Da Camin

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Messaggioda Berto » sab gen 10, 2015 4:23 pm

Da Camin
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http://www.marcatrevigiana.it/citta-for ... -da-camino

Da Camino – Fu una delle famiglie nobili venete più importanti del basso Medioevo e dominò nel Veneto orientale dall’XI al XV secolo, giungendo ad instaurare la sua signoria a Treviso dal 1283 al 1312. La famiglia ebbe le sue radici a Serravalle e nella zona pedemontana mantenne sempre masnade numerose e fedeli. Ricevette regolare investitura da imperatori e vescovi. Fin dal 1154 possedeva vasti feudi nel Cadore e nel Cenedese e si divise presto nei due rami dei da Camino di Sopra (capitani generali di Feltre e Belluno) e da Camino di Sotto (capitani di Treviso). Occuparono Treviso nel 1239 assieme ad Alberico da Romano (il fratello di Ezzelino) e governarono a lungo finché Alberico li allontanò assumendo il controllo dispotico della città. Caduti gli Ezzelini, Gherardo da Camino potè instaurare la propria Signoria a Treviso (1283-1307): fece riforme per il benessere e la ricchezza della città e la trasformò in un centro culturale. Nel 1337 i feudi del Cenedese passarono alla Serenissima e il ramo dei da Camino di Sotto venne aggregato alla nobiltà veneziana. La famiglia si estinse nel 1422.

Tra i personaggi più importanti

Gabriele: fondò il monastero cistercense di S. Giustina di Serravalle. Facendo testamento nel 1233 riconobbe tra le sue cattive azioni le angherie commesse contro i poveri durante l’attività militare e dispose di inviare a sue spese in Terrasanta un cavaliere di povera condizione.

Tolberto: alleato di Ezzelino, reggeva una buona metà della Marca Trevigiana che corrispondeva alla zona pedemontana, alla Mestrina, al territorio Castellano, al Cenedese e all’agro Opitergino.

Gaia: contesa moglie di Tolberto, fu ricordata da Dante

Rizzardo: Figlio di Gherardo e vicario imperiale nel 1311. Cadde vittima della congiura cui allude Dante (Paradiso C. IX v. 49):

‘E dove Sile e Cagnan s’accompagna
tal signoreggia e va con la testa alta,
che già per lui carpir si fa la ragna’.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Da Camin

Messaggioda Berto » dom gen 11, 2015 7:01 am

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Re: Da Camin

Messaggioda Berto » dom giu 28, 2015 1:52 pm

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LA FAMIGLIA DA CAMINO

La famiglia da Camino era di origine longobarda, e forse, come anche i Colfosco, discendeva da un ramo dei Collalto, in particolare da un figlio del capostipite Rambaldo I, Byanzeno o Biaquino.

Pur in assenza di una documentazione certa che possa confermare ciò, è però evidente come tra queste famiglie esistessero dei rapporti di stretta parentela. I da Camino sono menzionati già dai primi del dodicesimo secolo; avevano numerosi feudi, ottenuti per investiture imperiali o vescovili , o per eredità, nei comitati di Ceneda, di Belluno, del Cadore.

Per un periodo, la famiglia fu definita "da Montanara", dal castello di Montaner, ai piedi del Cansiglio, di loro proprietà .
Il 3 maggio 1089 i fratelli Alberto e Guecello, discendenti di Biaquino, ottennero da Aimone, vescovo-conte di Ceneda, il feudo di Camino, presso Oderzo, dove finirono per stabilirsi e crearono uno dei loro centri di forza. L’altro sarà Serravalle, contrada dell’odierna Vittorio Veneto.

Non si sa con certezza perché i due fratelli abbiano deciso di lasciare il castello di Montaner, ma indubbiamente Camino era una località strategica sotto vari punti di vista. Equidistante dalle Prealpi, dal Piave e dalla Livenza, godeva del transito della Postumia e soprattutto del Monticano, via d'acqua navigabile; si trovava inoltre alle porte di Oderzo la quale, pur derivando da un'antica città romana decaduta, manteneva una certa importanza come centro fortificato alle dipendenze del vescovo di Belluno. Ancora per qualche decennio la casata comunque mantenne il cognome "da Montanara", per divenire poi nota solo e definitivamente come "da Camino".

