Infedele, miscredente, idolatra, kafir, apostata, ridda

Infedele, miscredente, idolatra, kafir, apostata, ridda

Messaggioda Berto » mar gen 27, 2015 12:59 pm

Infedele, miscredente, idolatra, kafir, apostata, ridda
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 181&t=1361


Dirghe a coalkedon enfedełe e miscredente xe xbajà:

en vanti
parké no xe vero da kè ogni omo el ga ła so fede e ła so credensa
dapò
parké ki ke nol crede e nol ga fede ente coeło ca credemo naltri e kel ga ła so credensa, no łe on enfedełe e on miscredente, ma ono ke nol crede a ła nostra fede ma ente coeła sua;

prasiò dirghe enfedełe o miscredente a calkedon łe dir el falso e na ofexa.

Gnaon creistian o musulman el pol dirghe a łi altri enfedel o miscredente parké lè dir na bàła e contar bàłe lè viołar ła comanda de Dio de no testemognar el falbo.

Anca łi atei łi ga ła so fede e ła so credensa!

A n’omo kel tradise so mojer se pol dirghe enfedel ma cogna verlo ciapà sol fato se no se pol ris-ciàr de ciapàrse on pugnàso so ła xbesoła come coeło del Papa.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Enfedeł e miscredente

Messaggioda Berto » mar gen 27, 2015 1:04 pm

Cogna ensegnarghe ła creansa a łi roganti e a łi gnoranti:

co se cata on creistian o on muxlim kel te dixe enfedel o miscredente o kafir, perké no te ghè ła so fede, cogna denunsiarlo par enjuria, par całunia, par difamasion, pa' ver dito el falbo.

Se te cati on par strada, kel te dixe “cafir” dighe pur: ciò ensemenio “cafir” diteło a ti memo, ła matina co te si davanti al specio a scursarte i pełi sol naxo e a strucarte i brufołi e i cioàti sol muxo, ebete, magna petołe de cameło!

http://it.wikipedia.org/wiki/K%C4%81fir
Kafir (in arabo: كافر, al plurale كفّار kuffār), è una parola araba che indica, attraverso una grande varietà di sfumature, la persona che non crede nel Dio islamico, solitamente tradotta con "non credente", "miscredente" o "infedele". La parola deriva dalla radice K-F-R che ha 482 derivazioni nel Corano, a partire dal termine kufr che indica tutto ciò che è inaccettabile o offensivo verso Allāh. Da Kafir derivano anche il termine Cafro, utilizzato dai coloni europei del Sudafrica per indicare genericamente le popolazioni nere, e il nome antico (Kafiristan) della regione afgana del Nurestan.
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Re: Enfedeł, miscredente, Kafir

Messaggioda Berto » mar gen 27, 2015 10:54 pm

Co sta storia de łi enfedełi, miscredenti, de ła diversa rełijon, dei pagani, dei cristiani, de łi ebrei, de łi idołatri, de łi połitesti, dei coreisciti, de łi ereteghi, de łi bastiemadori, de łi atei, dei sensa Dio, dei kafir…

łi òmani łi ghe nà fate ke on mełexemo a gh’in bastaria co l’avanso.

Persecusion dei cristiani, dei pagani, de łi ebrei, dei musulmani o muxlin, de łi atei e de łi apostati, dei coki
viewtopic.php?f=24&t=1331


Pagani, ma ki sarisełi?
viewtopic.php?f=181&t=1364
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Re: Enfedeł, miscredente, eidołatra, kafir

Messaggioda Berto » mar mar 03, 2015 10:43 pm

Il mondo musulmano di fronte a una sfida culturale. Terroristi o miscredenti: la vera trappola dell'islam
Martino Diez
28 febbraio 2015
http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/ ... slam-.aspx

Nel mondo islamico attuale «ognuno pensa di essere il vero musulmano e che tutti gli altri siano fuori dalla comunità». Questa in sintesi la diagnosi che lo shaykh di al Azhar, Ahmad al-Tayyeb, ha ribadito alla conferenza islamica sulla lotta al terrorismo tenutasi alla Mecca dal 22 al 24 febbraio.

È tecnicamente il problema del takfîr, cioè della «dichiarazione di miscredenza» con cui i gruppi terroristici giustificano i loro crimini; un termine che rimanda al dibattito teologico, antico quanto l’islam, sullo statuto del 'grande peccatore': rimane credente oppure è escluso dalla comunità musulmana alla stregua di un pagano?

