Il continente nero è tra i più razzisti della terra

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Messaggioda Berto » lun mar 26, 2018 8:58 am

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Il continente nero è tra i più razzisti della terra

Messaggioda Berto » lun mar 26, 2018 9:13 am

L'Africa il continente selvaggio,
non è così puro e innocente come taluni vorrebbero far credere, attribuendo i mali africani alla corruzione portata dai bianchi dell'Europa e occidentali.



Il mito del buon selvaggio
https://it.wikipedia.org/wiki/Buon_selvaggio
Buon selvaggio è la denominazione di un mito basato sulla convinzione che l'uomo in origine fosse un "animale" buono e pacifico e che solo successivamente, corrotto dalla società e dal progresso, diventasse malvagio.


http://www.filosofico.net/Antologia_fil ... SELVAG.htm


Il buon selvaggio è un mito. Quello cattivo era la realtà
Camillo Langone - Mer, 17/08/2016

http://www.ilgiornale.it/news/spettacol ... 97116.html

Schiavisti, torturatori e cannibali. Dalle Americhe all'Africa i "nativi" furono peggiori dei colonizzatori

Come si chiama la piattaforma digitale del Movimento Cinque Stelle? Rousseau. E quale mito il filosofo svizzero-francese è riuscito a radicare nella mente porosa degli europei moderni? Il buon selvaggio.

Quindi Incontri coi selvaggi di Jean Talon (Quodlibet, pagg. 204, euro 15) non è solo una piacevole lettura, è anche un libro involontariamente politico.

L'autore (bolognese, a dispetto del nome) fa parte del giro Celati-Cavazzoni e racconta secoli di contatti fra l'uomo bianco e gli indigeni con lo svagato distacco tipico di quell'ambiente letterario, senza prendere posizione, senza tesi da dimostrare. Eppure dopo pochi capitoli diventa inevitabile tifare per l'esploratore, che magari è un pazzo, un uomo animato da manie di grandezza, da sogni insensati, ma che immancabilmente si imbatte in un soggetto peggiore di lui: il Cattivo Selvaggio. Ovvio che le avventure siano quasi sempre disavventure. Nelle prime pagine, dedicate allo spagnolo del sedicesimo secolo Cabeza de Vaca, nome da protagonista di film di Herzog, troviamo aztechi che compiono sacrifici umani, indiani dei Caraibi che dopo aver catturato i bianchi li affogano in mare, indiani del Nordamerica che dopo aver catturato i bianchi li riducono in schiavitù trasformandoli in bestie da soma...

Son forse meglio gli indigeni africani? Ma per carità. All'inizio dell'Ottocento il francese René Caillié si mise in testa l'assurda idea di raggiungere Timbuctù, la leggendaria porta del Sahara, e mal gliene incolse. L'unico modo era spacciarsi per arabo (e il razzismo sarebbe un'invenzione occidentale?) oltre che (c'era bisogno di dirlo?) per musulmano. Lo spericolato e purtroppo per lui disarmato esploratore si prestò al travestimento ma non fu sufficiente, visto che fra Senegal e Mauritania i bambini dei villaggi lo accoglievano con lanci di pietre gridando: «Venite a vedere il cristiano!». Rispettare un ramadan rigidissimo è un problema ovunque, figuriamoci nel deserto: «A un certo punto il caldo e la sete si fanno così insopportabili che viene consentito sciacquarsi la faccia e la bocca con un po' d'acqua, a condizione ovviamente di non ingerirne. Durante queste operazioni Caillié è osservato con particolare attenzione, sa benissimo che qualora fosse colto a ingerire un solo sorso d'acqua sarebbe massacrato seduta stante».

Fa un certo effetto leggere queste righe nel tempo in cui da tutti i pulpiti, specie ecclesiastici ma non solo, si parla di islam religione di pace, Corano libro di pace, Maometto uomo di pace, musulmani popolo di pace... La violenza che si respira nel capitolo sul disgraziato Caillié non sembra avere motivazioni che non siano religiose. Oggi ci sono preti sedicenti cattolici secondo i quali il terrorismo islamico è motivato dalle passate umiliazioni coloniali ma, a prescindere dalla stomachevole giustificazione della vendetta da parte di coloro che dovrebbero insegnare a porgere l'altra guancia, e non a tirare l'altra bomba, l'esploratore francese arrivò nell'odierno Mali mezzo secolo prima della colonizzazione: in molte località non avevano mai visto un europeo, pertanto l'ostilità verso lo straniero non aveva motivazioni storiche, ma era già scritta nei codici di quelle popolazioni. Si noti infine che i mauri, i nomadi berberi a cui piaceva seviziare Caillié, di mestiere facevano i mercanti di schiavi: africani che schiavizzavano altri africani, tutto un contesto di brutalità e sopraffazione in cui il colonialismo non c'entrava niente, l'Europa non c'entrava niente.