La famiglia era però divisa in due rami, spesso rivali e in lotta fra loro. I nomi ricorrenti sono gli stessi, e talvolta non è semplice distinguere: prevalgono Gerardo (o Gerardo), Rizzardo, Tolberto, Guecello o Guecellone per i maschi; Chiara, Beatrice, Rizzarda per le femmine.
Anche lo stemma è simile: “troncato di nero e d'argento”, ovvero uno scudo bipartito, argento nella parte superiore, nero in quella inferiore, per il cosiddetto Comitato superiore o Caminesi “di Sopra” ; colori invertiti e una croce patente scorciata nera su argento per il Comitato inferiore o Caminesi "di Sotto".

I Camino di Sopra , a cui appartenne “il buon Gherardo” ci cui abbiamo già parlato, ebbero inizio nel X secolo da un certo Giutcillo da Montanara e giunse ad imparentarsi con i dalla Scala tramite il matrimonio di Rizzardo III, figlio di Guecellone VII da Camino e di Mabilia San Bonifacio, con Verde, figlia di Alboino della Scala e nipote di Cangrande. Matrimonio combinato e politico, ovviamente.
Rizzardo fu l’unico erede maschio dei Caminesi di Sopra , avendo avuto da Verde solo tre figlie, Caterina, Beatrice e Rizzarda. Nel 1335, alla sua morte, la casa si estinse e i suoi domini furono quindi rivendicati dai Caminesi "di Sotto" (Comitato inferiore di Ceneda), che avevano avuto inizio dal già citato Biaquino I, morto forse nel 1220. Da ciò derivò una lunga contesa con il vescovo di Ceneda, ma l’unica a trarne veramente vantaggio fu la Repubblica Serenissima, ansiosa di espandersi in terraferma, mentre viceversa i Caminesi andavano gradualmente perdendo, con il prestigio, anche gran parte dei loro possedimenti.

Il Comitato di Sotto, aggregato alla nobiltà veneziana, continuerà ad avere un ruolo secondario nelle vicende politiche della Marca Trevigiana fino al 1422, quando anch'esso con la morte di Ercole II perderà qualsiasi potere.
I membri rimasti continueranno a vivere senza più entrare in vicende politiche: dopo una parentesi in Germania, i sopravvissuti si stabiliranno a Cordignano (1604 circa), a Torino, e alla fine del XVIII secolo anche a Trieste, dove Francesco Saverio da Camino acquisterà una certa fama come medico, scienziato e patriota.
In seguito dovettero attraversare traversie piuttosto spiacevoli e, dopo essere stati depredati delle ultime ricchezze rimaste dagli Austriaci, alcuni di loro arrivarono addirittura ad emigrare in Brasile in cerca di fortuna. Alcuni discendenti vivono tuttora a Porto Alegre, mentre l'ultima dei da Camino ancora residente in Italia è Verde, figlia di Gherardo IX Maria. Sic transit gloria mundi.

(CONTINUA NEL POST INTITOLATO “GLORIA MUNDI”

GLORI A MUNDI

(SEGUE DAL POST INTITOLATO “LA FAMIGLIA DA CAMINO)