Per i moderni jihadisti, emuli in questo dell’antica setta dei kharijiti, la risposta è la seconda: chiunque non si unisca alla loro causa è musulmano solo di nome e dunque può essere lecitamente ucciso.

La diagnosi è accompagnata, nel discorso di al-Tayyeb, da un moto di disgusto e da un’accusa: il disgusto per i jihadisti che hanno «cuori più duri della pietra», l’accusa invece per le «forze neocolonialiste alleate al sionismo mondiale» che avrebbero teso ai musulmani la trappola del takfîr, in applicazione del principio del divide et impera. I musulmani dal canto loro vi sarebbero caduti in massa con il risultato che «l’Iraq è perduto, la Siria in fiamme, lo Yemen lacerato, la Libia distrutta». Fotografia sintetica ma accurata del disastro che «ha offuscato l’autentica immagine dell’islam in Oriente e in Occidente, ma quasi direi agli occhi stessi della nuova generazione musulmana».

Anche se queste riflessioni possono suonare inedite al pubblico occidentale, si tratta in realtà di considerazioni che al-Tayyeb ripropone da mesi nelle sue uscite pubbliche. La novità sta piuttosto nel tentativo di individuare le cause del jihadismo: non bastano a suo avviso a spiegarlo la povertà o gli abusi nelle carceri. Il vero problema è l’educazione. Non vi sarà soluzione «finché non controlleremo l’istruzione e l’educazione, nelle nostre scuole e università». Difficile non convenire con questa affermazione di principio.

Eppure qualche precisazione può aiutare a situare meglio la proposta e i suoi limiti. Detto in breve, lo shaykh al-Tayyeb, e con lui numerose autorità religiose, sembrano ritenere possibile una ristrutturazione parziale dell’edificio del sapere islamico, che si limiti a isolare e risanare la crepa introdotta dal takfîr, senza porre mano alle strutture portanti. Alcune considerazioni suggeriscono però la necessità di un intervento ben più radicale, che dovrà probabilmente arrivare a investire le fondamenta stesse di tale edificio.

In primo luogo, non va sottovalutata l’ampiezza della crisi che investe oggi il sistema educativo in gran parte del mondo islamico. Storicamente, i poteri coloniali avevano lasciato in eredità al Medio Oriente una rete di scuole all’europea, pensate però solo per l’élite.

Conseguita l’indipendenza, alcuni Stati percorsero la via dell’arabizzazione dell’istruzione, che tuttavia si risolse in un sostanziale fallimento. Ancora oggi in quasi tutti i Paesi arabi le materie scientifiche, oltre il livello elementare, sono insegnate direttamente in inglese o francese, fatto che certo non aiuta a risolvere il dualismo tra scienze moderne e cultura tradizionale. Ma soprattutto gli Stati post-coloniali, a eccezione delle monarchie petrolifere, hanno assistito impotenti al tracollo del proprio sistema educativo a causa dell’esplosione demografica, accompagnata talvolta da politiche economiche dissennate. In Egitto oggi gli insegnanti statali ricevono uno stipendio irrisorio. Di conseguenza molti di loro semplicemente non insegnano e vivono impartendo lezioni private a quelli tra i loro studenti che possono permetterselo.

Un problema specifico affligge poi l’educazione religiosa. Nella maggior parte dei casi l’insegnamento è impartito su manuali statali dai contenuti talvolta discutibili. Per la verità qualche miglioramento in questi anni è stato realizzato, ad esempio in Tunisia, Libano o Giordania, ma il cammino è ancora lungo.

Del resto, anche la formazione stessa degli esperti di scienze religiose non va esente da difficoltà. Non sono solo gli antichi kharijiti ad aver utilizzato l’arma del takfîr, ma anche, ben più recentemente, il movimento wahhabita, pilastro ideologico della moderna Arabia Saudita. Potrà ora la monarchia saudita segare il ramo sul quale siede? La domanda non è da poco per valutare le probabilità di successo di una mobilitazione anti-takfîr. A livello più profondo, non va comunque dimenticato che la maggior parte dei jihadisti non si radicalizza a scuola, nelle ore di educazione islamica, né nelle moschee espressioni dell’islam tradizionale, ma su Internet. Non è quindi questione di cambiare alcuni libri di testo, e forse neppure di intervenire nel discorso religioso degli ... manca on toco.

