarda, si sa di lui.
In particolare non sappiamo perché l’esecuzione abbia avuto luogo proprio in quel Campo, immerso in una atmosfera severa e malinconica, così remoto e periferico, rispetto all’area Marciana, e non sappiamo neppure dove il suo corpo sia stato sepolto.
Un’altra cosa si sa, e questa molto bene, in quanto è assai recente: un gruppo di encomiabili veneziani avrebbe voluto apporre una lapide nel Campo di san Francesco, in ricordo dell’esecuzione del Mangarini, lapide contenente una frase molto breve, succinta ed asettica, tale da non costituire provocazione verso alcuna corrente di pensiero.
La lapide era già pronta, ma non venne mai collocatain quel Campo, poiché vi si oppose una locale Autorità, motivando il diniego con il fatto che quella lapide non sarebbe stata di interesse per alcuno.
Ho ricordato il particolare del diniego alla collocazione della lapide, per far comprendere come i giacobini di oggi non siano gran chè differenti dai giacobini di allora e che quelli odierni, dato che le circostanze attuali non consentono loro l’uso della pena capitale, sanno tuttavia ben avvalersi della pesante mortificazione del pensiero scomodo.
È una caratteristica costante dei giacobini, quella di contrapporre non argomento ad argomento, ma di contrapporre offese, o se non offese, quanto meno valutazioni personali negative verso gli argomenti addotti, o meglio, verso le persone che li sostengono.
A comprova della altezzosità superbiosa derivante dalla consapevolezza di essere, ora come allora, gli unici legittimi depositari della Verità laica.
Infatti, secondo il giudizio di quella Autorità, il gruppo di persone che avrebbero voluto affiggere la lapide, ammesso e non concesso che fossero gli unici interessati, sarebbero stati semplicemente dei “signori nessuno”.
Tornando a noi, debbo dire che la figura del Mangarini mi colpì in modo particolare, perché ebbe a fornirmi un altro nome da poter ricordare, in aggiunta ad altri pochi, in rappresentanza di quei molti veneziani anonimi che non vollero far supina e inerte acquiescenza al tradimento e all'ignavia di alcuni.
Il libretto del Prof. Borsetto citato in calce, mi ha fornito l’ispirazione per stendere il presente racconto, nel cui testo sono richiamati gli scarni dati storici.
Sono state aggiunte alcune particolarità, che non penso snaturino la realtà dei fatti, quale l’esistenza di una madre ancora in vita al momento della morte del figlio e dimorante a Zara, cosa molto verosimile, data la giovane età del martire, e quale il fatto che il Mangarini abbia voluto scrivere una lettera alla madre stessa, prima di venire ucciso. Cose che normalmente avvengono prima delle esecuzioni capitali in tutti i tempi e tutti i luoghi.
Totale frutto di fantasia sono invece le figure di Frate Benedetto da Venezia e di Frate Vittorio da Montereale Valcellina, ques’ultima d’altronde appena accennata.
Il particolare della partecipazione del Goethe alla cerimonia solenne avvenuta in Santa Giustina a Venezia il giorno 7 ottobre 1786 è veramente accaduto, come risulta da alcune indimenticabili pagine dello Italianiche Reise.
È invece di fantasia il colloquio tra lo scrittore tedesco ed il padre del Mangarini.
Desidero mettere in chiaro un particolare relativo a Napoleone.
Si potrebbe arguire che io covi un sentimento di odio nei confronti di questo personaggio storico.
Ovviamente la cosa non interesserebbe e non preoccuperebbe per nulla la moltitudine di ammiratori del famigerato Còrso, data la infinita modestia e pochezza della mia persona; però, se permettete, interessa a me.
Voglio allora precisare che io non odio Napoleone, così come non odio e non voglio odiare alcuna persona al mondo.
Aggiungerò come io sinceramente mi rallegri unitamente al Manzoni e condivida con lui la lieta constatazione del fatto che Napoleone sul letto di morte abbia chinato la fronte ed aperto il suo cuore al Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola.
Detto e confermato questo, il mio personale giudizio sul comportamento tenuto dal Buonaparte nei confronti di Venezia è particolarmente severo e pesante, e lo voglio schiettamente ribadito di fronte alle persone che, affascinate da alcuni lati della personalità del Còrso, amerebbero sorvolare sulle di lui malefatte, non poche, né trascurabili.
Penso che se a Cesare dobbiamo dare quel che è di Cesare, anche a Napoleone dobbiamo dare quello che è di Napoleone.
Un giorno un mio caro amico, veneziano e fervente cattolico, ebbe a meravigliarsi del fatto che ce l’avessi così garba, con la figura del Bonaparte, cosa che contrastava evidentemente con la communis opinio, che egli aveva supinamente ricevuto dai libri di storia studiati in gioventù.
Gli risposi che io mi meravigliavo della sua meraviglia, e ciò, per due motivi, dato che lui era veneziano, amante della sua città, e dato che era anche un fervente cattolico.
Infatti, ove non avessi avuto altri motivi di contrarietà (e ce ne sono a centinaia), sarebbero bastati questi due:
1 - l’aver il Bonaparte proditoriamente annientato la mia Patria, cancellandola dalla storia politica;
2 - l’aver egli trascinato colla forza in Francia, e l’aver ivi tenuti prigionieri per anni ed anni, ben due Papi: Pio VI prima, e Pio VII dopo, sacrilegio che nessuno al mondo osò mai commettere, neppure Hitler, che su simili rapimenti ci aveva fatto anche un pensierino sopra, finendo però con l’accantonarlo.
Un altro caro amico, nel non condividere il mio atteggiamento nei confronti di Napoleone, preferiva essere del parere del Manzoni: "ai posteri l’ardua sentenza".
Se tale epocazione, ovverossia sospensione del giudizio, è accettabile dal Manzoni per la stretta contemporaneità dell'Autore a Napoleone e, adenti stretti, anche da don Lisander, non la si può però omologare al nostro tempo, fra di noi che, a a oltre due secoli di distanza dai fatti, siamo a buon diritto fra i posteri indicati dal Manzoni, quindi in grado e da lui implicitamente obbligati a emettere quell’ardua sentenza.
Le opinioni di questi due amici dimostrano come la storiografia ufficiale sia scritta dai vincitori e per secoli contrasti i vinti quando questi tentano, pur sommessamente, di correggerla con ricerche d'archivio e saggi ragionati, trovando appoggio alle falsificazioni anche fra quei vinti che hanno soggiaciuto all'ideologia dominante.
Ciò precisato, eccovi il raccontino, amici lettori, che se potrà piacervi, ringraziate il retto giudizio e l’eroica volontà del Mangarini; se non vi piacerà, prendetevela pure con me, che le spalle le ho ben salde e robuste, per sopportare le vostre critiche.
Sempre ricordando (per dimostrarvi che alla fin fine, saprei essere vero amico di Napoleone), che quanto vale per ogni defunto, vale ovviamente pure per lui, e cioè che nessuno, tra i morti, ha bisogno dei nostri giudizi, mentre tutti avrebbero bisogno delle nostre preghiere.


