La falba teoria fonetega: evolousion dal latin

La falba teoria fonetega: evolousion dal latin

Messaggioda Berto » lun dic 30, 2013 4:14 am

La falba teoria fonetega: evolousion dal latin
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« Albero» e «onda» o evoluzione genetica e diffusione geografica nel mutamento linguistico
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4.6. Dialetti viventi più arcaici del Latino

Che la concezione stadiale tradizionale sia errata è dimostrato da un altro fatto.

In certi casi, i dialetti viventi preservano stadi più arcaici dei presunti stadi antichi.
Nel caso dell'area “neolatina”, per esempio, certi aspetti dei dialetti sono più antichi del Latino stesso.

È uno degli aspetti più interessanti della linguistica storica romanza, ben noto alla romanistica tradizionale, che però non ne ha tratto tutte le possibili implicazioni.
Questo tema sarà oggetto di uno dei capitoli più importanti del secondo volume.
Per ora, mi limito a due esempi storico fonetici e ad alcuni lessicali.

4.6.1. Esempi storico-fonetici

Vediamo il primo esempio.
Sia la seguente sequenza ordinata:

(8) lat. -u- tonica breve > it. centr. -o- tonica chiusa

In termini tradizionali, questa sequenza è quella che spiega il rapporto fra lat. class. buccam > lat. volg. *bocca, da cui it. bocca e fr. bouche, lat. nucem > *noce da cui noce e noix, lat, curro > *corro da cui it. corro e fr. cours, lat, turrem > *torre da cui it. torre e fr. tour, lat. tussem > *tosse da cui it. tosse e fr. toux ecc.

Alla luce di quanto ho detto, la sequenza (8) implica la coesistenza di due norme, di cui una ibridata e l'altra ibridatrice. Mentre nella teoria tradizionale si parla di «passaggio» o «sviluppo», ciò che può dare l'idea della scomparsa magica del primo termine e della nascita altrettanto magica del secondo, si tratta invece della prevalenza di uno dei due tipi, per il suo maggior peso (sociale, economico, demografico, culturale, politico ecc.) rispetto all'altro.
Ci doveva essere, già in epoca latina, un rapporto di coesistenza fra geo- e sociovarianti, presumibilmente preesistenti alla formazione del Latino come norma scritta del ceto dominante.

Se questa tesi è corretta, e non può non esserlo, dovremmo trovarne le prove nel Latino stesso.
Una di queste prove potrebbe essere nello stesso nome di Roma.

Il nome di Roma si collega, nell'ipotesi a mio avviso più probabile - quella di bruno Migliorini -, a ruma o rumis «mammella» [Gasca Queirazza et al. 1990, s.v. Roma). Sarebbe il nome dato all'aspetto più caratteristico e famoso del paesaggio di Roma, i suoi colli. In molti dialetti, anche neolatini, il colle si chiama infatti «mammella» [REW 5276, FEW, s.v. mamilla] : per esempio sp. mamella «tumulo, colle», port. mamelão «idem», fr. mamelon «petite élévation de terrain de forme arrondié, sommet arrondi d'une colline» ecc.
Ora, se si accetta questa etimologia, il passaggio da ruma a Roma è lo stesso che caratterizza il rapporto fra Latino classico e Latino volgare, e documenterebbe la presenza del tratto già in epoca preromana, nel nome stesso attribuito ai primi insediamenti di Roma. In casi simili, la linguistica tradizionale utilizza la formula del «dialettalismo», che è un modo di dire meno esplicito che certi tratti dialettali poi affermati come generali preesistevano al Latino classico.
Teorizzata più attentamente, la corrispondenza ruma = Roma esemplifica la regola di corrispondenza fra -u- tonica breve latina e -o- tonica chiusa, considerata volgare e romanza.

In altre parole, la regola di mutamento romanza, ben lungi dall'essere «romanza», rappresenta una regola di corrispondenza «preistorica», già esistente in epoca latina.

Passiamo al secondo esempio.

Sia ora la sequenza:

(9) lat. -dv- it. mer. -bb-

Questa corrispondenza è attestata in molti composti con ad- + v-, come nap. abbedere, abbenire, abbelire (it. avvedere, avvenire, avvilie), calabrese abbertiri, abbisari, abbivisciri (lat. *adviviscere) , abbicinari, siciliano abbiari, abbentu «quiete», corso abbene «avvenire», abbià «avviare», abbizzà «avvezzare» ecc., abr. abbentare ecc. [Rohlfs 1966-68, I, 240].

I dialetti meridionali che mostrano la corripondenza lat. -dv- -bb- sono caratterizzati anche da altri tratti, che appaiono anche nelle lingue italiche antiche, parlate e scritte in Italia centro-meridionale; fra i più noti, l'assimilazione in -nn- e -mm- dei gruppi -nd- e -mb-, e la sonorizzazione dei gruppi nasale + sorda, per esempio -nt- > - nd-, -mp- > -mb-, -nk-> -ng- ecc.
Per cui la linguistica storica ha considerato questi tratti dialettali moderni come fenomeni di sostrato delle lingue italiche.
Per quanto riguarda dv- > b-, il Latino conosce sviluppi come bi- bis da dwi- dwuis, bellum da dwellum, bellus da *dwenolos, ecc . , che di solito non vengono spiegati, perché non corrispondono ad alcune delle «regole di mutamento» note per il Latino.
Se ora si applicasse a questi sviluppi la regola di corrispondenza dei dialetti centro-meridionali italiani sopra citata, potremmo spiegare i latini citati come prestiti osco-unbri, e il tratto -bb- meridionale come un fenomeno di sostrato italico (betacismo) da aggiungere a quelli già noti.
In questo caso, i dialetti sud-italiani sarebbero contemporanei del Latino, e conserverebbero come regole delle sequenze che in Latino appaiono solo a livello marginale e irregolare, di prestito.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: La falba teoria fonetega: evolousion dal latin

Messaggioda Berto » lun dic 30, 2013 6:49 pm

Conservasion e mutasion entel xlengoar
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Conservazione e mutamento nel linguaggio

Capitolo quinto

1. La tendenza fondamentale delle lingue: mutare o conservarsi?

La linguistica storica ha sempre concentrato la propria attenzione sul mutamento linguistico. Per questo non può essere certamente criticata, perché si tratta di un fenomeno di straordinaria importanza, che ha formato la base di tutte le nostre conoscenze storico-linguistiche.
Inoltre, l’esperienza che il comparatista e il linguista storico ricavano dallo studio delle lingue è proprio quella di un universo in costante divenire:
il Latino sembra «diventare» le lingue romanze, il Greco classico sembra trasformarsi nel Greco moderno, il Francese antico in quello moderno, l'Inglese antico nell'Inglese moderno, l'antico alto Tedesco nel Tedesco moderno, l’Irlandese antico in quello moderno, lo Slavo antico nelle lingue slave moderne e così via.

La tecnica del comparatista è, per definizione, il confronto di forme di lingue o di dialetti diversi, riconducibili, attraverso mutamenti regolari, a una sola matrice comune.
Il mutamento d e v e quindi essere al centro della sua attenzione.


??? - lej foneteghe

Nell'epoca della sua prima formazione teorica, tuttavia, la linguistica storica e comparata fu fortemente influenzata dall'evoluzionismo biologico, e finì col dare al mutamento linguistico un valore assoluto, di legge biologica, con il nome di «legge fonetica» (Lautgesetz).

Ecco come si esprime August Schleicher (1821-1868), il codificatore dell’evoluzionismo linguistico, formulatore della teoria delle leggi fonetiche e fondatore della scuola che sarà detta «neogrammatica», in un'opera che ha il titolo significativo Die Darwinsche Theorie und die Sprachwisenschaft:
«Le lingue sono organismi naturali che sono sorti (...), sono cresciuti e si sono sviluppati secondo leggi fisse e a loro volta invecchiano e muoiono»
[1863, 7].

???

Su questa filosofia del linguaggio occorre soffermarsi, anche perché essa non è del tutto scomparsa, nonostante i linguisti storici rifiutino, almeno sulla carta, il modello evoluzionistico di tipo organicista del secolo scorso. Qualunque manuale di linguistica, generale o storica, contiene un'affermazione relativa a questa «legge del mutamento» perché questa è, in effetti, la tesi centrale della linguistica storica, dal suo inizio ad oggi.
Il motto eracliteo - panta rei «tutto cambia» - potrebbe bene rappresentare l’essenza di questa filosofia del linguaggio.
Perfino Hugo Schuchardt (1842 -1927) , il più autorevole avversario della teoria schleicheriana delle «leggi fonetiche» e uno dei linguisti più originali dell'Ottocento, accetta questa visione: «Come tutti gli organismi, anche la lingua è sottoposta alla legge di differenziazione, che si basa su due fattori, la mutazione eterna (Eraclito) e la diversità universale (Leibniz)» [1866-1868, I, 76].

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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... e-urlo.jpg

Per la discussione della visione corrente prenderò come esempio il recente libro di James Mallory [1989], che come sappiamo è un archeologo che si è molto impegnato nella difesa della teoria della Gimbutas, e che ha fatto un notevole sforzo di rielaborazione e chiarificazione della linguistica storica, nelle sue versioni più recenti ed aggiornate.
Ecco qualche affermazione molto rappresentativa di un modo estremamente comune di vedere il fenomeno: «The one constancy of language is that it is always changing» [ibidem, 22]; «We may expect that the amount of change wll be partly dependent on the extent of time that has elapsed in the linguistic continuum»; e ancora più radicalmente, «linguistic differentiation is a product of time» [ibidem, 23, 152-153].

Come si vede, il mutamento linguistico viene qui visto come rispondesse a un vero e proprio «orologio biologico».
Le lingue sono ancora viste come «organismi», che nascono, evolvono e muoiono col tempo.
Si ammettono altri fattori di cambiamento, come lo spazio, il contatto con altre lingue (sostrato, interferenza) ma, per questi come per gli altri: «We have no more right to assume that interference is the prime cause of language change than the other factors upon which solutions have been constructed» [ibidem], 1581 In realtà, come oggi tutti i linguisti riconoscono, il linguaggio non è un organismo biologico.

Di conseguenza, la legge del mutamento è diventata di fatto una legge metafisica.

Sarebbe molto facile ricostruire il contesto storico in cui sono nate queste idee, fondamentalmente errate, sulla «evoluzione organica» del linguaggio.

Ma a parte lo spazio che essa richiederebbe, questa ricostruzione storica e critica è stata già fatta più volte, e come già detto nessun linguista oggi negherebbe l'enorme influenza dell'evoluzionismo biologico sulla linguistica storica e comparativa.
Inoltre, avrò più volte occasione di ritornare su questa problematica.

