Łi orori de ła Rexistensa

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Messaggioda Berto » ven gen 09, 2015 7:48 pm

Łi orori de ła Rexistensa
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Napolitano riconosce errori (ed orrori) della Resistenza

https://fomentonews.wordpress.com/2012/ ... resistenza


L’Osoppo non dimentica

di Marco Petrelli

(ASI) 67 anni dopo la strage Napolitano rende omaggio ai caduti di Porzus. Presente anche l’ANPI.

Sessantasette anni dopo una strage onta per la Resistenza, il Presidente della Repubblica riconosce le ‘zone d’ombra’ del fenomeno partigiano: La grande storia della Resistenza ha avuto anche ombre, macchie e la più grande è l’eccidio di Porzûs (Fausto Biloslavo, Il Giornale del 30 maggio 2012). Sessantasette anni di silenzi e mistificazioni. Nel 1997 un film di Renzo Martinelli aveva aperto un piccolo spiraglio sulla vicenda delle Osoppo, le formazioni cattoliche decimate alle Malghe di Porzus, il 7 febbraio 1945.

Difficile cercare di penetrare il muro che una parte della storiografia resistenziale ha voluto erigere a custodia di segreti inconfessabili, per anni nascosti all’opinione pubblica in un più ampio contesto di mitizzazione della lotta partigiana.

Ma è noto, alcune verità sono come i resti dei naufragi, prima o poi riemergono e raggiungono la riva, quasi a voler essere testimonianza di una tragedia che non può e non deve essere dimenticata.

Il 7 Febbraio 1945 un manipolo di garibaldini guidato da Mario Toffanin (Giacca), percorre i tratturi di Porzus, località a nord di Udine.

Montagna, foresta e neve fanno da sfondo ad una marcia che conduce Giacca e i suoi fino alle Malghe, dove staziona la Brigata Osoppo.

Osoppo, come quel comune friulano tra i primi a sollevarsi contro l’Austria nel 1848 e per questo decorato con la Medaglia d’Oro al Valor Militare. Un nome simbolico, risorgimentale, che richiama alla lotta contro il ‘tedesco’ per l’indipendenza del Paese. L’annessione germanica di Friuli-Venezia Giulia, Fiume e Lubiana (Operationszone Adriatisches Küstenland) accentua il carattere storico ed ideologico del nome scelto.

Gli osovani non sono comunisti. Tra le loro file ci sono cattolici, liberali, monarchici, ex militari del Regio Esercito.

Nei primi mesi del ’45, con la Wehrmacht ormai in rotta su tutti i fronti, il confine orientale dell’Italia è sempre più nelle mire del IX Corpus sloveno che può contare sull’appoggio di comunisti italiani che hanno abbracciato la causa di Tito.

Le mire titine in territorio italiano preoccupano il governo della RSI. Salò non ha autorità sui territori annessi al Reich, ma preservare l’italianità delle province orientali diventa una questione vitale. Alcuni battaglioni della Decima Mas di Borghese raggiungono le aree di confine, ingaggiando combattimenti con le forze slave.

Per respingere l’avanzata nemica occorrono però rinforzi. Gli uomini della Decima, facendo leva sul sentimento patriottico degli ufficiali Osoppo, propongono a questi ultimi una collaborazione per mantenere italiane Friuli e Venezia Giulia.

Un anno e mezzo di guerra civile non aiuta a superare le divisioni tra le due fazioni e la Osoppo non accetta. La notizia dell’incontro tra i partigiani e i marò comincia però a diffondersi.

Una buona occasione per Giacca che ne approfitta per liquidare chi non ha accettato di passare agli ordini di Tito. Diciassette morti il bilancio finale. Nel ’46, onde evitare problemi, Toffanin trova rifugio in Jugoslavia. La Corte d’Assise di Lucca, riconosciuta la sua responsabilità nel crimine perpetrato alle Malghe, lo condanna all’ergastolo in contumacia. Nel ‘ 78 il Presidente della Repubblica Sandro Pertini lo grazie; riceve anche una pensione.

Al danno la beffa. La Osoppo non dimentica il torto subito: alcuni componenti della brigata aderiranno, dopo la guerra, alla struttura NATO stay behind conosciuta come Gladio.

Neanche i parenti delle vittime e i sopravvissuti dimenticano e le parole dei garibaldini “Abbiamo liquidato fascisti” risuonano ancora nella testa di Severino Zucco, fratello minore di un assassinato.

Ironia della sorte, tra i diciassette caduti anche il fratello di Pier Paolo Pasolini, Guido (al quale il poeta dedicherà alcuni versi) e Francesco De Gregori, zio del cantautore e comandante della formazione.

La macchina del fango e della mistificazione si mette in moto. La guerra passa dai colpi di machine pistole alla propaganda, capace di trasformare un delitto in un atto di giustizia.

Mezzo secolo di silenzi ha fatto il resto e la targa metallica scoperta il 30 Maggio da Napolitano non ha completamente rimarginato la ferita-

Il lavoro di storici onesti, spesso tacciato di revisionismo dall’ ANPI, ci consente oggi di leggere pagine di storia che raccontano di epurazioni e violenze consumatesi negli stessi ambienti della Resistenza. L’uccisione a Como di Luigi Canali (Capitano Neri) , capo di stato maggiore della 52^ Garibaldi e la scomparsa il 30 Marzo ’44 del capitano Mario Lupo sul confine tra Terni e Rieti, sono state avvisaglie di una logica netta, chiara e cinica: sgombrare il campo da qualsiasi ostacolo, umano e materiale, tra i comunisti e la rivoluzione.