Federico Fontanella
Il racconto:
Lettera del condannato Antonio Mangarini alla madre
Da Venezia, sera del 23 giugno 1797
Mia carissima madre,
ho l’amarezza di dovervi scrivere per l’ultima volta nella mia vita, poiché questa sera stessa, poco dopo il tramonto, io verrò fucilato dalle truppe della Municipalità Provvisoria, che governa Venezia, dopo la caduta della gloriosa Serenissima Repubblica.
Vi spiegherò, più concisamente che potrò, come si sia arrivati a questo estremo.
Vi ho detto che questa Municipalità governa Venezia?
Avrei dovuto dire che essa soggioga illegittimamente la nostra Città, poiché questo governo si è autocostituito, si è autonominato da se stesso.
Infatti non è stato nominato da alcuno, se non dai suoi stessi componenti, e si proclama falsamente democratico, mentre il Popolo veneziano non lo ha né voluto, né votato, e d'altronde non vuole saperne di altri governi, al posto di quello Serenissimo.
Una Municipalità così, sorta all’improvviso, in sostituzione del governo della Repubblica di San Marco, e già dotata nei fatti di tutti i poteri del precedente, non può essere sorta dal nulla in pochi minuti, la sera del 12 maggio, ma deve essere stata voluta e preparata nascostamente da lungo tempo da parte dei cospiratori giacobini.
Questo governo fino ad ora non è stato riconosciuto da alcun altro Stato europeo.
E, amara e ridicola constatazione, neppure dagli stessi francesi!
Giustamente, del resto, se ci pensate bene, poiché nemmeno chi organizza, e richiede, e paga l’altrui tradimento, riuscirà a fidarsi del traditore, ma sempre in cuor suo, pur valéndosene, lo coprirà di disprezzo.
Ahimè , madre mia, vorrei poter lasciare questi pensieri litigiosi e terreni, e concentrarmi tutto sulla mia morte imminente.
Sperando così di poter raggiungere il mio amatissimo padre e di unirmi a lui per sempre, e poter pregare più efficacemente per voi, che rimanete sola sulla terra.
Quante volte mi sembrava di essere più intimamente unito a Voi, quando, passando davanti alla chiesa di Santa Maria del Giglio, qui a Venezia, scorgevo scolpita in uno degli specchi del basamento della facciata, la pianta di Zara, la mia città nativa!
Come mi rivedevo fanciullo quando percorrevo quelle strade, accanto a voi, Madre mia, e mi nascondevo dietro un albero, per farvi stare un momento in apprensione, per godere dell’ansioso affetto col quale mi cercavate, e sorridervi poi contento, quando mi lasciavo far vedere di nuovo!
Mi accorgo di lasciaemi prendere la mano da cari ricordi e di procedere, nella descrizione di questi terribili eventi, in un modo molto disordinato e frammentario.
Scusatemi, madre, ma spero comprenderete facilmente come nella situazione attuale, io riesca a controllare il mio intelletto solo fino a un certo punto.
Forse Voi avrete già avuto notizia dei tristissimi avvenimenti che si sono abbattuti sulla nostra Patria, da qualche mese a questa parte.
Una sorta di inesorabile bandito còrso, di nome Napoleone Buonaparte, che è a capo dell’esercito francese, ha invaso già da tempo le nostre terre spadroneggiando, saccheggiandole e depredandole col pretesto di dover inseguire l’armata austriaca.
Egli ha attaccato la nostra Repubblica, malgrado si fosse proclamata neutrale nella guerra in atto tra la Francia e l’Austria, e ne ha, come vi dicevo, invaso gran parte del territorio, costringendo il Doge Manin ed i governanti legittimi della nostra Repubblica a continue vessazioni, a ininterrotti cedimenti, a dolorose umiliazioni, a onerosissimi pagamenti di denaro.
Ciò fino alla sera dello scorso 12 maggio, giorno funestissimo per noi tutti, in cui il Corso si è sentito di dichiarare sciolto e decaduto quello Stato che da oltre un millenio dominava i mari, ben oltre l’Adriatico.
Ha fatto questo dopo avere con mille pretesti e con mille intimidazioni, condizionato i suoi provvedimenti, dopo aver insomma agito da padrone, da dittatore, da despota, da Attila redivivo, prima ancora di diventare effettivo e unico dominatore per davvero.
I Francesi, tramite i loro fedeli emissari, alcuni nobili e alcuni bottegaj, convinti adepti e fautori delle loro idee demoniache, hanno fatto mettere in piedi una Giunta Municipale, che si ispira e si associa ai Francesi nel proclamare falsamente gli ideali di democrazia, di libertà, di fraternità di uguaglianza.