E i sudamericani? L'esploratore inglese che nel 1741 visitò i fuegini, gli antichi abitanti della Terra del Fuoco, vide «un uomo uccidere il figlio, colpevole di aver lasciato cadere una cesta piena di ricci in mare, scaraventandolo contro le rocce di una scogliera». Un perfetto esemplare di Cattivo Selvaggio. Il navigatore Robert FitzRoy quasi un secolo dopo non rilevò miglioramenti, anzi scoprì che quando l'arcipelago veniva colpito dalla carestia, e probabilmente succedeva spesso, gli indigeni, affamati, prima dei cani uccidevano e mangiavano la donna più anziana della famiglia. Spiegandolo così all'europeo perplesso: «Perché i cani catturano le lontre, mentre le vecchie no».

Che i tropici siano tristi lo sappiamo almeno dai libri di Lévi-Strauss, ma questi selvaggi esageravano. Quelle che Talon con sprezzatura definisce «storie minori in gran parte ricavate dalla letteratura etnografica» sono invece tragicomiche smentite del mito di Rousseau che, lungi dall'essere un'impolverata idea filosofica del diciottesimo secolo, è ancora vivissimo e capace di alimentare le ideologie dominanti del ventunesimo secolo, dal grillismo all'ecologismo fino all'immigrazionismo.




L'abbaglio ideologico del "buon selvaggio"
Giovanni Fighera

http://www.lanuovabq.it/it/labbaglio-id ... -selvaggio

L'uomo primitivo, a contatto con la natura, è buono ed è la civiltà a corromperlo. Questo pensava Jean Jacques Rousseau e così credeva anche Giacomo Leopardi, nella sua prima fase di "pessimismo storico". Poi maturò e la rinnegò.
"Buon Selvaggio"

La tentazione di attribuire la causa dell’infelicità umana alle condizioni contingenti e storiche in cui si è costretti a vivere, al progresso, all’incivilimento è una delle tentazioni maggiori per l’uomo. Attraversa, infatti, tutta la storia del pensiero e della cultura da tempi immemori. Un tempo l’uomo, vivendo a contatto con la natura, non corrotto e non inquinato dagli elementi artificiosi del progresso e della civiltà, sapeva vivere; oggi non più. Una simile analisi, che individua chiaramente le cause del problema, fornisce indubbiamente una soluzione categorica e indefettibile, quella di rimuovere le ragioni che ci hanno allontanato dallo stato incorrotto e primigenio originario ritornando ad un rapporto diretto e spontaneo con la natura, sorgente della nostra realizzazione, «madre benevola», quasi idolatrata e, quindi, Natura. Secondo tale linea di pensiero l’uomo allo stato di natura è buono. Si noti bene «buono»: non si pone tanto la questione della felicità, ma della bontà. Si rimanda ad una autosufficienza dell’uomo, ad una autonomia di un essere che basta a se stesso: se siamo buoni per natura, che bisogno c’è di qualcuno che ci redima, che ci salvi, che redima il nostro male? L’uomo egocentrico, autonomo, sostituisce il proprio cuore con il proprio progetto, con la propria ideologia, con il proprio pensiero di essere buono ed evade così la domanda di felicità. Alla situazione reale viene sostituito uno schema del pensiero, un’ideologia. Non occorre più essere felice.

All’epoca di Leopardi questa linea di pensiero trova la sua espressione migliore nel mito del buon selvaggio di Jean Jacques Rousseau, che viene corroborato dalle relazioni confezionate ad arte dagli esploratori sulle popolazioni incontrate a Tahiti nella seconda metà del Settecento. I ricercatori sulle nuove popolazioni non raccontarono quello che effettivamente videro (tendenza a guerreggiare …), ma, istruiti alla perfezione dalla madrepatria, costruirono l’immagine di popoli che non conoscevano ancora il male, l’egoismo, lo sfruttamento, la corruzione dell’Europa. Del resto, più di due secoli prima lo stesso Bartolomé De las Casas aveva contribuito a creare il mito del buon primitivo e, nel contempo, la leyenda nera sulla conquista spagnola, che una più imparziale ricerca storica già da tempo ha aiutato a sfatare. Non è, certo, questo lo spazio per approfondire la genesi e le ragioni di determinate posizioni che trascurano che una ferita è presente nell’animo dell’uomo fin dalla nascita, anche nei popoli che non hanno conosciuto la nostra civiltà: in termini cristiani questa ferita viene denominata peccato originale.