Ora preferisco accostarmi al problema in altro modo, partendo dall'esperienza che tutti noi abbiamo della lingua.

Nella vita quotidiana, l’esperienza che ci facciamo della lingua non è quella del mutamento, bensì l'opposto: quella della sua stabilità e conservatività. Ciò che noi osserviamo nel corso della nostra vita è che la nostra lingua si conserva praticamente intatta, salvo l’introduzione, più o meno frequente, di nuove parole, che tuttavia non ne mutano mai il funzionamento e la struttura, cioè la grammatica.

Nessun parlante, nei corso della propria vita, deve imparare di nuovo la grammatica della propria lingua, una volta che l’ha appresa da bambino. Naturalmente, anche i linguisti si sono accorti di questo, e da molto tempo. Alcuni fra i migliori linguisti dell’Ottocento, che già allora si opponevano alla teoria dello sviluppo organico del linguaggio [cfr. Nerlicl-1990, 28-29], hanno visto la tendenza alla conservazione come una delle due tendenze fondamentali del linguaggio, accanto a quella del mutamento.

Il franceseArsène Darmesteter, per esempio, uno dei primi studiosi di semantica, dopo aver affermato «Toute langue est dans une perpétuelle évolution», aggiungeva che ogni lingua si trova anche «dans un état d'équilibre (...) entre deux forces opposées qui tendent: l'une, la force conservatrice, à la mainténir dans son état actuel; l'autre, la force révolutionnaire, à la pousser dans des nouvelles directions» [ aresteter 1887, 61.

L'americano William Dwight Whitney (1827-1894), uno dei più originali linguisti dell'Ottocento, parlava di una «conservative» e di una «alterative force», ambedue dominanti dialetticamente le due tendenze opposte [Whitney 1875, cap. 3].
E perfino il geologo-evoluzionista inglese Charles Lyell, che si occupò molto di linguistica e che ebbe grande influenza sui linguisti dell'Ottocento (parlerò di lui a lungo in uno dei prossimi capitoli), oppose una «force of inheritance» a una «inventive force», quest'ultima concernente l'innovazione lessicale [Nerlich 1990, 641.

Qualche decennio più tardi, ai primi del Novecento, anche Ferdinand de Saussure (1857-1913), il fondatore della semiotica e dello strutturalismo, aveva visto nel linguaggio - probabilmente seguendo ed elaborando Whitney - «deux forces [qui] agissent sans cesse simultanément et en sens contraire: d'une part 1'esprit particulariste, l'"esprit de clocher de l'autre, la force d'"intercourse" [termine inglese, forse preso in prestito a Vhitney], qui crée les communicatios entre les hommes».
Aveva anche visto il rapporto dialettico fra «immutabilité» e «mutabilité» del segno, e pur se nel quadro di una «évolution (...) fatale» e della «nécessité du changement» [111] aveva affermato che «le principe d'altération se fonde s u r le principe de continuité» [109]. Questa visione meno unilaterale del linguaggio, tuttavia, non ha avuto molto successo nella storia della linguistica. È prevalsa quella già menzionata, secondo cui non ci sono due leggi o due tendenze dominanti, ma una sola: quella del mutamento organico. Cerchiamo ora di capire se una delle due tendenze sia fondamentale, e l'altra marginale, o se siano fondamentali tutte e due, e in tal caso come si concilino fra di loro.



1.1. Conservatività delle lingue dell'emigrazione

Un primo esempio, alla portata di tutti, può essere quello di tre grandi lingue europee, Spagnolo, Portoghese e Inglese, trasmigrate nel corso degli ultimi cinque secoli in altri continenti e diventate rispettivamente le lingue del Sud America, del Nord America, dell’Australia e della Nuova Zelanda.
Nonostante la distanza nel tempo e nello spazio, nonostante la diversità dei contesti e delle modalità dei contatti linguistici con i popoli indigeni, si può affermare senza esitazione che le tre lingue si sono conservate sostanzialmente identiche fino ad oggi.

In epoca recente, questa «fissità» può essere stata rafforzata dall'influenza del modello letterario, per effetto della scuola, della cultura di massa, della radio e della televisione, ma all'origine questa influenza era assente.
Non solo: ma la moderna ricerca ha dimostrato che anche le diversità, che tutti conosciamo, fra Inglese britannico, Inglese americano, e Inglese australiano, o fra Spagnolo castigliano e Spagnolo d'America, o fra Portoghese e Brasiliano, non sono il risultato di un processo evolutivo di tipo organico, ma risalgono nella loro prima base alle caratteristiche dialettali delle prime o delle più importanti colonie di emigrati [Tagliavini 1964; Varvaro 1968, 189-191; Viereck 1975].

Nell'America di lingua spagnola, per esempio, tratti tipici come il seseo, lo yeismo, il voseo, hanno origini dialettali prevalentemente andaluse.

Analogamente, alcune fra le principali caratteristiche dell'Inglese americano si lasciano ricondurre all'Inglese regionale e ai dialetti degli emigrati delle prime colonie inglesi, che a partire dall'inizio del 1600 fino al 1760 circa si stabilirono nell'area di New York e del New England, e che provenivano nella maggior parte dal Sud dell'Inghilterra e dal «West Country». Quelle dell'Australiano risalgono al «cockney» dei forzati delle prime colonie penali del XVIII secolo.

Differenze di origine dunque, o causate da processi di ibridazione successivi all'emigrazione, e non risultato di processi di un'evoluzione organica.


1.2 Conservatività dell’Islandese

L'Islanda, la più antica repubblica d'Europa (??? e Venezia), fu colonizzata per la prima da Norvegesi a partire dalla fine dell’IX secolo. Da allora, l’Islandese non è cambiato in maniera sostanziale.
L'antico Islandese o Norreno dell'Edda e delle saghe, in cui si è tramandato il patrimonio mitologico ed epico del mondo germanico, di eccezionale importanza per le nostre conoscenze della preistoria germanica, è ancora perfettamente comprensibile per gli Islandesi di oggi: «die Unterschiede zwischen Alt- und Neuisländisch sind dermassen geringfügig, dass die Sprachträger beides als eine Sprache empfinden» [Hutterer 1990, 149; cfr. Ramat 1986, 249, Francovich Onesti 1991, 86].
Non c'è manuale delle lingue germaniche che non contenga un'affermazione simile. Questa straordinaria conservatività dell'Islandese è certamente dovuta alla storia dell'isola, che non ha mai conosciuto invasioni o altri avvenimenti che ne abbiano sconvolto il quadro antropologico e culturale.
A contrasto si può notare quanto sia mutato il Norvegese, che nel I. secolo doveva essere molto simile all'Islandese.

Più di un millennio dunque non è bastato a differenziare l'antico Islandese dall'Islandese moderno. Se esistesse una «legge organica» del mutamento linguistico, non dovrebbe essa manifestarsi indipendentemente dall'isolamento e dall'assenza di fattori esterni di cambiamento?
Sono invece solo questi che possono spiegare la differenza di sviluppo fra Islandese e Norvegese.



1.3. Conservatività dei dialetti italiani

Un terzo esempio potrebbe essere quello dei dialetti italiani.

Questi cominciano ad apparire, con testi veri e propri, anche se brevi, nel X secolo della nostra era [Migliorini 1960; Tagliavini 1964; Castellani 1973; Renzi 1985, cap. 11]. Fra i più antichi (primi decenni del X secolo), vi è il cosiddetto Glossario di Monza, un vocabolarietto romanzo-greco bizantino che doveva servire a un chierico in viaggio verso l'Oriente.
Fra i suoi lemmi, i nomi dei giorni della settimana sono quelli inconfondibili ancora oggi in uso in una larga area dell’Italia settentrionale.

Testi estesi, che dimostrano ormai non solo la presenza dei dialetti, ma anche la loro importanza nella vita sociale e culturale, appaiono a partire dal XII secolo, con la cosiddetta Carta Pisana, anche questa sostanzialmente vicina al dialetto pisano moderno.

Nel XIII e XIV secolo i testi diventano innumerevoli, hanno varia provenienza regionale, anche se sono in prevalenza toscani, e riguardano ormai tutto l'universo dello scibile. Fra quelli letterari, appaiono addirittura la Commedia di Dante, il Canzoniere di Petrarca, il Decamerone di Boccaccio.

Dante è nato nel 1265, e la sua Commedia presuppone l'esistenza di uno strumento linguistico ormai estremamente duttile e ricco, che è quello creato dai borghesi fiorentini delle generazioni precedenti.

In tutti i testi dialettali medievali, non importa se veneziani o toscani, lombardi o genovesi, friulani o emiliani, laziali o campani, umbri o abruzzesi, siciliani o sardi, i dialetti sono sostanzialmente quelli che conosciamo ancora oggi.

Chiunque legga la Commedia di Dante resta sorpreso, la prima volta, dalla straordinaria somiglianza fra il fiorentino del Duecento e l'Italiano del nostro tempo.
Naturalmente, quando si leggono questi testi medievali, occorre tener presente che nel momento in cui appaiono essi non sono più dialettali, in quanto sono testi s c r i t t i, e quindi espressione di gruppi tendenzialmente o potenzialmente egemonici, e come tali obbediscono alle regole di formazione delle koiné tipiche di una lingua scritta.

Questa conclusione è confermata dalle recenti ricerche sulle scriptae medievali, provinciali e regionali, di tutta l'area neolatina [Varvaro 1968, 305-316].
La patina latineggiante di molti di questi testi e la presenza in essi di tratti estranei al dialetto locale non vanno considerati come aspetti reali del quadro linguistico territoriale, ma come il risultato della selezione di elementi caratteristici della formazione di una lingua scritta.

Se quindi trascuriamo questi elementi spuri, i dialetti dei più antichi testi medievali italiani sono sostanzialmente quelli che ancora oggi sono parlati in Italia, uno dei «paradisi» della dialettologia, per la quantità e diversità dei suoi dialetti.
Naturalmente, sarebbe assurdo considerare questi testi medievali come l'inizio vero e proprio dei dialetti, perché le attestazioni scritte riflettono una realtà precedente. Ma anche se ponessimo il loro inizio alla data del primo fra di essi, la distanza che passa fra le prime attestazioni del X secolo e il nostro tempo sarebbe più di un millennio.
In oltre un millennio, i dialetti italiani non sono cambiati nella sostanza.
Il caso è forse più sorprendente di quello islandese.