Gloria mundi, appunto. Ma in cosa consistette questa gloria per i Caminesi?
Sulle origini, risalenti al X secolo, già abbiamo parlato altrove e non è il caso di tornarci sopra.
Nel secolo successivo, grazie ad investiture vescovili, a privilegi imperiali, ad eredità concesse e ad alcuni oculati matrimoni con membri di altre famiglie nobili del luogo i Caminesi riuscirono ad estendere i propri domini, in tutti i Comitati di Ceneda, Feltre, Belluno, oltre che nella zona del Cadore e del Comelico. Fruttuosa fu soprattutto l’unione di Guecellone II con Sofia di Colfosco, conosciuta anche come Sofia da Camino dopo il matrimonio, avvenuto nel 1154.
Sofia è veramente un personaggio interessante, e per questo la sua figura è stata anche oggetto di molte interpretazioni libere e praticamente romanzate.
Figlia di Valfredo e Adeleita da Porcia, divenne l'erede delle importanti contee di Zumelle e di Ceneda. Nel 1155 i coniugi ricevettero in feudo anche il castello di Pieve di Cadore e nel 1160 altri beni nella stessa zona. Nel 1162 Sofia ricevette dallo zio Guido Maltraversi anche il castello di Serravalle, che successivamente diverrà una delle più importanti residenze della famiglia.
Al di là delle licenze letterarie, Sofia fu certamente una donna dalla forte personalità, che partecipò attivamente alle guerre dei comuni italiani contro le mire di Federico Barbarossa. Questa sua presa di posizione è alla base della successiva politica di orientamento gulfo e antimperiale da parte dei Caminesi. L'atteggiamento politico tenuto da Guecellone invece appare più ambiguo, forse per garantirsi il predominio su Conegliano e Ceneda in contrasto con il Comune di Treviso.
Quest’ultimo riuscì sottomettere i Caminesi alla condizione di cittadini da1183 al 1199, ma dopo questo breve periodo di decadenza, essi potrono acquistare grande autorità in città e in tutta la Marca, proprio riprendendo la politica guelfa di Sofia da Camino e diventando ben presto i principali sostenitori delle fazioni guelfe (ovvero alleate del Papa) contro i ghibellini filo-imperiali, guidati dalla potente famiglia dei Da Romano. Per intendersi, questa è la famiglia del terribile Ezzelino III, famoso per la sua audacia e altrettanto odiato per la sua crudeltà.
La lotta tra Caminesi e Da Romano fu lunga e segnata da esiti alterni; per due volte, dopo il 1235 e nel 1239, i Caminesi riuscirono ad ottenere la preminenza in città: la seconda volta avendo dalla propria parte Alberico da Romano, temporaneamente staccatosi dal partito imperiale. Questi, però, dopo un breve periodo, ritornò alla fede iniziale e, usurpando il potere degli alleati Caminesi, s’impose come unico padrone della città. Alla fine, tuttavia, la supremazia spettò ai guelfi e nel 1260 i Da Romano dovettero soccombere.
Questo è il momento in cui l’ascesa dei da Camino comiuncia a diventare inarrestabile. Qualche anno dopo, infatti, i guelfi trevisani si affideranno a Gherardo III (dei Caminesi di Sopra) per sconfiggere il rinascente partito ghibellino, ora guidato dalla famiglia dei Castelli, nominandolo signore assoluto della città. È il 1283, e questo è l’inizio della signoria caminese su Treviso.
Il governo di Gherardo è considerato uno dei periodi più pacifici e prosperi nella storia della città.
Egli riuscì a consolidare il proprio potere annullando completamente la forza del partito ghibellino e anche ogni forma di opposizione, e a questo punto, a “pacificazione avvenuta, sostenne la parte guelfa senza però più entare nelle discordie civili.
Se risultati alterni ebbero i suoi tentativi di espandere il proprio dominio anche in Friuli, entrando in collisione più volte con gli interessi del Patriarca di Aquileia, effettivamente i suoi successi migliori si verificarono nel campo delle alleanze e dei rapporti diplomatici. Mantenne buone relazioni con i Comuni e i signori vicini, con Padova, Firenze e, soprattutto, Venezia. Quest’ultima alleanza era particolarmente significativa: perché, se e vero che nella città lagunare era comunque vietato importare prodotti da Treviso, Gherardo, possedendo Serravalle, controllava la seconda più importante rotta commerciale veneziana dopo l'Oriente: quella che portava in Germania. E i vantaggi erano reciproci.
Un capitolo a sè, nel “giuoco delle parti”, spetta alla politica matrimoniale della famiglia: tramite i matrimoni dei figli, Gherardo strinse nuovi imprtanti legami e potè diventare arbitro di pace nella Marca e fuori. In particolare, riappacificò i due rami della famiglia da Camino dando in sposa la figlia Gaia a Tolberto III dei cosiddetti Caminesi di Sotto. Inoltre, la figlia Beatrice andò in sposa a Enrico II di Gorizia; Agnese sposò Niccolò de' Maltraversi, mentre il figlio Rizzardo si ammogliò con la nobildonna carinziana Caterina di Ortenburg nel 1295. Quest’ultimo matrimonio fu celebrato con uno sfarzo tale da essere ricordato in tutta Italia, a riprova dello splendore e della liberalità per cui Gherardo divenne famoso.
Alla sua morte, avvenuta nel 1306, sarà proprio Rizzardo a succedergli al potere, col titoo di Capitano Generale di Trivso. Ma...Questo Rizzardo, di cui ho già parlato altrove, è personaggio alquanto losco.
Già nel 1305 aveva probabilmente ordito una congiura contro il padre, che pure nel proprio testamento l’aveva nominato successore ed erede. Egli, di fatto, era già padrone della città essendo il Gherardo ormai morente, ma questo evidentemente non gli bastava.
In varie altre occasioni diede prova di arroganza e ambizione, unite a scarsa prudenza, con esiti nefasti sia in guerra sia in politica. A Udine, un tumulto popolare lo costrinse ad abbandonare lacittà dopo la sua nomina a signore del Friuli (1309), inoltre non seppe mantenere buoni rapporti con Venezia, diversamente da quello che era stato il saggio atteggiamento di suo padre. In seguito, pur di ottenere il vicariato imperiale da Enrico (o Arrigo) VII, Rizzardo fu disposto a tradira la secolare politica guelfa familiare. Questa mossa, però, gli sarà fatale: nel 1312 una congiura contro di lui determinerà una morte violenta per mano di un sicario.
Neanche suo fratello Guecellone, che prenderà quindi il suo posto, sarà all’altezza dela situazione e della fama del padre. Dopo qualche mese dalla presa del potere, avendo fatto gli stessi errori di Rizzardo, anche Guecellone infatti, sarà costretto a fuggire, ponendo così fine alla signoria caminese.


