L’economia di razzia-rapina di Maometto e degli imperi maomettaniIl bottino di guerra nell'Islam 27 Settembre 2015 · Aggiornato 24 Ottobre 2018
https://www.islamicamentando.org/ottava ... i-guerra-2 “Il Bottino” è il titolo della sura 8 del Corano, interamente medinese. Il primo versetto recita chiaramente “Il bottino appartiene ad Allah e al Suo Messaggero” (1:8).
Maometto deteneva dunque fondi pubblici e ne disponeva come meglio credeva; inoltre gli spettava automaticamente il quinto (khums) di ogni razzia di guerra. Secondo i testi autorizzati, coime il Kitāb al-maghāzī (“Libro delle razzie”) di Wāqidī (m. 823), la pratica del khums fu istituita a partire dalla battaglia di Badr nell’anno 624 (2 del calendario musulmano), quando tra i credenti vincitori sorse una disputa per la divisione del bottino; fu allora che discese il versetto citato. Soltanto più tardi si concluse un accordo citato al versetto 8:41: a Maometto spettava il quinto del totale delle finanze pubbliche, mentre il resto andava distribuito in parti uguali tra i membri delle varie spedizioni. Maometto aveva inoltre diritto a una “prima scelta” (safī), anteriore alla divisione generale. A Badr, il profeta di pace Maometto scelse una spasa. In molte occasioni preferì scegliere le schiave più belle e più giovani, come dimostra Sunan Abu Dawud Libro 20, Numero 66:
Qatadah disse, “Quando l’Aposto di Allah (saw) partecipava ad una battaglia vi era per lui una porzione speciale (del bottino) che egli sceglieva a suo piacimento. Safiyah era di quella porzione. Ma quando egli non partecipava di persona in una battaglia, una porzione veniva comunque riservata per lui, ma sulla quale non aveva scelta. [cioé, riceveva quello che veniva scelto per lui]
Si aggiungeva ancora per il Profeta una parte del bottino in qualità di guerriero, la quale triplicava se aveva combattuto montando un cavallo o un cammello.
Nelle sue Tabaqāt, Ibn Sa’d (m. 845) descrive Maometto intento a negoziare aspramente con i beduini perché gli versassero il khums in aggiunta alla parte normale di combattente e perché gli riconoscessero il diritto alla prima scelta.
Come vediamo la divisione del bottino veniva condotta in maniera ingegnosa: il bottino era ripartito in lotti di egual valore, e se per caso esso risultava diversificato, le prede di guerra potevano essere vendute all’asta alle truppe e ai mercanti. Tutta un’attività commerciale si era organizzata attorno al bottino e questo o quel credente ammassò in tal modo ricchezze colossali.
Nel caso di bottino frutto di accordo e non di vittoria, Maometto reclamava l’intero ammontare. Alcune fonti fanno allusione alle terre che gli spettarono per intero a Khaybar e a Fadak. Le fonti concordano ugualmente sul fatto che dopo la presa di Khaybar la situazione finanziaria del Profeta conobbe una significativa trasformazione; la sua accresciuta ricchezza si fece sempre più visibile, soprattutto per la considerevole quantità di mezzi militari (cavalli e armi) impiegati nelle spedizioni.
La questione del bottino e della sua ripartizione rientra nelle diatribe che scossero l’islam degl inizi. Il Corano in una serie di versetti successivi, giustifica il comportamento di Maometto. Secondo le fonti tradizionali egli accordava una parte del bottino ai soli guerrieri, escludendo ogni beduino non impegnato al servizio della “religione di Dio”. Fu solo sotto ‘Umar ibn al-Khattāb, il secondo califfo che regnò dal 134 al 23 dell’egira (dal 634 al 644), che tutti i membri della umma (comunità musulmana) poterono incassare una percentuale calcolata in base alla registrazione e alla ripartizione per tribù.