In Italia i dialetti italiani si sono preservati nonostante innumerevoli guerre locali e nazionali, nonostante invasioni e occupazioni coloniali che si sono succedute fino al Risorgimento e all'unità nazionale (statale) del 1870, nonostante la radio, la scuola obbligatoria, i giornali, la televisione, i mass media, il processo di livellamento sociale. Più di un millennio di storia tormentata, dalla fine del primo millennio alle soglie del terzo, non è bastato a trasformare i dialetti.
E i cambiamenti che dal dopoguerra cominciano a manifestarsi, in maniera sempre più rapida, vanno tutti nella direzione di un livellamento verso la lingua nazionale (statal), o verso gli standard regionali, cioè verso la norma socialmente marcata dei gruppi dominanti, e non in quella di un'evoluzione organica, le cui leggi dovrebbero essere immanenti a ciascun dialetto e quindi indipendenti da influenze esterne.




1.4. Conservatività delle isole alloglotte

Un quarto esempio può servire ad illustrare la conservatività dei dialetti, in condizioni ancora più difficili: le cosiddette «isole» o colonie linguistiche alloglotte, cioè quelle in cui si parlano dialetti o lingue diverse da quelle del territorio circostante.

Mi concentro di nuovo su quelle italiane [Tagliavini n. 91, 334-336; Merlo 1937], sufficientemente ricche e rappresentative (ma potrei fare lo stesso discorso per quelle di altri paesi) e mi limito a ricordare:
a) le isole alloglotte albanesi e greche dell'Italia centrale e meridionale e
b) le isole allodialettali, come quella di Faeto, nelle Puglie, dove si parla un dialetto franco-provenzale, cioè alpino occidentale, diverso dai dialetti centro-meridionali che la circondano;
e di Guardia Piemontese in Calabria, dove se ne parla uno provenzale, anch'esso alpino occidentale, e anch'esso diverso dai dialetti meridionali circostanti.
Secondo l'opinione più accettata, queste isole linguistiche risalgono a migrazioni avvenute nel Medio Evo.
Per alcune di esse, tuttavia, questa opinione non è l’unica.

Gerhard Rohlfs, uno dei maggiori specialisti di dialettologia italiana, per esempio, ha sostenuto che le isole linguistiche greche risalgono fino alle colonie della Magna Grecia, in tal caso, queste isole si sarebbero conservate per quasi tre millenni.

Ma anche accettando la datazione al Medio Evo, avremmo comunque una durata di sette secoli, e quindi - tenendo conto del loro carattere migratorio - grosso modo la stessa che abbiamo calcolato per i dialetti italiani in generale.
Solo, nel caso di queste isole, la conservazione linguistica è avvenuta in condizioni enormemente più difficili di quelle dei dialetti nei loro territori originari.
Su questo vale la pena di soffermarsi un momento.

Per spiegare la conservatività delle colonie alloglotte in senso stretto, cioè quelle dove si parla una lingua straniera vera e propria (tedesca, greca, albanese o slava), si può invocare il forte senso di identità etnica che deriva dal loro legame con una «patria» lontana. Anche in un caso speciale come Guardia Piemontese in Calabria, la cui popolazione di religione valdese lasciò le valli del Piemonte occidentale per le persecuzioni della chiesa cattolica, la mancanza di una identità etnica è compensata da quella non meno forte dell'identità religiosa (come per gli ebrei nella diaspora).
Ma cosa dire della situazione di comunità dialettofone del tipo di Faeto, i cui dialetti, diversi da quelli circostanti, sono del tutto privi dei fattori di rafforzamento che abbiamo ricordato?
Per apprezzare meglio questa conservatività, occorre ricordare anche l'atteggiamento che le autorità e la cultura dominante hanno sempre avuto, fino a non molto tempo fa, verso dialetti e dialettofoni. Ecco perché in questo esempio, forse meglio che in altri, appare, in tutta la sua forza sorprendente, la conservatività del fenomeno linguistico.



1.5. Conservatività del Greco

Un ultimo esempio, qualitativamente diverso dai precedenti, può servire a riassumere, in un arco di tempo ancora maggiore, quanto abbiamo detto finora: l'esempio del Greco. Abbiamo visto come la lingua detta Lineare B, usata a Micene a partire dal XIV secolo a.C., fosse una forma arcaica di Greco.
Questo esempio dimostra non solo la continuità ininterrotta di una lingua per quasi quattromila anni, dall'età del Bronzo fino ad oggi, ma anche, rispetto ai dialetti greci parlati oggi nello stesso territorio. dei mutamenti incomparabilmente inferiori a quelli che intercorrono fra Latino e dialetti romanzi.
Se allora l’evoluzione linguistica è una legge inesorabile, determinata dal tempo biologico, come sostiene la linguistica storica tradizionale, diventa un mistero perché il Greco sia cambiato tanto poco negli ultimi quattro millenni, e in misura così straordinaria nei due o tre millenni che lo separerebbero dal Proto-indoeuropeo



1.6. L'identità linguistica di una comunità e le sue conseguenze sulla conservatività

Per finire queste considerazioni, che più che scientifiche sono di semplice buon senso, è anche utile ricordare che qualunque comunità di parlanti, di qualunque livello storico e culturale, si identifica fortemente con la propria lingua, e che questa identità si trasforma, consciamente o inconsciamente, in un forte attaccamento e rispetto per essa.

Solo quando una comunità di parlanti si sente «inferiore» perché l'ambiente la considera tale, ci può essere il desiderio di abbandonare la propria parlata per quella dei ceti dominanti o degli invasori.
Ma questa è un'eccezione, ed ha motivi sociali, non linguistici.


Normalmente, l’identificazione con la propria lingua porta una comunità a conservarla, non a mutarla. Altrimenti, sarebbe come se un individuo volesse cambiare la forma o la funzione della propria mano nell'atto di adoperarla, Usando e riusando continuamente lo strumento linguistico non solo non lo cambiamo, ma lo rendiamo sempre più prezioso per noi, in quanto vi immettiamo continuamente, anche senza volerlo e saperlo, tutto ciò che sappiamo, facciamo e viviamo; e così facendo, lo trasformiamo nel nostro specchio, nella nostra identità individuale e collettiva.

D’altra parte, l'identità linguistica è per sua natura endocentrica.
Tanto grande è il rispetto che una comunità ha per la propria lingua, tanto piccolo è quello che ha per le lingue altrui, anche quelle simili: quando imita queste ultime lo fa spesso per schernirle, quando parla quelle straniere le può parlare malissimo e senza nessuno scrupolo. Ecco perché, quando una comunità linguistica si trova nelle circostanze imprevedibili di poter influenzare e cambiare una lingua altrui, come vedremo fra poco, può farlo con gli effetti di un acido corrosivo.

Per concludere, la tendenza delle lingue, in circostanze normali, è di conservarsi, non di mutare. Non vi è neanche una «soglia» cronologica, al di là della quale l'orologio molecolare comincia a ticchettare, e a far mutare una lingua per un'inesorabile legge di tipo evolutivo-organico. Tutti gli esempi che ho illustrato lo dimostrano. I mutamenti, come vedremo, sono dovuti a cause extralinguistiche, non organiche.
Tuttavia, questa tendenza fondamentale delle lingue, nonostante la sua assoluta evidenza, è stata pressoché ignorata dalla linguistica storica, che ha invece concentrato tutta la sua attenzione sul fenomeno del mutamento.



2. Il mutamento linguistico

Dobbiamo ora cercare di capire se, e in che cosa, la teoria tradizionale ha errato nella sua valutazione del mutamento linguistico. Anche in questo caso, tuttavia, nel riassumere, rielaborare e adattare a questa discussione i risultati della ricerca recente sul mutamento linguistico, cercherò di riportare quello che è un fenomeno di notevole complessità nel quadro della nostra esperienza di parlanti, in modo da renderlo più semplice e chiaro possibile.

Anzitutto, prima ancora di procedere ad un'analisi, il fatto che le lingue possono cambiarsi in tempi e in modi diversi, come anche la teoria tradizionale non può che ammettere, tende a dimostrare che il mutamento è una variabile, e non un'invariante del linguaggio.

Una legge invariante dovrebbe infatti agire in tempi, se non in modi, costanti.
In secondo luogo, è necessario distinguere due tipi di mutamento linguistico, fondamentalmente diversi, che di solito vengono raggruppati e confusi anche dalle ricerche recenti:

a) mutamenti che non hanno un impatto sulla grammatica di una lingua, e che riguardano solo o primariamente la semantica (nuovi significati di vecchie parole) e il lessico (nuove parole);
b) mutamenti che hanno un impatto sulla g r a m m a t i c a nei suoi diversi aspetti, cioè in fonologia, in morfologia, o in sintassi.

I mutamenti che non hanno impatto sulla grammatica sono la stragrande maggioranza, sono di solito studiati dalla semantica storica e dalla lessicologia, e sono alla base di quello che chiamerò il rinnovamento culturo-linguistico di una comunità di parlanti. Nel corso della discussione li chiamerò anche «mutamenti culturo-linguistici».
I mutamenti che hanno un impatto sulla grammatica sono osservabili solo nei tempi lunghi, e avvengono solo in determinati periodi storici. Sono quindi molto meno frequenti dei primi, anche se, quando avvengono, comportano mutamenti di fondo nella struttura grammaticale di una lingua.

Li chiamerò quindi mutamenti strutturali e, poiché le ricerche recenti hanno dimostrato che questi mutamenti strutturali hanno esclusivamente un'origine sociolinguistica (in senso lato, come vedremo), li chiamerò anche mutamenti sociolinguistici quando dovrò sottolineare la loro origine più che il loro risultato.
Vediamo ora più in dettaglio queste due categorie di mutamento linguistico.


2.1. Il rinnovamento culturo-linguistico

I mutamenti culturo-linguistici agiscono sull'interfaccia fra sistema linguistico e cultura, quindi primariamente sul lessico, sul significato delle parole, e sulla motivazione che lo trasmette [Alinei 1979; 1980b; 1982; 1994; 1995a; in st.a].

Consistono quindi nell'introduzione di nuove parole, coniate riciclando le vecchie o ricorrendo alle lingue morte (in Europa Greco e Latino), nell’introduzione di prestiti dalle lingue straniere o dai dialetti del proprio territorio, di calchi (cioè della traduzione della motivazione di espressioni straniere nella propria lingua), di mutamenti di significato avvenuti spontaneamente, e nell’abbandono di parole che designano oggetti o istituti obsoleti.
In breve, questi mutamenti sono il riflesso degli innumerevoli mutamenti dell’universo geostorico nel quale viviamo. In forza di questo tipo di mutamento, il lessico dell’Inglese dei pellegrini è cambiato rispetto a quello dell'Americano attuale, quello dell’Edda rispetto all’Islandese moderno, e quello di Dante, Petrarca e Boccaccio rispetto a quello dell’Italiano odierno, ma la lingua è rimasta fondamentalmente la stessa.

