Calamità in Africa, disastri provocati dall'uomoAnna Bono
17-10-2022
https://lanuovabq.it/it/calamita-in-afr ... i-dalluomoSiccità nel Corno d'Africa, alluvioni in Sudan e nell'Africa occidentale. Sono molte e variegate le catastrofi naturali a cui stiamo assistendo in Africa e le conseguenze, umane e materiali, sono molto gravi. Ma è facile dare la colpa al cambiamento climatico. Se la natura fa così tanti morti, la causa è locale e molto umana.
Alluvione nel Sud Sudan
Continuano ad arrivare dall’Africa notizie di disastri naturali dalle conseguenze catastrofiche: milioni di sfollati, migliaia di vittime, incalcolabili danni materiali e la carestia che minaccia di abbattersi su un numero crescente di persone ormai stremate da malnutrizione, disagi e malattie.
Nel Corno d’Africa è la siccità a mettere in difficoltà 21 milioni di persone. La situazione è grave soprattutto in Somalia e in Etiopia. A causa di tre stagioni delle piogge con scarsissime precipitazioni, in Somalia 7,1 milioni di persone sono in stato di insicurezza alimentare acuta, 1,5 milioni di bambini sotto i cinque anni soffrono di malnutrizione acuta, un quarto dei quali in condizioni avanzate di debilitazione che fanno temere per la loro vita. Gli sfollati sono 750mila. In alcune regioni la carestia sta già decimando la popolazione. Non si prevedono miglioramenti almeno fino al marzo del 2023, sperando per allora in una stagione delle piogge finalmente regolare. In Etiopia, nel sud, quasi otto milioni di persone patiscono livelli critici di denutrizione in seguito a un lunghissimo periodo di siccità. Se anche quest’anno le piogge, per la quinta stagione, saranno scarse o assenti, il numero potrebbe più che raddoppiare. Come in Somalia, gran parte della popolazione rurale è dedita alla pastorizia. Si stima che finora siano morti 3,5 milioni di capi di bestiame e che altri 25 milioni siano a rischio. In una delle regioni più colpite, il Somali, quasi 300mila persone hanno lasciato le loro residenze abituali: in prevalenza donne e bambini che si sono diretti verso i centri urbani, in cerca di assistenza, mentre gli uomini sono rimasti ad accudire quel che resta del bestiame.
Se nel Corno d’Africa la siccità uccide, in due paesi confinanti con l’Etiopia – il Sudan e il Sudan del Sud – la gente muore a causa delle piogge torrenziali. In Sudan da quattro anni la stagione delle piogge porta alluvioni e fame. Quest’anno la situazione è diventata critica a partire da maggio. A settembre il governo ha dichiarato lo stato di emergenza alluvioni in sei stati e ha rimandato l’inizio dell’anno scolastico perché centinaia di scuole sono state danneggiate dalle acque. L’emergenza è stata poi estesa a sei altri Stati (sul totale di 18). Sono già morte più di 100 persone, decine di migliaia di abitazioni sono state distrutte dalle inondazioni, interi villaggi sono stati sommersi e gli abitanti hanno perso tutto. Quasi 12 milioni di persone, oltre un terzo della popolazione, soffrono di insicurezza alimentare acuta. Nel Sudan del Sud le piogge e le alluvioni finora hanno colpito oltre un milione di persone, un decimo degli abitanti, in 29 distretti. I livelli crescenti delle acque fanno temere che alcune dighe non reggano alla pressione. Decine di migliaia di persone hanno trovato rifugio in chiese e scuole. A peggiorare la crisi contribuisce il fatto che le acque hanno spazzato via molte strade, fatto crollare dei ponti e interrotto le comunicazioni. L’emergenza maggiore per le forti piogge si registra in Nigeria dove finora più di 500 persone sono morte e oltre 1.500 sono state ferite a causa delle alluvioni che interessano 31 dei 36 Stati della federazione. 1,4 milioni di nigeriani sono sfollati, costretti a lasciare casa e beni. Le inondazioni sono causate dalle piogge intense cadute a partire da fine luglio e, di recente, dalla decisione di aprire alcune dighe in Nigeria e una diga di grosse dimensioni nel vicino Camerun. Le autorità hanno informato gli stati del centro e del sud del paese che si prevedono altre inondazioni nelle prossime settimane.
