Le demenziali menzogne sull'Africa del vittimismo africano

Le demenziali menzogne sull'Africa del vittimismo africano

Messaggioda Berto » dom feb 12, 2023 10:44 pm

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Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Le demenziali menzogne sull'Africa del vittimismo africano

Messaggioda Berto » dom feb 12, 2023 10:45 pm

15)
Bergoglio in Congo e in Sudan
Bergoglio basta vittimizzare l'Africa e i neri e demonizzare l'Europa, gli USA, l'occidente e i bianchi!


Bergoglio in Congo, poveretto, il vittimismo africano e la demonizzazione del mondo industrializzato, del capitalismo multinazionale, dell'Occidente e in fondo in fondo dell'uomo di buona volontà.
Povero Bergoglio con tutta la sua scienza teologica e la fede cristiana non ha ancora capito che la speranza, la salvezza, il benessere, ... dell'umanità, Dio e la natura le hanno messe nelle mani dell'uomo, in particolare nell'uomo ragionevole di buona volontà, che si guadagna il pane con il sudore della fronte mettendo a frutto l'esperienza fatta (con gli innumerevoli errori) e la scienza acquisita. Questo è il vero e unico miracolo possibile, quello operato da Dio e dalla natura attraverso l'uomo di buona volontà, non vi sono miracoli magici e doni gratuiti da parte di Dio e della natura.
Anche l'Africa e gli africani debbono fare la loro parte e ringrazino chi li valorizza e che mette a frutto le ricchezze minerali del sottosuolo africano, la meraviglia del paesaggio e dell'ambiente primitivo, e della buona umanità africana che partecipa della categoria universale multietnica e multirazziale dell'uomo ragionevole di buona volontà, civile e umano che rispetta il prossimo e che si fa rispettare.
Ricordiamo a Bergoglio che il colonialismo europeo dell'Africa è finito da lungo tempo e che gli africani hanno il loro destino nelle loro mani, che non sono vittime dei bianchi e che non hanno alcun diritto di venire clandestini in Europa per essere accolti, ospitati e mantenuti dagli europei, per stuprare e delinquere nei paesi dell'umanità bianca che non ha colpe da scontare e debiti da pagare agli africani.



Papa Francesco è arrivato in Congo: 'Giù le mani dall'Africa'
Sky TG24
31 gennaio 2023

https://tg24.sky.it/mondo/2023/01/31/pa ... esco-congo

Il Pontefice è atterrato all'aeroporto di Kinshasa. Nel suo primo discorso alle autorità ha detto: “In Congo un genocidio dimenticato”. Sorvolando il deserto del Sahara, Bergoglio ha chiesto di pregare per "le persone che non ce l'hanno fatta". Tra i momenti più importanti l'incontro mercoledì con un gruppo di vittime dell'est del Paese. Dal 3 al 5 sarà in Sud Sudan
È cominciato oggi il viaggio di Papa Francesco in Africa: il Pontefice è arrivato in Congo, dove starà fino al 3 febbraio, poi dal 3 al 5 sarà in Sud Sudan. Una visita, ha spiegato il Vaticano, per parlare di pace e curare le ferite di un popolo stretto tra conflitti e povertà, sfruttamento delle risorse e catastrofi climatiche. Nel messaggio inviato al presidente della Repubblica Sergio Mattarella prima del viaggio, Bergoglio ha scritto che è partito per l'Africa portando "un messaggio di pace e di riconciliazione". Ha poi sottolineato che è "mosso dal vivo desiderio di incontrare i fratelli nella fede e gli abitanti di quelle nazioni". "Sarà un viaggio bello. Avrei voluto andare a Goma ma con la guerra non si può andare", ha detto il Papa durante il volo.


Papa: “Giù le mani dall’Africa, non è miniera da sfruttare"
Nel discorso alle autorità a Kinshasa, Bergoglio ha detto: "Giù le mani dalla Repubblica Democratica del Congo, giù le mani dall'Africa! Basta soffocare l'Africa: non è una miniera da sfruttare o un suolo da saccheggiare". È tragico che questi luoghi, e più in generale il Continente africano, soffrano ancora varie forme di sfruttamento. Dopo quello politico, si è scatenato infatti un 'colonialismo economico', altrettanto schiavizzante". Poi ha ricordato il "genocidio dimenticato che sta subendo la Repubblica Democratica del Congo". Lo sfruttamento dell'Africa "è un dramma davanti al quale il mondo economicamente più progredito chiude spesso gli occhi, le orecchie e la bocca. Ma questo Paese e questo Continente meritano di essere rispettati e ascoltati, meritano spazio e attenzione". Il Papa invita tutta la popolazione della Repubblica Democratica del Congo a porre fine a violenze e odio e dice che la violenza che dilaga nel Paese è come "un pugno nello stomaco". Infine invita le autorità ad investire sui giovani e sulla loro istruzione. "I diamanti più preziosi della terra congolese, che sono i figli di questa nazione, devono poter usufruire di valide opportunità educative, che consentano loro di mettere pienamente a frutto i brillanti talenti che hanno".

Il viaggio del Papa in Congo
Il volo con a bordo il Pontefice, il seguito e i giornalisti, era partito alle 8.10 da Roma Fiumicino ed è arrivato all'aeroporto di Kinshasa intorno alle 14.30. Sorvolando il deserto del Sahara, il Papa ha chiesto ai giornalisti di pensare e pregare in silenzio per "tutte le persone che, cercando un po' di benessere e di libertà, non ce l'hanno fatta" e anche per tutti quelli che, cercando di raggiungere il Mediterraneo, sono invece finiti nei "lager e soffrono lì". Ad accogliere il Papa in Congo, il primo ministro Jean-Michel Sama Lukonde. Francesco si è quindi recato al Palais de la Nation per la cerimonia di benvenuto e ha incontrato il presidente Félix Antoine Tshilombo Tshisekedi. Poi nei giardini dello stesso Palazzo, il Papa ha incontrato le autorità politiche e religiose, il corpo diplomatico, gli imprenditori, i rappresentanti della società civile e della cultura e ha pronunciato il suo primo discorso. Infine si è trasferito nella Nunziatura, la sua residenza in questo viaggio apostolico.

“Il Congo ha bisogno di aiuto”
Uno dei momenti più importanti sarà l'incontro, mercoledì 1 febbraio, tra il Papa e un gruppo di vittime provenienti dall'est del Paese. "Il Papa vuole manifestare la sua vicinanza, per tutte le sofferenze e le stragi avvenute qui negli ultimi trent'anni e che continuano a essere pane quotidiano. Il Papa vuole consolare, condannare questi attentati, chiedere perdono a Dio per tutte queste stragi, vuole invitare e incoraggiare tutti alla riconciliazione", ha detto monsignor Ettore Balestrero, nunzio apostolico nella Repubblica Democratica del Congo. "Il Congo soffre per la molta corruzione, c'è un alto tasso di povertà e ha un grande bisogno di pace, soprattutto nell'est del Paese", ha aggiunto ad Acs. E ancora: "Poi ci sono le sfide della migrazione, dal momento che ci sono 5,5 milioni di sfollati interni e 500.000 rifugiati. È un Paese di giovanissimi: metà della popolazione, 50 milioni di persone, ha meno di 18 anni. È molto ricco di risorse, con molti minerali fondamentali per la transizione ecologica. Il Congo ha bisogno di aiuto, di più sviluppo e di una coscienza democratica per crescere".

La visita in Sud Sudan
Nei prossimi giorni il Papa visiterà anche il Sud Sudan, il più giovane Paese del mondo che, poco dopo la sua indipendenza, nel 2011, ha vissuto una sanguinaria guerra civile ma ancora fatica a trovare una pacificazione. Dopo la tappa a Kinshasa, infatti, Francesco il 3 febbraio volerà a Juba, la capitale del Sud Sudan, dove sarà accompagnato dal primate della Chiesa anglicana Justin Welby e dal moderatore della Chiesa di Scozia, Ian Greenshields. Bergoglio farà ritorno in Vaticano domenica 5 febbraio.



Congo, il Papa nel Paese piagato da tribalismo, corruzione, malgoverno
Esteri
31-01-2023
https://lanuovabq.it/it/congo-il-papa-n ... U.facebook

Papa Francesco arriva a Kinshasa, capitale del Congo. Ma non andrà a Goma, nel Nord Kivu, perché la regione è troppo insicura, divisa in bande armate che lottano ciascuna per la propria etnia e con un conflitto latente con il Ruanda. La visita del pontefice riguarda due Paesi, Congo e Sud Sudan, ricchissimi di materie prime, ma con popolazioni estremamente povere. Sono realtà devastate da corruzione, malgoverno e tribalismo, le piaghe storiche, inguaribili, del continente africano.

Kinshasa militarizzata per l'arrivo del Papa

Con l’arrivo a Kinshasa, capitale della Repubblica democratica del Congo, inizia il 31 gennaio il viaggio di Papa Francesco in Africa. Seconda tappa sarà il Sudan del sud dove è atteso il 3 febbraio. Quella intrapresa è una missione delicatissima perché il Pontefice ha scelto di visitare due dei paesi africani più devastati da corruzione, malgoverno e tribalismo, le piaghe storiche, inguaribili del continente. Immensamente ricco di materie prime, il Congo, che per questo è stato addirittura definito uno “scandalo geologico”, è uno dei paesi più poveri del mondo: il 70,99% della popolazione è in condizioni di estrema povertà disponendo di meno di 2,15 dollari al giorno per vivere. Peggiore ancora è la situazione del Sudan del sud che, nonostante abbia acquisito tre quarti dei giacimenti di petrolio del Sudan dal quale si è diviso diventando indipendente nel 2011, detiene il primato mondiale della povertà estrema con l’80,71% degli abitanti in questa condizione. Entrambi inoltre, come ha ricordato il Papa il 29 gennaio all’Angelus, sono provati da lunghi conflitti.

In Congo, Francesco si limiterà a incontrare politici e popolazione nella capitale. L’insicurezza che regna nell’est del Congo rende impossibili altre destinazioni, soprattutto la programmata visita a Goma, la capitale del Nord Kivu, una delle tre province orientali del paese – le altre sono l’Ituri e il Sud Kivu – in cui da quasi 30 anni sono attivi decine gruppi armati: alcuni antigovernativi, quasi tutti a composizione etnica, nati per difendere le rispettive comunità e i loro territori, molti sostenuti dai tre paesi con cui le province confinano: Uganda, Rwanda e Burundi. Vivono di razzie, bracconaggio e contrabbando di materie prime e agiscono quasi incontrollati nonostante la presenza, in aiuto alle forze militari congolesi, della più grande missione di peacekeeping, la Monusco, istituita nel 2010 in sostituzione della precedente, la Monuc, e forte di 18.278 tra militari, esperti, civili, agenti di polizia e osservatori militari.

È nei pressi di Goma che nel febbraio del 2021 è stato ucciso l’ambasciatore italiano Luca Attanasio mentre incautamente percorreva senza scorta insieme ad alcuni dipendenti del Pam, il Programma alimentare mondiale, la strada che collega Goma al centro minerario di Rutshuru, una delle più pericolose del paese tanto da essere stata soprannominata “la strada della morte”. Il 15 gennaio proprio nel Nord Kivu i jihadisti ADF, un gruppo armato affiliato all’Isis attivo dal 2001 in Congo, hanno attaccato la chiesa di Cristo in Congo di Kisindi, in quel momento gremita di fedeli che assistevano alla messa domenicale, facendovi esplodere un ordigno e uccidendone almeno 17. Il 30 gennaio, vigilia dell’arrivo del Papa, l’ADF ha attaccato di nuovo, questa volta tre villaggi nell’Ituri, uccidendo almeno 15 persone.

Ma in questo momento il pericolo maggiore non solo per le popolazioni dell’est, ma per l’intero paese è costituito dal gruppo armato M23, composto da milizie Tutsi e sostenuto dal Rwanda dove i Tutsi scampati nel 1994 al genocidio sono al potere. Nonostante i tentativi internazionali di mediazione e l’impegno a una tregua, i combattimenti continuano e i rapporti tra Congo e Rwanda sono pericolosamente tesi: il Congo accusa il Rwanda di voler occupare aree orientali del paese, il Rwanda replica denunciando una minaccia di genocidio dei Tutsi residenti in Congo. “Non perché temesse per la propria vita – ha spiegato il direttore della Sala Stampa della Santa Sede Matteo Bruni, spiegando le ragioni della rinuncia del Papa a visitare Goma – ma per il rischio di attentati contro la folla di persone che accorrerebbe per vedere il Papa”.