Ora a Venezia non c’è nulla di tutto questo, poiché in Venezia non vi è più alcuna libertà, non vi è fraternità che non sia massonica, non vi è uguaglianza fra gli invasori e i Veneziani, e meno che meno vi è la tanto decantata democrazia, poiché si tratta di un regime imposto esclusivamente con la forza delle armi e con la menzogna, dove non si trova nemmeno un lumicino di libertà, ma solo imperano i saccheggi, le depredazioni, le prepotenze, le angherie, le distruzioni, le arroganti e superbe tracotanze, e, sovrana di tutto, la morte.
Solo alcune nobildonne di facili costumi e altri personaggi del loro livello morale vanno a danzare spensieratamente e sacrilegamente attorno agli “alberi della libertà”.
Intanto noi non siamo più liberi di essere veneziani.
Ahi, madre mia, quale giorno funestissimo, quale giorno veramente infernale per tutti, fu quel 12 maggio, vero giorno dell’Ira divina, in cui esplose una tempesta mai vista prima d’ora, e tutte le nubi che gravavano sulla nostra Patria, cariche di una pioggia maligna e di una grandine devastatrice, si apersero finalmente per inondare Venezia con ogni satanica distruzione!
Giorno veramente nefasto e spaventoso, dove alla sera si ribaltò ogni piedestallo spirituale ed etico su cui posava la nostra Repubblica, e si osarono pronunciare parole di disprezzo, di esecrazione e di odio verso quelle stesse bandiere, verso quegli stessi ideali, che, da secoli e secoli, fino alla mattina di quello stesso terribile e maledetto giorno, erano tenuti in onore, ed erano motivo di gioia e di gloria!
La città era ed è sconvolta, il Popolo veneziano è depresso e disorientato, furente e bramoso di rivolta, attonito e avvilito, forse non vuole rendersi bene ancora conto di cosa sia successo, del disastro immane che è sopraggiunto sul suo destino.
Al punto che io mi sono domandato più e più volte, senza mai poter darmi una risposta adeguata e convincente: ma perché quest’odio forsennato ed inesorabile da parte dei Francesi e del Buonaparte, contro la nostra Patria?
Perché questo livore, questo accanimento, verso una Nazione, verso un Popolo, che ormai da quasi tre secoli non aveva mai mostrato malanimo alcuno verso la Nazione francese e non le aveva arrecato offesa alcuna?
Anche quando Venezia prese le armi contro la Francia, nel lontano 1509, lo fece perché costretta a difendersi dalla Lega di Cambray, cui anche la Francia partecipava.
Perché allora quest’odio, per cui il piccolo Napoleone (per natura, infatti, è press’a poco un mostriciattolo ) non soddisfatto di averla invasa, distrutta e privata della sua identità, della sua autonomia, della sua libertà e della sua indipendenza, non solo sta saccheggiando e rapinando le sue opere d’arte, non solo sta distruggendo le sue chiese, perché quelle evidentemente non può portarsele via, ma addirittura cerca di cancellare per quanto può, i segni, i simboli e il nome stesso della nostra antichissima civiltà, scalpellando gli antichi e marmorei Leoni di san Marco, ovunque essi fossero effigiati, dovunque essi fossero collocati, con un odio tanto folle, sistematico e ingiustificato, quanto furioso e satanico?
Al punto che vuole cancellare perfino il più pallido ricordo di ciò che era stata la gloriosa Repubblica, vietando espressamente di nominare il simbolo più prezioso di essa, vale a dire vietando di pronunciare il grido fatidico che essa lanciava contro i suoi storici nemici, in particolare contro i Turchi, e cioè: “Viva san Marco!”.
Cosicché oggi assistiamo a questa assurdità, a questa beffa atroce, ridicola e impensabile, che farebbe da ridere, se non fosse invece da deplorare e da piangere e da considerare con sbigottimento e con orrore, per cui se un veneziano viene ascoltato nel mentre pronuncia queste parole di “Viva san Marco!”, egli viene subito giustiziato sul posto!
Come già accadde a due barcaioli, i quali, giungendo a Venezia da Fusina, su di un barchino leggero, il 13 maggio scorso, cioè il giorno dopo la fatale data, e nulla sapendo di quanto era accaduto in città, ed essendosi messi a gridare, nel rio de l’Anzolo Raffaele, a guisa di abituale saluto, le parole: “Viva san Marco!”, vennero immediatamente presi a fucilate dalla sbirraglia giacobina della Municipalità, che stazionava davanti al Palazzo Foscarini, nella Fondamenta, per cui i loro corpi caddero all’interno del barchino.
Esso, privato della guida, se ne andò da una parte e dall’altra, urtando le rive e le altre imbarcazioni ivi ormeggiate.
Ma dove si sono mai viste situazioni così spaventose, così abnormi e brutali?
Qui si vuole non solo soggiogare il corpo dell’avversario, ma distruggerne l’anima, modellarla secondo un proprio volere entrando nel sacrario più augusto di un uomo, nella sua coscienza, forgiandone i sentimenti e gli ideali, vietando gli uni ed immettendone altri di opposti, cosa che perfino il Creatore non ardisce fare, poiché ha sempre rispettato la coscienza dell’individuo, anche quando essa fosse contraria e ostile alla sua volontà.
Cosa c’è, quale disegno infernale si nasconde sotto tutto questo?
Forse Venezia era troppo bella, troppo desiderabile?
Il vivere in essa era forse una delizia così squisita, un privilegio così impagabile, un dono così eccelso e così divino, che agli estranei e a tutti coloro che ne erano privi sembrasse un beneficio insopportabile, perfino a pensarlo, posto al confronto della loro miseria e della loro infelicità, così da desiderarne l’annientamento e la distruzione?
Per cui, se di quella felicità essi non potevano usufruire, nessun altro al mondo mai più potesse goderla?
Ma quale forza nemica ed infernale potrebbe essere così invidiosa da desiderare cose così nefande, così ingiuste e così nefaste?
Non lo so.
Non ho più risposte per queste angosciose e terribili domande.
Credo che dovrebbe essere ormai chiaro per tutti come primo scopo della loro rivoluzione sia quello di annientare la religione cattolica e la stessa idea della Divinità.
So solo che ora comprendo bene come il pensiero sia il vero padre dell’azione, e come perciò ognuno di noi dovrebbe vigilare attentamente su quanto pensa, perché soltanto dal nostro pensare dipende il nostro agire.
E so pure che stiamo precipitando nella barbarie più atroce e più bestiale che si potesse mai immaginare.
Una barbarie che, fra l’altro mi sembrerebbe estranea alle tradizioni culturali della Nazione francese ed indegna di essa.
Io penso, Madre mia, che stiamo vivendo un’epoca in cui non solo il potere degli uni cerca di soppiantare il potere degli altri e di sostituirsi a esso, come era sempre avvenuto a questo mondo, ma qui ed ora, non si vuole questo soltanto: soprattutto si cerca di scardinare e di annientare quel principio fondamentale che sottostava ad ogni potere, il principio fondamentale cioè, in forza del quale ogni potere si riconosceva anch’esso tributario e sottomesso ad una legge divina.
Ogni potere umano riconosceva il dovere di conformarsi e di ottemperare ai voleri della superiore legge divina.
Ora invece, legifera la straordinaria e luciferina superbia dell’uomo, il quale si vuole erigere senza limiti a suprema divinità di se stesso e a supremo ed unico legislatore, con l'insensato orgoglio che fa diventare l’uomo, il Dio dell’uomo stesso.
Quali strani pensieri si vanno accavallando nella mia povera mente!
La sera del 12 maggio l’intera città era in fermento e in subbuglio, senza che ci fosse stato un disegno preventivo e una adeguata organizzazione.
Spontaneamente una folla enorme di gente, la più diversa, si era riversata nella Piazza e nelle sue adiacenze per manifestare il suo attaccamento alla gloriosa Repubblica che stava in quel momento morendo, vinta dal peggiore e dal più empio dei mali che possa colpire uno Stato: il tradimanto di alcuni suoi figli!