Anche nell’esperienza linguistica quotidiana e di una vita, ognuno di noi osserva e talvolta partecipa a questo rinnovamento culturo-linguistico. In pratica, esso è l'unico che può essere considerato costante e regolare, almeno nella misura in cui si può prevedere una certa misura di cambiamento e sviluppo, per qualunque comunità storica determinata che non viva in condizioni di totale stagnazione, e dato un periodo di tempo sufficientemente lungo. Nel caso di lingue parlate da vaste comunità, a sviluppo avanzato rispetto alle altre, e nella nostra epoca particolarmente tumultuosa, questo processo di rinnovamento può essere particolarmente rapido e vistoso. Dal punto di vista teorico, tuttavia, poiché nulla esclude periodi anche lunghissimi di stagnazione, non si può parlare neanche in questo caso di una legge di sviluppo linguistico, e tanto meno di un mutamento organico governato da un orologio interno. Inoltre, quello che più importa sottolineare per la nostra discussione della teoria tradizionale, è che il mutamento semantico non appartiene al mondo dei mutamenti strutturali, ma a quello del rinnovamento.
Il rinnovamento culturo-linguistico, sia esso rapido, o lento, o temporaneamente assente, quando esso è in atto non intacca il sistema linguistico come tale e quindi non ha niente a che fare con quel tipo di mutamento linguistico che interessa precipuamente la teoria tradizionale, e che sta alla base della linguistica storico-comparata.

In realtà, anche se a prima vista il rinnovamento culturolinguistico appare come un insieme di mutamenti, nella sostanza esso è una delle principali forme dei la conservatività linguistica, proprio perché avviene mediante la lingua, nel rispetto delle sue regole.
La formazione di nuove parole avviene infatti, secondo le regole della grammatica. La loro pronuncia, anche quella dei prestiti stranieri, obbedisce alle regole della grammatica, o la adatta ad esse. Inoltre, esso agisce in modo infracomunitario, all'interno della comunità dei parlanti, neutralizzando anche, là dove riesce a penetrare, le differenze sociali.
Anche se le innovazioni sono per definizione individuali, l'aggiornamento agisce con il consenso collettivo, che è indispensabile perché le innovazioni cuituro-linguistiche siano accolte.
Anche se prendiamo in considerazione i numerosi «movimenti di rinnovamento» in senso lato (cioè politico, artistico, culturale), che arricchiscono la storia di tutti i paesi europei e del mondo, possiamo constatare che nella maggior parte dei casi il loro impatto effettivo, per quanto riguarda la lingua, è limitato alla semantica e al lessico.

Di norma, quando questi movimenti sono di rinnovamento, o addirittura rivoluzionari, sul piano linguistico essi si limitano a introdurre una grande quantità di innovazioni lessicali e semantiche; in certi casi si traducono nell'adozione di modi popolari o dialettali, prima censurati. Ma rispetto agli aspetti strutturali (sistemici) di una lingua essi finiscono coll'essere conservativi, anche senza volerlo, in quanto la lingua è lo strumento vitale della cultura, anche di quella rinnovatrice o rivoluzionaria, ed essi hanno quindi bisogno del sistema della lingua per esprimersi.
Il carattere conservativo dei mutamenti culturo-linguistici si manifesta anche in un altro fenomeno. E attraverso di essi, nel complesso gioco di riciclaggio delle vecchie parole per l’espressione di nuove nozioni (il meccanismo della motivazione) [v. i miei lavori citati sopra] che noi ritroviamo in ciascuna lingua - depositata nel suo lessico come in una serie di sedimenti geologici - tutta la storia della società che se ne serve.
I mutamenti semantici fanno di ogni lingua un vero e proprio «museo vivente», un inestimabile tesoro del nostro passato storico-culturale, ancora quasi del tutto inesplorato.
Ed è proprio per questo che anche questa ricerca si concentrerà sui mutamenti semantici quando vorrà frugare nel nostro passato, per affrontare i più importanti problemi di datazione culturale e di dimostrazione della continuità linguistica.



2.2. Il mutamento sociolinguistico

Mentre il rinnovamento culturo-linguistico agisce sull'interfaccia fra lingua e cultura, il mutamento sociolinguistico o strutturale agisce direttamente sul sistema linguistico, e lo cambia in misura più o meno grande. Inoltre, mentre il mutamento culturo-linguistico agisce in modo infracomunitario, con il consenso collettivo, e neutralizzando le differenze sociali, il mutamento sociolinguistico awiene a causa e sulla base delle differenziazioni etnosociali.
Non agisce infatti su un solo sistema linguistico, ma porta ad interagire due o più comunità di parlanti, che non hanno eguale rispetto per il proprio e per l’altrui sistema linguistico.
Per queste ragioni, il mutamento strutturale è anche, per così dire, «violento», perché «viola» il sistema su cui agisce, penetrando al suo interno e cambiandolo.

All'interno del mutamento sociolinguistico si possono poi distinguere due sottotipi, a seconda se il mutamento sia causato da eventi di carattere prevalentemente s o c i a l e, che coinvolgono piccole o grandi ristrutturazioni della società nella sua articolazione interna (mutamento sociolinguistico in senso stretto), o da eventi che coinvolgono una ristrutturazione con una forte componente e t n i c a.
Anche quest’ultimo sottotipo, tuttavia, in seconda analisi si lascia assimilare al primo. Infatti, perché una lingua straniera possa influenzare strutturalmente (cioè non solo culturalmente) un'altra, non basta l’interazione etnica, ma occorre anche l’interazione sociale.

Un gruppo etnico invasore, per esempio, per avere influenza sulla lingua del gruppo dominato, deve cessare di essere un corpo esterno, per interagire, come sua parte integrante, con la società che domina.
E questa interazione sociale non può realizzarsi col solo contatto interetnico, ma ha bisogno di scenari come la generalizzazione di matrimoni misti ed altre forme di integrazione etnica e sociale.
Senza una trasformazione dell'etnico nel sociale, non si avrebbe in questo caso mutamento strutturale linguistico, ma al massimo semplice influenza culturale nell'ambito del rinnovamento già visto.

Una distinzione netta, anche terminologica, fra mutamento sociolinguistico e interetnico, non è quindi del tutto opportuna. Se decidessimo che il mutamento delle lingue neolatine rispetto al Latino è principalmente sociolinguistico, trascureremmo ingiustamente la forte componente etnica che certo è confluita in quella sociale.

Se decidessimo che il mutamento dell'Inglese moderno rispetto all’Anglosassone è soprattutto interetnico, perché conseguirebbe all’invasione e alla dominazione normanna, ignoreremmo gli aspetti sociolinguistici del mutamento, che sono quelli di qualunque rapporto fra gruppo dominante e ceti subordinati.

Il fatto centrale è che il mutamento sociolinguistico è il solo che può trasformare una lingua radicalmente, nei suoi aspetti fonetici, morfologici e sintattici, che sono quelli studiati dalla linguistica storica tradizionale.

I mutamenti strutturali e sociolinguistici hanno anche questo di caratteristico, e di diverso dagli altri: essendo una variabile, e non un’invariante, non sono sempre osservabili, perché avvengono solo, o principalmente, in periodi particolari. Quando poi sono osservabili, non lo sono dall'inizio alla fine. Nel corso di una generazione, al massimo se ne possono osservare alcune fasi, come le premesse, o alcuni risultati parziali, o gli assestamenti definitivi.
Quelle fasi che sono state osservate e studiate dai ricercatori di questo secolo confermano comunque il carattere sociolinguistico del fenomeno.

Tuttavia, occorre chiarire un punto, a mio parere molto importante, che non ha ricevuto sufficiente attenzione nella ricerca: vi è una differenza fondamentale, nella sostanza e quindi nella frequenza, fra i mutamenti strutturali della norma linguistica dominante e quelli delle norme linguistiche subordinate, cioè dei dialetti.
I primi sono molto più rari, e quindi molto più difficilmente osservabili. I secondi sono molto più frequenti e quindi si lasciano osservare con molta più facilità. È facile capire le cause, e le conseguenze, di questa differenza.
Nel caso della norma nazionale, cambiare la norma linguistica significherebbe di fatto cambiare la strutturazione sociale esistente.
Ovviamente, questo implicherebbe qualcosa di simile a una rivoluzione.
Nel caso del dialetto, il mutamento della norma è la conseguenza naturale della dinamica della strutturazione sociale esistente. Il dialetto proprio in quanto espressione di ceti subordinati è costantemente esposto –anche se in misura maggiore o minore, a seconda dei tempi e dei luoghi – all’influenza della norma regionale e nazionale, ed ha la stessa flessibilità e suscettibilità al mutamento dei suoi parlanti, nell'ambito delle moderne società stratificate.
Anche le conseguenze di questa differenza sono chiare.
La linguistica storica tradizionale ha studiato il mutamento linguistico prevalentemente sulla base delle lingue scritte, quindi delle norme dominanti, che sono proprio quelle meno soggette al mutamento. Anche per questo, non avendo mai potuto osservare il fenomeno, e avendo del tutto trascurato, come modello, il processo di sgretolamento dei dialetti da parte delle norme dominanti, non ne ha mai capito il meccanismo, e ha finito col farne una legge fittizia, organica, che sfugge ad ogni controllo.

D’altra parte diventa chiaro anche perché la sociolinguistica sia stata la prima che ha veramente capito il meccanismo del mutamento linguistico: solo essa ha potuto studiare i mutamenti strutturali seguendoli nei dialetti, e non nelle lingue. E anche i pionieri dell’interpretazione sociolinguistica del mutamento strutturale, all’inizio del secolo, e quindi prima ancora dell'esistenza della sociolinguistica, come il francese Louis Gauchat (1866-1942) [Gauchat 1905; Hermann 1929], sono stati quelli che fin da allora si erano concentrati sull'osservazione pluriennale dell'evoluzione di microdialetti rurali.
Inutile dire che in società egualitarie il mutamento sociolinguistico avverrebbe nelle condizioni delle norme dominanti delle società stratificate, e non in quelle dei dialetti subordinati, e sarebbe quindi altrettanto raro di quello delle lingue dominanti.