Se l’est è la regione del paese più instabile, tutto il paese però risente delle conseguenze di decenni di governi affidati a uomini impegnati solo a impadronirsi delle risorse del paese, in una corsa sfrenata ai proventi della vendita di materie prime preziose, trascurando infrastrutture e servizi al punto da rendere difficile per la gente comune spostarsi nel paese e quasi impossibile condurre un’esistenza sicura e tutelata. Il dittatore Sese Seko Mobutu al potere dal 1965, cinque anni dopo l’indipendenza dal Belgio, al 1997, secondo cui era solo normale che un leader politico in carica per tanti anni accumulasse miliardi, è stato sostituito da capi di stato apparentemente democratici, altrettanto avidi di potere e ricchezza: Laurent-Désiré Kabila, dal 1997 al 2001, suo figlio Joseph, fino al 2019, che in meno di 20 anni è riuscito a incrementare i beni ereditati dal padre fino a costituire uno dei maggiori imperi finanziari e immobiliari del continente, e dal 2019 Félix Tshisekedi, vincitore delle elezioni presidenziali di fine 2018 e attuale presidente nonostante le accuse di irregolarità e brogli mosse tra l’altro anche dalla Chiesa Cattolica che aveva posto 40mila osservatori a monitorare il voto.

Benché non sussistano minacce specifiche, tuttavia i luoghi degli appuntamenti del Papa sono stati fatti oggetto di misure di sicurezza estreme per impedire l’accesso anche a piedi a persone non autorizzate. Il governo congolese si è impegnato con fermezza in tal senso e anche a mostrare pulite e in ordine le vie della capitale. Ne hanno fatto le spese migliaia di venditori ambulanti che da un giorno all’altro sono stati costretti a smontare i loro negozietti. Chi ha tardato a obbedire ha perso tutto perché la polizia è intervenuta con piedi di porco e bulldozer ad abbattere baracchini e bancarelle.



L'Africa è meno sicura. E la democrazia fa passi indietro
Anna Bono
2 febbraio 2023

https://lanuovabq.it/it/lafrica-e-meno- ... 0.facebook

Il continente africano nel suo insieme è meno sicuro che nel 2012 e la democrazia fa passi indietro. A sostenerlo è il rapporto 2022 sulla governance in Africa appena presentato dalla Mo Ibrahim Foundation. In fondo alla classifica ci sono proprio Congo e Sud Sudan, assieme a Centrafrica, Somalia, Eritrea e Guinea Equatoriale.

Congo, milizie armate a Goma

Il continente africano nel suo insieme è meno sicuro che nel 2012 e anche la democrazia ha fatto passi indietro rispetto a dieci anni fa. A sostenerlo è il rapporto 2022 sulla governance in Africa appena presentato dalla Mo Ibrahim Foundation in concomitanza con la pubblicazione dell’Indice Ibrahim di governance. La fondazione lo prova con analisi, dati e cifre e le conclusioni a cui arriva meritano tutta l’attenzione perché i suoi rapporti periodici sulla situazione del continente africano sono tra i più esaurienti e affidabili. Per chi non lo sapesse, la fondazione è stata creata nel 2006 da Mo Ibrahim, un miliardario sudanese che ne è il presidente, con l’obiettivo di contribuire a monitorare, valutare e promuovere governance e leadership in Africa.

Secondo la fondazione, il paese africano più sicuro e democratico attualmente è Mauritius, che tuttavia registra il punteggio più basso mai finora ottenuto. Seguono Seychelles, Tunisia, Capo Verde, Botswana e Sudafrica. Al fondo della classifica figurano Repubblica democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Guinea Equatoriale, Somalia, Eritrea e Sudan del sud. Il deterioramento di sicurezza, legalità, diritti umani, libertà democratiche, partecipazione e inclusione ha colpito più di 30 stati, sostengono i ricercatori della fondazione. “L’arretramento si è accentuato soprattutto a partire dal 2019 – ha spiegato Mo Ibrahim intervenendo alla conferenza stampa in occasione della presentazione del rapporto – È una situazione davvero molto preoccupante. La crescente insicurezza e il generale degrado delle istituzioni democratiche hanno infatti vanificato i progressi conseguiti in altri ambiti”. Ibrahim si riferisce ai progressi nel frattempo registrati nel settore delle infrastrutture e in termini di opportunità economiche e di sviluppo umano: quest’ultimo grazie al fatto che sono migliorati i servizi sanitari, soprattutto quelli destinati ai bambini e alle donne incinte, che qualche passo avanti è stato fatto nel controllo e nella prevenzione delle malattie e anche nel campo dell’istruzione, con un numero crescente di bambini che frequentano la scuola e che completano il ciclo degli studi.

Bande e gruppi armati minacciano la vita e le proprietà di decine di milioni di persone, spesso quasi del tutto incontrastati. Nella Repubblica democratica del Congo questa situazione ha creato circa quattro milioni di sfollati, in Burkina Faso se ne contano almeno due. Nel Sudan del sud gli sfollati sono due milioni e altrettanti sono i rifugiati. In Somalia ci sono tre milioni di sfollati e i rifugiati sono quasi 850mila.

“Il deterioramento della situazione della sicurezza dimostra che le risposte governative non funzionano” ha spiegato prendendo la parola durante la conferenza stampa Alex Vines, direttore del Programma Africa della Chatham House, un centro studi inglese – anche per questo la Francia ha ritirato parte delle sue truppe dall’Africa occidentale. Adesso molti nel continente guardano ai mercenari russi del gruppo Wagner come la soluzione, cosa sulla quale non concordo”. La Francia ha ritirato parte dei propri militari, in Mali ad esempio, sostenendo che è impossibile combattere il jihad che ormai opera in tanti Stati africani se i governi non si impegnano a rimuovere le cause che ne favoriscono la diffusione. Ma lo ha fatto anche sotto la pressione dell’opinione pubblica, in alcuni paesi – Niger, Ciad, Burkina Faso, e lo stesso Mali – rabbiosamente convinta che se i gruppi jihadisti non sono stati sconfitti è colpa, non dei rispettivi governi, ma dei paesi europei che non hanno fatto abbastanza. Con la stessa logica, nella Repubblica democratica del Congo la popolazione chiede da tempo, in questo caso non a torto vista la scarsa operatività dei caschi blu, il ritiro della missione di peacekeeping Onu Monusco. È possibile che l’Africa debba contare di più sulle proprie forze nel prossimo futuro, e non è una prospettiva incoraggiante.

Il rapporto della Fondazione Mo Ibrahim indica la pandemia di Covid-19 e l’invasione dell’Ucraina, due fattori esterni, come corresponsabili del peggioramento della situazione del continente. Tuttavia pone l’accento soprattutto su quelli interni evidenziando, ad esempio, che tra i paesi ultimi nell’Indice di governance figurano quelli governati da più di 20 anni dagli stessi leader. Il record mondiale, non solo africano, di permanenza al potere attualmente è detenuto dal presidente della Guinea Equatoriale (51° nell’Indice, su 54 stati), in carica dal 1979, rieletto lo scorso dicembre con il 95% dei voti.

Tra i fattori interni che ostacolano lo sviluppo del continente e quindi causano insicurezza e deficit di democrazia il rapporto cita giustamente il problema energetico. Quasi metà degli africani, circa 600 milioni, non hanno accesso a fonti sicure di energia. È un dato sorprendente in un continente che dispone di risorse energetiche immense: petrolio, gas naturale, ma anche l’energia che si ricava da corsi d’acqua e laghi, dal sole e dal vento. Il rapporto cita il caso esemplare del Sudafrica, paese emergente, alla prese con una crisi energetica gravissima, con sempre più frequenti blackouts anche di 12 ore, al punto che il presidente Cyril Ramaphosa ha rinunciato a recarsi al World Economic Forum di Davos dovendo presenziare agli incontri in corso per trovare una soluzione. Ma ancora più grave è la situazione della Nigeria, prima economia e primo produttore di petrolio del continente, dove 85 milioni di persone, il 43% della popolazione non ha accesso all’energia elettrica, un record mondiale. La Nigeria è anche uno dei paesi africani più violenti, dove nessuno è più al sicuro e dove, così come in altri stati africani, proliferano i gruppi armati di autodifesa.




Le demenzialità degli adoratori di Bergoglio che mente sull'Africa


Papa Francesco grida dal Congo La stampa italiana è sorda e muta
Umberto Folena giovedì 2 febbraio 2023
https://www.avvenire.it/rubriche/pagine ... rda-e-muta
Quanto “vale” il Papa in Congo per i quotidiani italiani? Proviamo a metterci nei panni dell’inviato ammesso al volo papale: atterra, sente pronunciare parole forti contro lo sfruttamento, il neo colonialismo, la violenza dimenticata da chi, in Occidente, semplicemente gira le spalle; chiama la redazione; e il giorno dopo si ritrova con 13 righe sotto la foto di Francesco all’interno della pagina 9 che annuncia, notizia di rilievo ben maggiore, che «Meloni andrà a Kiev».
L’inviato è Gian Guido Vecchi e il quotidiano è il “Corriere” (tutte le citazioni sono dai giornali di ieri, 1/2). Potrebbe guardare con invidia il collega della “Repubblica” Iacopo Scaramuzzi, che ha una pagina intera, la 13 (titolo: «Stop al colonialismo»), sia pure divorata dalla pubblicità, e addirittura un richiamo in prima: la “Repubblica” è l’unico quotidiano a piazzare, sia pure piccino picciò, Francesco in copertina. Davvero il Papa fa così poco notizia?
Domenico Agasso, inviato della “Stampa”, strappa due colonne di spalla a pagina 17. Il “Quotidiano nazionale” (“Giorno”, “Carlino” e “Nazione”) dedica alla visita apostolica l’apertura di pagina 13 con il servizio di Nina Fabrizio: «Parole dure verso le grandi potenze. “Questa terra non è una miniera da saccheggiare”». Meglio di tanti altri fa il “Sole 24 Ore” con mezza pagina firmata da Roberto Bongiorni, che chiude il suo servizio con uno degli intenti – oltre a visitare le comunità cattoliche africane – del viaggio: «I congolesi ora si augurano che la visita di Papa Bergoglio possa essere il megafono affinché il mondo possa udire il grido di questa terra ferita». Peccato che il grido del Papa, perché esattamente questo è, per ora sia ampiamente inascoltato. Il “Fatto” e “Libero” non hanno nulla: per loro, Francesco non è mai partito né arrivato. Il “Messaggero ha una breve di 5 righe a pagina 15, “Domani” una breve di 9 righe a pagina 7. La “Verità” ha un servizio di piede a pagina 5; ma in prima pubblica un appello del defunto cardinale Pell, uscito sul “Timone”: «Papa Ratzinger diventi subito Dottore della Chiesa», con la foto di Benedetto XVI. Un vero capolavoro. Intanto Francesco prosegue il suo viaggio in una delle terre più martoriate del mondo, in un abominevole e imbarazzante disinteresse della nostra stampa quotidiana.


Gino Quarelo
Meno male perché le balle che racconta Bergoglio sono stratosferiche, come quelle sulla guerra in Ucraina, quando dava la colpa alla NATO (alla UE e agli USA) di averla causata provocando la Russia.
Poveretto questo demenziale individuo, perfido e bugiardo.


Francesco in Sud Sudan: "Prego perché scorrano fiumi di pace, voltate pagina: c'è bisogno di pace"

Antonio Bonanata
3 febbraio 2023

https://www.rainews.it/articoli/2023/02 ... 96e54.html

Il 40esimo viaggio apostolico
Seconda parte del viaggio in Africa. Qui l'incontro con l'arcivescovo di Canterbury e il moderatore dell'Assemblea generale della Chiesa scozzese. Il Paese, nato dopo 30 anni di guerra civile, vede convivere decine di gruppi etnici e religiosi
Francesco in Sud Sudan: "Prego perché scorrano fiumi di pace, voltate pagina: c'è bisogno di pace"

“Qui da pellegrino prego perché in questo caro Paese, dono del Nilo, scorrano fiumi di pace; gli abitanti del Sud Sudan, terra della grande abbondanza, vedano sbocciare la riconciliazione e germogliare la prosperità”. Sono le prime parole di Papa Francesco a Juba. Le ha scritte sul libro d'onore del Palazzo presidenziale dove ha tenuto un discorso alle autorità del Paese, tra cui il presidente Salva Kir, che ha ringraziato il Pontefice e ha definito la sua visita “una pietra miliare” nella storia del Paese.