In questa operazione di ripensamento un aiuto fondamentale potrebbe probabilmente venire da un elemento apparentemente secondario: il recupero del senso della storia. Nella versione oggi dominante, essa si apre infatti per la penisola arabica con un’età dell’ignoranza (in arabo jâhiliyya), corrispondente all’epoca preislamica, a cui segue, in completa rottura, l’avvento dell’Islam. È una visione storicamente infondata e soprattutto teologicamente pericolosa, perché tende ad accreditare l’idea di una fede pura che si sarebbe instaurata in un contesto a-culturale. Non a caso, l’idea della jâhiliyya è ripresa dai grandi ideologi jihadisti del Novecento, Sayyid Qutb in testa, per qualificare le società musulmane dell’epoca e rendere lecita l’azione armata contro i governi, cioè ancora una volta il takfîr. E sempre da qui origina quel moto di ripulsa verso il passato che, in un crescendo di radicalizzazione, arriva tragicamente ai manoscritti bruciati e alle statue prese a martellate che in questi giorni l’Is esibisce sul web. A fronte di tutto ciò, scriveva provocatoriamente l’intellettuale libanese Samir Kassir, «possiamo ben immaginare quale rivoluzione copernicana comporterebbe l’ammettere l’esistenza di un’età dell’oro anteriore all’età dell’oro!».

Per altro verso invece si perpetua nel mondo islamico una visione idealizzata dei primi decenni dopo la morte di Muhammad, la cosiddetta epoca dei Compagni, considerata come espressione di una perfezione ormai irraggiungibile. Anche in questo caso, fare i conti con il fatto che l’epoca dei Compagni fu anche un periodo di intense lotte intestine, di tradimenti, di uccisioni, di sfruttamento della religione a fini politici, potrebbe aiutare a liberarsi dal complesso per cui 'il meglio è già alle nostre spalle'.

Così, anche senza arrivare a toccare lo spinoso problema della storicità dei testi fondativi dell’Islam, che per il momento rimane appannaggio di pochi pensatori isolati, sarebbe possibile introdurre uno sguardo critico sul proprio passato che consenta di guardare in maniera più creativa alle sfide attuali, liberandosi dall’illusione che la soluzione sia già stata formulata da altri. Se poi a questo si alleasse, a livello di metodo, una maggiore attenzione alla dimensione sapienziale, oggi del tutto svalutata a favore di una visione positivista in campo scientifico e legalistaletteralista in campo religioso, si potrebbe sperare in una reale svolta nel campo educativo, che approdi naturalmente anche all’abbandono della pratica del takfîr.

In caso contrario il discorso ufficiale islamico resterà sempre al traino delle mode e richieste del momento. Dopo aver santificato il nazionalismo arabo, dopo aver provato la natura socialista dell’islam, dopo aver virato verso il liberismo, questo stesso discorso si accinge oggi a condannare il takfirismo. Domani chissà.
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Re: Enfedeł, miscredente, eidołatra, kafir

Messaggioda Berto » mar mar 10, 2015 10:15 pm

La libertà nella «Nuova Turchia»: 68000 siti web bloccati, tra cui quello di Charlie Hebdo
Va bene! *
10/03/2015 Mariano Giustino

http://www.radicalparty.org/it/rnn-news ... harlie-heb

Circa 68 mila siti Web sono attualmente bloccati in Turchia, secondo l’ente di monitoraggio indipendente, «Engelli Web». Solo nel 2014, la TİB, l’Autorità per le Telecomunicazioni, ha bloccato 22.645 siti Web senza un ordine del Tribunale, secondo l’ultimo rapporto di una delle più autorevoli associazioni per i diritti umani in Turchia, l’İHD.

Nel novero degli ultimi siti oscurati vi sono quello della rivista satirica francese Charlie Hebdo,
quello della prima associazione sull’ateismo, www.ateizmdernegi.org;
il blog di «Ekşi Sözlük» (Dizionario pungente)
e quello di «İnci Sözlük» (Dizionario Perla), due forum molto popolari, incriminati con l’accusa di «disprezzo per i valori religiosi».
Nel formulare la denuncia penale, la TİB ha affermato che gli insulti contro i valori religiosi possono violare la quiete pubblica.

L’articolo 216 del codice penale turco prevede pene detentive per blasfemia per coloro che siano accusati di «provocare odio e inimicizia nel popolo».
Nella Costituzione, all’articolo 24 su «I Diritti Fondamentali» si afferma: «Ciascun cittadino gode della libertà di espressione, di credo religioso e di opinione».
Nella realtà invece non vi è alcun diritto per gli atei e gli agnostici, e ve ne sono pochi per coloro che non appartengono alla maggioranza islamica sunnita.