Tutti i trattati di jihād affrontano il tema del bottino quale problema rilevante e con dovizia di particolari. Autori fondamentali come Ibn Hazm in Spugna o Māwardī in Iraq concordano nel ritenere che i beni degli intedeli sono stati stabiliti per«l’arricchimento della umma». Per Nu’mān (m. 684), «tutto quel che la terra nasconde è stato attribuito da Dio alla sua fazione»; e per Ibn Hazm, «il Signore ha istituito la proprietà degli infedeli sui loro beni unicamente perché essa formi il bottino dei credenti». A partire da un insieme di versetti, si assiste a una teorizzazione completa: la nozione di bottino è sacralizzata poiché è Dio a fissarne il ruolo con un ordine proveniente da lui (59:6-7); essa ha anche una “funzione morale” poiché il bottino spetta agli Emigrati bisognosi che hanno perduto ogni cosa per seguire Maometto a Medina (59:8), per i quali esso rappresenta un contraccambio divino; il bottino è una ricompensa anche quando Dio, dopo aver respinto gli infedeli e «quelli della gente del Libro che avevano dato mano al nemico» senza che «nulla di buono» ottenessero, «vi fece eredi della loro terra e delle loro case e delle ricchezze loro» (33:25-27). Infine, tale nozione serve ad articolare tutta una morale specifica («perche questo fosse un Segno ai credenti, e potesse Egli guidarvi per un retto sentiero»; 48:15 e 19-20). Per converso, Dio rimprovera ai soldati musulmani di aver abbandonato la loro posizione per avventarsi sul bottino e dispularselo, il che ha permesso ai meccani di recuperare il vantaggio in occasione della battaglia di Uhud nell’anno 3/625 (3:152). E’ molto significativo al riguardo che diverse tradizioni profetiche parlino di spedizioni che “sono fallite” perche non hanno fruttato bottino.
I trattati di diritto offrono una classificazione teorica molto precisa, non basata sul Corano e neppure sulla Sīrat (la biogratia di Maometto), le cui informazioni, pur dettagliate, non sono sistematiche. Sotto i primi califfi si distinguono diverse categorie: nafal (pl. anfāl, il primo dei tre termini che designano il bottino nel Corano), cioè un’attribuzione supplementare di bottino, accordata a certi combattenti in aggiunta alla parte loro dovuta; ghanmīa (solo il plurale maghānim si trova nel Corano), cioè il bottino trasportabile ottenuto in seguito a un combattimento armato; fay’ (nel Corano si trova solo il verbo affine afā’a), cioè ogni preda strappata agli infedeli senza combattimento, per esempio terre e abitazioni; infine radkh (assente dal Corano), cioè ogni preda ottenuta sulle spoglie del nemico ucciso. Anche se queste classificazioni possono apparire anacronistiche, la nozione di bottino, nel suo principio, resta molto viva ai nostri giorni. I fondamentalisti la inseriscono nelle loro rivendicazioni perché fa parte della parola di Dio. Così, in cassette diffuse in alcune moschee delle città europee si possono trovare formule di questo genere: «Porci di cristiani! Voi che insultate il Dio Onnipotente pretendendo che abbia una moglie e un figlio, voi che diffamate Dio presentandolo come uno di tre, il vostro duro castigo vi è assicurato! […] Sappiate che, vicini o lontani, giovani o vecchi, preti o monaci, con i vostri atti vi siete condannati a morte e alla perdita dei vostri beni. Il vostro sangue sarà a buon diritto versato dai musulmani e il vostro denaro ci appartiene».
Il jihād contro gli infedeli e i colpevoli di blasfemia si ritrova strettamente legato alla nozione di prede di guerra, viste come legittimo compimento della lotta stessa per il trionfo della Vera Predicazione.