“È tempo di voltare pagina, è il tempo dell'impegno per una trasformazione urgente e necessaria. Il processo di pace e di riconciliazione domanda un nuovo sussulto” dice poi ai leader del Paese. Il Pontefice si appella affinché “vengano coinvolte maggiormente, anche nei processi politici e decisionali, pure le donne, le madri che sanno come si genera e si custodisce la vita. Nei loro riguardi ci sia rispetto, perché chi commette violenza contro una donna la commette contro Dio, che da una donna ha preso la carne”.

Il Pontefice chiede con forza che venga “arginato l'arrivo di armi che, nonostante i divieti, continuano a giungere in tanti Paesi della zona e anche in Sud Sudan: qui c'è bisogno di molte cose, ma non certo di ulteriori strumenti di morte”. Quindi è necessario, nel giovane Paese africano, “lo sviluppo di adeguate politiche sanitarie, infrastrutture vitali, l'alfabetismo e l'istruzione, unica via perché i figli di questa terra prendano in mano il loro futuro. Essi, come tutti i bambini di questo continente e del mondo, hanno il diritto di crescere tenendo in mano quaderni e giocattoli, non strumenti di lavoro e armi”.

È cominciata all'insegna degli appelli più forti la seconda parte del 40esimo viaggio apostolico di Papa Francesco, il quinto in Africa. La parte, se si vuole, più ecumenica e improntata ad uno spirito di condivisione e avvicinamento interreligioso. Qui infatti il Pontefice giunge con l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, massima autorità della Chiesa anglicana, e il pastore Iain Greenshields, moderatore dell’Assemblea generale della Chiesa di Scozia, in occasione di un incontro a lungo progettato e fortemente voluto da Bergoglio. Uno speciale “incontro a tre” tra comunità religiose diverse ma non incompatibili, che intende mettere al centro di un contesto diviso e insanguinato da decenni di lotte e violenze un anelito di pace.

Diverse Chiese e comunità ecclesiali archiviano così antiche rivalità confessionali e operano fianco a fianco nel cercare di spegnere i conflitti e sostenere la costruzione di una convivenza civile pacifica, orientata al bene comune: con questa fondamentale aspirazione, si compie lo speciale vertice spirituale tra Bergoglio, Welby e Greenshields.

Uno Stato “giovane”, frutto di una sanguinosa guerra civile

Nato nel 2011 tra due guerre civili atroci, il Sud Sudan raggiunge l'indipendenza dopo quasi 30 anni di guerra. La capitale diventa Juba, dove convivono attualmente almeno 50 gruppi etnici. Nel 2005 il Comprehensive Peace Agreement (CPA) tra le regioni del sud e il governo di Khartoum ha aperto la strada all'indipendenza del Paese. Da quando si è staccato dal Sudan, la maggior parte dei cattolici che erano concentrati a Juba e nelle aree circostanti ha scelto di rimanere in Sud Sudan.

Le donne hanno una media di 5-6 figli e l'aspettativa di vita non raggiunge i 60 anni di età. Più della metà della popolazione è a rischio fame e vive nella più totale insicurezza alimentare. Circa due milioni di bambini soffrono di denutrizione.

L'instabilità politica, economica e sociale che vive il Paese è dovuta soprattutto al lungo conflitto tra il presidente Salva Kiir, dell'etnia più numerosa dei dinka, e il suo vice Riek Machar, di etnia nuer. I due nemici mortali nel 2019 si sono recati in Vaticano e Papa Francesco baciò loro i piedi, implorando la pace.

Nonostante in Sud Sudan solo il 4-5% della popolazione abbia l'elettricità e l'accesso all'acqua sia quasi inesistente, il Paese è molto ricco di risorse naturali, compresi oro, diamanti, petrolio. Risorse rese inattingibili a causa della situazione di insicurezza e dell'instabilità politica e sociale. Prima della nascita del Sud Sudan come Stato indipendente, il conflitto in Darfur, regione situata nella parte occidentale del Paese, ha complicato la situazione.

Esploso ufficialmente nel 2003 e dichiarato concluso nel 2009, la guerra ha causato almeno 400mila morti e circa due milioni di sfollati. Nonostante un accordo di pace firmato in Etiopia nel 2018 e mai rispettato, ad oggi permangono forti tensioni etniche.

In Sud Sudan, dallo scorso mese di agosto, sono ripresi i combattimenti tra milizie rivali. Per la fine del 2024, nel Paese sono previste elezioni più volte rimandate.
Il Sud Sudan, quasi il 40% di cattolici in una terra di fede e missionari comboniani

E non è un caso che le tre autorità religiose abbiano scelto proprio il Sud Sudan come sede del loro summit. Una terra dove “l’annuncio cristiano”, ha ricordato padre Christopher Hartley, missionario spagnolo della diocesi di Toledo, ora a Nandi, diocesi di Tombura-Yambio “era arrivato nell'attuale regione del Sud Sudan già nel VI secolo”. In molte regioni che ora fanno parte del Sud Sudan l'attività missionaria assume rilevanza e continuità a partire dagli anni Settanta del secolo scorso.

Su una popolazione di oltre 16 milioni di persone, circa 6.2 milioni di sud-sudanesi (il 37.2% della popolazione nazionale) sono cattolici. “Santa Giuseppina Bakhita, prima suora comboniana africana nata intorno al 1845 sui Monti Nuba, e san Daniele Comboni sono i due grandi martiri venerati dai sud-sudanesi”. Nonostante la loro espulsione nel 1964 e la sanguinosa guerra nel 1983, l'opera dei missionari comboniani non è mai venuta meno.

Le altre comunità ecclesiali e i musulmani (una minoranza)

Altre Chiese e comunità ecclesiali non cattoliche giungono nei territori del Sudan a partire dal 1899. Gli anglicani, attraverso la Church Missionary Society, già nei primi anni di presenza nella regione, grazie alla predicazione e all'impegno missionario, amministrano il battesimo a decine di migliaia di abitanti. Attualmente, la Chiesa episcopale del Sudan, che fa parte della Comunione anglicana, rappresenta dal punto di vista numerico la seconda Chiesa sia in Sudan che in Sud Sudan, dopo la Chiesa cattolica. La United Presbyterian Church, che fa parte della Comunione mondiale delle Chiese riformate, ha iniziato la sua opera in Sudan nel 1900. Poi, nel corso del XX secolo, i missionari di molte altre comunità ecclesiali di impronta riformata e evangelica, come la Sudanese Church of Christ, hanno raggiunto il Paese, concentrando le loro attività nel sud.

Tra le altre comunità di fede presenti nel Paese, i musulmani sono una minoranza.

Una realtà, quindi, composita, variegata, dove però la compresenza di fedi, credi e chiese – nonostante le guerre e le lotte politiche perpetratesi negli anni – non ha fatto venir meno lo spirito comunitario con cui le varie comunità hanno convissuto per decenni. Ecco il senso del viaggio “autenticamente ecumenico” immaginato da Papa Francesco con Justin Welby e Iain Greenshields.
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Le demenziali menzogne sull'Africa del vittimismo africano

Messaggioda Berto » dom feb 12, 2023 10:45 pm

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Le demenziali menzogne sull'Africa del vittimismo africano

Messaggioda Berto » dom feb 12, 2023 10:46 pm

Il Papa: non divoriamo più le risorse naturali, impariamo dagli indigeni
10 febbraio 2023
https://www.avvenire.it/papa/pagine/nuo ... o-il-mondo

Francesco incontra i partecipanti al sesto incontro globale del Forum dei popoli indigeni: impariamo ad ascoltare di più le popolazioni native per "imparare dal loro stile di vita”

Mai ignorare gli indigeni - quello sarebbe un “grave errore”, oltre che “un’ingiustizia” ma, anzi, imparare da loro, dalla loro cultura e dalle loro tradizioni, soprattutto per la salvaguardia della terra. Come nei viaggi in America latina e come nel recente viaggio in Canada, papa Francesco lancia un grido al mondo in favore delle popolazioni autoctone, emarginate o addirittura contrastate nelle loro stesse terre, ferite da estrattivismo e deforestazione. Gli indigeni, afferma, sono invece il modello da seguire per combattere la “crisi sociale e ambientale senza precedenti” che il mondo vive oggi.

Nuovo appello del Papa ai governi, affinché "riconoscano i popoli indigeni di tutto il mondo, con le loro culture, lingue, tradizioni e spiritualità, e rispettino la loro dignità e i loro diritti a partire dalla consapevolezza che la ricchezza della nostra grande famiglia umana consiste proprio nella sua diversità". "Ignorare i popoli indigeni nella salvaguardia della terra è un grande errore, per non dire una grande ingiustizia", ha osservato il Papa ricevendo in udienza i partecipanti al 6º incontro mondiale del Forum dei Popoli Indigeni, promosso dal Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (Ifad).

"Assistiamo a una crisi sociale e ambientale senza precedenti - ha ribadito il Pontefice -. Se davvero vogliamo prenderci cura della nostra casa comune e migliorare il pianeta in cui viviamo, sono imprescindibili cambiamenti profondi negli stili di vita e nei modelli di produzione e di consumo".

“Il contributo dei popoli indigeni è fondamentale nella lotta contro il cambiamento climatico”, ha affermato il Papa, auspicando “un processo di riconversione delle strutture di potere consolidate che regolano la società e la cultura occidentale e, nello stesso tempo, trasformano le relazioni storiche marcate dal colonialismo, dall’esclusione e dalla discriminazione, dando luogo ad un dialogo rinnovato sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta”.

“Il cambiamento climatico ha un impatto fisico, psicologico, culturale su ciascuno di noi”, ha aggiunto a braccio. Infine, l’appello ai governi, affinché “riconoscano i popoli indigeni di tutto il mondo, con le loro culture, lingue, tradizioni e spiritualità, e rispettino la loro dignità e i loro diritti a partire dalla consapevolezza che la ricchezza della nostra grande famiglia umana consiste proprio nella sua diversità”. “Ignorare i popoli indigeni nella salvaguardia della terra è un grande errore, per non dire una grande ingiustizia”, ha concluso il Papa e elogiando a braccio il “buen vivir” e l’armonia dei popoli indigeni: “al contrario, valorizzare il loro patrimonio culturale e le loro tecniche ancestrali aiuterà a comprendere le strade per una migliore gestione ambientale”.


Gino Quarelo
Che imbecille, impariamo dagli indigeni!
Bergoglio la versione maschile e religiosa dell'atea sinistrata Boldrini. Che coppia orrenda politicamente corretta!
Perché noi europei occidentali ed euroamericani non siamo forse indigeni e migranti indigeni che dall'Europa hanno colonizzato la poco abitata America del Nord rendendola uno dei paesi più civili e progrediti della terra?
Perché non lo ricoverano in qualche istituto per anziani in Africa?
Che Papa orrendo!
Ma cosa mai dovremmo imparare dagli indigeni primitivi?
Ma questo Bergoglio non sa che se dovessimo vivere come questi indigeni ptimitivi, no indigeni evoluti dell'Italia dovrebbe far morire almeno 55 milioni di abitanti e lo stesso dicasi per ogni paese della terra che dovrebbe ridurre la sua popolazione di almeno il 90%?