La folla ancora ingenuamente sperava in cuor suo che il Maggior Consiglio avesse decretato la guerra al Buonaparte; la qual cosa purtroppo sarebbe stata ormai tardiva, poiché egli era già a Fusina, a Marghera e a Malcontenta. Se solo lo si fosse potuto decidere qualche mese prima, al momento delle formidabili e gloriosissime Pasque Veronesi, a esempio, forse la nostra Repubblica si sarebbe potuta salvare.
Questa folla volle manifestare il suo immenso dolore per la fine della Serenissima ed il suo furore contro i diretti e perversi responsabili di quel disastro, cioè i giacobini, devastando le loro abitazioni.
Anch’io la sera del 12 maggio scorso, non condivisi, e già da molto tempo prima non condividevo, l’atteggiamento di estrema prudenza, ma di sostanziale cedevolezza, tenuto dai nostri reggitori e dal nostro Doge, il quale paternamente pensava alla salvaguardia della salute fisica dei suoi figli e al pericolo di rovinare o di perdere addirittura questa gemma unica al mondo che è la città di Venezia, ove fosse stata sottoposta alle tremende vicissitudini di una guerra, con i suoi bombardamenti, con i suoi saccheggi e con le sue inaudite violenze.
Ma forse non è esatto parlare di non condivisione da parte mia del pensiero del Doge.
Io credo che ad ognuno spetti il suo compito e la sua propria responsabilità.
Forse perché sono abituato alla vita militare, e sono diventato un po’ troppo pragmatico, io penso che la vita sia una specie di gioco, nel quale ognuno deve recitare la sua parte, e quella di un altro è diversa e opposta alla mia, ma se lui fosse al mio posto, egli si comporterebbe come mi comporto io, e se io fossi al suo, mi comporterei come lui.
Al Doge forse si competeva di essere prudente, e a lui si addiceva di essere preoccupato per la salute e la conservazione dei beni umani e materiali che gli erano stati affidati, mentre al singolo individuo spettano ben minori e differenti responsabilità.
Il singolo individuo, come me, deve rispondere davanti a Dio e davanti ai posteri solo delle sue azioni, e solo delle ripercussioni che esse possono avere sul suo singolo destino o su quello del suo non numeroso prossimo.
Venezia in questi mesi, in questi giorni, non era una città concorde e unita, ma una città in cui operavano molti traditori, gente, soprattutto fra i nobili, che aveva in cuor suo già abbracciato le idee del nemico invasore, e che cercava in tutti i modi di appoggiarlo e di favorirlo.
Più o meno nascostamente essi si adoperavano perché la Repubblica non si difendesse dal Buonaparte con le armi e con le milizie, consigliando invece di dialogare e di trattare con lo stesso (come fosse giovevole al topo dialogare e trattare con il gatto), pur consapevoli che quei colloqui a nulla sarebbero serviti, se non a consegnargli su un piatto d’oro la testa della Serenissima, risultato che essi maleficamente volevano e perseguivano con empio accanimento.
A questo scopo brigarono affinché le truppe Schiavone, assai numerose e fedelissime, fossero allontanate, e cercarono in tutti i modi di preparare un terreno propizio all’invasione, sperando di guadagnare i favori, e di acquistare potere, quando fosse finalmente arrivato il loro cosiddetto "liberatore".
Una marcita purulenza si era perciò insinuata nel corpo stesso della Repubblica e ne aveva infettate le viscere.
Se il Buonaparte è stato senza dubbio l'antagonista che ha causato la caduta della nostra Patria, dobbiamo anche purtroppo ammettere che è stato potentemente aiutato e che la sua vittoria è stata efficacemente preparata e favorita da tale infetta purulenza che aveva minato e corroso la nobiltà veneziana e che, abbondantemente diffusa in essa, aveva finito col tramutare tanti Cittadini in autentici traditori.
Idee sovversive e ostili alla nostra Repubblica, giunte dalla Francia, sviluppate e promosse da organizzazioni misteriose e nascoste che operavano nel segreto, hanno fatto esplodere dall’interno la Serenissima, paralizzando, bloccando le sue possibilità e capacità di resistenza, alimentando così la sfiducia e la codardia, facendo falsamente credere che il venire incontro a Napoleone senza combattere, accogliendolo a braccia aperte, non avrebbe comportato alcun danno per i Veneziani, per il suo governo e per la nostra Religione.
A un punto tale che, nel momento in cui maggiormente ci sarebbe stato estremo bisogno di unità di intenti e di convinzioni, di slancio virile e di energico entusiasmo, quel fiero clima morale che avrebbe favorito la resistenza allo straniero, si è liquefatto ed è venuto meno.
Venezia è stata la prima Nazione a cadere a causa di questo ariete, di queste nuove credenze soltanto umane che si vanno diffondendo nel mondo, ma ben presto cadranno altri Stati, altri governi che si reggevano su di un fondamento religioso.
Tutto ciò è provato dallo stesso odio furente e rabbioso che Napoleone cova contro il nome e l’effige di San Marco, che vuole cancellare da tutta Venezia, da tutte le Venezie, dal linguaggio e dal ricordo dei Veneziani e dei Veneti.
Poiché la stessa dizione “San Marco” richiama alla mente sia la Patria nostra, Venezia, sia la Fede cristiana, poiché San Marco è insieme un evangelista di Cristo e il Protettore per antonomasia della Repubblica veneziana e della sua civiltà.
Soltanto l’autentico Popolo veneziano, genuino e minuto, si era mantenuto immune da codesta suppurazione spirituale.
Si vedevano dappertutto le tracce di codesto tradimento, vera lebbra morale, basti pensare, Madre mia, lo dico con sgomento e con raccapriccio, che un nobile veneziano, Giacomo Foscarini, uscendo dal Palazzo Ducale dopo aver votata la terribile e tremenda decisione che affossava la Serenissima, ebbe a gettare a terra la veste senatoriale e calpastandola, si mise all’occhiello della giacca una coccarda francese.
Quest’uomo io credo meriti di essere definito non più un Senatore Veneto, bensì una spregevole prostituta da strada.
Sono stati essi, i giacobini, a impedire con mille inganni che Venezia, a tempo debito, quando lo si poteva fare con qualche probabilità di successo, si sollevasse in armi contro il Buonaparte. Essi fecero credere che le sue truppe fossero più potenti e maggiori di quel che erano, così come gli stessi francesi del resto facevano, quando esigevano dalle venete popolazioni molto maggiori viveri del necessario, per far credere di essere assai più numerosi di quel che effettivamente erano, mentre poi gettavano il pane che loro logicamente avanzava, a marcire nei fossi.
Per cui, constatando le cose giunte a tale sfascio, e la città in preda al marasma più completo e divenuta tutta un fermento e un subbuglio e una spontanea sommossa contro i giacobini, sostenitori delle truppe francesi, anch’io ed altri miei amici ci sentiamo ribollire il sangue nelle vene, e la sera di quello stesso triste giorno che vedeva la fine della gloriosa Repubblica di San Marco, anche noi organizzammo una specie di rivolta, tanto improvvisa, quanto sicuramente malaccorta e non ben preparata.
Ai piedi del Ponte di Rialto avvenne lo scontro, ahimè, tra le truppe della Municipalità provvisoria e i gruppi di rivoltosi che io capeggiavo.
Fratelli contro fratelli, ma fratelli fedeli gli uni, e fratelli traditori gli altri!
Da una parte noi che non volevamo cedere alle ingerenze e alle prepotenze dei francesi, i quali volevano dettar legge in casa altrui tramite loro convinti emissari e fautori, e dall’altra le truppe della Municipalità provvisoria.
Abbiamo combattuto da leoni, finché abbiamo avuto armi per combattere.
Io ero vestito della mia divisa della Veneta Marina, con la sciabola sguainata in una mano mentre reggevo nell’altra il gonfalone di San Marco.
Posso e voglio dirlo, al fine che possiate essere fiera e orgogliosa di Vostro figlio.
Ho visto morire amici devoti e carissimi in quei tragici momenti, e confesso di averli poi invidiati.
Una ventina circa furono i morti in quello scontro: fu usato contro di noi perfino un cannone.