DOVE ABITAVANO I DA CAMINO A TREVISO?

Il palazzo dei da Camino sorgeva nei pressi della via allora definita Regia, nel luogo oggi occupato dalla chiesa e dal convento di Santa Maria, già casa dell'ordine dei Servi di Maria, di fianco alla Chiesa di Santa Caterina; l’ex convento servita assieme ad essa oggi fa parte del “Complesso di Santa Caterina”, una delle sedi dei Musei civici di Treviso.
Lo splendido palazzo nobiliare, impreziosito da bellissimi giardini prospicienti le mura orientali della città, era la sede dove i signori, e specialmente Gherardo, amante del buon vivere “cortese”, ospite generoso e magnanimo, intratteneva liberalmente gli amici dedicandosi a una gioviale convivialità. Inoltre, da autentico mecenate, acorto e raffinato, se non proprio colto, accoglieva a corte molti scienziati e letterati, tra cui Dante, che non lesinerà parole di lode per lui nella Divina Commedia e nel Convivio.
Ma molti furono anche gli eventi tragici e violenti che si consumarono tra le sue mura.
Rizzardo IV, il figlio di Gherardo che era succeduto al padre dopo la morte di questi, avvenuta nel 1306, fu protagonista (del tutto involontario) di uno di questi eventi. Egli era riucito ad ottenere la carica di vicario imperiale della città e distretto di Treviso per la sua «probità, senno e fede», nonché – e questa sarà stata la motivazione senz’altro prevalente - pagando un compenso di 16.000 fiorini d'oro all'imperatore Enrico VII° di Lussemburgo. Una volta giunto al potere, governò tanto dispoticamente e si dimostrò tanto disonesto nell'amministrazione del pubblico denaro che trevigiani e padovani, concordemente, decisero di farlo sopprimere tramite un sicario. L’omicidio avvenne mentre giocava una partita a scacchi, appunto sulla loggia del palazzo in via S. Agostino.
Era il 1312. In quello stesso anno, suo fratello Guecellone, che gli era succeduto, sarà poi costretto alla fuga durante una rivolta popolare.
In tale occasione il loro palazzo venne gravemente danneggiato a furor di popolo e poi rimase in stato di abbandono, destinato a essere "piazza della legna", per più di trent'anni. È però probabile che durante la successiva signoria scaligera, a Rizzardo, figlio dell'espulso Guecellone, non fosse stata confiscata la proprietà, o che ne fosse comunque ritornato in possesso, in virtù della parentela con Mastino e Alberto della Scala.
Nel 1346, durante la podesteria di Andrea Cornaro, i Servi di Maria, di origine toscana e ultimi tra i grandi ordini mendicanti dell'Italia medievale ad insediarsi a Treviso, ottennero l'autorizzazione per costruire in quest'area, già di loro proprietà, il convento e una chiesa dedicata a Santa Caterina d'Alessandria, riutilizzando in parte le strutture preesistenti. Si pensa in particolare alla Cappella dei SS. Innocenti, che probabilmente faceva già parte del palazzo dei Caminesi.
Dopo la brusca interruzione del 1348, probabilmente dovuta all’epidemia di peste nera di quell'anno, la costruzione riprese a continuò in diverse fasi. I lavori complessivi durarono dal 1346 fino alla fine del Trecento. Da allora la sua destinazione d’uso, nell’arco della storia, cambiò numerose volte passando da chiesa del Convento dei Servi di Maria, dedicata a Santa Caterina, a sede di altri ordini religiosi.
Il complesso fu poi ricostruito alla metà del Cinquecento, seguendo però l'impianto originario trecentesco.