Il vicepresidente dell’associazione degli atei, appena messa fuori legge da un tribunale di Ankara, ha dichiarato: «Vi è un doppio standard in Turchia. Quando un ateo insulta un musulmano viene punito. Ma quando un musulmano insulta un ateo è applaudito».
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Re: Enfedeł, miscredente, eidołatra, kafir

Messaggioda Berto » gio mar 12, 2015 4:24 pm

I musulmani che pregano tutti i giorni per 17 volte condannano ebrei e cristiani

https://www.youtube.com/watch?v=CvH-pmz ... e=youtu.be

Tutti i musulmani che osservano le 5 preghiere obbligatorie, per 17 volte ogni giorno, condannano gli ebrei e i cristiani come miscredenti e nemici dell’islam, recitando la Sura Aprente del Corano:
“Guidaci sulla retta via, la via di coloro che hai colmato di grazia, non di coloro che sono incorsi nella tua ira (ebrei), né di coloro che vagano nell’errore (cristiani)». (1, 5-7)
Ecco perché è fondamentale conoscere il Corano, che per i musulmani è Allah stesso.

Immagine
https://www.filarveneto.eu/wp-content/u ... -Allam.jpg

Sta relixon, col so profeta e col so libro ke li comanda de copar, la ga da esar bandia.
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Re: Enfedeł, miscredente, eidołatra, kafir

Messaggioda Berto » ven mar 20, 2015 6:22 pm

L’apostasia Islamica nel periodo classico e contemporaneo

Scritto il 23 agosto 2014
http://islamicamentando.altervista.org/ ... temporaneo

L’apostasia, ovvero l’abbandono della fede islamica, costituisce un tema interessante, nella nostra epoca, in quanto è oggetto di molteplici interpretazioni riguardanti la sua applicazione, spesso, praticata in modo arbitrario e contraddittorio. C’è da notare che, se a livello legislativo le sanzioni sono state attenuate nel tempo (salvo alcune eccezioni), l’atteggiamento ostile di ogni islamico verso l’apostata è rimasto invariato. Perché? Al di là delle conseguenze e delle sanzioni, come viene percepito questo abbandono e perché viene considerato reato? Le risposte a queste domande vanno ricercate all’interno dei fondamenti islamici.

Lo Stato islamico, lungi dall’essere laico, si fonda tutto sulla religione per cui l’abbandono della fede significa, in primo luogo, il tradimento politico. Dal punto di vista religioso, poi, l’Islam concepisce l’uomo come un musulmano, Allah è il suo creatore, dunque l’apostata, con l’abbandono di questa verità di fede, è un traditore verso Dio e verso la sua stessa natura di musulmano. Sarebbe come negare l’uomo.1
C’è, poi, un’importante considerazione da fare: quando parliamo dell’Islam dobbiamo abbandonare il concetto di religione con le sue connotazioni sacerdotali e ritualistiche. L’Islam è, prima di tutto, una cultura, un modo di vivere, un insieme di comportamenti, una politica, una legge che regola la vita del musulmano. Da una parte i liberali cercano di modernizzare l’Islam, dall’altra i conservatori gridano per il ritorno alla fonte originaria dei testi islamici e per la visione di un modello politico inteso come piena realizzazione della Sharia (la legge sacro dell’Islam) nello stato. I riformatori tentano di far convivere l’Islam con i tempi moderni cercando di reinterpretare i principi islamici e in particolare la Sharia in modo tale da adattarne i contenuti alle linee più moderne, considerando però immutabili i principi di base, cosa estremamente difficile.
I fondamentalisti, invece, considerano la Sharia come sacra in quanto fonte ispirata ed immutabile, valida in ogni tempo e in ogni luogo, ed attaccano la posizione liberale.2
Da sempre i fondamentalisti hanno avuto molta più forza sulle posizioni intermedie ed il dialogo, sostanzialmente non è mai esistito (vedere ad esempio lo scontro avvenuto tra Averroé e Al-Ghazali. Il primo morì da esiliato, il secondo ricevette molti titoli come il Sharaf al-Aʾimma ossia “onore degli imam”).