Ormai da anni il verificarsi di questi disastri naturali, soprattutto in Africa, viene spiegato con il global warming, il cambiamento climatico. Gli effetti della pandemia prima e adesso della guerra in Ucraina aggravano le crisi, si dice. Ma in Nigeria e in altri Stati africani tutti gli anni, da sempre, durante la stagione delle piogge si verificano alluvioni; e tutti gli anni in Somalia e altrove la stagione secca mette a dura prova l’esistenza di chi ancora pratica economie di sussistenza. Sempre si contano vittime e danni materiali che non fanno notizia – si sa, succede ogni anno – se non quando, di tanto in tanto, le piogge cadono più forti, il monsone risalendo le coste orientali del continente scatena uragani, la stagione secca si prolunga più del solito. Allora si contano quantità eccezionali di morti e danni e il mondo ne parla. L’alluvione di quest’anno, in Nigeria, è la peggiore degli ultimi dieci anni. Durante quella del 2012 erano morte quasi 500 persone, gli sfollati erano stati circa 600mila. In Somalia si teme che la siccità attuale abbia effetti disastrosi come quella del 2010 e 2012 che ha ucciso 260mila persone. Andando a ritroso nel tempo, nei secoli, si ha riscontro di periodiche crisi umanitarie altrettanto e molto più drammatiche.
Un rapporto Onu appena pubblicato spiega che l’assenza di sistemi di allarme rapido aumenta anche di otto volte il numero delle vittime di calamità naturali. L’Africa risulta essere il continente con meno sistemi di allarme rapido. Molti paesi africani inoltre non solo sono privi di tali sistemi, ma non dispongono di piani di evacuazione, di intervento tempestivo. Peggio ancora, non attuano opere di contenimento dei danni causati dagli eventi naturali avversi: barriere antiallagamento, argini, casse di espansione dei corsi d’acqua, progetti anti erosione per limitare le frane, sistemi di recupero e raccolta delle acque piovane, piani di riforestazione, progetti idrici, trivellazioni…
In assenza di prevenzione e azione da parte dei governi e delle amministrazioni, ha ragione chi definisce gran parte dei disastri che si abbattono sugli abitanti del continente africano “man-made disasters”, disastri provocati dall’uomo, non dalla natura.
Etiopia, Somalia, Sudan del Sud, Sudan, Nigeria, i paesi africani oggi più colpiti da calamità naturali: i primi tre sono teatro di guerre tra etnie e clan per il controllo dello Stato; conflittualità etnica e religiosa, violenza incontrollata, insicurezza diffusa devastano Sudan e Nigeria. Attribuire a global warming, Covid e guerra in Ucraina la causa delle crisi umanitarie in atto in quei paesi non fa che peggiorare le prospettive: quando non si individua la causa di un problema, risolverlo è impossibile.
Kenya, niente pioggia da 3 anni: strage di animali (solo nel 2022 morti oltre 2,5 milioni di esemplari)Vittorio Sabadin
19 novembre 2022
https://www.ilmessaggero.it/animali/ken ... 61827.html Il Kenya è un grande cimitero di animali morti di sete e di fame, a causa di una siccità senza precedenti che dura da tre anni. La savana dove pascolavano elefanti, gnu, zebre e giraffe è macchiata dai loro scheletri, ammucchiati intorno a quelle che erano state le ultime pozze d'acqua. Nessuno crederebbe che la situazione sia tanto grave se il fotografo Charlie Hamilton James non l'avesse documentata, con immagini terribili e crudeli, visitando i parchi nazionali di Amboseli e Tsvao. Una volta i turisti ci andavano per fotografare gli animali vivi nell'ambiente che per millenni era stato il loro confortevole habitat.