SUDAFRICA SENZA ELETTRICITÀ: ORA È REALMENTE UN PAESE AFRICANO
15 febbraio 2023

https://www.facebook.com/groups/1059950 ... 0116914159è

Il Presidente sudafricano Cyril Ramaposa ha dichiarato lo “Stato di calamità” in seguito alla grave crisi energetica del Paese, che dura dallo scorso anno, durante il discorso nazionale ai parlamentari a Città del Capo il 9 febbraio 2023.
La crisi energetica in Sudafrica non è relativamente nuova e non si è verificata da un giorno all’altro. Si protrae da quando è finita l’apartheid e il potere è passato ai neri. Da allora è stato impossibile ammodernare la rete esistente e l’invecchiamento delle centrali elettriche, gestite dai neri, non ricevono più la necessaria manutenzione.
L’anno scorso, la popolazione sudafricana ha sperimentato 200 ore di interruzione del carico, mentre quest’anno sta sperimentando la stessa interruzione del carico ogni singolo giorno. Per questo la minoranza bianca nelle fattorie ha elettricità autonoma: quando la tua società diventa africana, è necessario. Per chi abita nelle megalopoli, auguri.
Eskom è l’unica società di produzione di energia elettrica in Sudafrica e questa organizzazione è indebitata fino al collo per 26 miliardi di dollari o 465 di rand. Il motivo alla base delle condizioni di questo ente statale è la corruzione dilagante, il saccheggio e la scarsa manutenzione delle infrastrutture.
Questa organizzazione è una delle più corrotte del Paese, ma il governo non sta cercando di sbarazzarsene perché fornisce posti di lavoro in due settori: elettricità e carbone, ed è la principale fonte di burocrazia per i leader politici neri della nazione.
Il Sudafrica era la nazione più ricca ed esente da corruzione del continente africano quando comandavano i bianchi, ma la sua posizione è scesa dopo la fine dell’Apartheid: ovvio, il Sudafrica sta diventando un normale paese africano.
Ciò sta avendo un impatto negativo sull’economia del Paese; la crescita del PIL sta diminuendo anno dopo anno e il dato sta peggiorando ulteriormente in questo periodo di crisi energetica. Nel 2018, il tasso di crescita del Paese è stato solo dell’1,52%, poi dello 0,3% nel 2019, quindi negativo del 6,34% nel 2020 a causa del covid, poi del 4,91% nel 2020 e del 3,5% nel 2022, mentre altre economie in via di sviluppo sono cresciute in modo significativo.
L’energia elettrica è tutto nell’era moderna, e una società senza elettricità adeguata significa che il Paese vive ancora nell’era medievale. Senza elettricità, la gente non può avere nulla. Questo distruggerà ogni attività commerciale della nazione e aggiungerà sempre più giovani disoccupati in una società già fatiscente.
Il tasso di disoccupazione del Sudafrica è ora del 35%, secondo il Fondo Monetario Internazionale, e aumenta di giorno in giorno. Il potere ha un impatto anche sull’assistenza sanitaria del Paese: secondo il Lacent Healthcare and Quality Index, l’assistenza sanitaria sudafricana è al 119° posto su 195 Paesi: parliamo del Paese dove Barnard fece il primo trapianto di cuore, quando c’era l’apartheid. Con l’aumento del numero di malati, il Sudafrica sta diventando un Paese pieno di malattie. L’HIV è endemica.
Anche il tasso di povertà sta aumentando in modo esponenziale a causa della perdita di posti di lavoro. Il 40% dei sudafricani vive ancora sotto la soglia di povertà. Il problema della povertà è stato in gran parte attribuito all’alto tasso di disoccupazione della popolazione del Paese.
A causa dell’aumento del tasso di disoccupazione, la popolazione sudafricana vive nell’insicurezza della corruzione e di diversi tipi di crimini; i più comuni sono lo stupro, il furto d’auto, il furto e l’omicidio.
Anche il razzismo è in aumento nella società sudafricana contro gli immigrati. Gli attacchi xenofobi hanno ucciso oltre 300 neri non sudafricani nello Stato negli ultimi anni.
Quando il Paese più industrializzato e ricco di risorse dell’Africa si trova ad affrontare una crisi energetica e chiedere aiuto all’India, significa che sta diventando un vero paese africano. La transizione razziale è completata.
Lo stesso accadrà nei nostri Paesi: perché se importi l’Africa, diventi Africa.



SUDAFRICA. Stretto dalla mancanza di elettricità, potrebbe rivolgersi all’India

Maddalena Ingrao
14 febbraio 2023
https://www.agcnews.eu/sudafrica-strett ... -allindia/

Il Presidente sudafricano Cyril Ramaposa ha dichiarato lo “Stato di calamità” in seguito alla grave crisi energetica del Paese, che dura dallo scorso anno, durante il discorso nazionale ai parlamentari a Città del Capo il 9 febbraio 2023.

La crisi energetica in Sudafrica non è relativamente nuova e non si è verificata da un giorno all’altro. Si protrae da 15 anni a causa dell’irremovibile rifiuto del governo di ammodernare la rete esistente e l’invecchiamento delle centrali elettriche, riporta Geopolitize.

L’anno scorso, la popolazione sudamericana ha sperimentato 200 ore di interruzione del carico, mentre quest’anno la popolazione sudafricana sta sperimentando la stessa interruzione del carico ogni singolo giorno.

Eskom è l’unica società di produzione di energia elettrica in Sudafrica e questa organizzazione è indebitata fino al collo per 26 miliardi di dollari o 465 di rand. Il motivo alla base delle condizioni di questo ente statale è la corruzione dilagante, il saccheggio e la scarsa manutenzione delle infrastrutture.

Questa organizzazione è una delle più corrotte del Paese, ma il governo non sta cercando di sbarazzarsene perché fornisce posti di lavoro in due settori: elettricità e carbone, ed è la principale fonte di burocrazia per i leader politici della nazione.

Il Sudafrica era la nazione più esente da corruzione del continente africano, ma la sua posizione è scesa negli ultimi anni a causa dell’aumento della corruzione politica e della cattiva gestione dei settori pubblici. Tuttavia, di recente la classifica è leggermente migliorata grazie alla repressione degli scandali di corruzione politica da parte dei governi. La classifica del Paese era 72 nel 2021, ma è migliorata di due posizioni, passando a 70 nel 2022.

Gli scandali di corruzione dell’ex presidente Jacob Juma hanno scosso la struttura politica e l’economia del Paese. Le agenzie hanno scoperto una cattiva gestione dei fondi pubblici durante il suo mandato ed egli è stato condannato al carcere per il peccaminoso saccheggio delle ricchezze del Paese.

Anche sull’attuale Presidente, Cyril Ramaposa, la commissione permanente sui conti pubblici ha avviato un’indagine nei suoi confronti.

Di conseguenza, il Sudafrica è stato in cattive mani negli ultimi 8-10 anni, motivo per cui la corruzione è profondamente radicata nella politica sudafricana. I politici stanno saccheggiando indiscriminatamente le ricchezze del Paese, il che ha portato a questa grave crisi dopo il ritorno dell’economia sudafricana dai dolorosi eventi della pandemia di Covid.

Ciò sta avendo un impatto negativo sull’economia del Paese; la crescita del PIL sta diminuendo anno dopo anno e il dato sta peggiorando ulteriormente in questo periodo di crisi energetica. Nel 2018, il tasso di crescita del Paese è stato solo dell’1,52%, poi dello 0,3% nel 2019, quindi negativo del 6,34% nel 2020 a causa del covid, poi del 4,91% nel 2020 e del 3,5% nel 2022, mentre altre economie in via di sviluppo sono cresciute in modo significativo.

L’energia elettrica è tutto nell’era moderna, e una società senza elettricità adeguata significa che il Paese vive ancora nell’era medievale. Senza elettricità, la gente non può avere nulla. Questo distruggerà ogni attività commerciale della nazione e aggiungerà sempre più giovani disoccupati in una società già fatiscente che creerà sempre più risentimento nei confronti del governo e questo è il motivo per cui le proteste sono un fenomeno quotidiano nella vita della popolazione sudafricana.

Il tasso di disoccupazione del Sudafrica è ora del 35%, secondo il Fondo Monetario Internazionale, e aumenta di giorno in giorno. Il potere ha un impatto anche sull’assistenza sanitaria del Paese: secondo il Lacent Healthcare and Quality Index, l’assistenza sanitaria sudafricana è al 119° posto su 195 Paesi. Con l’aumento del numero di malati, il Sudafrica sta diventando un Paese pieno di malattie. L’HIV era una malattia comune nella società sudafricana ed è stata ampiamente controllata, ma la disoccupazione potrebbe far aumentare il numero.

Anche il tasso di povertà sta aumentando in modo esponenziale a causa della perdita di posti di lavoro. Il 40% dei sudafricani vive ancora sotto la soglia di povertà. Il problema della povertà è stato in gran parte attribuito all’alto tasso di disoccupazione della popolazione del Paese.

A causa dell’aumento del tasso di disoccupazione, la popolazione sudafricana vive nell’insicurezza della corruzione e di diversi tipi di crimini; i più comuni sono lo stupro, il furto d’auto, il furto e l’omicidio.

Anche il razzismo è in aumento nella società sudafricana, che un tempo divideva la nazione sulla base del colore della pelle. Il grande leader di massa, Nelson Mandela, è emerso dal movimento anti-apartheid e oggi è in aumento a causa della disoccupazione. Gli attacchi xenofobi hanno ucciso oltre 300 neri nello Stato negli ultimi anni. Il razzismo sta aumentando le disuguaglianze e dividendo la società sudafricana in bianchi e neri, ricchi e poveri.

Quando il Paese più industrializzato e ricco di risorse dell’Africa si trova ad affrontare una crisi energetica, deve riconsiderare la propria politica: modificare le leggi che regolano l’economia e l’ordine pubblico; privatizzare immediatamente la società di produzione e distribuzione di energia elettrica Eskom; implementare le infrastrutture per gli imprenditori e gli investimenti esteri diretti nel Paese; utilizzare le risorse in modo corretto ed efficiente per aumentare le entrate dello Stato; promuovere lo sviluppo delle competenze per ridurre il tasso di disoccupazione e migliorare le infrastrutture sanitarie.

Il Sudafrica deve muoversi rapidamente e sradicare la corruzione dall’infrastruttura politica del Paese. A causa della corruzione dilagante, le due enormi centrali elettriche a carbone del Sudafrica, Kasile e Medupi, non funzionano ancora alla massima efficienza. Queste due centrali sono state approvate negli anni 2000, ma hanno subito ritardi, sforamenti dei costi e guasti tecnici.

Il Sudafrica è ancora in fase di sviluppo e fa parte dei Brics, una delle organizzazioni più potenti al mondo, per cui deve chiedere aiuto agli altri partner dei Brics. Tra i cui membri, c’è l’India. L’economia indiana sta crescendo a un ritmo eccezionale e solo l’India può aiutare il Sudafrica in questo contesto geopolitico volatile.

Le relazioni storiche tra India e Sudafrica risalgono ai tempi del Mahatma Gandhi, che esercitò la professione di avvocato in Sudafrica e lottò per il popolo sudafricano fino a quando lasciò il Paese nel 1915.

L’India è una delle nazioni tecnologicamente più avanzate del pianeta e sta anche sfruttando l’energia verde da diverse fonti; l’India è il terzo produttore di energia verde al mondo.

Se il Sudafrica è disposto ad abbandonare il carbone convenzionale, l’India potrebbe aiutarlo a produrre energia verde in modo efficiente, risolvendo così il deficit delle partite correnti del Paese nel prossimo futuro. Il Sudafrica deve promuovere i veicoli agli ioni di litio per compensare la crisi della bilancia dei pagamenti del Paese e l’India è il maestro di questa tecnologia. Fin dalla sua nascita, le aziende indiane producono questi veicoli.

Infine, il Sudafrica potrebbe collegare la propria valuta a quella indiana, già presente in 35 Paesi, in modo da risolvere la crisi delle riserve valutarie, almeno per il momento.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Le demenziali menzogne sull'Africa del vittimismo africano

Messaggioda Berto » dom feb 12, 2023 10:46 pm

Nigeria, il voto nel Paese più ricco e violento dell'Africa
Anna Bono
25 febbraio 2023

https://lanuovabq.it/it/nigeria-il-voto ... dellafrica

Nigeria al voto. Il paese, con i suoi 214 milioni di abitanti è il più popoloso dell'Africa. Ed è anche diventato il più ricco, grazie ai suoi giacimenti di petrolio. Però più della metà della sua popolazione vive in condizioni di povertà estrema e l'analfabetismo è dilagante. Questa nazione ricca di contrasti è lacerata da violenza religiosa fra un Nord islamico e un Sud cristiano. Boko Haram, sconfitto, ha saputo riciclarsi nello Stato Islamico (Iswap). Ma altre forme di criminalità si diffondono anche per ragioni non religiose. Tutti i candidati promettono legge, ordine e lotta alla corruzione. Ma quanti di loro sono sinceri?