L’origine più antica della parola apostata in arabo è murtadd; chi diventa apostata è chiamato “artadd ‘an dinihi” (colui che gira la schiena alla religione). Due parole sono usate per l’apostasia nella legge musulmana: ”irtidad” e “ridda”. Il primo termine sottintende il passaggio dall’Islam ad un’altra religione, ad esempio il Cristianesimo, mentre il secondo il passaggio dall’Islam alla miscredenza (kufr). Al di là dei termini tecnici appena enunciati, è necessario considerare il fatto che la fattispecie in questione è sempre stata oscura, non definita e quindi aperta a molteplici interpretazioni.
Infatti, il reato di irtidad si è sempre affiancato ai concetti di miscredenza, bestemmia ed eresia, il tutto identificato con il termine kufr, anche se la bestemmia e l’eresia sono tecnicamente sotto categorie di questa; entrambe, infatti, sono ”distinte fattispecie penali” dette in arabo kafir 3.
Alcune autorità elencano all’incirca trecento atti diversi che potrebbero fare di una persona un murtadd, lasciando però la possibilità di classificare con tale termine anche soggetti che siano semplicemente oppositori politici o comunque personaggi scomodi che vadano eliminati, giustiziandoli nel processo noto come takfir.4

Alla luce di questo possiamo ribadire che il concetto di ridda è molto vago; esso può esprimersi in vari modi: come negazione dell’esistenza di Dio o associando a Lui altre divinità, come negazione della condizione di Maometto quale definitivo messaggero di Dio, come negazione del valore vincolante della sunna (detti o comportamenti del profeta oralmente tramandati), come rifiuto della preghiera cinque volte al giorno o della pratica del ramadam (pellegrinaggio); può anche esprimersi con una diversa valutazione della “sharia“, aggiungendo ad essa altre norme e schernendo un qualsiasi aspetto dell’Islam con atti o espressioni più o meno intenzionali. Il termine apostata è stato usato persino per indicare la rivolta delle tribù beduine dopo la morte di Maometto.

Secondo la cultura islamica gli apostati, abbandonando l’Islam, perdono il proprio diritto alla dignità e al rispetto; le loro famiglie esercitano pressione su di loro con minacce e violenze per spingerli a ritornare all’Islam; a volte i parenti medesimi preferiscono non riconoscerli come figli della Comunità (Umma) e spingerli a lasciare il paese sotto minacce di morte. Si registrano casi di giustizia sommaria in cui i colpevoli vengono assassinati dai membri della famiglia o dagli stessi amici in molti paesi tra cui l’Egitto e il Pakistan, senza che questi subiscano conseguenze legali da parte delle autorità.5
Quanto ai fondamentalisti, essi rifiutano ogni dialogo con i non musulmani arrivando al punto di condannare, per delitto di apostasia, coloro che lavorano a favore del dialogo interreligioso; così, per esempio, ogni rapporto con gli ebrei è considerato una prova di tradimento della Umma.

Detto questo si può affermare che la problematica della conversione dall’Islam si inserisce all’interno della tematica più ampia riguardante la libertà religiosa.
La questione più importante che immediatamente salta agli occhi in questa vicenda è la seguente: cosa s’intende per libertà di religione?
Mentre il mondo occidentale, generalmente laico, prevede la possibilità di abbracciare un credo, poterlo abbandonare e poi riprenderlo di nuovo, il mondo islamico accetta la conversione al proprio credo ma non il suo abbandono. Inoltre sulla questione della libertà religiosa è importante il giudizio che ne danno i musulmani stessi. Per alcuni l’incontro tra varie religioni si può realizzare soltanto tra i fedeli che adorano un unico creatore, per altri la libertà religiosa è un diritto fondamentale solo all’interno dell’Islam e riguarda solo la pratica dei culti.

Dopo questa panoramica sui punti di vista delle varie fazioni, può essere illuminante la dottrina enunciata dallo sceicco Muhammad Hamidullah, originario dell’India, docente all’università d’Istanbul e vissuto in Francia dove ha animato un gruppo d’Amitié islamo-Chrétienne, che afferma: “Basandosi sulla lettera del Profeta a Eraclio in cui lo invita ad abbracciare l’Islam, o almeno a non violare la libertà dei suoi sudditi che lo volessero fare, si può affermare che quando non vi sia ne tolleranza religiosa, ne libertà di coscienza in un paese non musulmano e quando tutti i tentativi per migliorare questa situazione siano falliti, è permessa nell’Islam l’instaurazione di questa libertà con la forza delle armi.”6

Dunque la libertà religiosa e la relativa libertà di coscienza, per le quali si può lottare anche con le armi, è semplicemente libertà di poter cambiare liberamente il proprio credo verso l’Islam. Quanto invece alla possibilità, per i musulmani, di lasciare la fede, sia nei paesi musulmani che in quelli non musulmani, non è assolutamente ammesso. Si può notare che il nodo del problema risiede nel fatto che le fonti islamiche che trattano del tema sono molto contraddittorie tra loro e non delineano in maniera chiara i contorni di questo istituto.