Ora la terra è riarsa e polverosa. Non c'è più acqua da bere, ma soprattutto non cresce più nessun vegetale e manca dunque anche il cibo. Gli animali erbivori muoiono per primi, seguiti da quelli che prima mangiavano la loro carne.
PROLIFERAZIONE SELVAGGIA
La colpa è dell'uomo, come sempre. I mutamenti climatici c'entrano solo in parte: la siccità negli ultimi mesi ha colpito duramente tutto il Corno d'Africa, ma in Kenya la situazione è stata resa ancora più grave dal proliferare degli animali da allevamento. Buoi e mucche hanno divorato tutta l'erba che ancora era riuscita a crescere nonostante le scarse precipitazioni e non hanno lasciato nulla ai bufali, alle gazzelle e agli altri ruminanti selvatici. Si stima che solo quest'anno siano morti 2,5 milioni di capi di bestiame e i loro scheletri sono abbandonati uno sull'altro nella savana riarsa.
Hamilton James, un fotografo naturalista che ha lavorato con il leggendario David Attenborough, ha documentato la strage per la National Geographic Society britannica e ha raccontato al Daily Mail quello che ha visto: «C'è una massiccia siccità, gli animali avevano appena abbastanza acqua da bere, ma ora non c'è niente da mangiare. Sono tre anni che va avanti così. Il terreno è disseminato di corpi, ogni 25 metri c'è un'altra carcassa».
I Masai che prima avevano mandrie di centinaia di bovini ora hanno poche decine di capi. I maschi adulti devono mantenere famiglie quasi sempre molto numerose e non sanno più come fare. Gli agricoltori vendono la loro ormai inutile terra, ma i soldi incassati finiranno presto. I Masai hanno raccontato che fino a poco tempo fa si occupavano anche della fauna selvatica, nutrendola con fieno, ma ora non riescono più a farlo. Dicono che la colpa è del clima che è cambiato, ma anche del sovrappopolamento di bestiame da allevamento. Negli ultimi 30 anni il numero di capi di Bos taurus introdotti nelle riserve è aumentato del 1.100 % e consistenti porzioni di foresta sono state disboscate per creare pascoli. La terra è desertificata ed esausta, e i periodi di siccità hanno conseguenze sempre più gravi, mentre un tempo venivano superate con danni sopportabili.
IMPRESA DISPERATA
«I Masai capiscono perché questo sta accadendo ha detto ancora Hamilton James -. È la loro terra, sanno che è stremata. Sono un popolo legato al bestiame, ma sono consapevoli che ce n'è troppo».
Il governo ha invitato a fornire agli animali selvatici sale da leccare e acqua, ma è un'impresa disperata: un elefante ne beve più di 60 litri al giorno e non c'è modo di portarne così tanta alle mandrie superstiti. È l'intero Corno d'Africa, che oltre al Kenya comprende anche la Somalia e l'Etiopia, a soffrire per la mancanza di precipitazioni, la più grave registrata nell'area da 40 anni. Almeno 36 milioni di persone non hanno abbastanza cibo a causa dei raccolti perduti e le previsioni non tendono all'ottimismo: dal 2020 la stagione delle piogge che va da ottobre a dicembre ha costantemente registrato precipitazioni inferiori, e la durata e la gravità della siccità hanno superato quelle dei già terribili 2010-2011 e 2016-2017. Nel luglio scorso si stimava che 19,4 milioni di persone fossero colpite dalla mancanza d'acqua. In ottobre sono quasi raddoppiate: 24,1 milioni in Etiopia, 7,8 in Somalia e 4,2 in Kenya. La pioggia che doveva fermarsi sull'Africa se n'è andata quasi tutta nei posti sbagliati, come Sidney in Australia, dove ne sono caduti 2,2 metri da gennaio, un record. Il mondo non è più quello di prima, e dovremo abituarci.
Nel 2011 - La siccità nel Corno d’Africa vista dallo spazio25/07/2011
https://www.esa.int/Space_in_Member_Sta ... llo_spazio La siccità in Somalia, Kenya, Etiopia e Gibuti sta spingendo migliaia di persone ad abbandonare le proprie abitazioni, per sfuggire ad una generale situazione d’emergenza visibile anche dallo spazio. Il satellite SMOS, infatti, mostra che il suolo è talmente arido da non poter essere coltivato.