Qui, ci interessa riflettere sul fatto che lo stesso Leopardi fu vittima, fino a venticinque anni, dello stesso abbaglio ideologico, riconoscendo la ragione colpevole della situazione in cui l’uomo è costretto a vivere e attribuendo alla natura l’unica possibilità di vita autentica, piena e perfezionata. È questa la fase del «pessimismo storico», una delle espressioni più in voga e utilizzate per esprimere il primo pensiero di Leopardi. Non credo certo che la terminologia proposta sia efficace ad indicare la complessità della questione della ricerca del Recanatese, in quanto il pensatore tenta di trovare una risposta alla domanda di felicità dell’uomo e, quindi, si chiede se sia connaturata all’uomo o se l’imperfezione e la conseguente ricerca di compimento siano state indotte dallo sviluppo storico. In questa fase del pensiero di Leopardi il binomio Natura – Ragione presenta un’evidente sproporzione a vantaggio del primo elemento, considerato fonte di ogni beneficio per l’uomo, mentre il secondo termine (che andrà inteso in un senso assai ampio, come incivilimento, progresso, evoluzione storica, acculturazione, erudizione) viene incolpato di aver snaturato l’uomo, di averlo reso artificiale. L’uomo – secondo Leopardi – è come se fosse colpito da una sorta di «entropia da incivilimento», da una perdita di energia vitale di cui è dotato fin da principio e che perde nel tempo crescendo, con lo sviluppo della ragione, con l’allontanamento da uno stato di natura primigenio e genuino, contraddistinto da un rapporto spontaneo e più vitale con le cose e con la realtà. Col tempo l’uomo si trova a non sapere più vivere, a vivere artificiosamente, a dover imparare quello che un tempo sapeva per natura, a recuperare un rapporto autentico con le cose.

Leopardi non crede che la Natura ci abbia destinati ad un tale tipo di civilizzazione e di perfezionamento che corrisponde ad un deterioramento del nostro corpo. Tanta produzione leopardiana degli anni tra il 1819 e il 1822 rispecchia questo pensiero, trova la sua scaturigine in questa contrapposizione tra antichi e moderni: i primi virtuosi e capaci di un rapporto più vitale con la realtà, i secondi decaduti e corrotti e indeboliti dall’incivilimento.

Leopardi trova, poi, un conforto al suo pensiero nel confronto che si può instaurare tra l’universale sviluppo storico e il percorso individuale di crescita. In pratica, come la storia dell’umanità assiste ad un allontanamento dallo stato di natura dei popoli primitivi che diventano civilizzati ed evoluti, ma nel contempo più incapaci a vivere, così la storia di ciascuno di noi assiste al distacco dallo stato infantile caratterizzato da un rapporto più vivace ed autentico con la vita per entrare in una fase adulta più dominata dalla ragione, dal pensiero, da un’artificiosità del vivere e, quindi, da una difficoltà ad affrontare in maniera autentica e spontanea la vita. L’adulto si trova, così, a dover apprendere quello che per natura il bambino vive semplicemente per un rapporto più diretto con la natura. Nella sostanza questa è la linea argomentativa che contraddistingue il pensiero di Leopardi su ragione e natura fino al 1823/1824. Da quegli anni le riflessioni del Recanatese mutano fino quasi ad opporsi radicalmente alle idee di partenza.

Il segno della grandezza e della genialità di un pensatore/scrittore si scorge non tanto nella sua capacità di coerenza, bensì nella sua ricerca della verità che lo può condurre anche a ritrattare quanto fin lì affermato, senza paura di essere tacciato di incoerenza e di perdere, magari, la propria immagine. In questo consiste l’amore del vero più che di se stessi. Così già alla fine del 1823, grazie anche alla vastità delle sue letture, alla conoscenza più approfondita delle opere di Epitteto e di Teofrasto, Leopardi comprende che la questione della felicità così come l’aveva descritta nelle sue opere poetiche e nello Zibaldone è tipica del cuore dell’uomo di ogni epoca e di ogni luogo, è connaturata all’animo umano, non è attribuibile all’allontanamento dallo stato di natura. Anzi, proprio la Natura viene ora considerata matrigna, perché ha fornito all’uomo un desiderio innato di felicità infinita, ma non gli ha fornito i mezzi per colmarlo. Da qui derivano l’insoddisfazione e l’infelicità umane. La ragione non è colpevole, ché, anzi, da valido strumento gnoseologico ed euristico permette all’uomo di scoprire il vero, di comprendere la natura del nostro animo e di cercare di trovare delle possibili soluzioni. È la ragione che non vuole accontentarsi dei rimedi palliativi ed illusori, che sono solo dei surrogati della felicità e, in maniera indomita, ricerca e domanda una felicità piena. Questa è la fase definita del pessimismo cosmico. Anche qui l’espressione nasconde la vera natura del pensiero leopardiano: il Recanatese è arrivato all’acquisizione che il problema della felicità è immutato nel tempo e nello spazio, perché è una domanda del cuore dell’uomo.