Una tradizione (hadit) molto conosciuta nel Medioevo (qui una piccola raccolta di hadith su questo tema), affermava che è vietato versare il sangue di un musulmano (cioè ucciderlo) tranne che in tre casi: se si tratta del sangue di un musulmano che ha ucciso un musulmano, di quello dell’adultero e di quello di un musulmano apostata. Questa tradizione era certamente molto accreditata nel Medioevo quantunque sia tutt’altro che sconosciuta anche attualmente. Infatti una notazione, in proposito, dell’islamologo libanese Add Theodor Khoury S.J recita: “la Tradizione prevede la pena di morte per il peccato di apostasia ma, nella legislazione attuale della gran parte degli Stati a maggioranza islamica, questa pena non è stata confermata; tuttavia ancora oggi, in molte società musulmane, l’apostata deve scontare la prigione, l’esilio o può essere ucciso dai suoi stessi familiari”.7

A conferma di ciò, nel 1994, non nel Medioevo quindi, Sami Awar Aldeeb Abu-Sahlieh8 affermò: “Esistono (…) musulmani che si convertono al cristianesimo (…)”; questi convertiti, secondo i musulmani, sono passibili della pena capitale.
Inoltre, dopo aver segnalato resistenza di formali garanzie della libertà religiosa consacrate nelle Costituzioni dei paesi arabi dal 1923 al 1973, il docente notò come nei codici penali non sia compresa nessuna disposizione relativa al delitto d’apostasia, fatta eccezione per il codice penale della Repubblica del Sudan del 1991, che, all’articolo 126, comma 2, prevede che: “chi commette il delitto d’apostasia è invitato a pentirsi in un tempo determinato dal tribunale. Se persiste nell’apostasia e non si è convertito di recente all’Islam, sarà punito con la morte”; e per il codice penale della Repubblica Islamica di Mauritania del 1984 che prevede la stessa pena per lo stesso crimine all’articolo 306, pena estesa nel medesimo articolo a “ogni musulmano maggiorenne che rifiuta di pregare pur riconoscendo l’obbligo della preghiera”; dal canto suo il codice penale del Regno del Marocco, all’articolo 220, comma 1, punisce, con una pena detentiva e con un’ammenda, chi induce all’apostasia e tace riguardo alla sorte riservata all’apostata.

Un aspetto importante da considerare, giustamente sottolineato dallo studioso palestinese, è il fatto che qualunque sia la formulazione adottata dalle Costituzioni arabe, la libertà religiosa garantita da queste Costituzioni può essere compresa solo nei limiti islamici. Per esempio nella carta fondamentale della Repubblica Araba d’Egitto, della Repubblica Araba Siriana, dello Stato del Kuwait, dello Stato del Bahrain, dello Stato del Qatar, della Repubblica dello Yemen e del Regno Hashemita di Giordania si afferma che ” (…) il diritto musulmano è una fonte principale di legislazione, o, la fonte principale di legislazione”.9 Questa attenta considerazione spiega come il concetto di religione e Stato nell’Islam combacino perfettamente e inoltre dimostra ancora una volta che la considerazione del concetto di libera religione che hanno in Islam, sia nettamente diversa da quella che “abbiamo noi occidentali, religiosi o meno.

Nel corso della storia poi, il concetto di apostasia, dopo la morte di Maometto, si è rapidamente allargato per comprendere sia quanti abbandonino l’Islam sia quanti ne abbiano una concezione diversa o si pongano come oppositori politici. Così la pena di morte per apostasia è divenuta applicabile anche a persone che, in buona fede, si credono buoni musulmani; questa conseguenza vale anche per i codici penali che non abbiano una disposizione riguardante l’apostasia. Il discorso porta inevitabilmente a concludere che l’assenza di una disposizione penale non significa assolutamente che il musulmano possa lasciare liberamente la sua religione. Infatti, le lacune del diritto scritto vanno colmate con il diritto musulmano, secondo le disposizioni legislative dei vari paesi. A sostegno di ciò, Sami Awar Aldeeb Abu-Sahhlieh cita appunto un caso sudanese di condanna a morte, verificatosi nel 1985, malgrado l’assenza di disposizioni relative a questo delitto nell’allora vigente codice penale del 1983; si tratta dell’impiccagione del l’architetto in pensione Mahmûd Muhammad Tâhâ, fondatore e animatore in Sudan del circolo dei Fratelli Repubblicani, la cui testa era già stata chiesta dall’università egiziana di Al-Azhar nel 1976 e poi dalla Lega del Mondo Musulmano, con sede in Arabia Saudita; le due istituzioni, dopo l’esecuzione, si sono felicitate con il presidente allora in carica, generale Ga’far Mohammed an-Numeirî. Sami Awar segnala inoltre che: “in paesi come l’Egitto non si procede all’esecuzione dell’apostata ma viene comunque messo agli arresti.” Infine descrive sinteticamente, escludendo il caso estremo già segnalato, le conseguenze dell’apostasia relativamente al matrimonio, ai rapporti fra genitori e figli e alle successioni ritenendo la situazione dell’apostata caratterizzata da “una libertà a senso unico: libertà d’entrare, divieto d’uscire“.
Afferma inoltre che: “ogni individuo ha il diritto di adire i tribunali statali per chiedere il giudizio sull’apostata ma se lo Stato o questi tribunali si rifiutino di mettere a morte quanti siano accusati di apostasia, ogni musulmano si crede in diritto di assassinarli, e certi legislatori permettono allora anche al singolo di uccidere il colpevole”.