La popolazione somala, già duramente provata dalla guerra, si è riversata nei paesi confinanti in cerca di aiuto: il campo profughi di Dadaab, in Kenya, vede arrivare ogni giorno oltre 1000 sfollati, per la maggior parte bambini, gravemente disidratati e denutriti.
Analizzando i dati raccolti dal satellite SMOS dell’ESA, progettato per misurare l’umidità del suolo e la salinità marina, il suolo somalo appare molto arido durante la principale stagione delle piogge di quest’anno, specialmente nella regione meridionale.
Normalmente il clima della Somalia è arido nella regione centrale e nel nord-est, mentre il nord-ovest e il sud ricevono sufficienti quantità di pioggia. Sebbene il clima non sia soggetto a particolari variazioni stagionali, data la prossimità all’equatore, le piogge che normalmente si verificano fra aprile e giugno sono di vitale importanza per l’agricoltura.
Quest’anno, invece, le piogge non sono state sufficienti per le coltivazioni. Secondo SMOS, infatti, il grado di umidità del suolo fra aprile e luglio risulta molto basso o addirittura nullo in alcune aree chiave.
«Le misurazioni effettuate da SMOS in tali aree sono probabilmente da due a quattro volte più accurate, rispetto a quelle ottenute da altri sensori o modelli satellitari», ha commentato Yann Kerr, primo ricercatore della missione SMOS in materia di umidità del suolo, presso il CESBIO, centro per lo studio della biosfera terrestre dallo spazio, sito a Tolosa, in Francia.
Ulteriori informazioni raccolte con vari strumenti negli ultimi 20 anni rivelano la fase iniziale degli eventi che hanno portato all’emergenza di quest’anno nel Corno d’Africa: negli ultimi mesi del 2010 l’umidità del suolo era inferiore alla media in varie aree del Kenya, dell’Etiopia, del Gibuti e della Somalia.
I raccolti persi, la moria del bestiame e la carestia, che sta affliggendo milioni di persone, sono le devastanti conseguenze di quella che le organizzazioni umanitarie di tutto il mondo definiscono la peggiore siccità degli ultimi decenni.
Clima e inquinamento, l'Africa non è una vittimaAnna Bono
22 novembre 2022
https://lanuovabq.it/it/clima-e-inquina ... 8.facebookAlla Conferenza Internazionale sul clima, chiusasi domenica in Egitto, ancora una volta al centro dei negoziati c'è stata l'entità del risarcimento che i paesi ricchi (considerati gli inquinatori) devono pagare ai paesi poveri, che ne sarebbero le vittime. Ma la realtà dell'Africa dimostra che i primi a danneggiare l'ambiente sono proprio i governi africani. Come dimostrano il Congo, l'Uganda, il Tanzania...
- VIDEO: IL SOTTOSVILUPPO, NON LO SVILUPPO, DANNEGGIA L'AMBIENTE, di Riccardo Cascioli
- COP27, L'EUROPA FIRMA LE CAMBIALI PER IL FUTURO, di Luca Volontè
L’origine antropica del riscaldamento globale è una congettura priva di riscontri scientifici, sostengono migliaia di scienziati in tutto il mondo. Ma l’IPCC, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico istituito dalle Nazioni Unite nel 1998, non li ascolta. Da 30 anni continua a diffondere la teoria di una catastrofe imminente, di un pianeta destinato a diventare arido e privo di vita se non saranno presi provvedimenti contro chi ne è responsabile e organizza conferenze mondiali intese a trovare il modo per impedire che accada.
In sintesi la teoria è che il pianeta si surriscalda a causa delle attività umane. Ma non di tutte. Sono solo il modo di produzione e lo stile di vita occidentali, a partire dall’industrializzazione e dall’affermazione del modo di produzione capitalistico, a produrre quantità insostenibili dei gas serra che, secondo l’IPCC, minacciano la vita sulla Terra e rendono più frequenti e intensi i fenomeni naturali estremi.