Moltissimi altri furono fatti prigionieri e condotti in carcere come malfattori.
Io riuscii al momento a sottrarmi alla cattura, ma venni arrestato pochi giorni dopo, quale capo di quei rivoltosi insorgenti.
Su di me scese allora una nebbia fitta, una sensazione di malessere inaudito, quasi mi avessero distrutto ogni difesa ed ogni luce interiore.
Ma come?
Venire assaliti, venire fatti prigionieri, solo perché avevamo ingenuamente e coraggiosamente difeso la nostra Patria, le nostre tradizioni, i nostri affetti più cari, le nostre case, le nostre famiglie, contro un governo improvvisato e marionetta, governo manovrato da truppe straniere e ostili, le quali, tramite loro ambasciatori, già da mesi pretendevano dettare ai nostri governanti e al nostro Doge, condizioni e modi di governare?
Quello che fino al giorno prima era sacro e doveroso, nominare e gridare cioè a gran voce il nome di San Marco, nel qual nome si condensavano le nostre più che millenarie credenze di Fede e di Patria, di punto in bianco, all’improvviso, doveva venir bandito, evitato, e peggio ancora disprezzato e rifiutato con orrore, anzi, peggio ancora, punito immediatamente con la morte?
Mi sembrava di aver perduto ogni memoria, ogni senso di logica, ogni punto di riferimento, mi sembrava di barcollare come un uomo totalmente privo di forze.
Poi nelle lunghe ore del carcere, nelle estenuanti attese del processo cui venni sottoposto, pensai che nei secoli futuri qualcuno avrebbe chiesto: -“Possibile che non ci sia stato nessuno, proprio nessuno, che in quella, una volta fiera e gloriosa Venezia, osasse ribellarsi a un tanto tragico ed empio destino, che prendesse un’arma in mano e tentasse di opporsi a quella ingiustizia, a quella barbarie, a quella crudele soperchieria? Magari senza alcuna certa prospettiva di far trionfare il suo tentativo, ma solo per dare una testimonianza di virilità, di amor patrio e di coraggio?”
Ebbene potrete rispondere Voi, e potranno rispondere i posteri: -“Si, quel lontano 12 maggio del 1797, ci sono stati a Venezia numerosissimi uomini, uomini per davvero, che il coraggio se lo son dati, e che hanno preferito e scelto di morire da uomini liberi, piuttosto che sopravvivere da servi o da traditori.
C’è stata una città tutta intera, c’è stato tutto un Popolo, il Popolo veneziano, fedele al governo più che millenario, che si è ribellato, ed è insorto, da Castello a Canareggio, da San Marco a Dorsoduro, che ha devastato e fatto scempio della case di quei traditori che avevano fatto cessare il Serenissimo Governo e lo avevano venduto ai francesi, come avvenne al palazzo all’Anzolo Raffaele, di quel Foscarini, di cui vi ho detto prima.
Quel popolo gridava: “Periscano i giacobini!”.
Sì, fra loro, fra gli insorgenti, c’è stato anche Antonio Mangarini, veneziano dello Stato da Mar, perché zaratino di origine, un uomo ignoto, un giovane venticinquenne qualsiasi, un veneziano come tanti altri, un Alfiere della Marina Veneta, il quale sentiva la fierezza di esserlo, e che ha combattuto contro i traditori, ed è morto per questo”.
Pensate a quello che Vi dico, e consolateVi in questi pensieri, quando io non calpesterò più la nostra amata patria terra.
Durante il processo seguito alla mia cattura, i giacobini, in conformità alla loro collaudata abitudine, mi hanno calunniosamente accusato di vari misfatti, ma erano accuse grottesche, meschine e ridicole, quale ad esempio, quella di essermi appropriato di un modestissimo quantitativo di formaggio nel corso di quella sollevazione!
Ma come si può solo pensare che un uomo, un ufficiale, si voglia esporre al rischio di morire prima in combattimento, e poi davanti ad un plotone di esecuzione, per un po’ di miserevole formaggio?
Ahimè, madre mia, come sono dolorosi tutti questi abietti tentativi di infangare moralmente il proprio avversario!
Hanno detto e scritto che io ero un ubriacone, quando io mai detti questo esempio, salvo una volta sola, quand’ero giovanissimo e totalmente inesperto dei poteri del vino, ma i giacobini neppure potevano conoscere questo lontano episodio.
Ma quale uomo, quale soldato d’altronde, non ha mai ecceduto, e forse più di una volta, gozzovigliando con gli amici?
Hanno detto che ero feroce, e lo hanno detto proprio loro che contro di noi, che insorgemmo con sciabole e moschetti, impiegarono impietosamente addirittura un cannone.
Hanno detto che ero un “impentito”, cioè che non avevo mostrato, durante la detenzione ed il processo, segno alcuno di pentimento.
E su questo hanno detto il vero, poiché sarei stato uno stolto e un codardo, se avessi mercanteggiato una pena più dolce, in cambio di un mio tradimento.
Non mi avete formato di tale stoffa, Madre mia, non mi avete educato con simili bamboleggianti principi, da aver così grande paura della morte, al punto da tradire i miei ideali e tutto il mio essere!
Se una dolcezza invece scende in me in questi momenti pieni di affanno, la devo al pensiero che muoio per la mia Patria, che muoio per la mia Venezia.
Questa città, che il poeta Francesco Petrarca ebbe a lodare con parole che mai nessuno potrà eguagliare per sincerità e per bellezza, parole che mio padre, quand’ero giovane adolescente, Voi lo sapete, mi ha ripetuto infinite volte per stimolarmi ad amarla e a rispettarla: -“… L’augusta città di Venezia, unico rifugio di libertà, di giustizia, di pace, unico rifugio dei buoni e solo porto cui possono riparare a salvezza le navi degli uomini che cercano di condurre tranquilla la vita; città ricca d’oro, ma più di fama, potente di forze, ma più di virtù, sopra solidi marmi fondata, ma sopra più solide basi di civile concordia ferma ed immobile, e meglio che dal mare, da cui è cinta, dalla prudente sapienza dei figli suoi munita e fatta sicura…”.
Ahimè, queste parole, che da lunghi anni io conosco a memoria, come hanno il potere di indurmi al pianto, pensando al declino, al tramonto, alla perdita totale e forse irreparabile, di tutto ciò che rendeva orgogliosa la nostra vita e floride e sicure le nostre speranze!
Io morirò, forse tra pochi minuti, nel campo solitario di San Francesco della Vigna, una bella chiesa palladiana, quasi periferica, a due passi dal quel vero santuario della Venezianità, che è l’altra chiesa di Santa Giustina, ove ogni anno al giorno 7 di ottobre si reca (ma ormai, purtroppo, dovrei scrivere ”si recava”) il Doge con amplissima solennità, per il dono celeste della vittoria riportata sui Turchi, il giorno felice e gloriosissimo della battaglia di Lepanto.
A quella battaglia navale partecipò il grande scrittore spagnolo Miguel Cervantes, che vi perse la mano sinistra a seguito di una archibugiata turca; egli poteva perciò parlarne con cognizione di causa, e la definì con queste parole: “ … la più memorabile e alta circostanza che videro i secoli passati e che non sperano di vedere quelli futuri…. “.
Ricordo di aver partecipato una volta, alcuni anni or sono, a quella meravigliosa cerimonia in ricordo di tanto gloriosa battaglia.
Ero allora un adolescente e mi trovavo in compagnia di mio padre, vi ricordate? Mi sentivo perticolarmente fiero di poter parteciparvi.
Eravamo tutti e due pigiati e stretti tra la folla, sopra il ponte davanti alla chiesa, e casualmente ci trovavamo accanto a un elegante e fiero signore tedesco, con il quale, conoscendo mio padre, come Voi sapete, abbastanza bene l’idioma germanico, egli scambiò un lungo colloquio.
Mio padre illustrò a quel nobile tedesco le varie fasi della cerimonia stessa e la sua motivazione storica: ricordo che, pur al momento non comprendendo le singole parole, mi illuminavo di soddisfazione e di gioia, vedendo quello straniero rapito dalla commozione, tutto entusiasta per poter assistere a quella impagabile rievocazione di avvenimenti così gloriosi.
Ricordo ancora, poi mi riferì mio padre, che egli era uno scrittore, credo d’una qualche fama, a nome Johann von Goethe.