Nigeria, campagna elettorale

Sabato 25 febbraio si vota in Nigeria per eleggere il capo dello Stato e i membri del Parlamento. Come consuetudine, dal giorno prima è stata disposta la chiusura delle frontiere. Nei giorni precedenti sono state prese misure di sicurezza straordinarie per assicurare che il voto sia corretto e libero e che la giornata trascorra senza incidenti. Direttive severe sono state impartite anche per garantire l’ordine durante lo spoglio delle schede e all’annuncio ufficiale dei risultati. Nei sondaggi nessuno i tre candidati favoriti ha distanziato gli avversari e si ritiene quindi che queste siano le elezioni dall’esito più incerto dal 1999, l’anno che ha segnato la fine dell’epoca delle dittature. Se la vittoria non sarà netta, si temono contestazioni e soprattutto reazioni violente da parte dei sostenitori dei candidati sconfitti.

La Nigeria arriva all’appuntamento con le urne in condizioni mai così difficili. È il paese africano con più abitanti: 214 milioni (un africano su sette è nigeriano). È il primo produttore africano di petrolio, che ha incominciato ad estrarre negli anni Sessanta del secolo scorso, e, con un Prodotto interno lordo di 504 miliardi di dollari, è la prima economia del continente (precede Egitto e Sudafrica). Tuttavia il 62,9% dei nigeriani – quasi 133 milioni – vive in condizioni di povertà: ha a disposizione non più di 2,15 dollari al giorno e non ha sufficiente accesso alle infrastrutture e ai servizi di base. Il 43% della popolazione non dispone di luce elettrica, un record mondiale. Di tutti i bambini del mondo che non vanno a scuola, uno su cinque è nigeriano: quasi il 40% dei bambini di età compresa tra 5 e 11 anni, con percentuali più elevate nel nord.

Il Prodotto interno lordo è aumentato del 3,4% nel 2021 e del 3,1% nel 2022, tuttavia i principali indicatori economici sono negativi. Nel 2022 l’inflazione è stata del 19% con incrementi ancora superiori per quel che riguarda i generi alimentari: olio, carne, latte, pomodori, pane, uova e altri prodotti di uso comune hanno registrato aumenti che vanno dal 26 al 41%. La disoccupazione nel 2022 ha raggiunto il 33% e nei giovani tra 15 e 24 anni supera il 50%. Il debito pubblico è salito a 102 miliardi di dollari. C’è il rischio di default, come è già successo al Ghana e allo Zambia, perché l’ammontare degli interessi in alcuni mesi del 2022 ha superato le entrate del paese. La produzione di petrolio diminuisce da oltre dieci anni: dai 29 milioni di barili estratti al giorno nel 2011 è scesa a 14 milioni. Quantità enormi di greggio vengono rubate. Nel primo trimestre del 2022, ad esempio, solo 132 dei 141 milioni di barili estratti ha raggiunto i terminali da cui il petrolio viene esportato. Nove milioni di barili sono stati rubati. Inoltre la produzione risente degli insufficienti investimenti nel settore e dei frequenti atti di sabotaggio delle strutture.

Tutti i candidati presidenziali hanno illustrato i loro programmi economici, i loro piani di lotta contro la povertà, ma è stato soprattutto il problema della sicurezza il protagonista della campagna elettorale. Il passaggio alla democrazia all’inizio del secolo ha coinciso con l’acuirsi in maniera drammatica delle divisioni che caratterizzano la Nigeria: metà, il nord, musulmano, e metà, il sud, cristiano; nel nord povertà, al sud immensi giacimenti di petrolio, ricchezza e al tempo stesso maledizione del paese; al nord etnie di pastori, al sud etnie di agricoltori. Nel 2002 nel nord est del paese si è costituito Boko Haram, uno dei gruppi jihadisti più temuti in Africa occidentale, affiliato ad al Qaeda. Quando l’attuale presidente Muhammadu Buhari è stato eletto per la prima volta nel 2015 ha promesso di combattere Boko Haram e l’anno successivo ha annunciato di averlo “tecnicamente sconfitto”. In effetti da allora il suo raggio d’azione si è ridotto, anche se soprattutto grazie all’intervento di una forza militare regionale. Ma ancora costituisce una minaccia e inoltre una parte dei suoi combattenti si è organizzata in un nuovo gruppo armato, l’Iswap, affiliato all’Isis e attivo in tutta la regione del lago Chad. Entrambi continuano a compiere attentati e attacchi per mettere in fuga i cristiani e per imporre il rispetto rigoroso della shari’a, la legge coranica che i 12 Stati settentrionali a maggioranza islamica hanno adottato nel 2000, ma che secondo i jihadisti non è applicata radicalmente.

In tutto il resto del paese la violenza domina quasi incontrastata. La situazione si è deteriorata in gran parte dei 36 Stati di cui si compone la federazione. Nel nord ovest da due anni ai già tanti problemi di ordine pubblico si è aggiunto quello, del tutto fuori controllo, dei rapimenti a scopo di estorsione. Bande armate seminano il terrore tra la popolazione perché, fenomeno nuovo, non prendono più di mira solo persone benestanti per chiedere riscatti milionari, bensì gente comune, in grado di pagare poche decine di migliaia di dollari e anche solo alcune migliaia o centinaia. Nel marzo del 2022 uomini armati hanno attaccato addirittura il treno che collega la capitale federale, Abuja, a Kaduna, la capitale dell’omonimo stato. Hanno rapito un numero imprecisato di persone, forse più di cento, e ne hanno uccise nove. I 18 agenti a guardia del convoglio hanno tentato di intervenire, ma, visto il numero degli aggressori, si sono dati alla fuga.

Nella Middle Belt, i territori centrali del paese in cui sono costrette a convivere le popolazioni musulmane del nord e quelle di fede cristiana del sud, gli scontri armati sono sempre più frequenti e cruenti, inaspriti dal fatto che a dividere e istigare all’odio si assommano interessi economici – il controllo di pascoli e terreni agricoli – e intolleranza religiosa. Gli stati del sud dove si produce il petrolio, sono relativamente più sicuri anche se la delinquenza comune è molto diffusa e sono numerosi, anche lì, i sequestri di persona. Però nel sud est da qualche anno sono rinate le istanze separatiste che tra il 1967 e il 1970 hanno dato vita a una delle guerre civili più sanguinose dell’epoca post coloniale.

Soprattutto, il male che si sarebbe dovuto sconfiggere è la corruzione. I dittatori del secolo scorso avevano spogliato il paese, attingendo senza ritegno alle casse statali. A distanza di decenni, ancora si scoprono in Svizzera, Stati Uniti e altri paesi conti bancari milionari intestati a dittatori nigeriani ormai defunti: quelli di Sani Abacha, ad esempio, autore di un golpe nel 1993 e che in soli cinque anni aveva portato all’estero miliardi di dollari. Alla morte del marito, deceduto improvvisamente nel 1998, la moglie Maryam era stata arrestata mentre tentava di lasciare il paese portando con sé 38 bauli pieni di denaro e di oggetti di valore. Oggi, dopo che molti dei miliardi del marito sono stati restituiti al paese (e chissà che fine hanno fatto!), ancora dispone di un patrimonio di circa 38 milioni di dollari.

Ma i capi di Stato, i parlamentari, i ministri, i governatori degli Stati federali, eletti secondo regole democratiche, che si sono avvicendati in questi 24 anni non sono stati da meno e, con loro, le alte cariche di esercito, polizia e magistratura. Hanno promesso, tutti, di combattere la corruzione e invece molti di loro l’hanno alimentata, ne hanno approfittato e hanno lasciato che proliferasse in tutto il paese, in tutti i settori economici, politici e sociali e a tutti i livelli, fino ad assurgere a “stile di vita” (“a way of life”, dicono i nigeriani).

In un comunicato, i vescovi della Conferenza episcopale cattolica della Nigeria hanno rivolto un appello ai nigeriani affinché “rifiutino il male, maggiore o minore, e scelgano saggiamente i candidati buoni e capaci a tutti i livelli. I nostri voti sono preziosi – si legge nel comunicato – dobbiamo usarli bene. Incoraggiamo tutti i cittadini idonei a uscire in massa per votare leader timorati di Dio, onesti, brillanti e trasparenti, per una Nigeria migliore”. Non tutti i nigeriani però ritengono che i candidati buoni, da votare, siano quelli onesti, brillanti e trasparenti, incorruttibili.





Come funziona il traffico di armi in Africa e perché la colpa è degli africani
Anna Bono
1 marzo 2023

https://www.nicolaporro.it/atlanticoquo ... -africani/

In Africa si contrabbandano enormi quantità di armi che riforniscono movimenti armati antigovernativi, organizzazioni criminali, gruppi jihadisti, bande di delinquenti. In parte provengono anche da altri continenti, ma, come da tempo è stato documentato, la principale fonte di rifornimento sono gli Stati africani stessi.

Le vie del contrabbando

Questo è particolarmente vero nel caso dell’Africa occidentale, come rivela il rapporto pubblicato alla fine del 2022 dall’Ufficio dell’Onu contro la droga e il crimine (Unodc), intitolato “Il traffico di armi da fuoco nel Sahel”, parte di una più ampia indagine sulla criminalità organizzata transnazionale nel Sahel che l’agenzia Onu sta conducendo.

Le armi, spiega il rapporto, per lo più vengono trasportate in piccole quantità, percorrendo distanze anche notevoli e superando più di un confine nazionale. Molti degli “hub” del commercio illegale si trovano in piccole città e in villaggi situati in punti strategici di territori caratterizzati da scarsa e “distratta” presenza dello stato, così come lo sono le rotte seguite dai convogli dei contrabbandieri e i punti di frontiera attraverso i quali transitano.

In assenza dello stato, sono territori alla mercé di bande e gruppi armati, molti dei quali impongono dazi lungo le piste che solcano il deserto del Sahara ricavandone cospicui introiti. Oltre all’assenza quasi totale di presidi governativi, anche la composizione etnica della popolazione favorisce notevolmente il contrabbando rendendo più facile il trasporto delle armi in diversi stati.

È il caso delle regioni dove vivono i Fulani, una etnia tradizionalmente dedita alla pastorizia, in parte transumante, che è presente in almeno 15 Paesi.

Gli acquirenti

Le armi più moderne e di fabbricazione industriale sono le più costose, spiega ancora il rapporto, e per questo sono soprattutto i gruppi jihadisti affiliati ad al Qaeda e all’Isis a disporne, mentre altre milizie, ad esempio quelle dei pastori costituite, in tutto il continente non solo nel Sahel, per razziare bestiame e difendere pascoli e sorgenti, si orientano su armi più economiche.

Quelle fabbricate artigianalmente in Africa occidentale e centrale e quelle residue di grandi quantitativi importati da Paesi in guerra, come nel caso della Sierra Leone e della Liberia, teatro di due lunghi conflitti civili combattuti rispettivamente dal 1991 al 2002 e dal 1989 al 2003.
Le armi

Tra le armi più richieste ci sono vari modelli di AK perché sono fucili resistenti e che spesso possono essere usati anche per decenni. Gli AK di nuova fabbricazione, più costosi, sono reperibili in quantità, insieme ad altre armi moderne, al mercato nero di Gao, Timbuktu e Menaka, tre città del Mali settentrionale dove hanno le loro basi molti dei gruppi jihadisti più attivi.

Il supermercato libico

In gran parte provengono dalla Libia, il Paese da cui si sono riversate armi in tutto il continente a partire dal 2011, anno della destituzione e uccisione del presidente Muhammar Gheddafi. Molto del suo immenso arsenale è finito nel Sahel, nel Maghreb, nel Corno d’Africa e ci sono prove di materiale bellico libico importato fin nella Striscia di Gaza e in Siria.

Dalla Libia, si diceva all’epoca, dopo la caduta del colonnello Gheddafi usciranno abbastanza armi da armare l’intero continente africano. Il Paese era stato definito il “supermercato mondiale del commercio illegale di armi”. “La primavera araba porterà a un’estate di follia nella regione”, aveva previsto l’allora presidente del Mali, Amadou Toumani Touré, e la storia gli ha dato ragione.