Quindi i popoli occidentali devono ridurre drasticamente le emissioni di CO2, costi quel che costi in termini economici e sociali. Tocca a loro inoltre intervenire in favore delle popolazioni più danneggiate dai fenomeni naturali estremi che sono anche le più povere, intervento tanto più doveroso in quanto sono incolpevoli essendo minima la percentuale di CO2 che producono.
I paesi poveri devono essere risarciti dei danni economici causati da fenomeni naturali quali inondazioni, siccità, uragani. Poi si deve finanziare la loro transizione energetica, per metterli in grado di disporre di energie rinnovabili e comunque meno inquinanti di quelle in uso attualmente. Infine bisogna sostenere i costi del loro adattamento ai cambiamenti climatici affinché possano anticipare gli effetti avversi dei cambiamenti climatici prevenendo o almeno riducendo con opportune opere infrastrutturali i danni che possono causare. Si tratta di impegni finanziari enormi. Nel 2009 si era calcolato che occorressero 100 miliardi di dollari all’anno, ma il più recente rapporto del Programma Onu per l’ambiente ha riveduto le stime portando a 340 miliardi l’anno i fondi necessari.
Su chi deve fornire tutti quei miliardi si è discusso, fino a rischiare una rottura, alla Cop27, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici svoltasi a Sharm-el-Sheikh dal 6 al 19 novembre, protratta di un giorno proprio per tentare di trovare un accordo. La crisi si è aperta quando l’Unione Europea una volta tanto si è impuntata, rifiutando il programma proposto dal G77, l’organizzazione intergovernativa dell’Onu formata da 134 paesi in gran parte in via di sviluppo, che accollava gli oneri ai paesi “colpevoli”, quelli occidentali, e includeva tra i beneficiari tutti i paesi in via di sviluppo.
Minacciando di abbandonare la Conferenza, l’UE ha ottenuto che i fondi siano destinati solo ai paesi più vulnerabili e che venga ampliata la base dei donatori. Adesso una commissione di esperti elaborerà un progetto che andrà discusso il prossimo anno alla Cop28 che si terrà a Dubai. Tra i donatori dovrebbe figurare anche la Cina che finora non ha contribuito pur sostenendo le richieste del G77 e nonostante sia il paese che produce più gas serra: in fin dei conti è sempre colpa dell’Occidente e del suo modello di sviluppo imposto al resto del mondo.
Durante la discussione si sono distinti per recriminazioni e rivendicazioni i paesi africani. Già avevano trattato il tema del cambiamento climatico in un vertice di tre giorni svoltosi in preparazione alla Cop27 a ottobre, a Kinshasa, la capitale della Repubblica democratica del Congo, e conclusosi con un documento votato all’unanimità in cui si chiedeva ai paesi ricchi di fare di più per aiutare i paesi in via di sviluppo a combattere il global warming.
A Sharm el-Sheikh i paesi africani hanno rivendicato il loro diritto in quanto poveri e tutti particolarmente vulnerabili a godere dei finanziamenti, ma anche quello di continuare a usare le riserve di gas naturale e petrolio a discrezione, esentandoli dai tagli previsti dagli accordi per la riduzione delle emissioni di CO2.
L’Africa è un caso speciale, afferma a sostegno della posizione dei rappresentanti africani il presidente della Banca africana di sviluppo Akinwumi Adeasina. È speciale davvero, replica Keamou Marcel Soropogui, studioso guineano di ambiente e sviluppo sostenibile che attualmente lavora presso l’Istituto Universitario Europeo di Firenze, ma lo è per livelli di corruzione e disonestà politica. L’Africa dovrebbe spendere bene per il clima quel che riceve prima di chiedere di più, spiega: “I paesi africani hanno già ricevuto circa 103 miliardi di dollari tra il 2016 e il 2020. Non sono sufficienti, tuttavia si potevano ottenere dei risultati se fossero stati spesi oculatamente”.