Dizionario del Corano, Amir-Moezzi M. A, pag. 134.
https://www.facebook.com/notes/errico-s ... 2237788395 «Una civiltà in rovina» (a dire il vero l'Islam non è mai stata una civiltà)domenica 6 luglio 2014
https://www.ilpost.it/2014/07/06/democrazia-paesi-arabi I paesi arabi hanno fallito miseramente nel creare democrazia, felicità e benessere, scrive l'Economist (e uno dei problemi più grandi riguarda l'islam)
(anche prima dell'Impero Ottomano vi erano altri imperi maomettani e non è che le cose fossero molto diverse, vivevano di razzie-rapina e schiavitù, delle tasse dei dhimmi cristiani ed ebrei)
Negli ultimi cinque secoli quasi tutti i paesi arabi non hanno goduto di molta autonomia. Quasi tutti quelli che affacciano sul Mar Mediterraneo sono stati dominati, in un modo o nell’altro, dall’Impero ottomano. Dopo i turchi sono arrivati gli europei, che per decenni – più di un secolo in alcuni casi – li hanno amministrati come possedimenti coloniali. Nel corso degli ultimi cinquant’anni i paesi arabi hanno finalmente ottenuto l’indipendenza, ma le cose non sono migliorate molto. Ai governi coloniali si sono sostituiti quasi ovunque dittature militari o monarchie più o meno assolute che hanno governato reprimendo il dissenso, con l’aiuto di imponenti apparati di sicurezza e sfruttando divisioni tribali o religiose. Mentre nel resto del mondo i regimi più spietati si aprivano lentamente alla democrazia e l’economia cominciava a crescere sempre più rapidamente, nei paese arabi i dittatori hanno dimostrato una considerevole capacità di rimanere al potere, mentre l’economia ha continuato a languire.
Nel 2011 la cosiddetta “primavera araba”, una serie di rivolte e manifestazioni di piazza che si sono sviluppate in diversi paesi del Nord Africa e Medio Oriente, hanno fatto sperare ai sostenitori dei regimi democratici nella possibilità che qualcosa, nel mondo arabo, potesse cambiare. Tre anni dopo queste speranze non si sono realizzate. Oggi Siria ed Iraq sono Stati falliti divisi da una guerra civile e da profonde divisioni etniche e religiose. La Libia è nell’anarchia più completa, divisa tra moltissime potenti milizie rivali. L’Egitto è ritornato sotto un regime militare, mentre le oligarchie di Algeria, Arabia Saudita e paesi del Golfo sono riuscite a rimanere al potere, sfruttando principalmente i proventi del petrolio e del gas naturale (anche se probabilmente i loro regimi sono più fragili di quanto può sembrare). Tra tutti i paesi arabi, soltanto la Tunisia sembra essersi avviata verso la democrazia e la crescita economica, anche se per diversi mesi nel 2013 una serie di violenze e omicidi politici ha fatto pensare anche qui a un collasso del sistema statale.
A questa complicata situazione è dedicata la copertina del settimanale britannico The Economist di questa settimana, titolata: “La tragedia degli arabi. La civiltà che un tempo guidava il mondo è in rovina, e soltanto gli arabi possono ricostruirla”. Il settimanale cerca di rispondere ad una domanda:
Una delle grandi domande dei nostri tempi è: perché gli arabi hanno fallito in maniera così clamorosa nel creare democrazia, felicità e (a parte per i proventi del petrolio) benessere per i loro 350 milioni di abitanti? Cosa rende le società arabe così vulnerabili ai regimi tirannici e ai fanatici che cercano di distruggerle, insieme a quelli che percepiscono come i loro alleati occidentali? Nessuno pensa che gli arabi in quanto tali non abbiano le abilità necessarie o soffrano di una specie di antipatia patologica per la democrazia. Ma perché gli arabi si sveglino da questo incubo e perché il mondo si senta più sicuro parecchie cose devono cambiare.
Secondo il settimanale uno dei principali problemi è la religione islamica. O, più precisamente, la moderna interpretazione della religione islamica diffusa in numerosi paesi arabi: l’unione di autorità spirituale e temporale e l’assenza di una chiara separazione tra stato e religione hanno impedito lo sviluppo di moderne istituzioni politiche indipendenti. Accanto a questa visione, largamente diffusa nei paesi arabi, alcuni militanti cercano una legittimazione predicando una versione ancora più estrema e fanatica dell’islam. Turchia e Indonesia sono democrazie piuttosto efficienti (a paragone di Egitto e Libia, ad esempio), anche se sono paesi a maggioranza musulmana, segno che il problema causato dall’islam deriva da come la religione viene declinata, piuttosto che dall’islam in sé.