È anche grazie alle armi di origine libica, contrabbandate specie tra il 2011 e il 2013, che centinaia di gruppi armati e di organizzazioni criminali hanno potuto intensificare ed estendere le attività.

Le fonti

Una delle fonti di approvvigionamento di armi per il traffico transnazionale evidenziate dal rapporto Unodc sono le milizie popolari di autodifesa. Ormai presenti in molti stati, queste milizie nascono spontaneamente (Repubblica Centrafricana, Kenya, Repubblica democratica del Congo…) oppure sono organizzate e armate dai governi stessi (Etiopia, Nigeria, Burkina Faso…) per rimediare all’inefficienza, e peggio, delle forze dell’ordine che, per mancanza di direttive, mezzi e motivazione, non proteggono i civili.

Vendere al mercato nero e contrabbandare le armi in loro possesso è facile perché, anche nel caso siano state registrate, in breve tempo se ne perde traccia.

In assoluto, però, le principali fonti delle armi contrabbandate sono gli eserciti nazionali: sottratte ai soldati in battaglia, rubate negli arsenali, vendute – e sono sicuramente i quantitativi maggiori – da militari corrotti.

La corruzione dilagante

La cosa non sorprende chi segue le vicende del continente africano. La corruzione dilaga anche nel settore della difesa. Clamoroso è il caso della Nigeria, dove da anni spariscono armi e attrezzature militari per milioni di dollari, a volte stornate prima ancora di raggiungere i depositi ed essere consegnate ai soldati

E intanto la criminalità organizzata agisce quasi del tutto incontrastata e due gruppi jihadisti più volte dati per praticamente sconfitti, Boko Haram e Iswap, resistono nelle loro roccaforti del nord est.

La corruzione, a causa della quale tante armi spariscono dagli arsenali ed estesi territori e lunghi tratti di confine sono privi di controllo, è un problema di cui tutti sono consapevoli, un fenomeno vistoso che tuttavia si continua a minimizzare o a ignorare.

Ad accennarvi, in occasione della presentazione del rapporto, è stato Leonardo Lara, dirigente della prevenzione della criminalità e della giustizia penale all’Unodc. La corruzione, ha ammonito chiamandola “il grande elefante nella stanza”, “è sicuramente un elemento che deve essere preso in considerazione quando si parla dei responsabili della diversione delle armi”.

Raddoppio della spesa

A proposito di responsabili e di armi, merita segnalare un altro documento, pubblicato il 18 febbraio da Oxfam, la confederazione internazionale di ong impegnata nella lotta contro la povertà. È un rapporto che riguarda le spese militari in Africa, dal quale risulta che nel 2022 i governi africani hanno raddoppiato la spesa per l’acquisto di armi, portandola in media al 6,4 per cento del loro bilancio e questo mentre al tempo stesso riducevano ulteriormente la spesa pubblica destinata all’agricoltura, diminuita al 3,8 per cento.

Oxfam non lo dice, ma quindi gli africani hanno speso il doppio in armamenti proprio mentre dichiaravano di aver subito enormi, insostenibili danni economici a causa della pandemia di Covid-19, della guerra in Ucraina e dei cambiamenti climatici, mentre accusavano l’Occidente di esserne responsabile (del Covid, secondo loro, per non aver assistito il continente con vaccini e medici, della guerra per aver “costretto” la Russia a invadere l’Ucraina e del cambiamento climatico perché “prodotto dallo stile di vita e dal modo di produzione occidentali”) e mentre reclamavano per questo risarcimenti e investimenti internazionali per centinaia di miliardi di dollari.

Import da Russia e Turchia

Oxfam non dice neanche che più di tutti a trarre vantaggio dalle crescenti spese militari africane è la Russia, che nel 2022 ha fornito quasi metà di tutte le armi importate nel continente. Sebbene per un volume di affari nettamente inferiore, tra gli altri Paesi che ne hanno approfittato spicca la Turchia.

La vendita in Africa di armi prodotte dalla Turchia è aumentata in maniera esponenziale. Nel 2021 ha raggiunto i 460 milioni di dollari, cinque volte più che nel 2020.
Aiuti dei Paesi ricchi

Da chi i governi africani acquistano le armi e quante, a Oxfam non interessa perché lo scopo del suo rapporto è evidenziare l’urgenza di interventi in favore dell’agricoltura, in particolare in aiuto ai piccoli agricoltori.

La ong sostiene che gli Stati africani devono “dare una vera risposta all’urlo di dolore del loro continente”, ma che soprattutto bisogna spingere i Paesi ricchi e i grandi donatori a fare la loro parte. Già adesso un africano su cinque patisce la fame:

Senza finanziamenti significativi e addizionali, rispetto a quelli già previsti dagli stanziamenti in aiuto allo sviluppo e per l’adattamento e la mitigazione dei cambiamenti climatici, non sarà possibile limitare danni e perdite e, nei Paesi africani più colpiti, non ci sarà salvezza. La risposta della cooperazione internazionale è urgente e necessaria.

Il rapporto cita dati dell’Ocse. Nel 2021 i Paesi industrializzati hanno destinato solo lo 0,33 per cento del loro prodotto nazionale lordo agli aiuti allo sviluppo, “una quota drammaticamente lontana – spiega Oxfam – dallo 0,7 per cento che avevano promesso nel 1970 e che rappresenta uno degli obiettivi fondamentali dell’Agenda Onu 2030 per lo sviluppo sostenibile”.

L’Italia, peggio ancora, stanzia solo lo 0,22 per cento, salito allo 0,29 per cento solo grazie ai contributi straordinari forniti durante la pandemia alle agenzie delle Nazioni Unite impegnate in aiuti umanitari.

L’investimento in cooperazione internazionale dunque è ancora del tutto insufficiente: “le responsabilità dell’attuale emergenza – conclude Oxfam – sono certamente della comunità internazionale, dei Paesi donatori, delle istituzioni economiche globali”.

Strana logica

Strana logica questa, tuttavia affatto insolita, secondo la quale i Paesi ricchi e grandi donatori (per inciso, quasi tutti occidentali) devono aumentare i contributi alla cooperazione internazionale allo sviluppo per rimediare al fatto che i governi africani hanno ridotto gli investimenti nel settore agricolo e hanno raddoppiato i fondi, anche per questo gravandosi di un debito estero insostenibile al punto da rischiare il default, per acquistare armi, una parte delle quali, per di più, finiscono nei circuiti del fiorente commercio illegale africano.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Le demenziali menzogne sull'Africa del vittimismo africano

Messaggioda Berto » mar ago 01, 2023 9:18 am

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Messaggioda Berto » mar ago 01, 2023 9:19 am

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Le demenziali menzogne sull'Africa del vittimismo africano

Messaggioda Berto » mar ago 01, 2023 9:20 am

17)
La Tunisia caccia i clandestini africani



Africa News
La Guinea e la Costa d'Avorio stanno rimpatriando centinaia di loro cittadini dalla Tunisia.
I governi si sono mossi dopo che il presidente tunisino Kais Saied ha scatenato una tempesta dichiarando che l’ingresso incontrollato di migranti subsahariani porta l’aumento della criminalità.
Il presidente aveva inoltre denunciato un piano criminale di sostituzione etnica.
Il portavoce del governo ivoriano, Amadou Coulibaly, ha quindi annunciato l’aumento degli sforzi di rimpatrio principalmente per mettere in salvo i propri concittadini.
La compagnia di bandiera della Costa d'Avorio, Air Cote d'Ivoire, è stata incaricata di aiutare a rimpatriare circa 500 persone.
Molti dei circa 21.000 migranti dell'Africa subsahariana in Tunisia, la maggior parte dei quali irregolari, hanno perso o stanno perdendo il lavoro e l'alloggio.
Negli ultimi giorni decine di migranti si sono riversati nelle loro ambasciate, in particolare quelle della Costa d'Avorio e del Mali, chiedendo di tornare a casa.
(Grazie per info e spunti a @africaintel)
Senza evocare la violenza, anche quella verbale, direi che l’Italia potrebbe prendere appunti e agire di conseguenza
#enemedia


Tunisia: dopo la ''scomunica'' del presidente Saied, gli immigrati neri fuggono
02/03/2023

https://italia-informa.com/tunisia-saied-scomunica.aspx

Le dichiarazioni del presidente tunisino Kais Saied hanno creato un clima di tensione nel Paese nei confronti degli immigrati provenienti dall'Africa sub-sahariana nera. Al punto che due Stati dell'Africa occidentale - la Costa d'Avorio e la Guinea - stanno rimpatriando i loro cittadini dalla Tunisia per timore che nei loro confronti si possano scatenare azioni violente da parte della popolazione tunisina, alle prese da anni con una gravissima crisi economica.

Tunisia: dopo la ''scomunica'' del presidente Saied, gli immigrati neri fuggono

Il presidente Saied, in un discorso pubblico, la scorsa settimana, ha affermato che l'immigrazione irregolare in Tunisia sta causando un cambiamento demografico, accusando "orde illegali" di essere dietro l'aumento della criminalità. La presa di posizione del presidente ha avuto come effetto immediato dozzine di arresti di migranti provenienti dall'Africa sub-sahariana.
"La cosa più urgente è salvare vite, prevenire feriti", ha detto il portavoce del governo della Costa d'Avorio, Amadou Coulibaly, in una dichiarazione riferita dall'AFP.

Stando ai dati resi noti da un attivista tunisino per la difesa dei diritti umani - che ha accusato Saied di ''incitamento all'odio'' e di ''discriminazione razziale '' - nel 2021 in Tunisia sono arrivati circa 21.000 migranti dall'Africa subsahariana. Se il presidente Saied ha respinto l'accusa di razzismo, nel Paese cresce la tensione nei confronti dei migranti, molti dei quali hanno detto di essere stati improvvisamente licenziati e di essere stati buttati fuori dalle loro case nel corso della notte. Eventi che hanno spinto centinaia di ivoriani e guineani a chiedere alle lor ambasciate a Tunisi di aiutarli a tornare in patria.

Le parole di Saied, d'altra parte, descrivono una situazione inquietante, almeno dal suo punto di vista: "L'obiettivo non dichiarato delle continue ondate di immigrazione illegale è quello di considerare la Tunisia un Paese puramente africano che non ha alcuna affiliazione con le nazioni arabe e islamiche". L'Unione africana - di cui la Tunisia è membro - ha condannato la dichiarazione come "scioccante" e ha messo in guardia contro "l'incitamento all'odio razziale".



Il presidente tunisino alimenta il razzismo contro i sub-sahariani nel Paese: “Rischio sostituzione etnica”. E così spinge le partenze

Youssef Siher
2 marzo 2023

https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/0 ... e/7083163/

“C’è un accordo criminale che è stato preparato dall’inizio di questo secolo per cambiare la composizione demografica del Paese”. No, non è il solito ritornello di qualche politico di destra europeo. A pronunciare queste parole è il capo dello Stato di uno dei Paesi al di là del Mediterraneo: la Tunisia. Kais Saied ha infatti iniziato una vera e propria campagna d’odio contro gli immigrati sub-sahariani, regolari e non, residenti nel Paese nordafricano. Il 21 febbraio scorso, durante una seduta del Consiglio Nazionale di Sicurezza dedicata alla risoluzione dei problemi del fenomeno migratorio in Tunisia, Saied ha sottolineato la necessità di “porre fine rapidamente a questo fenomeno, soprattutto perché gli immigrati incontrollati provenienti dall’Africa sub-sahariana” sono responsabili di “violenza, crimini e pratiche inaccettabili”. Saied accusa poi i partiti politici di complottare contro lo Stato tunisino avendo accettato “grosse somme di denaro dopo il 2011 per l’insediamento di immigrati clandestini” nel Paese. Attivisti e società civile in Tunisia hanno subito condannato le dichiarazioni di Saied, definendole “razziste” e “fasciste”, mentre l’opposizione ha risposto alle accuse e alle dichiarazioni del presidente mettendo in guardia dal ripetersi della retorica razzista del politico di estrema destra francese Eric Zemmour in Tunisia.