Ma il problema non sono solo le emissioni di CO2. Un progetto di sfruttamento delle riserve di petrolio e gas naturale che interessa Botswana e Namibia minaccia il Delta dell’Okawango, una riserva naturale unica al mondo per biodiversità, tanto da essere stata dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità. L’Uganda e il Tanzania intendono costruire un oleodotto, il più lungo del mondo, per portare all’oceano Indiano il petrolio che sarà estratto nel lago Alberto (vedi cartina). L’impatto sull’ambiente e sulla biodiversità sarà minimo, promettono i governi, ma l’oleodotto attraverserà aree protette ed ecosistemi fragili che ne saranno sconvolti. La Repubblica democratica del Congo ha da poco autorizzato lo sfruttamento di 30 giacimenti di petrolio e gas naturale nella seconda più grande foresta pluviale del mondo. Sempre in Congo, un progetto per l’estrazione del petrolio minaccia un altro patrimonio dell’umanità: il parco nazionale dei Virunga che ospita gli ultimi gorilla di montagna.
Alberto PentoNon va poi dimenticato che una parte rilevante del petrolio e del gas consumato al mondo si estrae nei paesi del cosidetto terzo mondo e in via di sviluppo dei continenti asiatico, africano e americano (del sud) e che buona parte i proventi/profitti ricavati dall'estrazione e dell'uso da parte dei cosidetti paesi ricchi e sviluppati va già a beneficio di questi paesi produttori di combustibili fossili.
Anche l'Africa rovina l'ambiente, distruggendo le foresteAnna Bono
30-11-2022
https://lanuovabq.it/it/anche-lafrica-r ... w.facebookIl dibattito internazionale sul clima e l'ambiente si svolge soprattutto nei termini della "giustizia climatica". Quindi si chiede ai Paesi ricchi di risarcire quelli poveri. Ma se il principio dovesse essere applicato equamente a tutti, anche l'Africa sarebbe sul banco degli imputati. Dopo la fine del colonialismo ha distrutto le sue foreste.
Antony Blinken in visita in Kenya
“Loss and damage”, perdite e danni. Giustizia climatica vuole che i paesi responsabili del riscaldamento globale, perché da decenni le loro economie avanzate producono la maggior parte dei gas serra, risarciscano il resto del mondo, in particolare i paesi che subiscono i danni maggiori anche se producono quantità minime di CO2. La priorità va al continente africano, il più “innocente”, con solo il 3% delle emissioni, eppure il più danneggiato, con perdite annuali pari al 15% del Pil. Lo ha riaffermato la Cop27, la conferenza sul clima conclusasi il 19 novembre scorso a Sharm el Sheikh, portando da 100 a 340 miliardi il fondo annuale necessario.
Ma se si accetta l’argomento della “giustizia climatica” in base al principio “chi rompe paga”, allora però si deve applicare a tutto e a tutti. Deve valere anche ad esempio per l’Africa stessa che, se è innocente e va risarcita per gli effetti umani negativi sul clima dal momento che produce molto meno CO2 di altri continenti, posto che abbia ragione chi sostiene la causa antropica del riscaldamento globale, invece non lo è affatto quando si considera l’impatto umano devastante sull’ambiente naturale: impatto che, a differenza del global warming antropico, non è una congettura, ma un insieme di fatti tangibili, documentati e misurabili. Da decenni gli africani fanno scempio di fauna e flora selvatiche, patrimonio dell’umanità, incuranti di portare a rischio di estinzione un numero crescente di specie, e inquinano e devastano gli habitat naturali producendo danni sempre più spesso irreparabili alla biodiversità. Nei primi 30 anni successivi alla fine della colonizzazione europea l’Africa ha abbattuto il 55% delle sue foreste e ancora la distruzione continua, in alcuni paesi a ritmo accelerato. La Costa d’Avorio negli ultimi 50 anni ha perso quasi tutte le sue foreste. In Etiopia 60 anni fa il 30% del territorio nazionale era costituito da foreste e adesso la superficie boschiva è ridotta all’1%. La Repubblica democratica del Congo negli ultimi cinque anni ha eliminato in media un milione di ettari di foresta all’anno. Il Rwanda solo dal 2001 a oggi ha distrutto l’8,2% della sua superficie arborea. La Nigeria ha già più che dimezzato le sue aree boschive. L’elenco potrebbe continuare.