Sia benedetta (e potesse venire sempre lodata dai nostri posteri), la sua partecipazione così appassionata, la sua adesione ed il suo entusiasmo così totali e sinceri a quel nostro ormai lontano ricordo.
Mi sembrò, in quei momenti, di essere giunto al settimo cielo, poiché sentivo, che egli guardava noi, Veneziani, quasi con una sorta di nobile e lodevole ammirazione.
Torno mestamente a noi, al mio momento attuale.
Voi ben potete immaginare l’animo con il quale Vi scrivo.
Fra pochi minuti, credo tra un’ora al massimo, io non sarò più di questo mondo, e si parlerà di me, ammesso che se ne parli, al tempo passato, come di una identità che non è più, della quale non si deve più far conto alcuno.
Ma Voi, cara Madre, continuerete a parlare di me e a pensare a me, ne sono certo, con tenerezza e affetto continui.
Quando, nei primi giorni di prigionia, pensavo alla mia condanna a morte, condanna che era scontata e ben prevedibile, confesso che mi sentivo quasi gelare dentro,mi sembrava di non poter più respirare, ne di poter più compiere alcuno di quei movimenti naturali che avvengono senza partecipazione della nostra volontà, come l’aver fame, il patir la sete, il provare un fisico desiderio per qualche cosa ….
Successivamente, mi sono lentamente riadeguato alla vita … ma che importa, ormai, tutto è finito, i giochi sono conclusi, l’attimo di vita sta passando, ed è giunto il momento di morire.
Un'angoscia mi stringe l’animo.
Altra cosa è il morire durante una battaglia, perché l’esaltazione del momento e il frastuono delle armi ti impediscono di pensare, di riflettere, quasi di renderti conto di ciò che sta accadendo, impegnato come sei nel difenderti e nell’offendere, ma morire così, nel bel mezzo della tue normali attività, per una disposizione di volontà altrui, espressa in termini tranquilli e pacati, anche se severi, come fosse la lettura monotona di un verbale amministrativo, e invece quelle parole fredde e impersonali, significano per te la fine di tutto...
Nonostante il fatto che, in fondo, siamo tutti dei condannati a morte, che già nascendo riceviamo subito la condanna capitale, dal bambino che gioca spensierato, fino al vecchio che non può più distrarsi lavorando o giocando, e ha tutto il tempo e l’agio per pensare a quello che, fra poco, lo attenderà di sicuro, l'inderogabile certezza di dover morire non è gradita alla mente di noi uomini.
Questa sensazione e questa certezza ancor più sono innaturali e terribilmente contrarie al nostro stesso essere, quando si è giovani, quando tutto il tuo corpo ti grida, ti urla di essere fatto per vivere, di essere fatto per amare, di essere fatto per portare a compimento la tua missione nel mondo, grande o piccola che essa debba essere.
Ma forse il mio compito nel mondo io lo ho già assolto, la mia missione la sto compiendo, fra pochi minuti l’avrò già compiuta e perfezionata.
Perciò ora me ne posso andare, ed è conforme a giustizia che io vada.
Perché ho riscattato la vergogna e l’ignominia di questi giorni, e di fronte a tutti ho mostrato, assieme agli altri veneziani insorti, che Venezia non è una frolla cortigiana, ma una donna degna delle antiche eroine romane, ed è forte come le vergini cristiane che andavano cantando di fronte alla morte, che per loro era la porta della vita.
Scusatemi, Madre, le mie frasi vanno e vengono nel turbinio dell'urgenza che ho di Voi e della Vostra Benedizione.
Nei primi giorni, ricordo, mi pareva di impazzire.
Era come trovarsi in una cupa e oscura prigione, avvolti da un velo che ti soffoca, da cui ti senti vinto e sopraffatto, che ti impedisce ogni movimento, ma te ne lascia pur sempre il desiderio e la sterile volontà.
Poi, non so più come, è subentrata la rassegnazione, e con essa, il silenzio e la pace.
Molto di questa trasformazione lo debbo, onestamente e sinceramente, a frate Benedetto da Venezia, un vecchio francescano che assiste, per suo dovere ma anche per sua espressa volontà, i condannati a morte.
Mi è stato vicino in questi terribili giorni di febbrile attesa dell’esito del processo, e di acuta disperazione dopo, come padre al figlio.
Egli, posso dirlo, mi ha riavvicinato alla Fede, da cui mai, per la verità, mi ero consapevolmente dissociato.
Semplicemente, come tanti miei coetanei, l’avevo trascurata, non l’avevo più considerata come una cosa importante, come una cosa essenziale.
Le follie di Venere mi avevano preso nei loro tentacoli, è una realtà istintiva e naturale, in fondo, ci si lascia andare e non si pensa più ad altro.
Amor omnibus idem – diceva il poeta Virgilio, che avevo appreso ad amare da mio padre – L’amore è lo stesso per tutti.
D’altra parte, Voi lo ricordate bene, anche un nostro grande conterraneo, San Gerolamo, gridava al Signore: -“Parce mihi, Domine, qui Dalmata sum”, ben sapendo quanto la nostra stirpe sia sottoposta terribilmente alla violenza dell’ira ed a quella della concupiscenza.
Chissà cosa sarei potuto diventare, senza una madre accanto, perché lontana, che mi consigliasse, senza la presenza di un padre, perché defunto, che mi ammonisse.
Chissà, forse Dio ha avuto compassione di me, e mi ha sollevato alle attuali vertiginose altezze, senza alcun mio merito.
Ora, madre mia, sono io che attraverso l’ora delle tenebre, sono io che sudo sangue, e che chiedo al Padre di allontanare il calice amaro dalle mie labbra, sono io che gli chiedo perché mi abbia abbandonato, sono io che soffro, non vedendo più accanto a me lo sguardo affettuoso né di mia madre, né degli amici, e vedo invece facce vuote e ostili, mentre un’amarezza infinita mi riempie l’animo.
Ma al tempo stesso, sono anche il medesimo io, il medesimo Antonio, che si sente tuttavia un tutt’uno con suo fratello Cristo, che mi appoggio a lui, che vado febbrilmente cercando nei suoi occhi ed in quelli della Madre sua il lampo d’intesa che mi assicuri una futura pace...
Avevo tanti progetti nelle mie intenzioni ma adesso tutto si è fermato, come per prodigio, non ho più alcuna speranza terrena, ho raggiunto il traguardo, benché giovane. Quel che è fatto, è fatto, i miei desideri sono stati decapitati, ma il mio spirito è integro, e forse è felice di aver già fatto quel poco che il Padre aveva voluto che io facessi.
Se sarò stato fedele in quel poco, lo sarò ben presto e di più in quel molto che mi attende.
Muoio, madre mia, perdonando a coloro che mi uccidono, perché voglio presentarmi a Dio privo della zavorra dell’odio, e capace perciò di liberarmi a volo nella pienezza dell’amore.
Nel momento in cui le pallottole fischieranno la mia morte, io griderò per l’ultima volta come una suprema testimonianza di fede e di amore, quel grido che ora essi aborrane e vietano. Essi più di uccidermi non possono fare, mentre il grido eroico e meraviglioso di: “Viva San Marco!”, continuerà a risuonare dopo che il mio corpo sarà caduto inerte a terra.
Il sorriso impresso sul mio volto Vi dirà come io sia caduto affidando il mio spirito al Padre di noi tutti.
Madre mia, in questo momento sento rullare sottovoce i tamburi dell’esecuzione: questo rullio a poco a poco andrà aumentando di intensità fino a quando, al massimo del suo fragore, le guardie entreranno nella cella per condurmi all’ultima salita.
Chiudo questa lettera e la consego a fra’ Benedetto da Venezia, il quale provvederà a farvela recapitare in sicurezza.
Non ho più che queste ultime frasi per dirvi quanto Vi voglia bene, per chiedervi perdono di tutte le sofferenza che vi ho procurato, e per dirvi che sono certo del Vostro perdono e della Vostra Benedizione.
La morte sarà così un tornare bambino, quando mi portavate nella suggestiva chiesa della Madonna degli Olivi, a Zara, la piccola Patria mia, e io stanco delle grandi corse, prendevo sonno accanto a Voi, mentre mi accarezzavate la testa con la mano lieve….
Addio, madre mia, addio.
Il vostro per sempre figliolo Antonio.