“La Grande Sostituzione” – L’ex candidato alla presidenza francese, non a caso, è stato uno dei primi a lodare le dichiarazioni di Saied e, in un tweet, scrive che “gli stessi Paesi del Maghreb cominciano a lanciare l’allarme di fronte all’impennata migratoria. Qui è la Tunisia che vuole prendere misure urgenti per proteggere la sua gente. Cosa aspettiamo a combattere contro la Grande Sostituzione?”. Il cosiddetto “Grand remplacement“, in francese, è una teoria del complotto di estrema destra diffusa dall’autore francese Renaud Camus negli ambienti nazionalisti secondo la quale gli immigrati non bianchi potrebbero, con l’immigrazione di massa, soppiantare le popolazioni autoctone e cambiare drasticamente la demografia di un Paese. Un cavallo di battaglia dei movimenti di destra estrema identitaria presenti nel continente europeo.

E non solo: nonostante le critiche degli attivisti, le ultime dichiarazioni di Saied sono state sostenute da diversi tunisini sui social. “La soluzione è espellerli e rafforzare il monitoraggio e la verifica di ogni persona che si trova sul suolo tunisino senza visto e in modo illegale”, è solo uno dei commenti. Secondo un sondaggio del 2022 commissionato da BBC News Arabic, l’80% dei tunisini ritiene che la discriminazione razziale sia un problema nel proprio Paese, il dato più alto nella regione del Medio Oriente e del Nord Africa. Ed è proprio questo razzismo, evidentemente non solo percepito, che Saied cerca di cavalcare con la sua retorica populista, addossando la colpa dei problemi economici e sociali sugli immigrati. L’Unione africana (Ua) ha condannato le dichiarazioni del presidente tunisino mettendo in guardia contro “l’incitamento all’odio razziale” e convocando il rappresentante tunisino nell’Ua per un incontro urgente. Ha poi ricordato che gli Stati membri dell’Ua sono obbligati “a trattare tutti i migranti con dignità”. Il 25 febbraio centinaia di persone sono scese per le strade della capitale tunisina per chiedere al presidente di scusarsi con i migranti subsahariani. “Abbasso il fascismo, la Tunisia è un paese africano” erano i cori urlati dai manifestanti.

Clima d’odio – In Tunisia si respira quindi un’aria pesante e il clima d’odio verso gli immigrati è aumentato esponenzialmente nelle ultime settimane. L’1 marzo l’Associazione degli studenti e degli stagisti africani in Tunisia (Aesat) ha esortato i suoi membri a non uscire se non per le emergenze e portare sempre con sé i documenti d’identità. L’Aesat lamenta infatti che diversi studenti dei paesi sub-sahariani sono stati arrestati nonostante la loro situazione legale. “Sebbene alla fine siano stati rilasciati, uno di loro ha trascorso sei giorni in detenzione, metà dei quali senza cibo. Pertanto, non sorprende che gli studenti non osino sporgere denuncia durante gli attacchi per paura di essere vittime di questi arresti ingiustificati”, ha dichiarato l’associazione in un comunicato stampa. Intanto, Guinea e Costa d’Avorio hanno iniziato a rimpatriare centinaia di loro cittadini. Secondo quanto riporta il quotidiano The New Arab, più di 800 ivoriani si sono registrati per essere rimpatriati, molti dei quali erano in Tunisia da più di cinque anni prima di ricevere improvvisamente l’ordine di andarsene. Secondo i dati del Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes), circa 21mila migranti privi di documenti provenienti da altre parti dell’Africa soggiornano attualmente nel piccolo Paese nordafricano. Molti migranti irregolari provenienti dalla Costa d’Avorio, dal Camerun, dal Ghana e dalla Guinea svolgono infatti lavori mal pagati e in nero nel tentativo di raggiungere l’Italia e l’Europa in generale. La situazione attuale in Tunisia non fa che accelerare questo processo, portando a eventuali situazioni incontrollabili in tutto il Mediterraneo.



TUNISI: ALLARME "UOMO NERO"
Francesco Battistini
01 marzo 2023

E in Tunisia è partita la caccia all’uomo nero
Un’onda di razzismo contro i sub-sahariani sta cambiando la pelle del più progressista dei Paesi (ri)nati dalle Primavere arabe
I tassisti di Tunisi non caricano più l’uomo nero. E i proprietari non gli affittano casa. E i passeggeri di bus non lo vogliono di fianco. E i negozianti non gli vendono nulla. «Ci sono orde di subsahariani che minacciano la nostra identità!», proclama il presidente Kais Saied, e servono misure urgenti: «Un complotto criminale di forze straniere ha l’oscuro obiettivo di favorire l’immigrazione illegale e di cambiare la nostra composizione demografica!». Ci stanno trasformando in un mondo «puramente africano, senza legami con le nazioni arabe e islamiche». E dunque, è ora che la Tunisia diventi come l’Alabama degli anni Trenta.
Un’onda di razzismo sta cambiando la pelle del più progressista dei Paesi (ri)nati dalle Primavere arabe. Addio alla Costituzione che levava l’hijab alle donne e spingeva i sindacati al Nobel per la Pace. A Tunisi, comanda un populista cesarista: ha sciolto il Parlamento, ne ha fatto votare un altro dall’11% degli elettori e da qualche giorno - per distrarre i tunisini dalla fame e magari ingraziarsi un po’ d’ultradestra europea spaventata dai barconi (puntuale, è giunto l’elogio dello xenofobo Eric Zemmour) -, ha scatenato la caccia ai 50mila neri, lo 0,5% della popolazione, colpevoli sia della fame che dei barconi.
Anche nel Maghreb, è sicuro Saied, i sub-sahariani sono lo strumento della Grande Sostituzione. E perciò, tutti a casa: le ambasciate di Costa d’Avorio, Guinea e Mali allestiscono dormitori d’emergenza e rimpatriano centinaia di sans-papier che hanno ormai paura di girare per le strade, d’essere malmenati, di ricevere multe da mille euro per l’irregolarità dei documenti. La paura dell’altro è una porta girevole, lo s’è visto già in Libia o in Egitto: c’è sempre qualcuno più meridionale di te da mettere alla porta. Anche i tunisini sono incitati a fare ai neri quel che non han mai voluto fosse fatto a loro. Pochi protestano, molti tacciono. E tanto per cambiare, noi fingiamo di non vedere.


E in Tunisia è partita la caccia all’uomo nero
Francesco Battistini
1 marzo 2023

https://www.corriere.it/opinioni/23_mar ... 35ee.shtml

I tassisti di Tunisi non caricano più l’uomo nero. E i proprietari non gli affittano casa. E i passeggeri di bus non lo vogliono di fianco. E i negozianti non gli vendono nulla. «Ci sono orde di subsahariani che minacciano la nostra identità!», proclama il presidente Kais Saied, e servono misure urgenti: «Un complotto criminale di forze straniere ha l’oscuro obiettivo di favorire l’immigrazione illegale e di cambiare la nostra composizione demografica!». Ci stanno trasformando in un mondo «puramente africano, senza legami con le nazioni arabe e islamiche». E dunque, è ora che la Tunisia diventi come l’Alabama degli anni Trenta.

Un’onda di razzismo sta cambiando la pelle del più progressista dei Paesi (ri)nati dalle Primavere arabe. Addio alla Costituzione che levava l’hijab alle donne e spingeva i sindacati al Nobel per la Pace. A Tunisi, comanda un populista cesarista: ha sciolto il Parlamento, ne ha fatto votare un altro dall’11% degli elettori e da qualche giorno - per distrarre i tunisini dalla fame e magari ingraziarsi un po’ d’ultradestra europea spaventata dai barconi (puntuale, è giunto l’elogio dello xenofobo Eric Zemmour) -, ha scatenato la caccia ai 50mila neri, lo 0,5% della popolazione, colpevoli sia della fame che dei barconi.

Anche nel Maghreb, è sicuro Saied, i sub-sahariani sono lo strumento della Grande Sostituzione. E perciò, tutti a casa: le ambasciate di Costa d’Avorio, Guinea e Mali allestiscono dormitori d’emergenza e rimpatriano centinaia di sans-papier che hanno ormai paura di girare per le strade, d’essere malmenati, di ricevere multe da mille euro per l’irregolarità dei documenti. La paura dell’altro è una porta girevole, lo s’è visto già in Libia o in Egitto: c’è sempre qualcuno più meridionale di te da mettere alla porta. Anche i tunisini sono incitati a fare ai neri quel che non han mai voluto fosse fatto a loro. Pochi protestano, molti tacciono. E tanto per cambiare, noi fingiamo di non vedere.

Le fonti ufficiali stimano che complessivamente il settore minerario contribuisce al 18% del prodotto lordo congolese, ma molti pensano che si tratti di un dato sottostimato considerato che in Congo una parte cospicua dell’attività estrattiva avviene in maniera informale. Così come gran parte del commercio avviene sotto forma di contrabbando. In particolare in Kivu, conteso da innumerevoli gruppi armati dalle origini più disparate e da decenni teatro di scontri. Il 22 febbraio del 2021 perfino il nostro ambasciatore, Luca Attanasio, assieme al carabiniere Vittorio Iacovacci, perse la vita in questa regione, vittima di un’imboscata da parte di una delle tante bande armate che infestano la zona. Ciascuna con finalità e affiliazione diverse. Alcune più strutturate e collegate a movimenti di Paesi limitrofi come il Ruanda o l’Uganda se non a movimenti internazionalisti come quelli islamisti; altre più estemporanee rispondenti solo alle velleità di capi e capetti, desiderosi di affermare un proprio spazio di potere e di accumulare ricchezze tramite estorsioni, rapimenti o contrabbando delle risorse minerarie.


La ricchezza mineraria del Congo è diventata la sua maledizione
Francesco Gesualdi
sabato 28 gennaio 2023

https://www.avvenire.it/opinioni/pagine ... aledizione

A causa delle sue ricchezze minerarie, la Repubblica Democratica del Congo, che papa Francesco si accinge a visitare, gioca un ruolo strategico nello scacchiere economico internazionale. Oltre a diamanti e oro (rispettivamente al quarto e sedicesimo posto per produzione), il Congo è strategico per cobalto, rame e coltan (columbo-tantalite), tre minerali che stanno alla base della transizione energetica e tecnologica. Il cobalto per la produzione di batterie, il rame per la produzione di materiale elettrico, il coltan per i componenti elettronici.

Le principali zone minerarie del Congo sono il Katanga, nella parte meridionale, e il Kivu nella parte orientale. Nel Katanga si estraggono principalmente cobalto e rame, nel Kivu coltan, oro e diamanti. Le fonti ufficiali stimano che complessivamente il settore minerario contribuisce al 18% del prodotto lordo congolese, ma molti pensano che si tratti di un dato sottostimato considerato che in Congo una parte cospicua dell’attività estrattiva avviene in maniera informale. Così come gran parte del commercio avviene sotto forma di contrabbando. In particolare in Kivu, conteso da innumerevoli gruppi armati dalle origini più disparate e da decenni teatro di scontri. Il 22 febbraio del 2021 perfino il nostro ambasciatore, Luca Attanasio, assieme al carabiniere Vittorio Iacovacci, perse la vita in questa regione, vittima di un’imboscata da parte di una delle tante bande armate che infestano la zona. Ciascuna con finalità e affiliazione diverse. Alcune più strutturate e collegate a movimenti di Paesi limitrofi come il Ruanda o l’Uganda se non a movimenti internazionalisti come quelli islamisti; altre più estemporanee rispondenti solo alle velleità di capi e capetti, desiderosi di affermare un proprio spazio di potere e di accumulare ricchezze tramite estorsioni, rapimenti o contrabbando delle risorse minerarie.

Conscia del forte legame esistente fra commercio di minerali provenienti dal Kivu e uso dei loro proventi per l’acquisto di armi da parte delle varie fazioni operanti sul campo, una parte della comunità internazionale ha cercato di porre rimedio al fenomeno imponendo trasparenza a tutti gli attori della filiera. In altre parole, ogni operatore che fa uso di minerali potenzialmente provenienti dalla zona dei Grandi Laghi, ha l’obbligo di tracciare il loro percorso e deve renderne conto pubblicamente. Nel gennaio 2021 anche l’Italia ha recepito la direttiva europea che impone quest’obbligo. Il che costituisce un passo avanti importante sperando che non sia vanificato dalla capacità della macchina del contrabbando di falsificare i documenti.