Mancanza di controlli e corruzione sono i principali motivi per cui il patrimonio forestale di cui i popoli africani dovrebbero prendersi cura viene irresponsabilmente sprecato: per far posto all’agricoltura, anche se i terreni deforestati sono inadatti alla coltivazione, in pochi anni molti inaridiscono e non si rigenerano, per ricavare legna da ardere, perché decine di milioni di famiglie persino nei paesi produttori di petrolio come la Nigeria non si possono permettere altre fonti energetiche e non hanno alternativa se voglio nutrirsi e scaldarsi, e per profitto, per ricavare legname da vendere, soprattutto sul mercato internazionale. Le leggi che limitano l'abbattimento, quando esistono, sono ignorate dai cittadini e dai funzionari stessi che dovrebbero farle rispettare. È fiorente ovunque un lucroso mercato nero di legname da costruzione e pregiato. È notizia recente che negli ultimi mesi in Kenya, prima che il governo intervenisse a fermare il traffico, sono stati addirittura venduti, ciascuno per poche centinaia di dollari e su licenza governativa, centinaia di baobab anche millenari, acquistati da un miliardario dell’est europeo che li ha sradicati e portati in Georgia. Ha suscitato scalpore, sempre in Kenya nei giorni scorsi, la notizia che il governatore della capitale Nairobi, per farla diventare di nuovo una “città verde” dopo decenni di sconsiderato abbattimento di alberi, ha deciso di importare delle palme dalla Malesia. Lo scandalo è che in Kenya crescono diverse varietà di palme.
Gli alberi si tagliano in tutto il mondo, ma si possono ripiantare. Tardivamente si è deciso di farlo anche in Africa. L’Etiopia, ad esempio, nel 2019 ha lanciato una campagna per piantare 20 miliardi di alberi entro la fine del 2022 e il 19 novembre scorso ha annunciato di aver raggiunto e superato l’obiettivo. Il progetto era iniziato nel 2019 con la messa a dimora di oltre 350 milioni di alberi in un sol giorno, a detta del governo. Ma un conto è piantare, un conto è far crescere. Dopo un anno già oltre il 20% degli alberi erano morti, principalmente per incuria e per essere stati piantati in terreni inadatti. Più realisticamente, il vicino Kenya vanta di averne piantati 51 milioni, su iniziativa del premio Nobel per la pace 2004 Wangari Maathai.
Il progetto più ambizioso è la Grande muraglia verde, lanciato dall’Unione Africana nel 2007 per creare una fascia verde lunga 7.800 chilometri e larga 15 per un totale di 100 milioni di ettari che dovrebbe attraversare tutto il continente dal Senegal a Gibuti. Ma, mentre per i cambiamenti climatici si chiede di rimediare ai paesi ritenuti responsabili, nel caso dei danni ambientali di portata planetaria provocati dalla deforestazione di cui sono responsabili i paesi africani l’onere ricade quasi del tutto su stati e popolazioni che non ne hanno colpa. A finanziare la Grande muraglia verde, così come altre iniziative “green” in Africa, sono infatti in gran parte dei donatori internazionali tra cui figurano la Banca Mondiale, la Banca europea di investimenti, la Commissione Europea.
Finora è stato realizzato solo il 4% della Grande muraglia verde, al costo di decine di miliardi di dollari. Per accelerare i tempi, vista la lentezza con cui procede la sua realizzazione, il quarto One Planet Summit, un vertice internazionale per fare il punto sullo stato dei lavori, svoltosi a Parigi nel 2021, ha deciso un nuovo finanziamento: il Great Green Wall Accelerator, dell’importo iniziale di 14 miliardi di dollari, portati poi a 19. Ma per terminare il progetto, entro la data fissata del 2030, serviranno ancora almeno 33 miliardi.