Oggi, davanti ad una targa ed un Presidente ex PCI che sottolinea la vergogna di un gesto criminale, ANPI e Osoppo si guardano nuovamente in faccia. Non sappiamo con certezza se gli osovani abbiano perdonato i carnefici di Toffanin, ciò che è sicuro è che non dimenticheranno il movente assurdo dell’assassinio di diciassette partigiani per mano di altri partigiani.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Łi orori de ła Rexistensa

Messaggioda Berto » ven gen 09, 2015 7:49 pm

Fasisti tałiani:

http://fascisti-italiani.over-blog.it/p ... 89950.html

Gli orrori della Resistenza in Italia!!

La Resistenza

Sfatiamo alcuni miti che ci sono stati imposti in questi ultimi decenni.
Parliamo ovviamente della Resistenza e di come è stata proposta dalla sua fine ad oggi.
Tra le frasi più usate vi sono state “Lotta di popolo“, “lotta di Liberazione” e “Combattenti per la Libertà“.
Esaminiamole più da vicino:

Lotta di popolo

In un Paese che contava circa 35 milioni di abitanti i partecipanti alla Resistenza, secondo i dati dell’ANPI del 1946, furono circa duecentomila.
Un anno prima, sempre secondo l’ANPI, erano centocinquantamila.
Un po’ poco per definire la Resistenza una lotta di Popolo. Al massimo una lotta di elite, di poche persone che, avendo avuto una visione più ampia rispetto al resto della popolazione decisero di fare qualcosa. Sull’effettiva visione che avevano, torneremo tra poco.

Lotta di Liberazione

Il termine è equivoco. Una lotta di liberazione avrebbe dovuto essere rivolta verso le truppe alleate, che erano gli invasori, e non certamente verso le truppa italiane e tedesche che invasori non erano.
Si intende liberazione dal Fascismo e dal Nazismo e si usa a ragione ben veduta il termine Liberazione col duplice scopo di radicare nella memoria che il Nazismo e il Fascismo (il male) erano illiberali mentre i partigiani (il bene) combattevano per la libertà.
Ciò è vero solo in piccola parte, visto che la maggioranza dei partigiani combatteva in verità con la speranza di instaurare una schiavitù ben peggiore.

Combattenti per la Libertà

Questo sarebbe il termine di definizione esatto, se il fine fosse stato quello di riportare la libertà e la democrazia in Italia. Ciò è però, come vedremo in seguito solo parzialmente valido.

Su queste premesse, sbandierate quasi ogni giorno, si è imposto il mito della Resistenza e si sono poste le basi della rovina dell’Italia. Rovina che perdurerà sino al giorno in cui questi miti non saranno demoliti e si ritornerà alla verità storica.

Secondo le cifre dell’ANPI, nel 1945 erano censiti 150.000 partigiani, nel 1946 (in quella data furono chiuse le liste poichè il numero di aspiranti partigiani cresceva giorno dopo giorno) circa 200.000, di cui circa 80.000 appartenevano alle associazioni non comuniste («Brigate del Popolo», «Fiamme Verdi», «Volontari della Libertà», «Squadre Bianche»).
Negli anni precedenti si riduce notevolmente sia il numero effettivo dei partigiani che ovviamente anche quello dei partigiani non comunisti. Per la precisione nel 1944 (cifre ufficiali il totale ammontava a 130.000). Scarso fu pure l’appoggio ‘esterno’ dei contadini e, in genere della popolazione.

A questo proposito cito due testi:

” La tattica del mordi e fuggi adottata dai partigiani doveva non risultare gradita a coloro che in quelle zone dovevano vivere, restando abbandonati dai partigiani alle rappresaglie nemiche. La diffidenza dei contadini verso i partigiani si trasformò in certi casi in vera e propria ostilità obbligandoli ad andarsene, come nel caso delle valli valdesi nell’estate del 1944, o addirittura chiedendo l’intervento dei nazifascisti” (Romolo Gobbi, Il mito della resistenza, pag 69, ed Rizzoli, Milano 1992).

“La gente, pur continuando a odiare i tedeschi, si domandava la ragione del soffrire e la scorgeva nell’azione dei partigiani…e urlava, pregava, minacciava perché i partigiani stessero lontani. Cosa vogliono, dicevano, quei disgraziati in montagna? Non fanno che provocare dolori, scappano, non sanno combattere, ci fan bruciare la case” (Giorgio Bocca, partigiani della montagna, ed Bertello Cuneo 1945).

Le tesi contrarie, vere e proprie favole, furono un semplice atto di propaganda, studiato a tavolino, imposto con ricatti nei confronti della cosiddetta intellighenzia del dopo guerra e ripetuto sino alla nausea per farlo diventare un fatto assodato. In seguito vedremo come e perchè.

Le due anime della Resistenza, bianca e comunista, oltre che per entità, erano molto diverse anche per organizzazione e per finalità. Pur sedendo insieme negli stessi comitati, l’obiettivo degli uni, dei bianchi, era quello di ristabilire una democrazia, quello dei rossi era di ubbidire agli ordini di Stalin e, se possibile, portare l’Italia nella sua orbita di influenza. In altre parole questi ultimi erano “Combattenti per la Schiavitù“.
La strategia e le azioni storiche con cui proseguirono questo fine, qui semplicemente accennato, saranno oggetto di un post particolare.
Per ora soltanto due considerazioni:

* se lo sbarco in Sicilia degli Alleati fosse avvenuto nel 1941 invece che nel 1943 avremmo avuto una Resistenza contro gli Alleati, visto che Stalin era alleato di Hitler.
* i partigiani rossi furono spesso in lotta contro i partigiani bianchi. Gli episodi più famosi sono la strage di Purzus e quella di Strassera. Tornerò su entrambe con i particolari. Qui cito solo un brano della sentenza di condanna all’ergastolo (1957) comminata dalla Corte di Assise contro Moranino responsabile della strage di Stassera:
«Perfino la scelta degli esecutori dell’eccidio venne fatta tra i più delinquenti e sanguinari della formazione. Avvenuta la fucilazione, essi si buttarono sulle vittime depredandole di quanto avevano indosso. Nel percorso di ritorno si fermarono a banchettare in un’osteria e per l’impresa compiuta ricevettero in premio del denaro.»