DOC - UMBERTO SARTORI
DOC - TAVOLA COMITATO PASQUE VERONESI


http://www.veneziadoc.net/Storia-di-Ven ... ori-49.php

Sappiamo ormai che in Venezia erano attive più congiure interessate a una vittoria del Francese,4 quindi il fatto che i Savj recitino una parte è facilmente comprensibile, essi devono proteggersi da una sempre possibile ira popolare, che potrebbe colpirli direttamente nelle persone.

Non si dimentichi che la struttura repubblicana non consentiva ai governanti un rifugio sicuro in cui acquattarsi in caso di sommossa popolare. Venezia non ha rocche né cittadelle. La fragilità e trasparenza del Palazzo Ducale sono sufficiente prova della Serenissima armonia di popolo che connotava questa città.

In effetti, quando i Savj getteranno la maschera e dichiareranno decaduta la Repubblica di Venezia, il Popolo tenterà di opporsi, ma fiaccamente e tardivamente.
Da troppo tempo il popolo veneziano aveva perso il nerbo spirituale e la dignità di essere chiamato figlio del Leone di San Marco.
Salvo pochi esempi, come quello del povero Alfiere Antonio Mangarini, è una plebaglia di saccheggiatori, quella che due colpi di cannone dissolveranno sul ponte di Rialto il 12 Maggio 1797.


Dunque i Savj hanno interesse a mantenere in piedi la tragicommedia, ma Napoleone non ha questa stessa necessità.
Perché dunque accetta di rivestire la ridicola maschera del Capitanio millantatore e spaccone per recitare a soggetto assieme all'ormai laido Pantalone?
Riesco a immaginare una sola spiegazione. Napoleone vuole deliberatamente teatralizzare l'evento finale della presa della Repubblica.
Per la conformazione psicologica che gli si può riconoscere, Bonaparte ha due principali interlocutori: il suo Popolo e la Gloria.
In qualche modo cerca di scaricare dalle proprie spalle la responsabilità di un grande crimine politico e storico rendendo lapalissiana la recitazione.
Egli recita dunque solo una parte, che gli è stata assegnata dalla regia degli eventi. Interpreta il "Capitanio" con gigioneria, sostenuto dalle lettere della sua spalla Landrieux.
Egli è costretto a questo compito amaro, affinché non cali il vento che spinge da poppa le sue vele. Lui non è che l'esecutore. Forzando la recitazione oltre ogni limite di credibilità, forse, egli intende suggerirci un mandante al quale non può disobbedire, ma dal quale in una certa qual misura, vorrebbe essere dissociato.
Più volte in gioventù Napoleone aveva manifestato ammirazione per la Repubblica di Venezia, e ancora nei Memoriali ultimi della sua vita ricorderà che non era mai stata sua volontà abbattere il più antico simbolo di Repubblica vivente, e di essere stato costretto a farlo dagli ordini del Direttorio.
Naturalmente noi oggi sappiamo che il Bonaparte non teneva in alcun conto gli ordini del Direttorio stesso. Da tempo il Governo francese gli chiedeva di impadronirsi della Serenissima, ma Bonaparte agirà solo dopo aver raggiunto soddisfacenti accordi con l'Austria a Leoben in assenza dell'ambasciatore francese Clarke ufficialmente incaricato dal Direttorio.
Passerà del resto solo poco più di un anno prima che il Nostro decreti lo scioglimento del Direttorio stesso instaurando il Consolato.
...
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Re: Coel parlamento veneto de tuti i veneti mai nato