Chiarito questo, occorre aggiungere che nonostante le difficoltà che ho illustrato, anche per un sistema linguistico nazionale è possibile, sulla base di osservazioni empiriche, e naturalmente con il giusto approccio teorico, farsi un’idea della base materiale, del potenziale e della direzione del mutamento strutturale.
Tutto quello che sentiamo attorno a noi di anomalo, rispetto alla nostra norma nazionale, pur non costituendo in alcun modo un mutamento della norma, ne rappresenta un portatore potenziale, se non ancora un indizio o, tanto meno, una minaccia. Queste variazioni vanno dalla maniera di parlare di singoli individui, che per esempio hanno un altro «accento» perché di origini regionali diverse dalla nostra, a quella di dialettofoni veri e propri, sia quelli locali che quelli di altre regioni, fino a quella dei diversi gruppi di stranieri, più o meno integrati nella nostra società, che hanno appreso la nostra lingua.
Per proiettare su queste basi, nel futuro o nel passato, importanti mutamenti strutturali della norma dominante, occorre immaginare l'affermarsi politico, economico e sociale di uno di questi gruppi portatori di variazioni linguistiche anomale rispetto a quella vigente, ciò che innescherebbe il processo che alla fine porterebbe all'abbandono (di parte) della norma vigente e all'adozione di una (parziale) nuova norma, in una delle molte forme di ibridismo possibili.

La linguistica storica ha per esempio distinto fra s o s t r a t o, come influenza di una lingua autoctona sulla lingua intrusiva, s u p e r s t r a t o, come influenza di una lingua intrusiva su quella autoctona, e a d s t r a t o, come influenza di una lingua confinante.

Per confermare la validità di questa analisi, e renderla molto più concreta, basta poi, come ho già detto, mettersi dall’altra parte del diaframma sociale. Anche il dialettofono può osservare un mondo linguisticamente anomalo attorno a lui. Questo mondo è senz’altro meno ricco di variazioni di quanto non sia quello del parlante colto, ma presenta in più, invece di semplici portatori potenziali e possibili, o di indizi di un mutamento nella norma, una reale e formidabile «minaccia», quando non è una vera e propria «dichiarazione di guerra», rappresentata univocamente dall'avanzata travolgente e dalla forza schiacciante della norma linguistica nazionale o della sua versione regionale, tipica di molte aree dialettali.
Mentre il parlante colto o perfino il linguista che osservi le variazioni linguistiche attorno a lui di solito non ha la più lontana idea di quali potrebbero essere, in un eventuale futuro remoto, i portatori del mutamento strutturale, qualunque dialettofono conosce già a priori quelli della fine del dialetto: sa già che il mutamento strutturale è quello che viene dal gruppo dominante che si esprime attraverso la norma linguistica nazionale, mutamento che è sempre in corso, e sta sempre dietro l'angolo.
È infatti la norma dominante, sul piano linguistico, quella destinata a far scomparire i dialetti, o comunque a mutarli profondamente livellandoli sempre più ad essa.
Non una metafisica legge del mutamento organico del linguaggio, legata al tempo e ad altri fattori, ma una forza molto concreta e specifica, di carattere sociale che si traduce in un fenomeno sociolinguistico (e poledego ghe xonto mi).

Quello dei dialetti è dunque il caso più semplice e trasparente di mutamento linguistico strutturale e delle sue origini sociolinguistiche, e fornisce il modello per lo studio dei mutamenti della norma dominante avvenuta nel passato.
Per capire come funzioni il mutamento di una norma linguistica dominante, occorre dunque non solo partire dalla realtà della stratificazione sociale, ma anche mettersi prima dalla parte debole della strutturazione sociolinguistica, dove il fenomeno avviene con costanza e con trasparenza ottimali, e soltanto dopo dalla parte forte, dove il fenomeno è più difficilmente osservabile.

Altrimenti, sarebbe come andare a cercare le cause dell’inquinamento delle acque nelle sorgenti montane, anziché negli scarichi delle industrie e nelle acque dei fiumi.
La conversione del modello di mutamento visto «da sotto», in quella del mutamento visto «da sopra», tuttavia, non è elementare, e meriterebbe una discussione approfondita, che qui non posso svolgere.

Mi limito a ricordare che le lingue nazionali risalgono al successo socioeconomico e politico-culturale di un gruppo, il cui dialetto è stato così «promosso» a lingua.

Questo processo è esattamente il contrario di quello che ho appena illustrato per i dialetti, e ne è anche la sua forma più illustre e frequente.

In esso non sono i ceti subordinati che subiscono la disgregazione della loro norma dialettale per opera dei ceti dominanti ma, al contrario, i vecchi ceti dominanti che perdono il loro potere in favore di una nuova egemonia sociale e di una nuova norma linguistica. L'adozione di una nuova norma linguistica comporta la sconfitta di una norma precedente, e quando questa norma è quella del ceto dominante, i mutamenti politici soggiacerti avvengono nel clamore della storia, sotto le luci dei riflettori, e si chiamano di solito «conquista dell'indipendenza» o «risorgimento», o «rivoluzione», o simili, proprio per la portata e per l'unicità storica dell'avvenimento.

I mutamenti della norma linguistica subordinata, quella dei dialetti, da parte dei gruppi dominanti, avvengono invece di solito nel silenzio della storia, e solo ora la sociolinguistica ha cominciato a studiarli.
Ciò che ora occorrerebbe fare è quindi ristudiare i mutamenti delle norme linguistiche dominanti come fenomeno sociolinguistico, e non più come misterioso processo organico.

Fra i modelli osservabili, il più vicino a quello del mutamento della norma linguistica dominante è certamente quello della formazione di una norma. Esso è osservabile nelle lotte di certi gruppi minoritari oggi in atto in diverse aree europee per la conquista dell'indipendenza, e talvolta per l'affermazione di una nuova norma linguistica.

Altri aspetti marginali, ma rilevanti per lo studio sociolinguistico del mutamento strutturale della norma dominante, si manifestano in fenomeni come la censura di tratti dialettali o popolari, l'accettazione di tratti dialettali o popolari, prima censurati, la restaurazione di una norma «aulica» precedente. I movimenti del pendolo, nella storia di tutte le lingue, sono quelli determinati dalla bipolarità della stratificazione sociale nelle società moderne.



2.3. L'adattamento strutturale

All’interno del mutamento strutturale o sociolinguistico, si può poi ancora distinguere fra una fase iniziale o incipit, e una fase di assestamento. L'incipit del mutamento strutturale ha quelle origini sociolinguistiche che ho appena descritto, mentre la fase successiva consiste in un processo di adattamento o assestamento, che può avvenire anche dopo che le circostanze sociolinguistiche originarie siano venute meno.

Per questo, se non si identificano i caratteri sociolinguistica delle cause primarie del fenomeno, e ci si sofferma soltanto sulle sue conseguenze sul sistema, si può scambiare la conseguenza con la causa e raggiungere, ancora una volta, la conclusione che il mutamento linguistico è organico.

La teoria del mutamento linguistico di Martinet [I955], secondo cui esso obbedisce a leggi strutturali interne, così come la nozione tuttora corrente di inner drift di una lingua, sono esempi di confusione fra fase iniziale esterna, sociolinguistica, del mutamento strutturale, e fase di assestamento interno.
Anche l’assestamento strutturale è un aspetto importante del mutamento linguistico, che tende ad adattare il nuovo al vecchio, e a colmare i vuoti dei diversi subsistemi, rendendoli più simmetrici e regolari o più economici. Ma esso è secondario, ed è legato a meccanismi psicolinguistici che portano il parlante ad uniformare e a riequilibrare il sistema linguistico secondo le nuove regole che si sono affermate o che si stanno affermando, estendendole e generalizzandole in parti sempre più ampie della grammatica.

Non ci sono organismi neanche in questa fase del mutamento, e se ci sono leggi sono quelle della psicologia, e non del sistema linguistico come tale.
Inoltre, anche l'adattamento strutturale è osservabile nella nostra esperienza della lingua, sia pure in fatti di portata minore. L'esempio più evidente è forse quello dell'analogia morfologica, che si manifesta nell'apprendimento linguistico infantile, ma che si può verificare anche nella lingua degli adulti che apprendono una seconda lingua o una norma a loro estranea: sia un bambino che un dialettofono o uno straniero, per esempio, possono dire sleeped anziché slept «ho dormito» in Inglese, o andiedi anziché andai in Italiano, per analogia con la coniugazione regolare nel primo caso, con quella irregolare nel secondo. Anche in questi casi, non abbiamo a che fare con un processo linguistico organico che è in corso, ma con un processo psicolinguistico.


2.4. «Regole», non «leggi» del mutamento strutturale

Una volta che i mutamenti strutturali siano avvenuti, possiamo facilmente identificare le «regole» che li hanno governati, e più oltre vedremo sulla base di quali metodi la teoria tradizionale ha raggiunto questo risultato fondamentale, che rappresenta uno dei principali meriti della linguistica storica ottocentesca. Tuttavia, occorre distinguere le «regole del mutamento» dalla «legge del mutamento». Le prime vanno salvate, la seconda buttata nel cestino. Le regole sono determinate a posteriori, riguardano solo i mutamenti avvenuti, non rappresentano una legge preesistente al mutamento stesso, indipendente da esso, e quindi prevedibile. Sebbene questo possa sembrare ovvio, e forse oggi lo è per la maggior parte dei linguisti, conviene insistere su questo punto, anche perché la linguistica storica, come abbiamo visto, continua a fare uso di formulazioni e di interpretazioni di tipo evoluzionistico.



2.5. Il rapporto fra i due tipi di mutamento

I due tipi di mutamento, culturo-linguistico e sociolinguistico non sono, naturalmente, privi di rapporto fra di loro. La particolare frequenza di determinati mutamenti culturolinguistici può trasformarsi in un mutamento strutturale, sia pure di entità minima. Un suffisso di origine straniera, per esempio, adottato in una serie crescente di prestiti, può acquistare valore autonomo ed essere adottato anche nella grammatica della lingua di adozione. Molte lingue europee hanno suffissi di origine straniera di questo tipo.

Inversamente, un processo di ristrutturazione sociale o interetnica che sbocchi in una serie di mutamenti strutturali linguistici comporta sempre, automaticamente, anche una componente di rinnovamento culturale, che si riflette automaticamente anche a livello lessicale e semantico.
Ma sono due aspetti fondamentalmente diversi, che non devono essere confusi.

La differenza appare anche nelle analisi microlinguistiche concrete.