E’ anche bene ricordare fin da ora come la Resistenza ebbe in effetti due fasi ben precise:

* la lotta contro il fascismo e il nazismo (1943-1945)
* la lotta per imporre lo Stato sovietico o quanto meno la legittimazione del PCI e la sua egemonia nella cultura a cui avrebbe dovuto poi seguire, cosa che purtroppo avvenne, l’occupazione di settori chiave quali l’educazione e la giustizia.

Solo dopo il 1948, ad elezioni avvenute e finito il sogno di una repubblica socialista italiana si accreditò l’idea di una Resistenza unita, di popolo e con un unico obiettivo e ideale: la libertà.
L’operazione potè riuscire essenzialmente grazie all’apporto della vasta schiera di giornalisti, storici e professori che il PCI era riuscito ad arruolare.
La situazione storica era infatti mutata.

Chiarito una volta per tutte da Stalin che l’Italia, almeno per il momento, era stata assoggettata all’influenza anglo-americana, Togliatti (capo del Partito Comunista Italiano) si trovò nella necessità di far buon viso a cattiva sorte e cercare di porre le basi per lo sviluppo futuro del suo partito.
Per far questo erano necessarie almeno tre cose.

* L’accettazione, almeno di facciata, del principio democratico e parlamentare.
* La presenza attiva del partito nell’assemblea costituzionale.
* La creazione del mito della Resistenza unito al perdurare eterno del pericolo fascista in modo da poter nascondere quanto di poco chiaro avveniva nel partito e nell’alleata Unione Sovietica e dare una sorte di legittimità al partito comunista, attivo partecipante alla ‘Lotta di Liberazione‘. Naturalmente la parola d’ordine era di tacere sull’apporto dei partigiani bianchi e di coprire i misfatti di quelli rossi
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Re: Łi orori de ła Rexistensa

Messaggioda Berto » ven gen 09, 2015 7:50 pm

Storiografia della guerra civile in Italia (1943-1945)

http://it.wikipedia.org/wiki/Storiograf ... 43-1945%29

La storiografia della guerra civile in Italia è la letteratura storiografica relativa alla lotta fra partigiani e fascisti repubblicani nel periodo 1943-1945 interpretata come una guerra civile interna alla nazione italiana, nel quadro della guerra di liberazione italiana.
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Re: Łi orori de ła Rexistensa

Messaggioda Berto » ven gen 09, 2015 7:50 pm

Immagine

http://www.centrosangiorgio.com/piaghe_ ... italia.htm

La maggior parte delle persone conosce poco o nulla di quella che negli anni 1943-1946 fu una vera e propria guerra civile italiana, con migliaia di morti, tra cui molti innocenti. Quelli che poi ne sono a conoscenza, sono convinti che se eccessi vi furono da parte delle formazioni partigiane, si trattò quasi sempre di regolamenti di conti, di ripicche verso chi, durante il regime fascista, aveva approfittato della camicia nera che indossava per prevalere in modo ingiustificato sul prossimo. In realtà, le cose andarono ben diversamente. Le fosse comuni, le foibe e buona parte degli omicidi portati brutalmente a termine dalle brigate di partigiani comunisti avevano lo scopo ben preciso di eliminare fisicamente i possibili avversari del comunismo di stampo sovietico che si voleva instaurare a guerra finita. Il fine ultimo e la causa di queste stragi non fu, dunque, la vendetta, ma il calcolo spietato di una minoranza che, accecata da un'ideologia di morte, giunse ad uccidere i sacerdoti solo perché tali, gli altri partigiani non-comunisti e persino i proprî compagni che non si allineavano ai dettami del Partito. Una pagina recente della nostra Storia che merita di essere conosciuta.

Fu quello il tempo di Caino! I comunisti, che ricevevano ordini da Mosca, volevano «bolscevizzare» e scristianizzare l'Italia, e perseguivano l'obiettivo di accorpare il nostro Paese al blocco sovietico. Decine di migliaia di innocenti, colpevoli solo di aver servito con amore un ideale, di avere ricoperto cariche nel passato regime, o semplicemente di portare la veste talare pagarono spesso con la vita. Purtroppo, tutti quei delitti sono fino ad oggi rimasti impuniti. A cinquant'anni da quelle tristi esperienze, auspichiamo che la perversa spirale degli odî e delle vendette sia spezzata per sempre, e venga finalmente stesa una coltre misericordiosa su quelle vicende che costarono tanti lutti e tanto sangue, con la speranza che gli italiani, in attesa del giudizio infallibile di Dio e della Storia, si ricompattino in un ritrovato clima di concordia, di fratellanza e di pace.