Il vero filosofo è per Leopardi anche poeta, così come il vero poeta è anche filosofo. Ecco perché le nuove acquisizioni trovano subito una traduzione geniale in immagini e dialoghi lucidi e sorprendenti per l’ironia e la forza maieutica, le Operette morali, scritte in gran parte tra il 1823 e il 1824. Il Recanatese ribadisce, poi, le stesse riflessioni in un notissimo passo dello Zibaldone del 22 aprile 1826, quello in cui ci rappresenta un giardino bello e perfetto nel suo insieme, se visto da lontano e dall’esterno, ma, in realtà, in stato di souffrance universale, perché i singoli elementi di quel luogo soffrono e, quindi, la serenità dell’insieme è solo illusoria. Il problema non è, quindi, esistere, ma vivere. La questione dell’esistenza non si può risolvere e affrontare in uno sguardo sociale e collettivo, ma bisogna partire dall’esperienza del singolo: è l’unico modo per non essere estranei a noi stessi, per non sentirsi immedesimati nella massa informe e senza nome.

Ora, però, è necessaria una precisazione. La maggior parte dei libri di scuola presentano come questione centrale nel percorso sul pensiero e sulla produzione di Leopardi il passaggio dalla fase del pessimismo storico a quello cosmico. Uno studente di diciotto anni già fin da subito inquadra il grande genio recanatese all’interno di schemi e di categorie negative e l’opera di Leopardi appare già sintetizzata in un climax ascendente di pessimismo. Noi abbiamo cercato di comprendere che il cuore del suo pensiero e della sua produzione sta altrove.
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Re: Il continente nero è tra i più razzisti della terra

Messaggioda Berto » lun mar 26, 2018 9:14 am

L'inopportuna e ipocrita indignazione di certa parte del mondo per le accuse di Trump ai paesi cesso africani


Ma nessuno parla delle scuse che l'Africa dovrebbe al mondo
Luigi Guelpa - Dom, 14/01/2018

http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 82785.html

Dalla corruzione endemica dei regimi alla democrazia negata Dalle stragi di bambini-soldato ai business dei diamanti insanguinati

Il Continente Nero si è indignato e pretende le scuse dall'inquilino della Casa Bianca, ma è altrettanto vero che Madre Africa ha partorito alcuni orrori impossibili da cancellare.

Abomini per i quali, a oggi, non ha mai pronunciato scuse ufficiali, scaricando spesso le responsabilità sull'Occidente.


CORRUZIONE

Dei 20 Paesi al mondo con la più alta percezione della corruzione, 9 sono africani. In ordine decrescente, dopo la Somalia vengono Sudan, Sud Sudan, Angola, Libia, Guinea Bissau, Eritrea, Zimbabwe e Repubblica democratica del Congo. La possibilità di denuncia nei confronti dei funzionari pubblici è molto ridotta, mentre elevate sono le intimidazioni contro i cittadini che osano parlare. Benché l'Unione Africana si sia data come priorità la lotta alla corruzione e all'impunità, molti Paesi rimangono reticenti nel prendere misure concrete per realizzare questo obiettivo.


IL SACCHEGGIO DEGLI AIUTI

Lo sostiene un'africana, l'economista zambiana Dambisa Moyo, autrice del best-seller «Quando la carità uccide»: negli ultimi anni più di un trilione di dollari sono stati donati all'Africa, ma questi aiuti non hanno migliorato le condizioni del continente. La colpa è proprio degli aiuti che costringono l'Africa a una perenne adolescenza economica, rendendola dipendente come da una droga e che contribuiscono a diffondere le pestilenze della corruzione e del peculato, grazie a massicce iniezioni di credito nelle vene di Paesi privi di una governance solida e trasparente.


BAMBINI SOLDATO

È una piaga che sembra impossibile da debellare. I jihadisti di Boko Haram, attivi in Nigeria, Ciad, Niger e Camerun, hanno obbligato nel 2017 almeno 135 bambini a trasformarsi in attentatori suicidi, un numero cinque volte superiore al 2016. Nella Repubblica Centroafricana, i bambini sono stati violentati, uccisi, reclutati con la forza come soldati. Nella Repubblica democratica del Congo, oltre 850mila piccoli hanno dovuto lasciare le proprie case e 400 scuole sono state obbiettivo di attacchi deliberati. In Somalia, circa 1800 minori sono stati costretti a combattere nei primi dieci mesi del 2017, in Sud Sudan è capitato dal 2013 a più di 19mila bambini.