Prendiamo per esempio il passaggio (???) dal lat. ego all’it. io: qui c'è un mutamento strutturale, di origine sociolinguistica, senza riflessi semantici, cioè culturo-linguistici.

Che questo mutamento sia strutturale è dimostrato dal fatto che esistono molte altre tracce dello stesso mutamento: viginti >venti, triginta > trenta, quadraginta > quaranta, regale > reale, regionem > rione ecc., sono tutti passaggi che mostrano la caduta della -g- velare interna, esattamente come ego > io.
E tutti, meno regionem > rione, senza cambiare di significato.

Anche il passaggio di *eo (dopo la caduta della -g-) a io è un mutamento strutturale, che si lascia osservare anche nel passaggio da meus deus reus a mio dio rio, anche questi senza cambiamenti di significato.
Nel passaggio dal lat. alibi all'it. (e internazionale) alibi, c'è solo un mutamento semantico, cioè culturo-linguistico, senza mutamento strutturale.
Nel complesso passaggio da it. schiavo a it. ciao - su cui mi soffermerò più oltre - ci sono tutti e due i mutamenti, sia culturo-linguistico, sia strutturale.
Nel passaggio dal lat. quando all'it . quando non c'è né l'uno né l'altro. Così come il mutamento culturo-linguistico non implica automaticamente una trasformazione sociolinguistica, una trasformazione sociolinguistica non comporta necessariamente un rinnovamento culturo-linguistico. Di nuovo, si tratta di due fenomeni diversi, che vanno studiati l'uno indipendentemente dall'altro.




3. Il mito della «durata» dei mutamenti fonetici

Poiché la concezione tradizionale del mutamento linguistico, come abbiamo visto, è quella del mutamento «organico», mutamenti strutturali come quelli citati (-g- che cade, -e- accentata che davanti a certe vocali diventa -i-) possono dare l'impressione che un mutamento linguistico abbia anche una «durata».
Dove c'è durata c'è un processo, e il processo sarebbe quello misterioso e inconoscibile della crescita e decadenza degli organismi. Occorre quindi discutere questo punto in dettaglio, e vedere quale sia l'interpretazione corretta del fenomeno.

Mi varrò anche in questo caso di esempi di mutamenti osservabili sul campo.
Cominciamo con un termine recente come l’it. standard televisione, databile con sicurezza alla seconda metà del nostro secolo.
In qualunque regione d’Italia, a livello dialettale, esso viene realizzato in modo diverso: approssimativamente da un /televizj'un/ nord-occidentale, a un /televizji'Ↄn/ nord-orientale, a un /tələvisj'Ↄnə/ meridionale.
Questi mutamenti fonetici non hanno quindi una durata misurabile, ma sono istantanei, nel senso che non appena la parola italiana è entrata in circolo, la sua variante dialettale è stata creata immediatamente.

Prendiamo un esempio più complesso, del quale trascurerò i dettagli: il fenomeno dell'aggiunta di una vocale (in genere -e) a una consonante finale, tipico di tutti i dialetti centro-meridionali italiani, di quelli toscani, e attraverso il fiorentino anche dell'Italiano standard.

Questo fenomeno ha una documentazione storica imponente: lo troviamo in nomi biblici, databili ai primi secoli della nostra era, come Davide (da David), Giuseppe (da Joséph) e Raffaele (da Raphaél); lo troviamo, in un contesto analogo, all'interno di gruppi consonantici, per esempio nella variante antica -esimo, di battesimo, Cristianesimo, Umanesimo, Protestantesimo (che contrasta con il moderno e comunissimo -ismo), in parole di epoca rinascimentale come lanzichenecchi (dal ted. Landsknecht), e lo osserviamo continuamente nella pronuncia substandard o dialettale di parole a consonante finale, inglesi o tedesche, come filme, golfe, giukebocchese (jukebox) , èkkese (ex), perfino Màrkese (per Marx).
In Olanda, dove ho insegnato per quasi trenta anni, gli operai italiani immigrati dal Meridione parlavano della Stichting locale che si occupava dei loro problemi come dello Stecchetto ! In questa galoppata nel tempo ci appare, in tutta la sua evidenza, il miraggio della durata del mutamento, che in questo caso si estenderebbe per due millenni, dal principio della nostra era fino ad oggi.
Ma la realtà è un'altra.
Non è che questo mutamento fonetico duri da almeno un millennio, quanto piuttosto che il meccanismo di conversione presente in ciascun parlante dell'Italia centro-meridionale si è trasmesso da una generazione all’altra, da un momento indeterminato fino ad oggi, mentre l’applicazione delle regole di conversione è sempre rimasta istantanea e immediata.
In effetti, sia la trasmissione del meccanismo di conversione da una generazione all’altra, sia l’istantaneità della sua applicazione, sono due facce della stessa medaglia, e cioè della conservatività del linguaggio.

Vi è un altro tipo di mutamento fonetico che conferma questa analisi: quello osservabile nel momento dell’apprendimento di una lingua straniera, da parte di adulti. Data una stessa lingua madre, i mutamenti di questo tipo sono entro certi limiti regolari e automatici, tanto che di solito un orecchio esercitato può immediatamente riconoscere l'Italiano, o il Francese, o l'Olandese, o lo Svedese, o il Russo, che trapelano sotto la lingua inglese parlata da individui di tale nazionalità.

E quello che il linguaggio comune chiama l'«accento», e che si manifesta in qualunque forma di bilinguismo imperfetto.
Il mutamento fonetico è infatti il risultato di un filtro, che entra in funzione automaticamente, e non il risultato di un processo durativo, un prodotto del tempo.
Non mi soffermo su un altro aspetto del mutamento strutturale, che è quello della sua graduale diffusione nel lessico. Questo processo è l'unico che sembra avere una durata (come somma di svariati mutamenti istantanei), ma non cambia la sostanza di quanto ho detto sul fenomeno.
Il mutamento fonetico, esaminato criticamente, è sempre istantaneo.
La durata è quella dei processi extralinguistici, che sboccano nel mutamento linguistico istantaneo, e quella (apparente) dei meccanismi di conversione, ereditati da una generazione all’altra, e dei meccanismi di adattamento e di diffusione.


4, Conclusione

Nella linguistica storica tradizionale il mutamento linguistico ha finito per trasformarsi in una legge metafisica, nell’ambito di una superata visione evoluzionistica del linguaggio.

In questa visione, ciascuna parlata, ciascuna geovariante o sociovariante linguistica viene vista come un organismo separato e distinto, che obbedisce a una stessa legge evolutiva di mutamento nel suo sviluppo da una lingua madre comune, sia pure con modalità diverse per ciascun organismo.
Il merito principale della linguistica storica, e dà che l’ha trasformata in una scienza, è stata l’identificazione delle diverse regole con cui ciascuna lingua si è cambiata.
Ma non avendo capito che la sola legge linguistica è quella della conservatività, e avendo fatto del mutamento una legge organica di sviluppo, che sfugge a qualunque tipo di conoscenza, è stato possibile accelerarne a piacere i tempi, per farli combaciare con le date fittizie, create arbitrariamente, delle presunte origini delle lingue parlate, e con quelle reali delle loro prime attestazioni scritte.

Come vedremo fra poco, nè le une nè le altre hanno valore per la cronologia assoluta delle lingue.
Inoltre, limitandosi a studiare il mutamento attraverso le sole lingue scritte, antiche e moderne, e ignorando completamente l'aspetto sociolinguistico del mutamento strutturale, la linguistica storica si è privata dello strumento principale per la comprensione del fenomeno del mutamento, e quindi per la ricostruzione del processo storico dell’evoluzione linguistica.


Teoria dela Seitanza
http://www.continuitas.org/index.html
http://www.continuitas.org/textsauthor.html
http://www.continuitas.org/textsauthor.html#alinei



Per questo capitolo e i successivi mi limito a elencare la bibliografia principale, da cui ometto le opere dell'Ottocento, gli articoli e i principali manuali di linguistica storica delle singole aree europee:
Alinei [1974b], Ambrosini [1976; 1985], Anderson [1973], Anderson e Jones C1974], Anttila [1989], Bartoli [1925; 1945], Band e Bertoni [1928], Battisti [1959], Benveniste [1966], Berru,to [1974], Bloomfield [1933], Bolelli [1965; 1971], Bonfante [1986-1994], Bouvier [1976], Breivik e Jahr [1989], Bynon [1977], Chomsky e Halle [1968], Coseriu [1974], De Mauro [1963], Deroy [1980], Durante [1981], Gusmani [1973; 1981], Hjelmslev [1966], Ho& [1986], Hoenigswalcl [1960], Jakobson [1958], Katiéié [1970], King [1969], Lazzeroni [1987], Lehmann [1962; 1993], Lehmann e Malkiel [1968], Malkiel [1983], Martinet [1955; 1975], Mazzuoli Porru [1980], Meillet [1921-1936; 1925], Mounin [1967], Pagliaro 11930], Palmer [1972], Pisani [1959; 1969], Quattordio Moreschini [ 1986], Robins [1971], Sapir [1921; 1949], Saussure [1916], Schneider [1973], Silvestri [1977-1982], Simone e Vignuzzi [1977], Tagliavini [1963], Terracini [1949; 1957], Trubeckoj [1939a], Ullmann [1959; 1962], Varvaro [1968; 1984], Vendryes [1921], Vidos [1965], Wandruszka [1969], Weinreich [1953], Wilbur [1977]. V. anche la nota 2.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: La falba teoria fonetega: evolousion dal latin

Messaggioda Berto » mer gen 01, 2014 10:56 pm

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: La falba teoria fonetega: evolousion dal latin

Messaggioda Berto » mer gen 01, 2014 11:05 pm

Łe bocali e łe consonandi ente ła łengoa veneta

https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... dzUDg/edit

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Re: La falba teoria fonetega: evolousion dal latin

Messaggioda Berto » mer gen 01, 2014 11:09 pm

Anca so sto sito li conta la bala de la derivasion de la lengoa veneta dal latin (coanto 'gnoranti ke li xe e li se da on fracon de arie).