La considerazione conclusiva che si può trarre dall’intero discorso è che il soggetto apostata, a prescindere dalle conseguenze legali più o meno severe a cui è assoggettato per il suo comportamento, rimane un soggetto tagliato fuori dalla comunità e considerato un traditore sotto tutti i punti di vista alla pari di un individuo di seconda categoria.



__________________________

1. Classe Cyril “The Concise Encyclopaedia of Islam”, Revised Edition. Stacey In temati onal, London, 2001, p.271.

2. M.Najjar Fauzi, “Islamic Fundamentalism and the Intellectuals: The Case of Nasr Hamid Abu Zayd”, British Journal of Middle Esterm Studies, Vol. XXVII, Num. 2, November 2000, pp. 177-200.

3. Tamimi Azzam “Human Rights, Islaimic and Secular Perspectives”, in The Quest for Sanity, The Muslim Council of Britain, 2002, pp.229-235.

4. Esposito L. Jhon, ‘The Oxford Encyclopedia of the Modem Islamic World”, New York: The Oxford University Press, 1995 pp. 439-443.

5. Sookhdeo Patrick, “A People Betrayed: The Impact of Islamization on the Chrisdan Commmiity in Pakistan , Fearn, Ross-shire, pp.278-281.

6. M. Hamidullah, “Le Prophète de l’Islain”, vol. II, “L’incontro con l’imperatore Eraclio”, pp.587-588. 7. Khoury S.J Adel Theodor, “I fondamenti dell’Islam”, trad. italiana di C. W. Troll S.J. e Michela Galati, Editrice Missionaria Italiana, Bologna 1999, p.181.

8. Cristiano di origine palestinese, laureato in giurisprudenza a Friburgo, in Svizzera, e in Scienze Politiche a Ginevra, in passato ricercatore in Diritto Arabo e Musulmano e tuttora collaboratore scientifico del’Institut Suisse de Droit Comparé di Losanna nonché docente di Musulmano all’Institut de Droit Canonique nell’Université de Sciences Humaine di Strasburgo, in Francia.

9. S. A. Aldeeb Abu-Sahlieh “le délit d’apostasie aujourd’hui et ses conséquences en droit arabe et musulman” p.98
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Re: Enfedeł, miscredente, eidołatra, kafir

Messaggioda Berto » mar mar 31, 2015 8:14 pm

L'islam deve cambiare Ci vuole un Lutero arabo

Ayaan Hirsi Ali propone la Riforma della religione musulmana. E smaschera chi nega che il Corano sia alla base del terrorismo
Alessandro Gnocchi - Mar, 31/03/2015

http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 11564.html

L'islam deve essere riformato. È necessario un «Lutero musulmano» capace di portare nella modernità una religione rimasta nel passato remoto. L'Occidente deve invece abbandonare la retorica del multi-culturalismo e affrontare il terrorismo per quello che è: un problema che affonda le radici nel Corano.

Queste sono le idee alla base di Eretica , il nuovo libro di Ayaan Hirsi Ali, già autrice di altri volumi sul tema (come Infedele e Nomade , entrambi editi da Rizzoli) e nota per aver sceneggiato Submission, film sulla condizione delle donne arabe che costò la vita al regista Theo Van Gogh, assassinato ad Amsterdam da un fondamentalista.