La catena di intermediazione che porta i minerali dal sottosuolo del Kivu alle imprese metallurgiche situate in Europa e in Asia, è piuttosto lunga e succede che a ogni passaggio siano imposte tasse e balzelli per permettere al potere che esercita il controllo sul territorio di potersi arricchire attraverso il commercio dei minerali. Le estorsioni cominciano a livello dei piccoli acquirenti che comprano il minerale grezzo dai minatori e continuano fino agli esportatori. Nel 2007, l’organizzazione umanitaria Global Witness ha accusato Afrimex, una società di intermediazione mineraria con sede a Londra, di sostenere il gruppo paramilitare Rcd-Goma, tramite l’acquisto di coltan su cui era stato applicato un prelievo dell’8% da parte del gruppo ribelle. La sezione britannica dell’Ocse, chiamata a esprimersi sul caso, concluse che «Afrimex non si era assicurata che le sue attività non sostenessero il conflitto armato e il lavoro forzato».

A pagare il prezzo più alto di questo sistema estorsivo sono i piccoli operatori che stanno alla base della piramide produttiva e commerciale. In Kivu, l’estrazione avviene principalmente per opera di singoli, i così detti “minatori artigiani”, che una volta individuato un sito a loro parere promettente chiedono il permesso di sfruttamento al proprietario del terreno. Quindi iniziano l’estrazione avvalendosi della collaborazione di persone in cerca di occupazione. Trattandosi di lavoro informale nessuno sa di preciso quanti siano i minatori artigiani in Kivu, ma si stima che siano alcune centinaia di migliaia. Sottoposti a orari massacranti e a condizioni di lavoro rischiose, senza alcun potere contrattuale sono costretti a vendere il ricavato del loro lavoro ai prezzi fissati dai grossisti locali, sempre che il potere militare di turno non si appropri indebitamente di ciò che hanno estratto. Secondo la ricostruzione del valore operato da varie organizzazioni, i minatori ottengono una media dell’1% del valore di uscita dalle fonderie, nel caso del coltan, e dello 0,8% nel caso della cassiterite.

Il peggio è che secondo uno studio dell’Institut d’études de sécurité dell’ottobre 2021, una gran parte del coltan è estratta col lavoro di più di 40mila bambini e adolescenti. Originari di villaggi sperduti del Kivu, la povertà li induce ad abbandonare la scuola, che spesso non hanno mai frequentato, per cercare lavoro nei siti di estrazione dove sono destinati alla frantumazione e al lavaggio dei minerali. Ma quando possono si dedicano anche ai piccoli traffici vendendo il coltan per somme irrisorie nelle cittadine collocate lungo la frontiera col Burundi, il Rwanda o l’Uganda. Effettuando lavori da adulti in ambienti insalubri hanno gravi problemi di salute. I rischi professionali comprendono l’esposizione quotidiana al radon, una sostanza radioattiva associata anche al coltan, che è causa di tumore al polmone. E trovandosi soli in ambienti sconosciuti, oltre al rischio di abusi e violenze i bambini sono anche esposti al traffico di esseri umani e al reclutamento da parte dei gruppi armati come bambini-soldato.

Se abbandoniamo il Kivu e ci trasferiamo in Katanga troviamo una situazione produttiva molto diversa. Qui dominano le grandi miniere gestite da multinazionali cinesi, canadesi, sudafricane, europee. Ciò non di meno, si trovano molti problemi tipici del Kivu. Ad esempio, anche in quest’area è molto sviluppato il fenomeno degli artigiani minatori che estraggono circa il 20% del cobalto. E benché qui l’attività degli artigiani sia più controllata, le violazioni di legge sono numerose. Ad esempio nell’agosto 2016 e di nuovo nel novembre 2017, Amnesty International denunciò una larga presenza di lavoro minorile nelle miniere di cobalto: tra i 20mila e i 40mila minori sottoposti a condizioni indicibili. La notizia mise in difficoltà l’intera filiera produttiva, dalle multinazionali estrattive, ai traders, fino alle imprese manifatturiere che utilizzano il cobalto per la fabbricazione di batterie da inserire nei propri prodotti. Fra esse le imprese di auto elettriche, di smartphone, di computer. In un primo momento la linea di difesa fu che l’estrazione mineraria industriale e quella artigianale non hanno niente in comune.

Poi venne ammesso che il confine fra le due attività è molto labile perché molti artigiani scavano in aree di proprietà delle grandi imprese e vendono a queste ultime ciò che estraggono, come se lavorassero in subappalto. Non a caso, ora la Borsa di Londra, in cui si effettuano le principali contrattazioni mondiali di minerali e metalli, esige dai propri membri dei rapporti di tracciabilità. Intanto un procedimento avviato dal Dipartimento della Giustizia statunitense e conclusosi nel maggio 2022, ha appurato che Glencore, multinazionale svizzera gestore di otto miniere di rame e cobalto in Katanga, fra il 2007 e il 2018 ha pagato, in mazzette, 27,5 milioni di dollari a funzionari della Repubblica Democratica del Congo, per ottenere vantaggi economici illeciti.

Secondo l’Onu la corruzione è un mostro che a livello mondiale divora il 25% delle entrate pubbliche. Viene anche calcolato che nelle nazioni africane con i più alti livelli di corruzione, i governi spendono il 25% in meno in sanità e il 58% in meno in istruzione. Il che aiuta a capire perché nonostante le sue enormi ricchezze, la Repubblica Democratica del Congo sia uno dei cinque Paesi più poveri al mondo. Secondo gli ultimi dati della Banca Mondiale il 64% della popolazione congolese vive al di sotto della povertà assoluta disponendo meno di 2,15 dollari al giorno. La dimostrazione concreta di come i minerali siano usati per l’arricchimento di pochi trasformandosi di fatto in una maledizione.


La guerra civile in Sudan

In Sudan si combatte, se lo contendono due generali: al-Burhan e Hemedti
Fattori scatenanti l’integrazione delle milizie nell’esercito e chi sarà il capo. Dal 1956 il Paese ha conosciuto solo regimi autoritari. Effetti destabilizzanti nell’intera area
Anna Bono
23 Aprile 2023

https://www.nicolaporro.it/atlanticoquo ... e-hemedti/

È da una settimana che si combatte in Sudan, nella capitale Khartoum e nella regione occidentale del Darfur. Benché sia un Paese musulmano, neanche la tregua di 72 ore per celebrare Eid-al-Fitr, la festa islamica che segna la fine del Ramadan e che quest’anno cadeva il 21 aprile, è stata rispettata.

Insolitamente uniti e concordi, l’avevano chiesta Paesi occidentali e islamici, l’Onu, l’Unione europea, l’Unione Africana, la Lega Araba per consentire almeno di seppellire i morti, rifornire i pochi ospedali ancora aperti a Khartoum, ormai sprovvisti di medicinali, scorte di sangue e dispositivi chirurgici, e distribuire aiuti alimentari alla popolazione.


Le fazioni in lotta

La lotta, ancora una volta, è per il potere. A contenderselo in Sudan sono due generali: Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemedti, leader delle Forze di supporto rapido (Fsr), un organismo paramilitare forte di almeno 100.000 unità, e Abdel Fattah al-Burhan, il capo delle forze armate che è anche di fatto il capo dello Stato dal 2021, anno in cui con un colpo di stato ha rovesciato il Consiglio Sovrano composto da civili e militari, a sua volta alla guida del Paese in seguito a un golpe, quello che nel 2019 ha messo fine al regime trentennale di Omar Hassan al Bashir.

La rivalità tra i due leader era stata finora tenuta a freno. Anzi, fino a qualche giorno prima sembrava che potesse dare esiti positivi la mediazione internazionale avviata per accelerare la transizione promessa dai militari per dotare finalmente di istituzioni democratiche un Paese che dal 1956, anno dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, ha conosciuto soltanto regimi autoritari sebbene legittimati da simulacri di democrazia.

Proprio i termini e i tempi della transizione democratica invece sono all’origine delle divergenze sempre più profonde tra i due generali. Al centro delle discussioni c’è inoltre, e non è di poca rilevanza, la richiesta alla giunta militare di cedere le molte, assai redditizie proprietà dell’esercito in vari settori dell’economia che costituiscono una base fondamentale del suo potere.

Ma il fattore scatenante è stata la questione, apertasi al tavolo delle trattative, dell’integrazione dei militari delle Rsf nell’esercito e di chi sarà il capo delle forze armate unificate. Mentre l’esercito governativo propone che venga realizzata entro due anni, Hemedti vuole rimandarla di dieci anni.

Così il 15 aprile ha ordinato l’attacco ai suoi uomini, già pronti in postazioni strategiche attorno e dentro la capitale. Dopo le prime ore, l’esercito governativo ha arginato l’avanzata dei paramilitari. Da allora sono in corso in vari settori della capitale furiosi combattimenti accompagnati da saccheggi e aggressioni ai civili tra i quali si contano già oltre 400 morti e migliaia di feriti.


I crimini di al-Bashir in Darfur

Come in Libia nel 2011, in Sudan del Sud e Repubblica Centrafricana nel 2013 e in Etiopia nel 2020, quattro stati con cui il Sudan confina, può essere l’inizio di un conflitto lungo, cruento, insostenibile per una popolazione che già patisce i danni enormi inflitti al Paese durante il lungo regime di al-Bashir.

Il Sudan nel 2011 ha perso tre quarti dei suoi giacimenti di petrolio quando le regioni del sud a maggioranza cristiana e in cui le riserve di greggio sono concentrate hanno ottenuto grazie alla mediazione internazionale di diventare indipendenti – l’attuale Sudan del Sud – per sottrarsi alla violenza genocida di al Bashir e delle etnie arabo islamiche dominanti.

Quelle stesse etnie hanno assecondato il progetto di arabizzazione del Paese voluta da al Bashir che per realizzarla nel 2003 ha scatenato nella regione del Darfur una guerra di sterminio contro le popolazioni di origine africana, talmente feroce da meritargli una denuncia alla Corte penale internazionale. Con l’accusa di aver commesso crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità, la Corte ha emanato nei suoi confronti due mandati di arresto internazionali, nel 2009 e nel 2010 (peraltro tuttora inattuati).


A rischio l’intera area

Per le sue ripercussioni, un conflitto protratto in Sudan può avere effetti destabilizzanti nell’intera area – Corno d’Africa e Africa orientale – coinvolgendo i Paesi che ne fanno parte, tutti con problemi di stabilità e sicurezza, alcuni già provati da gravi crisi politiche ed economiche: in particolare, l’Etiopia, da poco uscita da un conflitto durato due anni, originato dalla ribellione del Tigré e costato centinaia di migliaia di morti.

La Somalia, in guerra dal 1987, affondata da allora nel degrado prodotto da tribalismo, corruzione e integralismo islamico. Il Sudan del Sud, indipendente dal 2011, nella morsa della guerra due anni dopo, scatenata dalle due etnie maggiori, i Dinka e i Nuer, e ancora non del tutto risolta.

Lo stesso Kenya, il Paese più stabile dell’area, tuttavia è appena uscito da una drammatica prova di forza tra il presidente William Ruto e il leader dell’opposizione Raila Odinga. A peggiorare le prospettive si aggiungono la presenza nella regione di milioni di rifugiati e sfollati e una protratta siccità che rischia di provocare una carestia di vaste proporzioni.


L’evacuazione

A conferma delle previsioni più pessimistiche, la sera del 22 aprile Francia, Cina, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno attivato i piani di evacuazione dei loro cittadini. Centinaia di stranieri si apprestano a lasciare il Paese a bordo di aerei militari.

Al-Burhan ha acconsentito a scortarli fino all’aeroporto internazionale di Khartoum e Hemedti si è impegnato a sospendere le azioni in prossimità dello scalo durante le operazioni di decollo. I cittadini sauditi e giordani vengono fatti confluire su Port Sudan. Per gli italiani invece è previsto un ponte aereo da Khartoum a Gibuti.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Le demenziali menzogne sull'Africa del vittimismo africano

Messaggioda Berto » mar ago 01, 2023 9:20 am

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Le demenziali menzogne sull'Africa del vittimismo africano

Messaggioda Berto » mar ago 01, 2023 9:21 am

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