DIAMANTI INSANGUINATI

L'Africa vanta la maggiore produzione di diamanti industriali del mondo fin dal 1870. I maggiori estrattori sono la Repubblica Democratica del Congo (che è il primo produttore mondiale) e il Sudafrica, ma sono presenti miniere di diamanti anche in Angola, Sierra Leone e Liberia. Per gli africani, però, le risorse sono la causa di guerre, conflitti e rivolte. La ricerca e lo sfruttamento di aree di possibili giacimenti diamantiferi produce (con una stima approssimativa per difetto) circa un milione di morti per denutrizione, siccità, degrado e ovviamente guerre ogni anno.


I DITTATORI A VITA

Prima la rinuncia di Eduardo dos Santos, alla guida dell'Angola per 38 anni, poi quella forzata di Robert Mugabe, padre-padrone dello Zimbabwe per 37 anni. Sembrava spuntato un germoglio di democrazia. Purtroppo non è così, quasi la metà degli Stati africani sono guidati da presidenti che governano in modo autocratico da oltre due, tre decenni. A questi si aggiungono coloro che, terminato il mandato elettorale, hanno deciso di rimanere sulla tolda della nave senza indire nuove consultazioni, come Kabila nell'ex Zaire. C'è chi, poi, ne ha fatto una questione dinastica. Dal Camerun alla Guinea Equatoriale, dal Ciad al Congo, passando per Gabon, Uganda e Ruanda fino in Africa australe, dove, cacciato Mugabe, è subentrato l'ennesimo presidente, golpista, Emmerson Mnangagwa, sostenuto dalla Cina.
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Re: Il continente nero è tra i più razzisti della terra

Messaggioda Berto » lun mar 26, 2018 9:14 am

Ci si liberi dal senso di colpa del colonialismo

Gli europei o i bianchi europei che nei secoli passati hanno colonizzato l'Asia e l'Africa o che le hanno invase con il loro imperialismo politico militare sono stati quasi tutti cacciati, espropriati e sterminati Il Sudafrica è uno degli ultimi esempi, nonostante i bianchi europei colonizzatori del paese abbiano rinunciato al loro dominio politico consentendo ai neri africani di partecipare e concorrere alla sovranità politica nella gestione del paese e dello stato; gli africani del Sudafrica come in quasi tutti gli altri paesi del continente nero, maltrattano i bianchi e molti di loro hanno ritenuto e ritengono che i bianchi debbano essere tutti espropriati, cacciati o sterminati.
Per il principio di reciprocità gli africani non possono che aspettarsi lo stesso trattamento e nessunissimo riguardo.
L'imperialismo coloniale così terminato non può quindi essere assunto come scusa, giustificazione e pretesto per l'invasione degli africani in Europa.
I bianchi europei, i cristiani europei, gli stati europei odierni non hanno più alcuna responsabilità e non vi è ragione che debbano sentirsi in colpa verso l'Africa e gli africani; non ne hanno per l'instabilità e i regimi politici indigeni disumani dell'Africa, per le carestie e le epidemie che falciano le sue popolazioni, per i problemi causati dalla sovrapopolazione in molti paesi del continente.
Nemmeno le multinazionali europee del petrolio, minerarie, del legno e agricole sono responsabili dei regimi politici autoritari, dei conflitti etnici, delle crisi sociali, delle carestie, delle problematiche derivanti dalla sovrapopolazione, del sottosviluppo economico endemico e di tutti i mali che affliggono l'Africa. Possono avere qualche responsabilità indiretta locale tipo l'inquinamento o la disoccupazione allo stesso modo che ce l'hanno ovunque nel mondo e nella stessa Europa, tutte questioni che vanno risolte localmente in Africa nei paesi africani, con i loro stati e con le loro popolazioni.
Le problematiche africane dovute alle carestie naturali, ai regimi politici, al tribalismo, ai conflitti etnici e religiosi, alla sovrapopolazione, alle difficoltà e alle crisi economiche non sono responsabilità e non riguardano direttamente l'Europa e pertanto il peso non va scaricato assolutamente sugli europei.
La solidarietà umana dell'Europa e dei suoi paesi, caso mai può esserci solo se volontaria e se non crea problemi ai cittadini europei.
Quindi anche la migrazione socio-economica e l'asilo politico e umanitario vanno trattati alla luce di queste ed altre considerazioni tra cui la sicurezza socio politica, la compatibilità culturale e religiosa, le possibilità economiche e finanziarie.
Non ha alcun senso universale deprivare il propri cittadini, i propri famigliari, la propria gente per aiutare altri che magari sono solo profittatori, parassiti e criminali travestiti da bisognosi.