l È bene precisare

Prima di ricordare episodi dolorosi, messi sotto silenzio, accaduti in Emilia, di alcuni dei quali ho conosciuto personalmente i protagonisti o parlato con i parenti delle vittime, ritengo opportuno precisare alcuni dati di carattere generale falsati dalla propaganda dei regimi succedutisi dalla fine della guerra; tutte le menzogne e tutte le falsificazioni hanno trovato diritto di cittadinanza. La verità sulla guerra civile in Italia, che gli italiani hanno il diritto di conoscere, comincia ad apparire in parte solo ora, a quarant'anni dalla data dei tragici avvenimenti. Il partigianismopartigiani rossi non fu un «movimento di popolo», sorto a contrastare la violenza di un pugno di sanguinari oppressori; va subito detto che i partiti antifascisti non-comunisti manifestarono solo molto di rado la loro presenza attiva, mentre il Partito Comunista fu il vero protagonista. Furono i comunisti a provocare la scintilla che fece esplodere in modo incontenibile la tragedia della guerra civile. Alla R.S.I. aderirono più di 1.200.000 italiani, ai quali bisogna aggiungere tutti coloro che, fuori dal territorio della R.S.I., restarono fedeli dopo l'8 settembre a Mussolini. I partigiani non superavano, invece, anche nei momenti di maggiore sviluppo del movimento, le 100.000 unità; difficile, quindi, considerate le cifre, parlare di un popolo che insorge per quanto riguarda il fenomeno partigiano. I comunisti imposero la loro presenza alle popolazioni usando l'arma del terrore; essi rappresentavano l'80% della forza partigiana; il restante 20% apparteneva a formazioni autonome o di altri partiti. Ogni attentato effettuato dai partigiani contro le truppe tedesche, oltre a non mutare la situazione bellica, e quindi inutile a questo scopo, portava quasi sempre a brutali rappresaglie da parte dei tedeschi; chi ne subiva le conseguenze era la popolazione civile. I tedeschi, ormai in rotta su tutti i fronti, si erano trasformati in barbari e belve, ma non avrebbero fatto nulla senza l'inutile provocazione dei partigiani; quindi, anche i partigiani sono colpevoli, almeno moralmente, degli eccedî compiuti dalle forze militari germaniche. Debbo aggiungere che anche dalle nostre parti i partigiani erano soliti sparare e poi sparire, lasciando la popolazione inerme a subire le conseguenze della loro sconsiderata azione. La strada dei comunismo è lastricata da decine e decine di milioni di cadaveri; anche ora, dove arriva, porta lutti e rovine.

l Emilia Romagna: 10.000 massacrati

avanti popolo, alla riscossaQuesto è il sanguinoso bilancio delle giornate che videro la fine della guerra civile in Emilia. Le stragi volute, organizzate ed eseguite da uomini del Partito Comunista portarono a 3.000 i massacrati nel bolognese, 2.000 nel reggiano, 2.000 nel modenese, 1.300 nel ferrarese, 600 nella provincia di Piacenza, 500 in quella di Ravenna, 200 nel forlivese e 600 nel parmense. Mentre in Piemonte e in Lombardia, la strage infuriò per pochi giorni, esaurendosi entro il mese di maggio, e mentre nella Venezia-Giulia la barbara ondata slava durò praticamente quaranta giorni e si arrestò allorché Trieste e Gorizia passarono sotto il controllo anglo-americano, la regione emiliana venne funestata ancora per lunghi mesi da atroci fatti di sangue. Causa principale di questo fenomeno fu la presenza, nella regione, di centinaia di vecchi esponenti comunisti. Con l'arrivo degli americani a Bologna, gli enti locali, i sindacati, le cooperative, gli organi di polizia, tutto passò nelle mani di uomini di fiducia del Partito Comunista. La conseguenza fu che il terrore, di pretta marca bolscevica, si abbatté sulle popolazioni. Antichi rancori, vendette personali e odio politico si fusero esplodendo in un'atroce, incredibile e inarrestabile catena di omicidi, stragi collettive e angherie senza nome. Nel modenese ebbe il suo epicentro nel «Triangolo della morte», cioè nella zona compresa tra i centri di Castelfranco Emiliano e Spilamberto nel modenese, e San Giovanni in Persiceto nel bolognese. «Nella provincia di Modena, i partigiani comunisti, arrestati e processati per omicidi e reati comuni, furono più di seicento. Molti furono condannati e finirono in galera. Moltissimi ripararono a Praga, tramite l'ufficio espatri clandestini della federazione comunista modenese» 2.

...


LETTERA SEGRETA AI COMPAGNI MILITANTI

La seguente lettera 8 è stata consegnata dal Comitato Centrale del Partito Comunista Italiano, diretto da Palmiro Togliatti (1893-1964), ai quadri propagandisti rivoluzionari nel 1947. Rileggendola è facile capire l'odio che ha guidato la mano omicida di tanti partigiani durante la guerra e nell'immediato dopoguerra.


Compagno,

il Partito vuole che anche tu conosca il contenuto di questa circolare segreta, che fu diramata già ai compagni propagandisti dell'Italia del Nord, dopo la Liberazione e che fu spedita, nelle rispettive lingue, a migliaia di compagni, nei Paesi dell'Europa Centrale che dovevano essere bolscevizzati. Compagno propagandista, tu sei uno dei più validi strumenti. Perché l'operazione tua sia più efficace, eccoti una breve guida per il tuo lavoro. Ricorda sempre che il nostro compito è bolscevizzare tutta l'Europa a qualunque costo e in qualunque modo. Tuo compito è bolscevizzare il tuo ambiente. Bolscevizzare significa, come tu sai, liberare l'umanità dalla schiavitù che secoli di barbarie cristiana hanno creato. Liberare l'umanità dal concetto di religione, di autorità nazionale e di proprietà privata. Per ora il tuo compito è più limitato. Ecco un decalogo:

- Non manifestare ai compagni non maturi lo scopo del nostro lavoro; comprometteresti tutto;

- Lottare contro quanto, specie gli ipocriti prelati, vanno dicendo di meno vero sui nostri scopi;

- Negare recisamente quanto essi affermano e negare recisamente che noi non vogliamo la religione, la patria e la famiglia;

- Mostrare con scherzi, sarcasmi e con condotta piacevole che tu sei più libero senza le pastoie della religione, anzi senza di essa si vive meglio e si è più liberi;

- Specialmente è tuo compito distruggere la morale insegnando agli inesperti, creando un ambiente saturo di quello che i pudichi chiamano immoralità. Questo è tuo supremo dovere: distruggere la moralità;

- Allontana sempre dalla Chiesa i tuoi compagni con tutti i mezzi, specialmente mettendo in cattiva luce i preti, i Vescovi ecc...