IL MISTERO DI GAIA DA CAMINO

Gaia da Camino. Per molti di noi questo nome evoca ricordi di scuola e ci riporta alla mente i versi danteschi del Purgatorio (canto XVI), che a questo punto è d’obbligo citare:
“l buon Gherardo…
per altro sopranome io nol conosco,
s’io nol togliessi da sua figlia Gaia”.

Qui il poeta, dialogando con Marco Lombardo, intende in realtà lodare Gherardo, mettendone in evidenza oltre alla “bontà” la “gaiezza”. Che, nel linguaggio dantesco e come si evince dal contesto, devono intendersi come virtù squisitamente umane e terrene.
La bontà è infatti "capacità", "virtù di governo" (mentre la gaiezza è "gentilezza lieta e "cortesia cavalleresca", e la conferma della corretezza di questa interpretazione viene da una lunga serie di riferimenti testuali che forse non è il caso di rioortare in questa sede. (1)
Secondo il Picotti, queste sono appunto le due virtù della buona età antica, che Dante riconosce a Gherardo, appunto “buono” e “gaio”, quale ultimo depositario di un valore di uomini - principi e popoli – ormai scomparso dalla Marca "che Tagliamento e Adice richiude".
E non solo dalla Marca, se Iacopo Rusticucci poteva domandare angosciosamente se fossero partiti dalla sua Firenze (Inf., XVI, 67) , "valore e cortesia". Per non parlare del fatto che “il bel Paese dove il sì suona” (Inf. XXXIII, v. 79) nel Purgatorio (VI, 76-78), a conclusione del famoso episodio di Sordello da Goito, diventa destinatario di un’accorata apostrofe :

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!

Apostrofe destinata più oltre (versi 124-126) a tradursi in un’invettiva durissima, oltre che all’imperatore, proprio contro i signori che dominano nella Penisola, i quali per avidità di potere e di guadagno, sembrano avere dimenticato qualità, valori e virtù del tempo antico:

Ché le città d’Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.

Ma la visione politica e civile di Dante, com’è noto, è tutta rivolta al passato, nostalgica e conservatrice, né si può negare che risulti persino anacronistica, per quanto sinceramente motivata.
Torniamo allora ai nostri Caminesi. Come abbiamo detto, l’Alighieri dunque nel passo citato non elogia direttamente Gaia, nominandola solo in riferimento al padre. Mi sembra evidente, però, che la lode è implicita, innanzitutto perché una connotazione negativa non è minimamente presente nel testo, poi perché non avrebbe avuto senso utilizzare questo riferimento in termini antitetici rispetto al discorso principale, che è chiaramente di tono encomiastico. Infine, perché Dante, che a Treviso potè godere a lungo della generosa ospitalità di Gherardo e - forse! - conobbe personalmente anche la stessa Gaia, non avrebbe potuto parlar male di nessun componente della famiglia, se non a costo di apparire ingrato e maldicente. Quest’ultimo argomento sarà persino banale nella sua ovvietà, ma mi pare comunque di un certo peso.