Colonizzazione e decolonizzazione
viewtopic.php?f=194&t=1822


Liberiamo l'Europa dai sensi di colpa, dai miti e dai pregiudizi
viewtopic.php?f=92&t=2669




???
Le responsabilità europee sull’Africa – Padre Gheddo su “Mondo e Missione”
14 marzo 2014

http://www.gheddopiero.it/index.php/le- ... e-missione

Di tanto in tanto, vengo «provocato» nel corso di incontri o dibattiti, a parlare di un tema spinoso quale la colonizzazione dei Paesi poveri. Talvolta si rivolgono a me per un parere studenti o amici. Massimo Ciacchini di Livorno, ad esempio, mi scrive: «Caro padre, lei ha viaggiato molto in Africa e la studia da tanti anni. Le chiedo un favore. Mio figlio deve fare una tesina sulla colonizzazione e decolonizzazione del continente africano. Gli dia qualche idea su cui lavorare». Conosco abbastanza l’Africa, credo di averne visitato una trentina di Paesi e alcuni più volte, ma non ho scritto nulla di specifico sull’argomento colonizzazione e decolonizzazione, anche se in diversi miei libri ho toccato il tema. Nel corso degli anni, ho maturato alcune idee generali, che provo qui ad esporre.

1) La colonizzazione è stata un fenomeno storico ambivalente. Da un lato possiamo considerarlo molto positivo: ha aperto i popoli a quello che è il mondo moderno con i diritti dell’uomo e della donna, il progresso tecnico-scientifico, la democrazia, la scuola e la medicina moderne, ecc. Il cosiddetto «mondo moderno» è nato in Europa da radici cristiane e poi è stato diffuso dagli europei, spesso con metodi disumani come lo schiavismo in Africa. Dall’altro lato la colonizzazione è stato un fenomeno negativo perché i colonizzatori non hanno formato una classe media capace di sostenere il proprio Paese; inoltre, hanno portato il mondo moderno, ma non l’esempio di Cristo e il Vangelo; o meglio, i missionari hanno testimoniato il Vangelo e la carità cristiana, ma in misura minima rispetto al fenomeno complessivo della colonizzazione in Africa.

2) Anche la decolonizzazione dell’Africa dopo la seconda guerra mondiale, quando l’Occidente era stremato e i popoli ormai coscienti del diritto all’indipendenza (almeno le poche élites istruite), è stato un fenomeno con luci e ombre. Positivo da un lato, perché ha ridato ai popoli africani la loro libertà; ma negativo dall’altro perché l’ha fatto senza preoccuparsi troppo di cosa sarebbe successo dopo! Non pochi Paesi dell’Africa nera all’indomani dell’indipendenza sono precipitati in dittature personali o di etnia, in regimi comunisti che hanno peggiorato i danni della colonizzazione, creando Paesi che da molti anni vivono nel caos o nella guerriglia (la Somalia è un esempio, ma purtroppo non è il solo!).

3) Oggi dovremmo riparare i danni della colonizzazione troppo egoista e della decolonizzazione troppo rapida e senza quasi preparazione dei popoli all’indipendenza. Esempio classico il Congo belga (oggi Repubblica democratica del Congo), esteso sette volte l’Italia e con 15 milioni di abitanti nel 1960. Il 1° luglio di quell’anno giunge all’indipendenza con soli 14 laureati, alcuni dei quali purtroppo educati a Mosca all’odio verso l’Occidente. Sale al potere uno di questi, Patrice Lumumba, che una settimana dopo l’indipendenza espelle tutti gli stranieri e specialmente i belgi che tenevano in piedi l’economia, i trasporti, gli aerei, le banche, i commerci internazionali, la medicina e gli ospedali, le scuole superiori, la polizia e l’esercito, ecc. In un mese il Congo è precipitato nel caos! Non si parla mai dei danni gravissimi che un’ideologia disumana come il comunismo, sostenuto dalle sinistre europee, ha prodotto in Africa.

In Europa oggi, quando si tratta di aiutare i Paesi poveri parliamo sempre e solo di soldi: debito estero, prezzi materie prime, giustizia internazionale, piani di sviluppo, ecc. Ma il sottosviluppo non viene dalla mancanza di soldi, bensì dalla mancanza di educazione del popolo, da culture e mentalità e religioni non ancora evolutesi (ad esempio l’islam), di strutture sociali non adeguate ecc. Lo sviluppo viene anzitutto dall’educazione, dalla libertà di pensiero e di religione. Quindi non basta mandare molti soldi (anche se bisogna continuare a farlo). Non può bastare. Il vero problema è di aiutare i governi ad educare i loro popoli, anche inviando personale scolastico, medico, tecnico che si adatti a vivere a livello di popolo e ad educarlo. È quello che fanno i missionari e i volontari laici, che donano la vita o qualche anno della loro esistenza. Ma questi sono ignorati dai mass media! D’altra parte, come si fa a mandare volontari, missionari, operatori sociali, se non abbiamo più una vita cristiana in Italia e diminuiscono le famiglie cristiane?