- Calunniare e falsare; sarà opportuno prendere qualche scandalo antico o recente e buttarlo in faccia ai tuoi compagni;

- Altro grande ostacolo al nostro lavoro: la famiglia cristiana. Distruggerla
seminando idee di libertà di matrimonio, eccitare i giovani e le ragazze quanto più si può; creare l'indifferenza nelle famiglie, nello stabilimento e nello Stato; staccare i giovani dalla famiglia;

- Portare l'operaio ad amare il disordine, la forza brutale e la vendetta; e a non aver paura del sangue;

- Battere molto sul concetto che l'operaio è vittima del capitalismo e dei suoi amici: autorità e preti;

- Sii all'avanguardia nel fare piccoli servizi ai tuoi compagni; parla molto forte e fatti sentire. Il bene che fanno i cattolici nascondilo e fallo tuo. Sii all'avanguardia di tutti i movimenti;

- Lotta, lotta, lotta contro i preti e la morale cattolica. Dà all'operaio l'illusione che solo noi siamo liberi e solo noi li possiamo liberare. Non aver paura, quando anche dovessimo rimanere nascosti per tre o cinque anni. L'opera nostra continua sempre perché i cattolici sono ignoranti, paurosi e inattivi. Vinceremo noi! Sii una cellula comunista! Domina il tuo ambiente! Questo foglio non darlo in mano ai preti, né a gente non matura alla nostra idea.
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Re: Łi orori de ła Rexistensa

Messaggioda Berto » ven gen 09, 2015 8:44 pm

1943, la scelta della lotta armata

http://www.storiaxxisecolo.it/Resistenz ... nza11a.htm

di Giancarlo Monina

Alle origini della Resistenza italiana, di quel ciclo di eventi che ha inizio la sera dell'8 settembre del 1943, con l'annuncio radiofonico di Badoglio dell'armistizio con gli anglo-americani, e che si conclude intorno al 25 aprile, con la Liberazione delle grandi città del Nord, c'è l'evento epocale del nostro secolo: la seconda guerra mondiale.
Sin dai primi mesi il conflitto frantuma il mito fascista dell'"Italia grande potenza imperiale" dimostrando come le decantate otto milioni di baionette siano ben poca cosa di fronte alla potenza militare delle forze in campo.

A distanza di due anni da quel 10 giugno del 1940 in cui il duce prometteva, di fronte una folla entusiasta, onori e gloria, i segnali della disfatta scavalcano prepotentemente ogni censura.

Da tutte le città del paese si moltiplicano le allarmate relazioni di questori e prefetti che parlano di "disagio diffuso" e le forze politiche antifasciste iniziano a organizzarsi.
Tra il giugno del 1942 e i primi mesi del 1943 in riunioni e convegni clandestini vedono la luce gli organi della democrazia italiana. ???

Nasce il Partito d'Azione, si riorganizzano le anime socialiste, quella riformista di Romita e quella classista di Basso, viene fondata la Democrazia cristiana, si fanno sentire anche i liberali. Il partito comunista, forte di un'apparato clandestino esperto, consolida la sua presenza nel paese.

Ma il processo non è lineare: la popolazione non risponde agli appelli alla mobilitazione, prevale il disorientamento, la confusione, in particolare tra le generazioni più giovani cresciute sotto il fascismo.

In alcuni casi questo disagio è la prima tappa di una presa di coscienza: il 25 luglio si trasforma in una gioia effimera, nella rabbia degli emblemi del fascismo divelti, l'8 settembre diventa smarrimento e via via acquista la forza di una scelta.
La confusione ha una sua rappresentazione anche a livello politico e istituzionale: dopo l'armistizio lo Stato non esiste più, l'esercito si sfalda, il re e Badoglio fuggono, l'Italia è territorialmente spaccata in due e vari poteri politici si sovrappongono in un intreccio che fa perdere di vista il senso della legittimità.

Nel Sud si ricostituisce il governo del re, prima a Brindisi poi a Salerno, e si distende il potere dei nuovi alleati anglo-americani; nel Centro-Nord riappare il governo fascista con il nome di Repubblica sociale italiana mentre dilaga il potere di occupazione del vecchio alleato tedesco.

E prende corpo, giorno dopo giorno, un nuovo e composito potere, quello delle forze antifasciste e partigiane, che presto si dividerà tra le esigenze della prassi politica nell'Italia liberata e quelle della lotta armata e civile nelle zone occupate. Tra le possibili fonti di legittimazione di questi poteri ce ne è una che si afferma nella forza della sua scelta morale: raccogliere l'appello alla "lotta" e alla "resistenza" contro i nazi-fascisti lanciato dall'appena nato Comitato di liberazione nazionale il 9 settembre a Roma.