A differenza di Indonesia e Turchia, però, nei paesi arabi non esiste una lunga tradizione statuale: i paesi arabi, come l’Iraq ad esempio, sono entità nuovissime, create disegnando confini astratti dopo la caduta dell’impero ottomano. In questo breve lasso di storia, quasi tutti i paesi arabi hanno fallito nel creare i prerequisiti per una democrazia funzionante, come una pluralità di partiti politici, l’emancipazione delle donne, una stampa libera e un potere giudiziario indipendente.
Secondo l’Economist, accanto alla mancanza di uno stato liberale è mancata anche un’economia libera. Negli ultimi anni gli stati arabi si sono ispirati più all’esperienza dell’Unione Sovietica – che in molti casi aiutava economicamente questi paesi – che a quella dei paesi occidentali. Le economie dei paesi arabi sono nate e cresciute in un clima ostile al libero mercato e favorevole alla regolazione, ai monopoli pubblici, ai sussidi e alla pianificazione centralizzata (in particolare in quei paesi che esportano grandi quantità di petrolio). Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, molte politiche di impronta socialista sono state abbandonate, ma non sono state sostituite da un mercato aperto e concorrenziale. Nell’Egitto di Hosni Mubarak, ad esempio, gli ultimi anni furono caratterizzati da un capitalismo clientelare, in cui prosperavano un pugno di imprese appartenenti a grandi famiglie legate al regime. Nei decenni trascorsi dall’indipendenza, quasi nessuna multinazionale di livello mondiale è nata in un paese arabo e gli abitanti di quei paesi che volevano esercitare i loro talenti erano costretti a emigrare in Europa o negli Stati Uniti.
La stagnazione economica ha prodotto insoddisfazione e una popolazione sempre più numerosa di giovani disoccupati e senza prospettive. Spesso nei paesi oppressi da regimi dittatoriali l’unico luogo dove potersi riunire, discutere e ascoltare discorsi è la moschea. Una generazione di giovani arabi si è radicalizzata ascoltando le prediche nelle moschee e insieme ai propri regimi tirannici ha cominciato a odiare anche i paesi occidentali. Grazie ai mezzi di comunicazione di massa, questi giovani hanno avuto la coscienza di non essere soli nel Medio Oriente e che in altri paesi le prospettive per i giovani come loro erano molto migliori. Secondo l’Economist la sorpresa non è che sia arrivata la primavera araba, ma che non sia arrivata prima di quando in effetti si è diffusa e sviluppata.
L’esperienza dell’invasione in Iraq del 2003 e le conseguenze che questa ha provocato negli undici anni successivi dimostrano che prosperità e democrazia non possono essere semplicemente esportate con le armi. Ma la soluzione non può nemmeno essere quella di mantenere artificialmente in vita regime autoritari e repressivi: anche se la primavera araba è terminata (del tutto o quasi: in Bahrein si continua a protestare per esempio, anche se a intensità minori rispetto al passato), i motivi che l’hanno causata sono ancora presenti e potrebbero causare una nuova ondata di rivoluzioni. Come è accaduto in Siria e come sta accadendo in Iraq, queste nuove rivoluzioni rischiano di finire in mano ai fanatici, che però finiscono con il «divorare sé stessi», scrive l’Economist.
La maggioranza degli arabi moderati che credono nei valori secolari dovrebbero cercare di guadagnarsi più spazio nelle politiche nazionali. Quando arriverà il momento, dice l’Economist, dovranno battersi per quei valori che un tempo fecero del mondo arabo la parte più avanzata del mondo: si tratta del pluralismo e dalla tolleranza per esempio, ma comprendono anche l’apertura all’educazione e al libero mercato. Oggi questi valori possono sembrare lontani e irraggiungibili, ma per gli arabi possono rappresentare ancora la visione di un futuro migliore.