È sempre colpa dell’uomo bianco?
Il dolorismo è la nuova religione di un occidente (e una chiesa) vittima del senso di colpa. E anche i laici balbettano omelie ecclesiali, felici di sottomettersi ai barbari
di Pascal Bruckner | 07 Agosto 2016

http://www.ilfoglio.it/chiesa/2016/08/0 ... e_c391.htm

L’odio di sé avanza in tutto l’occidente sotto attacco. Ripubblichiamo alcuni stralci del libro dell’intellettuale francese Pascal Bruckner “Il singhiozzo dell’uomo bianco”, pubblicato nel 1984 (Guanda). Istruzioni per l’uso contro le nuove prosternazioni.

A priori pesa su tutto l’occidente una presunzione di delitto. Noi europei siamo stati allevati nell’odio di noi stessi, nella certezza che vi fosse, in seno al nostro mondo, un male congenito che reclamava vendetta senza speranza di remissione. Questo male può riassumersi in due parole, il colonialismo e l’imperialismo, e in poche cifre: le decine di milioni di indiani eliminati dai conquistadores, i duecento milioni di africani deportati o scomparsi nel traffico degli schiavi, infine i milioni di asiatici, di arabi, di africani uccisi durante le guerre coloniali e poi nelle guerre di liberazione. Schiacciati sotto il peso di questi ricordi infamanti, siamo stati indotti a considerare la nostra civiltà come la peggiore, mentre i nostri padri si sono creduti i migliori. Nascere dopo la Seconda guerra mondiale, significava acquisire la certezza di appartenere alla feccia dell’umanità, a un ambiente esecrabile che, da secoli, in nome di una pretesa avventura spirituale, opprime la quasi totalità del globo. Un continente che non finiva mai di parlare dell’uomo mentre lo massacrava in tutti gli angoli del pianeta, un continente basato sul saccheggio e sulla negazione della vita, meritava soltanto d’essere a sua volta calpestato. Il mondo intero accusa l’occidente, e molti occidentali partecipano a questa campagna: la nostra responsabilità viene affermata con indignazione, con disprezzo. Nessun discorso sul Terzo mondo può concludersi o cominciare senza che riecheggi questo leitmotiv: l’uomo bianco è malvagio.

Che cosa ci rimane, a noi figli e nipoti dei barbari che hanno depredato terra e mare? Fare sempre e dappertutto il nostro atto di contrizione. “Ciascuno di noi è colpevole davanti a tutti, per tutto e dappertutto, e io più degli altri” (Dostoevskij), tale è la nostra più intima convinzione. Il sangue versato ricade su di noi e nulla, ci sembra, può riscattare l’infamia commessa, nessun compenso ristabilire l’equilibrio rotto dall’offesa coloniale. Tutti i nostri titoli di gloria, secoli di sforzi, di calcoli, di perfezionamenti, di imprese, di eroismo, che avevano fatto regnare una certa forma di saggezza umana, sono stati spazzati via, ridotti a zero: sapere che questa fioritura artistica o tecnica era legata a una egual dose d’ignominia, ci ha scoraggiati dall’accettarla o dal riprenderla. Così la svalutazione del messaggio europeo è diventata un codice comune a tutta l’intellighenzia di sinistra dopo la guerra, proprio come l’odio del borghese è stato in Europa, dopo il 1917, un autentico passaporto intellettuale, quando nessun articolo poteva giustificarsi senza un’invocazione rituale al proletariato messianico e un ostentato disgusto per i possidenti. L’indipendenza delle antiche colonie ci lascia tuttavia una possibilità di riscatto: impegnarci a fianco dei popoli in lotta, aiutare sempre e dappertutto il sud a distruggere il vitello d’oro occidentale.

Così la nascita del Terzo mondo come forza politica ha generato una nuova categoria: il militantismo espiatorio. In che modo l’odio di sé sia divenuto il dogma centrale della nostra cultura, è un enigma di cui la storia d’Europa è feconda. E’ strano infatti che nel secolo dell’ateismo militante, pensatori agnostici che hanno aguzzato il loro ingegno nella lotta contro le chiese e le loro dottrine ci abbiano riconciliati d’altra parte con la nozione che è alla base stessa del cristianesimo: il peccato originale. Mentre nei costumi e nel pensiero si verificava un formidabile rivolgimento dei valori – il rifiuto delle immagini di autorità, lo smantellamento degli idoli e dei tabù – , la morte di Dio e del Padre si univa – Sartre ne è l’esempio magistrale – a un rafforzamento della cattiva coscienza, come se una società che aveva eliminato perfino l’idea del peccato preparasse la via regia al senso di una colpevolezza generale. Il quale costituisce il prezzo da pagare per appartenere all’Europa vittoriosa, che per un momento ha trionfato sul resto del mondo. Perché la politica moderna ha cessato senza dubbio d’ispirarsi al cristianesimo, ma le sue passioni sono quelle del cristianesimo. Viviamo in un universo politico impregnato di religiosità, ebbro di martirologia, affascinato dalla sofferenza, e i discorsi più laici sono, quasi sempre, soltanto la ripresa o il balbettamento in tono minore delle omelie ecclesiali. Che una tale brama di “dolorismo”, che un tal gusto per la figura dell’oppresso in genere possano coesistere con un anticlericalismo ancora virulento non è, quindi, che un paradosso secondario