Lo stesso giorno a Porta San Paolo e in altri quartieri della capitale, la popolazione affianca alcuni reparti dell'esercito in una strenua battaglia contro l'avanzata dei tedeschi di Kesserling. Passano pochi giorni e i primi nuclei di antifascisti, con le poche armi recuperate, salgono sulle montagne dando inizio alla guerra partigiana. La scelta questa volta è ragionata, consapevole delle difficoltà e dei sacrifici che comporta. Agli uomini formatisi nella lotta politica clandestina si affiancano in un moto spontaneo militari sbandati, operai, contadini, giovani della piccola e media borghesia intellettuale, in uno schieramento sociale composito.

Diverse sono anche le motivazioni che spingono questi uomini a intraprendere la via della montagna. A questo proposito si è parlato delle "tre guerre": patriottica, civile, di classe; una formula necessariamente schematica che può aiutare a capire solo se si è consapevoli dell'intreccio, spesso indissolubile, dei tre elementi.

Sono le ragioni di una guerra che nei fatti è di liberazione nazionale e al tempo stesso di scontro civile, e a cui si intreccia, per il carattere politico prevalentemente di "sinistra" delle bande partigiane, la speranza e la lotta per il rinnovamento sociale.
A imbracciare il fucile è comunque una minoranza, nel dicembre del 1943 si contano poco più di 10 mila partigiani in attività.

Certo, le cifre non tengono conto della Resistenza civile, di quel moto popolare di opposizione al nazi-fascismo fatto di piccoli e grandi gesti, di solidarietà e di lotta sociale, ma la maggioranza della popolazione si rinchiude nel silenzio, in una lotta quotidiana per la sopravvivenza in cui la dignità lascia spazio ai calcoli egoistici e, spesso, all'opportunismo: è la cosiddetta "zona grigia" che progressivamente matura, attraverso il rifiuto della guerra, la disaffezione al fascismo.
Non pochi sono anche quelli, specie tra i giovani, che credono ancora in Mussolini, nel frattempo liberato dai tedeschi, e che aderiscono alla Repubblica sociale italiana costituitasi il 23 settembre del 1943. Questi giovani cresciuti alla scuola della violenza fascista, imbevuti di valori falsati e di demagogia, immersi nei riti di un macabro immaginario simbolico, fanno una scelta - anche questa è una scelta - che spesso assume i contorni della disperazione, nella sensazione che non c'è più nulla da perdere. Scelgono la via del terrore: nella Guardia nazionale repubblicana, nella Decima Mas, nella Legione "Ettore Muti" o in altre famigerate strutture militari fasciste.

E il terrore, già conosciuto negli orrori della guerra, nei bombardamenti delle città, nei soprusi, nei racconti dei reduci della Campagna di Russia, fa la sua apparizione più odiosa negli eccidi della popolazione civile.

Il 19 settembre a Boves, nei pressi di Cuneo, per rappresaglia contro l'uccisione di un soldato tedesco, le SS incendiano il paese uccidendo 23 persone. E' il primo di una tragica serie di eccidi di cui saranno vittime i civili e i combattenti partigiani. Contestualmente, un'altra strategia del terrore viene attuata dai nazi-fascisti: la deportazione.
Mirata, nella sua tragica specificità, contro gli ebrei.
Il 16 ottobre del 1943 il ghetto di Roma viene circondato e rastrellato dalle SS: più di mille ebrei, tra cui donne e bambini, vengono deportati su carri bestiame nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, solo 11 di loro faranno ritorno a casa dopo la guerra. Tra il settembre e l'ottobre sono centinaia di migliaia i prigionieri di guerra italiani deportati nei campi di internamento tedeschi e polacchi, usati come manodopera nell'industria degli armamenti, nei lavori di sgombero o nell'agricoltura. La strategia della deportazione è pianificata scientificamente sotto la direzione di Fritz Sauckel, plenipotenziario generale per l'impiego di manodopera, che alla fine del settembre del 1943 istituisce i suoi uffici in Italia.

Oltre agli ebrei e i prigionieri di guerra, sono condotti in Germania parte degli stessi giovani chiamati alle armi dalla Repubblica di Salò - tra quelli che si presentano - e molti operai.

Intanto alla fine di settembre le forze alleate giungono alle porte di Napoli, e nella città scoppia una violenta rivolta popolare. Ma è nel Centro-Nord che si preparano le basi della espansione della lotta armata. I primi nuclei partigiani sono alle prese con i problemi di organizzazione, di addestramento delle reclute e, specialmente, di conquista delle armi. Le prime azioni sono finalizzate a questo scopo: inizialmente si tendono imboscate ai militari isolati per disarmarli, ma così si conquistano soltanto pistole e moschetti; si passa allora ad attaccare le caserme dei carabinieri, i presidi fascisti e tedeschi e i "bottini" diventano consistenti: munizioni, mortai, mitragliatrici, mitragliatori, persino cannoni. Altrettanto importante è il recupero dei materiali da casermaggio come le coperte, i materassi, i capi di abbigliamento. Quello dei rifornimenti è un problema assillante, specie per le formazioni comuniste che saranno fortemente discriminate nei lanci aerei di armi e munizioni da parte degli Alleati.

Alla fine del 1943, la mappa della consistenza e della distribuzione dei primi nuclei di Resistenza armata è molto variegata. La regione con la maggiore forza partigiana è il Piemonte dove, la configurazione territoriale, la presenza degli sbandati della Quarta Armata, l'alto numero di quadri antifascisti, la tradizione di lotte operaie, favoriscono il radicarsi del ribellismo. In Lombardia il fenomeno è più limitato anche se consistente, così come nell'Appennino ligure e nel Triveneto. Diversa la situazione in Friuli dove, a stretto contatto con i partigiani jugoslavi, la Resistenza armata assume subito una dimensione di rilievo. Procedendo verso il centro dell'Italia, in Emilia si organizzano i primi gruppi di resistenza civile nelle città e nelle campagne; in Toscana, Umbria e Marche le prime formazioni, ancora esigue, raggiungono i monti più sicuri. Nel Lazio e in Abruzzo l'iniziativa congiunta di militari e quadri antifascisti crea significativi concentramenti di forze nella zona dei Castelli Romani e in quella di Teramo. Poche migliaia di armati, circa 15 mila all'inizio del 1944, in buona parte concentrati in Piemonte, che rappresentano un presupposto determinante per la futura espansione e, sin da ora, una seria preoccupazione per i comandi militari tedeschi e fascisti che predispongono i rastrellamenti.