Messaggioda Berto » sab mag 13, 2017 8:56 pm

Veneto pexo de ła Libia: 4/5 Governi e 3 Parlamenti
viewtopic.php?f=126&t=1592

Parlamento Veneto e CNL, tuto fondà sol mito de Venesia, come se ła storia no ła contase gnente e come se el termene de ła Repiovega Veneta el fuse colpa e responsabełetà de altri fora ke dei veneti-venesiani e de Venesia ke ła jera ła çità domenante
viewtopic.php?f=167&t=1580


https://www.facebook.com/photo.php?fbid ... 2681999480

Oggi mi sono svegliato felice per la riunione che abbiamo realizzato ieri , 12 Maggio 2017, in Palazzo Ducale, una manifestazione impegnativa e rischiosa. Invece tutto è andato per il verso giusto.
Il 12 maggio, scadenza importante per noi Veneti, non è passata sotto silenzio.
Siamo riusciti a reinquadrare i fatti storici e a darne una prospettiva politica coerente con le nostre idee, i nostri principi e il nostro programma politico.
Pochi i partecipanti ma l'appuntamento si configurava in una giornata feriale e in orario di lavoro, impendendo ai più di parteciparvi. Ma quello che doveva essere fatto e detto hanno avuto luogo. La riunione si è conclusa con la forma di un documento che diventerà messaggio politico internazionale, espressione della Repubblica Veneta a cui diamo corpo.
Il nostro lavoro è avvenuto nel posto giusto, la sala del Maggior Consiglio, e sotto lo sguardo dei 120 Dogi che hanno sostenuto la storia della Serenissima.

La riunione di ieri era del Maggior Consiglio. Presenti il Presidente del MC, Giancarlo Orini, e il 121° Doge, Albert Gardin. Altre presenze da segnalare: il Camerlengo, Giuseppe Mirisciotti, la Presidente del Parlamento Veneto, Viviana Delle Rose, Mario Pesce in rappresentanza di Brescia, l'importante esponente del Maggior Consiglio, Giorgio Tonon, il nuovo responsabile del Libro d'Oro, Elio Costantini e la memoria storica dell'indipendentismo veneto Mauro Pol.

Durante i lavori è stato recitato il Pater Noster, assunto a "testo costituzionale" della cristianissima Repubblica di San Marco.
Il Doge portava il corno dogale a dimostrazione del suo ruolo istituzionale e storico.
Firmata la dispodizione, la riunione si è sciolta.


Da precisare che la nostra lettera al Governo italiano per la messa a disposizione del Palazzo Ducale è stata parzialmente accolta. Il Governo italiano ci ha imposto di pagare il pizzo per l'ingresso nel nostro Palazzo - che sta occupando e ridotto a museo - ma, almeno, ha rispettato la riunione e ne prendiamo positivamente atto.

Ora i risultati della riunione di ieri si traduranno subito in impegni delle istituzioni venete!
Un altro fatto importante che emergerà con forza dalla riunione di ieri è l'accusa al Governo francese di avere orchestrato, il 12.1797, un colpo di stato per occupare e arrestare la Repubblica Veneta, non fu dunque una "caduta" qualsiasi, ma un crimine straniero contro la Serenissima. Gli storici ne prendano finalmente atto!

Viva la Repubblica Veneta, la Repubblica di San Marco!
Venezia 13.5.2017

Albert Gardin

(in foto: Corriere del Veneto e Gazzettino–Venezia)
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Re: Coel parlamento veneto de tuti i veneti mai nato

Messaggioda Berto » dom giu 18, 2017 9:03 pm

???

VENETI E VENEZIANI, UNA NAZIONE INESISTENTE
QUESTO LEGGEVO poco fa in una pagina web dove si faceva notare che Venezia fu una città dominante, e non costruì mai una nazione, per cui ...
domenica 18 giugno 2017

https://dalvenetoalmondoblog.blogspot.i ... 1899222682

La Dominante faceva riferimento a se stessa, noi “campagnoli” e gli altri popoli del suo commonwealth erano solo sudditi sottomessi a una aristocrazia sia pure illuminata, caratterizzata dal buon governo. Persino qualche “indipendentista” d’accatto ogni tanto ci casca, e riprende e sposa le teorie propinate a fine anni ‘90, riassunte le libro “Venetismi” edito apposta nell’area radical chic “italianista” e che conservo con ogni cura, al primo propagarsi dell’incendio indipendentista.

I fatti del campanile avevan messo paura, evidentemente.

Ricordo e ribadisco che Venezia, accogliendo le spoglie marciane, in un’epoca in cui la Religione era il pilastro delle società, diventava di fatto il punto di riferimento delle chiese della Venetia et Histria, che San Marco aveva evangelizzato.

Se nell’ottavo secolo ritornò San Marco in laguna quello che avvenne dopo ne fu un logico sviluppo: espandendo il suo territorio verso la terraferma e le coste della Dalmazia, i veneziani ricomposero una antica unità culturale e spirituale: l’Adda ridiventava il nuovo confine che si rifaceva a un antichissimo passato e i Veneti, da “lombardi” fittizi, ritornarono finalmente ad esser veneti, assieme ad altri popoli e nazioni che venete non lo erano state. Semplice, no?

Fu la massa dei sudditi a riconoscersi nella nazione attraverso San Marco, il cui culto era sempre stato vivo e continuerà ad esserlo fino alla fine.

Questo anche grazie alla politica di contenimento e di contrasto degli antichi poteri feudali, di origine imperiale o addirittura longobarda, che l’aristocrazia veneziana seppe attuare, per cui il popolano, l’artigiano, il contadino, si sentiva protetto da Venezia e contro la classe nobiliare locale, che vedeva con diffidenza. Diffidenza che manifestò ed esplose in rivolta, sia nella terraferma con l’invasione napoleonica, che in Istria e Dalmazia, anche dopo con l’arrivo degli austriaci. Rivolte in nome di San Marco. Sempre.

Inutile elencare qui l’apporto dei Veneti nei campi più disparati (commercio, arti varie, musica, pittura, architettura) come anche delle altre Nazioni. Senza di esse la Venezia che conosciamo, non esisterebbe nemmeno.

Fu uno scambio intenso, in ogni campo, innegabile, per cui quando l’italia istituì le regioni, nessuno mise in dubbio la legittimità del Leone marciano nel vessillo scelto a rappresentare nuovamente “l’angulus Venetorum”. Molto più ristretto, è vero, ma scrigno della Memoria e della Civiltà veneta e veneziana.

Noi Veneti moderni ne siamo gli eredi, non neghiamo ad altri di dichiararsi Veneti quanto noi (Lombardo Veneti, Friulani e Dalmatini), anzi ne siamo orgogliosi, ma se la riscossa, il percorso verso la nuova indipendenza della nostra Nazione ripartirà, questo accadrà solo se il Veneto si metterà in moto, quale custode di una civiltà che è simboleggiata dal Leon e di cui la Capitale, città fondata da fuoriusciti Veneti è la culla.


El mito de Venesia lè n'entrigo par l'endependensa veneta
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I veneti venesianisti ke łi nega e falba ła storia veneta
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