Par no dexmentegar… gramadega de lengua veneta
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Re: La falba teoria fonetega: evolousion dal latin

Messaggioda Berto » mer gen 01, 2014 11:15 pm

Anca sto studioxo todesco el gheva la fisa de la derivasion dal latin:

Gerhard Rohlfs

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http://img577.imageshack.us/img577/8483/1kwrolfs1.jpg

http://it.wikipedia.org/wiki/Gerhard_Rohlfs_(filologo)

Gerhard Rohlfs (Berlino, 14 luglio 1892 – Tubinga, 12 settembre 1986) è stato un filologo, linguista e glottologo tedesco. Fu docente di filologia romanza all'Università di Tubinga e all'Università di Monaco di Baviera. Umanista di vasta cultura e ampi interessi, fu soprannominato "l'archeologo delle parole".
...
Fondamentale è poi la sua monumentale opera in tre volumi Historische Grammatik der italienischen Sprache und ihrer Mundarten. Lehnen, München, pubblicata negli anni 1949-1954 e tradotta in italiano da Einaudi negli anni 1966-1969, con il titolo Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti.

http://it.wikipedia.org/wiki/Grammatica ... i_dialetti

DISCORSO DEL VINCITORE DEL PREMIO FORTE DEI MARMI 1964 PROF. GERHARD ROHLFS
http://www3.humnet.unipi.it/galileo/fon ... Rohlfs.htm
Forte dei Marmi, ottobre 1964

Fra le nazioni europee l’Italia gode il privilegio di essere, certamente, il paese più frazionato nei suoi dialetti*.
Questo fenomeno ha senza dubbio delle origini etniche e storiche, ma non sarà indipendente da certe proprietà e qualità del popolo italiano. Questo frazionamento mi sembra l’espressione linguistica di un individualismo nazionale e di un alto sentimento per l’importanza culturale della piccola patria. L’intero significato di tale situazione si rileva subito, quando confrontiamo l’Italia con quel paese europeo che nei suoi immensi territori ci presenta proprio il caso contrario, cioè un minimo di divergenze dialettali: la Russia (???).

Questa ricchezza dell’Italia dialettale fu già per Dante Alighieri cagione e motivo di esaminare e giudicare i vari dialetti sul loro valore poetico e artistico, in cerca di un volgare illustre (???), il quale per il sommo poeta doveva essere piuttosto un ideale che una realtà.

E questa ricchezza dialettale esiste ancor oggi come fenomeno sociale e come fenomeno linguistico.
Ogni viaggiatore che, cominciando col Piemonte, traversando poi la Liguria, la Toscana, il Lazio e le province napoletane, si reca in Sicilia, si può rendere conto di questa situazione.
Non posso entrare qui in dettagli: mi contento di far risaltare alcuni importanti confini linguistici o piuttosto confini dialettali; perché in questi confini si rispecchiano certe antiche barriere storiche e etniche (1).

Appena passato l’Appennino tra Bologna e Firenze, spariscono di colpo i cosiddetti fenomeni galloromanzi: la lüna e piöve vengono sostituiti con luna e piove. Il fögu e la röa dei Genovesi si trasformano in fuoco e ruota. Sparisce la nasalizzazione dei settentrionali: karhûn, savûn, visîn. Invece delle consonanti scempie appaiono le antiche geminate latine (???):terra invece di tera, gatta invece di gata, bella invece di bela. Spariscono anche, almeno in gran parte, quei riflessi sonori che ricordano le lingue romanze occidentali: l’amiga diventa amica, la cadena diventa catena, savüdo o savudo diventa saputo (ma naltri a ghemo anca savesto). Il bagio dei Genovesi si trasforma in bacio; la camisa dei Lombardi diventa camicia.

Entrato poi in Toscana il viaggiatore s’imbatte in uno stranissimo fenomeno: la cosiddetta ‘gorgia’ toscana: la hòha hanta una hanzone, nelle hase si spegne ogni fòho; ma anche il dito diventa ditho, il sapone si trasforma in saphone. Illustri glottologi italiani e stranieri tendono a vedere in questa aspirazione l’effetto fonetico di un sostrato etrusco. Ciò che rende problematica tale interpretazione è il fatto che le più antiche manifestazioni del fenomeno non vanno oltre il sedicesimo secolo. Anche le circostanze nelle quali si presentano le aspirate in etrusco sono tutte diverse (2).

Non abbiamo qui il tempo di occuparci del posto linguistico di Roma per la formazione della lingua nazionale. Si sa che la lingua della Roma di oggi non corrisponde più a quel dialetto romanesco del Cinquecento, cioè dialetto di tipo prevalentemente meridionale, ma oggi non è altro che (come si suol dire) lingua toscana in bocca romana. Non è nemmeno più il caso di accettare l’opinione di Giulio Bertoni, formulata nell’apogeo del fascismo e espressa nella fiera affermazione: ‘Mentre la pronunzia di Firenze ha per sé il passato, quella di Roma ha per sé l’avvenire’.

Un altro importante confine dialettale è quello che divide l’Italia Centrale dai dialetti del Mezzogiorno. Questo confine, il quale non è un confine assoluto, segue, press’a poco, una linea che si può tirare da Ancona, passando per Rieti, ai monti Albani sotto Roma (3). Sorpassata questa linea, entriamo in una zona di una più antica romanità. Qui, di fronte all’italiano di tipo toscano si sono conservati vecchi latinismi: frate invece di fratello, soru invece di sorella, agno (aino, auno) invece di agnello, fago invece di faggio (arbor fageus). Qui si trovano gli ultimi residui della quarta declinazione latina: la manu col plurale le manu, la ficu - le ficu. Qui solo sopravvive il neutro latino nella classe dei sostantivi, che esprimono una sostanza (materia inanimata), riconoscibile nella forma speciale dell’articolo illud, il quale produce la gemmazione della consonante iniziale: lo llatte, lo mmèle, lo ssale, lo bbino (4). Qui l’aggettivo possessivo si aggiunge in forma enclitica al sostantivo, come in rumeno: fràtemo, sòruta, màmmata, mugghièrema. Qui la donna è chiamata fèmmina. Qui ritroviamo in piena vita antichissimi avverbi come cras (crai) e nudiustertius (nustierzu). Solo in questa zona si è mantenuta una arcaica forma del condizionale: avèra ‘io avrei’, cantèra ‘io canterei’, putèramu ‘noi potremmo’, forme che corrispondono al latino potùeram, pronunziato nel lat. volg. potuèra(m), forme che noi ritroviamo in spagnolo: pudiera, vendiera.

Voglio accennare ancora ad un’altra particolarità dei dialetti meridionali, la quale colpisce chi è abituato alle forme di espressione della lingua nazionale ovvero del francese e dello spagnolo. E’ la totale assenza dell’avverbio che si forma con la desinenza -mente. Cito per la Calabria i seguenti esempi: sugnu veru malatu ‘sono veramente malato’, parlavamu segretu cioè ‘in modo segreto’, la figghiola era bella vestuta, la fimmina era brutta vestuta. Ma in queste terre meridionali non esistono neanche avverbi bene e male. Si dice p.e. facisti bònu ‘hai fatto bene’, un sacciu lèggiri bònu ‘non so leggere bene’, staju boniciellu ‘sto benino’, cántanu biellu ‘cantano bene’. Il saluto ‘benvenuto’ diventa bomminutu, ossia bono venuto. Invece di male si usa l’aggettivo malo, p.e. fui malu cunsigghiatu, tu canti malu. Il fenomeno merita un certo interesse, perché appartiene a quel gruppo di concordanze linguistiche che esistono tra i dialetti del Mezzogiorno d’Italia e la lingua rumena. Anche il rumeno non conosce per niente la formazione dell’avverbio con la desinenza -mente. Cito i seguenti esempi: am mîncat splendid ‘ho mangiato splendidamente’ am suferit teribil ‘ho sofferto terribilmente’, soruta cânta frumos ‘tua sorella canta bene’ (‘formoso’). Sembra che qui ci troviamo di fronte ad una fase della latinità anteriore allo sviluppo della forma avverbiale la quale vale per le altre lingue neo-latine.

E continuando il nostro viaggio attraverso l’antico regno delle Due Sicilie, passata la provincia di Cosenza, all’altezza del golfo di Sant’Eufemia, ci troviamo di fronte a una nuova sorpresa.
Da qui in giù la romanità dei dialetti si presenta più moderna e quasi ringiovanita. Sparisce l’antico condizionale: cantèra diventa cantaría, potèra si trasforma in putiría (putarría). Vuol dire che il condizionale prende quella forma neo-latina che fu usata nella lingua aulica dei poeti trecentisti: vorría, saría, credería (5). Sparisce cras e nudistertius: crai diventa dumani, nustierzu diventa avantèri. E mentre ci avviciniamo al Faro di Messina, sparisce anche marìtuma, fìgghiama e sòruta, e non si sente che mè maritu, mè figghia e tò sòru. E con tali forme si presentano in questa Calabria meridionale (generalmente d’accordo con la Sicilia) molti altri vocaboli e forme dialettali che sembrano allacciarsi piuttosto alla comune lingua nazionale o addirittura alle condizioni dell’Italia settentrionale.
Per determinare questa strana posizione linguistica, cioè l’intimo contatto della Calabria meridionale (e della Sicilia) col linguaggio dei settentrionali, scelgo un interessante esempio nel campo delle relazioni sociali e familiari.
Nei dialetti meridionali del continente, a nord del golfo di S. Eufemia, cioè a nord di Catanzaro, l’idea di sposarsi, seguendo la antica tradizione latina, viene rispettivamente espressa con due verbi distinti, cioè ‘ammogliarsi’ e ‘maritarsi’ secondo che si tratti di uomo o di donna, cioè me nsúru = latino me inuxoro (‘mi reco nella dipendenza della moglie’) detto dell’uomo, e mé maritu detto della donna, distinzione osservata anche in Lucania, Campania e nelle Puglie e fino in Toscana. Viceversa nella Calabria meridionale, come anche in Sicilia, questa distinzione non è per niente conosciuta: l’òmu si marita, la fimmina si marita. La perdita di questa antica distinzione ci porta ai paesi settentrionali, tanto in Francia, dove je me marie si dice indistintamente dell’uomo e della donna, quanto nell’alta Italia, dove la formula me marido (nelle Venezie) si usa ugualmente per l’uomo e per la donna; similmente in Piemonte e in Liguria: gen. maiáse ‘sposarsi’ (si dice tanto dell’uomo quanto della donna).

D’altra parte in questa Calabria meridionale si presentano curiosissimi fenomeni. - E’ quasi sconosciuto l’uso del passato prossimo, il quale viene sostituito dal passato remoto, anche in riferimento all’ultimo passato: invece di dire: hai dormito bene? si domanda: dormisti bònu? Invece di dire come avete mangiato? si domanda: come mangiástivu?; capiscístivu?, ki ddicístivu? - Dopo certi verbi è escluso e non ammesso l’infinito. Non si dice ‘voglio mangiare’, ma si dice vògghiu mu (mi) mángiu, cioè ‘voglio che mangio’; ‘sono passato senza vederti’ diventa passai senza mu (mi,) ti viju; ‘andiamo a mangiare’ diventa jamu mu (mi) mangiamu. - Per chi conosce il greco moderno, questi due fenomeni si rivelano come manifesti riflessi di una lunga bilinguità greco-latina.