L'organizzazione delle bande si modella per lo più sulle indicazioni dei centri politici: a fine novembre il Pci dà vita ai distaccamenti d'assalto "Garibaldi", solo più tardi articolati in brigate e divisioni; il Partito d'Azione pensa a proprie formazioni, con il nome di "Giustizia e Libertà", sin dalla fine di ottobre, ma diventano operative solo nel febbraio del 1944. Importanti anche le formazioni "autonome", politicamente moderate e badogliane, composte principalmente da ex-militari dell'esercito regio. Di minore rilievo e in gran parte di successiva costituzione, i gruppi armati socialisti delle Brigate "Matteotti" e quelli democristiani o di impronta cattolica variamente denominate, così come altre formazioni, di diversa ispirazione politica, a carattere prevalentemente locale.

L'eterogeneità ideologica delle bande e del Comitato di liberazione nazionale porta a divergenze e contrasti di carattere generale che, nello specifico, si traducono: nella contesa politica, nei diversi atteggiamenti verso la monarchia, il governo Badoglio, gli Alleati; nel cuore della lotta partigiana, nell'alternativa tra una tattica difensiva ed attendista e l'impegno militare.

Il bilancio dell'attività partigiana nei primi mesi del 1944 è sostanzialmente positivo: numerose le azioni di sabotaggio, il movimento ha retto al durissimo impatto dei rastrellamenti nazi-fascisti, può contare su un'organizzazione relativamente efficiente e radicata sul territorio.
La lotta si estende dalle montagne alla città, i luoghi di lavoro. Si formano comitati di agitazione nelle fabbriche, organizzazioni di massa come il Fronte della gioventù, i Gruppi di difesa delle donne, i Comitati di difesa dei contadini.

Iniziano le azioni terroristiche nelle grandi città, con effetti clamorosi e destabilizzanti, specie ad opera dei Gap [Gruppi armati partigiani] organizzati dal Pci. Vengono uccisi esponenti fascisti e ufficiali tedeschi, attaccati reparti militari e di polizia; quasi sempre seguono le rappresaglie, come l'esecuzione dei sette fratelli Cervi per l'uccisione del segretario comunale fascista di Bagnolo [Reggio Emilia], il 28 dicembre del 1943, e come il massacro delle Fosse Ardeatine, alle porte di Roma, dove, il 24 marzo del 1944, vengono fucilati 335 ostaggi a seguito dell'attentato contro una colonna tedesca in Via Rasella in cui morirono 33 militari. Episodi drammatici che creano discussioni all'interno degli stessi gruppi della Resistenza.
Il primo inverno di guerra si chiude con lo sciopero generale del marzo 1944 che coinvolge centinaia di migliaia di lavoratori delle zone occupate.

E' una prova di forza iniziata nel novembre precedente e che trae origine dalle durissime condizioni di vita degli operai e dei contadini, ma che nel corso del tempo supera l'ambito rivendicativo per assumere un carattere dichiaratamente politico. Accanto alla Resistenza armata, le lotte sociali dei grandi centri industriali e delle campagne offrono un contributo determinante all'espansione del movimento di liberazione.

(tratto da ilmanifesto.it)
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Re: Łi orori de ła Rexistensa

Messaggioda Berto » ven gen 09, 2015 9:05 pm

http://www.ibs.it/code/9788817072601/pa ... toria.html

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Il 25 aprile chi va in piazza a cantare "Bella ciao" è convinto che tutti i partigiani abbiano combattuto per la libertà dell'Italia. È un'immagine suggestiva della Resistenza, ma non corrisponde alla verità. I comunisti si battevano, e morivano, per un obiettivo inaccettabile da chi lottava per la democrazia. La guerra contro tedeschi e fascisti era soltanto il primo tempo di una rivoluzione destinata a fondare una dittatura popolare, agli ordini dell'Unione Sovietica. Giampaolo Pansa racconta come i capi delle Garibaldi abbiano tentato di realizzare questo disegno autoritario e in che modo si siano comportati nei confronti di chi non voleva sottomettersi alla loro egemonia. Quando si sparava, dire di no ai comunisti richiedeva molto coraggio. Il Pci era il protagonista assoluto della Resistenza. Più della metà delle formazioni rispondeva soltanto a comandanti e commissari politici rossi. "Bella ciao" ricostruisce il cammino delle bande guidate da Luigi Longo e da Pietro Secchia sin dall'agosto 1943, con la partenza dal confino di Ventotene. Poi le prime azioni terroristiche dei Gap, l'omicidio di capi partigiani ostili al Pci, il cinismo nel provocare le rappresaglie nemiche, ritenute il passaggio obbligato per allargare l'incendio della guerra civile. La controstoria di Pansa svela il lato oscuro della Resistenza e la spietatezza di uno scontro tutto interno al fronte antifascista. E riporta alla luce vicende, personaggi e delitti sempre ignorati.
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Re: Łi orori de ła Rexistensa

Messaggioda Berto » sab dic 24, 2016 8:47 am

L'attentato-suicidio dei Gap raccomandato da Togliatti
Il Migliore impose di usare i giovanissimi nelle azioni contro i nemici. Come nel 1944 a Sesto San Giovanni...
Luca Fazzo - Ven, 23/12/2016

http://www.ilgiornale.it/news/spettacol ... 45448.html

Chissà se Giangiacomo Feltrinelli, editore rivoluzionario, e i suoi seguaci che negli anni Settanta si diedero alla lotta armata, avevano studiato fino in fondo la storia dei Gap.