Il fatto è, però, che non tutti i testimoni antichi sembrano dello stesso parere del poeta fiorentino e la figura di Gaia risulta per noi tutt’altro che definita. Infatti, se tutte le descrizioni concordano nel riconoscere alla figlia di Gherardo fascino, cultura e liberalità, invece, sul piano della condotta di vita, la signora è personaggio molto controverso e discusso.
Si oscilla dall’aperto intento elogiativo alla generica critica moraleggiante, fino alle accuse più infamanti di corruzione e perversione sessuale. Insomma, pettegolezzi e illazioni si sprecano. E noi probabilmente saremo costretti a rimanere nel dubbio per sempre, perché, in assenza di notizie verificabili in sede di critica storica, le congetture devono necessariamente rifarsi a quanto hanno detto altri prima di noi in modo vistosamente contradditorio.
Quasi tutto si basa infatti sugli interventi dei primi commentatori della Commedia, che sono appunto attestati su due opposte posizioni.
A favore di Gaia sono l' Anonimo Fiorentino,Francesco da Buti, fra’ Giovanni Bertoldi da Serravalle, vescovo di Fano e Fermo, e, nel secolo successivo, Cristoforo Landino.
Ma sentite invece cosa scrive Iacopo della Lana, il più antico esegeta in volgare del poema di Dante: Gaia "fo donna de tale regemento circa le delectazioni amorose, ch'era notorio lo suo nome per tutta Italia". Nientemeno!
La versione di Jacopo è stata ripresa da Andrea Lancia con argomenti analoghi. Ma ben oltre azzarda Benvenuto Rambaldi da Imola, nel suo Comentum, posteriore al 1375, che la presenta come donna licenziosissima, e di lei dice tutto il male possibile:
"Ista enim erat famosissima in tota Lombardia, ita quod ubique dicebatur de ea: Mulier quidem vere gaia et vana; et, ut breviter dicam, tarvisina tota amorosa; quae dicebat domino Rizardo fratri suo: procura tantum mihi iuvenes procos amorosos, et ego procurabo tibi puellas formosas".
Benvenuto, cioè, dà per certa la complicità tra Gaia e il fratello Rizzardo nell’organizzazione di viziosissimi festini, anzi vere e proprie ammucchiate, che avrebbero dovuto coinvolgere focosi giovani e ragazze compiacenti, reclutate forse nella stessa corte del “buon” Gherardo! E non basta. Perché Benvenuto afferma anche di sapere sul conto di Gaia molte altre cose, che il pudore gli vieta di svelare. In questo modo egli fornisce quel paradigma interpretativo, cui poi si adegueranno il Rajna e Sapegno, ritenendo questa tesi "più probabile e poeticamente più efficace" (Sapegno), per lo scioglimento delle difficoltà testuali della Commedia.
Però... secondo me il mistro rimane. Anche senza arrivare a ipotizzare, insieme al gentile Giovanni da Serravalle, l’esitenza di due donne omonime, una buona e una perversa. Del resto, che ci sarebbe di strano se Gaia, “tarvisina tota amorosa”, fosse stata davvero un tantino...esuberante ? Non ci troviamo forse nella Marca “gioiosa et amorosa”? A meno che non si debba pensare che il giudizio, o il pregiudizio, sul suo comportamento sia stato determinato, per... estensione, proprio dalla fama della stessa Marca. (SEGUE)

(1) Per bontà : Inferno, I, v. 71; Purgatorio, IX, v. 137; ibid., XVIII, v. 119: vedi Anceschi, Encicl. dantesca, I, p. 681, sub voce). Per gaiezza: Vita nuova.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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