E arriviamo in Sicilia. E qui nuove sorprese ci aspettano.
Invece di trovare in questa più antica colonia latina un baluardo di un’antica latinità con fisionomia individuale al pari della Sardegna, notiamo dei dialetti che sembrano appartenere ad una più recente romanità, come stidda, viteddu, bedda matri, pronunzia che la Sicilia ha in comune con la Sardegna e con molti altri dialetti del Mezzogiorno. E la stessa impressione riporterà uno studioso il quale, lontano dalla Sicilia, in una biblioteca di Parigi o di Londra, per scopi folkloristici, consulti le raccolte di fiabe e di canti popolari delle varie province d’Italia. Confrontati col piemontese, col genovese, col lombardo, col napoletano, col barese e col calabrese della provincia di Cosenza, i testi siciliani si presentano allo studioso straniero molto più lisci, più accessibili e quasi senza difficoltà. E questa è veramente una situazione paradossale: il siciliano che è il dialetto più meridionale dell’Italia, si mostra essere il dialetto meno meridionale del Mezzogiorno.
Le ragioni di questa situazione sono complesse, ma sono oggi essenzialmente conosciute. La posizione linguistica della Sicilia rassomiglia in molti aspetti alla posizione dell’Andalusia in Ispagna, terra per il 90% nuovamente romanizzata dopo la riconquista cristiana. Anche in Sicilia la liberazione dalla dominazione dei Saraceni e la loro scacciata ha portato ai noti fenomeni della riconquista: fenomeni sociali, fenomeni di ripopolazione, fenomeni linguistici.
E questa situazione non è limitata alla Sicilia, ma comprende anche, come già è stato detto, la Calabria meridionale fino al golfo di Sant’Eufemia, dove non hanno dominato i Saraceni, ma dove fino al dodicesimo secolo si è mantenuto il greco come lingua del popolo (6). Quello che distingue la Calabria meridionale dalla situazione linguistica in Sicilia, è unicamente una altissima percentuale di grecismi, di fronte ai moltissimi arabismi della Sicilia (7). Per il resto si può dire che la Calabria meridionale, linguisticamente (almeno in molti aspetti), non è altro che un avamposto della Sicilia, un balcone della Sicilia.

Il tempo non ci permette di entrare in particolarità. Basta ricordare, per la Sicilia, i numerosissimi gallicismi come avantèri ‘l’altroieri’, accattare ‘comprare’, giugnettu ‘luglio’, racina ‘uva’, vuccèri ‘macellaio’, custureri ‘sarto’. A questi elementi settentrionali si aggiungono gli influssi che per via di massima immigrazione sono emanati dall’Italia padana. - Ecco perché troviamo in Sicilia testa invece di capu, agúgghia invece di acu, òrbu nel senso di ‘cieco’, tròja invece di ‘scrofa’, tuma nel senso di ‘formaggio’ - tutti termini tipici dei dialetti dell’Italia padana (8). Da queste e altre correnti è nata in Sicilia una specie di koiné, una romanità più giovane, una romanità avanzata, ma anche meno indigena. Questa riforma linguistica che sta in diretta connessione colla conquista dei Normanni e col regno di Federico II, ha avuto per effetto di collegare la Sicilia più intimamente colla madre-patria Italia e colla lingua nazionale, in sorprendente e stranissimo contrasto colla Sardegna, rimasta in una posizione arcaica e linguisticamente isolata, nel complesso assai più vicina all’antica latinità.


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* L’Italia dialettale fu intitolato un articolo in cui G. I. Ascoli nell’VIII volume dell’Archivio glottologico italiano (1882, pp. 98-128) tracciò la prima classificazione scientifica dei dialetti italiani, messi a confronto col tipo toscano, articolo che due anni prima era già apparso in versione inglese nell’Encyclopaedia Britannica (IX edizione), New York vol. XIII, p. 491-498. - Italia dialettale fu anche il titolo di un interessante Manuale Hoepli (1916) in cui Giulio Bertoni si propose di fissare i principali caratteri dei dialetti italiani. Fu fondata più tardi (1924) da Clemente Merlo la rivista L’Italia Dialettale che fino ad oggi (attualmente diretta da Tristano Bolelli) rappresenta il maggiore centro scientifico per i lavori che riguardano la dialettologia italiana.
Il discorso è stato pubblicato nella Rivista "Nuovi Argomenti", 1967, pp. 22-27.

(1) Cerco di dare in alcune rapidissime linee una veduta generale della situazione dialettale in Italia. In questo ‘panorama’, visto lo speciale interesse dell’autore, sarà data una maggiore importanza a certi fenomeni del Mezzogiorno, anche perché essi sono meno conosciuti.

(2) Si veda ora la presentazione del problema nella mia Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti (Torino ed. Einaudi, vol. I, 1966, §196).

(3) Questa linea, in una parte importante del suo tracciato, corrisponde approssimativamente al confine storico che separava il ducato di Spoleto dalla Pentapolis e dal Patrimonium Petri.

(4) Si confrontino d’altra parte nelle stesse zone dialettali i seguenti esempi coll’articolo maschile illu ( =illum): lo cane, lo patre, lo frate, lo lupo. - In altre zone si usa lo come articolo per il neutro, lu come articolo per il maschile: lo latte, lu cane.

(5) Fa eccezione l’estrema parte della provincia di Reggio (zone dell’Aspromonte) dove la grecità si è mantenuta più a lungo e dove ancora oggi (intorno alla cittadina di Bova) il greco continua a sopravvivere in alcuni villaggi. In questa estrema Calabria il condizionale si esprime (come una volta in greco antico) per mezzo dell’imperfetto indicativo p. e, partiva ‘ io partirei’, lu facìa ‘lo farei’, si putiva iva ‘se potessi andrei’, si avìa fami lu mangiava ‘se avessi fame lo mangerei’.

(6) Per la continuità (residui e influssi) della lingua greca nel Mezzogiorno d’Italia, v. G. ROHLFS, Scavi linguistici nella Magna Grecia (Roma 1933) e l’edizione anteriore Griechen und Romanen in Unteritalien (Ginevra 1924).

(7) Si veda G. ROHLFS, Lexicon Graecanicum Ltaliae Inferioris, Etymologisches Wörterbuch der unteritalienischen Gräzität (Tübingen 1964).

(8) Va qui ricordata anche la tipica opposizione che riguarda l’uso dei verbi ‘avere’ e ‘tenere’. Mentre invece del verbo ‘avere’ (per esprimere un possesso, una qualità o uno stato di cose) da Roma e dalle Marche in giù, d’accordo con la Sardegna (tengo duos frades) e con lo spagnolo (tengo dos hermanos) si usa il verbo tenere, p. e. (prov. Cosenza) illu tène dui frati, quant’anni tieni?, nella Calabria meridionale e per tutta la Sicilia non si conosce altro che il verbo avere della lingua nazionale e dei settentrionali: aju la frèvi ‘ho la febbre’, iddu avi dui frati, quant’anni ai?


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Re: La falba teoria fonetega: evolousion dal latin

Messaggioda Berto » mer gen 01, 2014 11:20 pm

Sti "studioxi" li riva a na ensemensa ke la làsa de saso e li ga anca la prexounsion de ciamarla siensa!

Siensa ensemenia

http://www.achyra.org/infarinato/files/mccrary.pdf
http://www.achyra.org/infarinato/files/rs.pdf

...Accento e quantità : ... dino ... dinema ... cronema
(robe da manio e da Lonbroxo, pori li studenti ke li ghe va drio a sti "profasori e a sti doti" :roll: )
Innanzitutto, una banalità metodologica (di cui mi scuso): se coi piú riconosciamo che in italiano l’accento dinamico (dino) è un prosodema (dinema), e la durata o quantità (crono) è un cronema solo in rapporto alle consonanti (e nemmeno a tutte), allora è l’accento (insieme con la durata consonantica) il tratto pertinente, e la quantità vocalica/sillabica un tratto ridondante, per cui, da un punto di vista strettamente fonologico, tutte le regole che fanno riferimento a quest’ultima dovrebbero essere sempre e comunque formulate in termini del primo. ...


Se ghì voja fè on tentar de lexarghe coalke paxena e dapò provè a raxonarghe sora co la vostra crapa sensa sojesion par sti "paroloni" ke par ke li diga kisake ma ke dal bon (enveretà o en realtà) le se ensemense s.cete.
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Re: La falba teoria fonetega: evolousion dal latin

Messaggioda Berto » mer gen 01, 2014 11:34 pm

La gran parte de la teoria fonetega ligà a la teoria romansa la xe asurda coanto la teoria romansa mema e la teoria del Lonbroxo:

Dalla linguistica romanza alla linguistica neoitalide*
Francesco Benozzo - Mario Alinei

http://www.continuitas.org/texts/alinei ... omanza.pdf

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Re: La falba teoria fonetega: evolousion dal latin

Messaggioda Sixara » gio gen 02, 2014 3:15 pm

No' serve ca te dòpari parole cofà ensemense asurdità ignoranse par conpagnare el to pensiero : basta cueo ca dixe i studioxi par tegnerlo sù. :)
El resto xe tuto n più, on portarse drio coe de polemike vèce cofà el kùko.
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Re: La falba teoria fonetega: evolousion dal latin

Messaggioda Berto » gio gen 02, 2014 5:12 pm

Sixara ha scritto:No' serve ca te dòpari parole cofà ensemense asurdità ignoranse par conpagnare el to pensiero : basta cueo ca dixe i studioxi par tegnerlo sù. :) El resto xe tuto n più, on portarse drio coe de polemike vèce cofà el kùko.


Sixara, coxa sonti mi, sonti forse on macaco?

Anca mi a so on studioxo, on studente studioxo e sicome no partegno a la casta de sti profasori, me poso parmetare de dirghe e de tratarli come ke li se mereta.
Mi no go da difendar la "casta dei buxiari" ma go da difendarme e da difendar la me xente da la casta dei buxiari ke en sorapì li xe roganti e gnoranti.
Scuxame Sixara mi no go da esar xentil co sta xente, pan al pan, sprèso al sprèso.

Cara Sixara come ke Dio nol xe on monopolio de i previ, de le caste dei privi, cusì la sapiensa e la cognosensa no le xe on monopolio de ste caste de "saoni de stado".
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