Ripercorriamo le pagine di Eretica (Rizzoli, in uscita a metà aprile). Innanzi tutto, Ayaan Hirsi Ali spiega quanto siano dannosi i tentativi di separare il terrorismo dal contesto religioso in cui nasce. L'islam non è una religione di pace. Questo non significa che la fede islamica renda automaticamente violenti. Milioni di musulmani pacifici dimostrano il contrario. Significa piuttosto che l'esortazione alla violenza e la sua giustificazione possono essere rintracciate nel Corano. Negare o limitare questa dimensione del terrorismo ha conseguenze nefaste: nasconde il problema impedendoci di attrezzarci; evita alle comunità islamiche di esprimersi nettamente contro gli attentati; delegittima i musulmani riformisti: perché mai si dovrebbe riformare una «religione di pace»? Gli intellettuali occidentali sono convinti di conoscere le motivazioni degli assassini meglio degli assassini stessi. Gli aspiranti martiri in realtà sarebbero figli delle privazioni socio-economiche e dell'alienazione post-moderna. Tutta roba prodotta dal colonialismo predatore dell'Occidente. Saremmo dunque noi, indirettamente, ad armare la mano dei fanatici. L'esito del ragionamento è paradossale. Proprio i sostenitori del multi-culturalismo interpretano ogni azione come pura reazione alle politiche occidentali. Di fatto, non sembrano contemplare la possibilità che il resto del mondo abbia sviluppato una cultura con valori e manifestazioni indipendenti dalla nostra. A margine, Ayaan Hirsi Ali aggiunge che molti non musulmani vivono in condizioni di privazione o alienazione senza impugnare il mitra.

In Eretica , troviamo tre tipi diversi di musulmano. C'è il «Musulmano di Medina», il fondamentalista che si rifà al messaggio del Maometto guerriero. Crede in un islam aderente alla versione originale del settimo secolo. Vuole un regime fondato sulla sharia. Ritiene obbligatorio imporre la propria fede attraverso la Guerra santa. I «Musulmani di Medina» sono una minoranza, ma sufficientemente ampia da incendiare l'intero Medio Oriente e mettere in discussione le nostre libertà. C'è poi il «Musulmano della Mecca»: tradizionalista ma contrario all'uso della violenza. Vive una tensione irrisolta tra modernità - l'insieme di innovazioni politiche, culturali e tecnologiche diffuso dalla globalizzazione - e la propria religione. Tale tensione, nei Paesi a maggioranza musulmana, non produce gravi sconquassi. Ma i musulmani immigrati in Occidente avvertono la contraddizione con maggiore intensità. Molti, specie in passato, hanno scelto di auto-recludersi in quartieri ghetto, vere e proprie città nelle città. Oggi, i più giovani vedono davanti a sé due opzioni: abbandonare l'islam o abbracciarlo senza compromessi, andando a ingrossare il numero dei «Musulmani di Medina». Infine ci sono i «Musulmani dissidenti», quelli che chiedono la riforma dell'islam. Sono nomi sconosciuti se non agli esperti, spesso intellettuali perseguitati e costretti al silenzio o alla fuga. Nell'appendice di Eretica , il lettore troverà le loro storie, spesso tragiche, e soprattutto le loro idee.

In sintesi i cinque pilastri della proposta di riforma sono i seguenti: garantire che il Corano sia aperto all'interpretazione e alla critica, valorizzare la vita terrena rispetto all'esistenza ultraterrena, impedire che la sharia invada il regno del potere temporale, porre fine alla pratica di «ordinare il bene e proibire il male», abbandonare la Guerra santa. Ogni pilastro è accompagnato da una analisi storica. A esempio, le diverse tesi filologiche sulla reale cristallizzazione del Corano così come lo conosciamo oggi smontano la pretesa che sia parola divina, senza interpolazioni umane.

Questo programma è realistico? Nel lunghissimo periodo, Ayaan Hirsi Ali pensa che la risposta sia positiva. In Medio Oriente qualcosa si muove in meglio, nonostante possa sembrare l'esatto contrario. I nuovi media si impongono come strumento di emancipazione e confronto con l'universo non islamico; gli islamisti, giunti al potere, si dimostrano incapaci e straordinariamente crudeli; i riformisti, pur vivendo nel pericolo, in qualche Paese, come l'Egitto, sembrano per la prima volta trovare una parziale sponda politica. Forse è poco ma la storia si scrive giorno per giorno.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Enfedeł, miscredente, eidołatra, kafir

Messaggioda Berto » gio lug 02, 2015 11:42 am

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Enfedeł, miscredente, eidołatra, kafir

Messaggioda Berto » mer lug 08, 2015 8:12 pm

Guerra, Pace - e Inganno - nell'Islàm
di Raymond Ibrahim
12 Febbraio 2009

http://www.webalice.it/pvmantel/traduzioni/taqiyya.html
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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