La banda di Feltrinelli venne chiamata così, Gruppi di azione partigiana, in omaggio alla struttura clandestina, diretta emanazione del Partito comunista, che durante la guerra civile era stata la punta di diamante della Resistenza a Milano e nel suo hinterland. Era un mito, quello dei Gap, che aveva permeato profondamente il movimento del Sessantotto, e che fu importante nello spingere verso il terrorismo alcuni settori radicali dell'ultrasinistra: mito formato da ortodossia ideologica, e soprattutto da efficienza militare. Ma il tempo passa, la storia di quegli anni viene riscritta senza furori di parte. E anche il mito dei Gap ne esce ridimensionato. Del cinismo di alcune scelte dei Gap, come dimostra l'attentato di via Rasella a Roma, si è ampiamente dibattuto. Ma ora un libro di Marco Manuele Paolini costringe a rimettere in discussione anche il lato del mito che sembrava meno scalfibile: la capacità operativa, la compartimentazione ferrea.

Al centro del libro di Paolini, Il ragazzo della Quinta (Mursia, pagg. 146, euro 14) ci sono un ragazzo e un attentato. Il ragazzo si chiamava Felice Lacerra, era nato nel 1927 a Sesto San Giovanni da una famiglia di immigrati, a quindici anni era già operaio alla Breda. L'attentato è quello che proprio a Sesto, la sera del 10 febbraio 1944, prende di mira la locale Casa del Fascio, dove è in corso la riunione per la nomina del fiduciario. L'azione in sé è maldestra, e provoca meno danni di quanto i gappisti si proponevano facendo irruzione con mitra e bombe a mano: due repubblichini uccisi, un altro paio feriti. Ma ben più disarmante è il pressapochismo nella preparazione dell'attentato, che avrà conseguenze catastrofiche per gli organizzatori. I Gap sestesi verranno smantellati quasi per intero dalle indagini successive all'attacco.

Era un lavoro crudo, quello dei Gap. Non si trattava di combattere a viso aperto, in montagna, affrontando i reparti ben più armati della Rsi e degli occupanti tedeschi, ma di uccidere a sangue freddo, alle spalle. Lavoro necessario, ma che selezionava inevitabilmente un certo tipo di militante, pronto alla freddezza e ai sacrifici della clandestinità. «Raccomandiamo di non aver paura di mettere avanti i giovani, i quali hanno coraggio e audacia», scriveva Palmiro Togliatti. E in effetti i quadri dei Gap erano spesso sui vent'anni. Ma per l'attentato a Sesto si scelse di mettere in prima linea addirittura un sedicenne: Felice Lacerra. A lui venne affidato il ruolo più difficile: l'infiltrato. Si iscrisse al Pnf, iniziò a frequentare la Casa del fascio, si conquistò la fiducia dei camerati, gestendo un ruolo da agente doppio che avrebbe spezzato i nervi a gente ben più adulta di lui. Fu lui a segnalare ai Gap la data della riunione, e ad aprire dall'interno le porte al commando armato.

Se già questa scelta appare azzardata, ancora più incomprensibile appare quella di non allontanare Felice da Sesto subito dopo l'attacco. La mattina dopo, il ragazzo andò a lavorare in Breda come se niente fosse, ovviamente venne arrestato, e si può immaginare quale trattamento gli fu riservato. Fece il nome di un partecipante all'irruzione, Luigi Ceriani il quale, fermato a sua volta, cantò ben più di Felice, facendo arrestare l'intero distaccamento sestese dei Gap. In carcere alcuni resistettero, altri parlarono. I due capi, Egisto Rubini e Oreste Ghirotti, si uccisero in cella per non cedere alle torture.

In aprile viene arrestato Primo Grandelli, dei Gap di Milano che avevano collaborato all'azione con i sestesi. Incredibilmente, ha con sé un quaderno con i nomi di tutti i compagni che vengono arrestati in blocco. I Gap a quel punto non esistono praticamente più, e si dovrà attendere l'arrivo in città di Giovanni Pesce perché la struttura armata del Pci venga ricostituita. «Fu tutto uno sbaglio, dall'inizio alla fine», dirà Carlo Camesasca, il gappista che pochi mesi prima aveva partecipato all'uccisione del federale di Milano, Aldo Resega. D'altronde sono gli stessi Gap che l'8 agosto dello stesso anno in viale Abruzzi metteranno una bomba su un camion della Wehrmacht che distribuiva aiuti alimentari: non morì neanche un tedesco, ma restarono uccisi sei milanesi in coda per il cibo. La rappresaglia nazista fu la strage di piazzale Loreto.

Insomma, altro che efficienza. Coraggio, indubbiamente, ma anche pressapochismo e decisioni sciagurate. E il giovane Felice Lacerra? Fu deportato a Fossoli, vicino Carpi, in un campo di concentramento dal volto umano. La mattina del 12 luglio, sessantasette prigionieri del campo vennero portati dalle Ss in un poligono, a Cibeno, e uccisi con un colpo alla nuca. Felice era uno di loro. Lo riconobbero i genitori quasi un anno dopo, esumato dalla fossa comune, dal libretto della mensa della Breda.
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