Il terzomondismo accredita una visione manichea, la quale vorrebbe che il peccato degli uni testimoniasse indefinitamente a favore della grazia e della virtù degli altri. La povertà spirituale di certi movimenti di liberazione, gli slogan più sommari dei loro capi sono quindi gonfiati a dismisura come altrettante parole del Vangelo, mentre il rigore intellettuale, la logica, l’educazione, monopolio dei paesi ricchi, sono respinti come diabolici stratagemmi dell’imperialismo. Le più insignificanti insurrezioni, le più trascurabili rivolte contadine, hanno diritto a una risonanza enorme, sproporzionata in rapporto alla loro importanza reale; si santifica l’ignoranza, il settarismo dei capibanda tropicali, si glorifica la marcia degli splendidi asiatici chiamati a distruggere la civiltà europea, insomma le più grandi follie sono portate alle stelle da alcuni spiriti eletti, ben felici di sottomettersi a un’autorità primitiva, di prosternarsi “davanti allo splendore d’una sana barbarie. Secondo questo principio, tutto ciò che innalza, loda, celebra l’occidente è sospettato delle peggiori infamie; in compenso, la modestia, l’umiltà, il gusto dell’autodistruzione, ciò che può spingere gli europei a eclissarsi, a rientrare nei ranghi, è onorato, salutato come altamente progressista. La regola aurea di questo masochismo è semplice: ciò che viene da noi è cattivo, ciò che viene da altri è perfetto. Insomma, si concede sistematicamente un premio di eccellenza agli ex colonizzati. Ama i tuoi nemici: mai la nostra epoca miscredente, negli anni Settanta, ha seguito così fedelmente la parola del Cristo.

La religione della simpatia compassionevole che dimostriamo a gara verso tutto ciò che vive, soffre e sente, dal contadino del Sahel al cucciolo di foca, passando per il prigioniero di Amnesty International e gli animali da pelliccia, scuoiati per scaldare le spalle delle nostre elegantone. L’esaltazione degli istinti di benevolenza, “oralità istintiva che non ha cervello ma sembra esser composta solo da un cuore e da mani soccorrevoli” (Nietzsche), queste lodi cantate giorno e notte dai media, dalla stampa, dagli uomini politici, dalle personalità letterarie o artistiche, affondano direttamente le loro radici nel cristianesimo più imbastardito. Questa religione per afflitti dice che bisogna patire la vita come una malattia. Finché ci saranno uomini che rantolano, bambini che soffrono la fame, finché le prigioni saranno piene, nessuno avrà il diritto di essere felice. Si tratta di un imperativo categorico che c’impone il dovere di amare l’uomo impersonale, e, di preferenza, l’uomo lontano. Proprio come Gesù diceva che i poveri sono i nostri maestri, i terzomondisti fanno della miseria dei paesi meridionali una virtù da prendere a modello. Si amano i tropici per le loro pecche e le loro lacune, la carestia e il male sono al tempo stesso sottilmente combattuti e valorizzati; è un’ambiguità temibile da cui la chiesa cattolica non è mai uscita, ma che contamina allo stesso modo tutte le organizzazioni assistenziali nel Terzo mondo.

Come non sentirsi giudicati sul metro di un martirologio sublime, non sentirsi ignobili e nocivi di fronte a questo grande tribunale della tragedia, che celebra i suoi fasti nell’angusto perimetro dell’apparecchio televisivo o della colonna di giornale? Un Golgotha di sofferenze ci contempla, noi siamo i complici diretti di un sistema economico che saccheggia le risorse dei più sprovveduti. Davanti a questi crimini, ogni spettatore deve dirsi: “Goebbels, sono io!”. Per convincere i cuori reticenti, i media non indietreggeranno davanti a nulla: all’enormità dell’accusa – siete peggio dei nazisti! – si aggiunge l’enormità di quanto viene mostrato. Nessun pudore trattiene la cinepresa; l’orrore non tollera censura, ogni immagine deve avere la sconvenienza di un limite varcato nell’angoscia. Si fa appello all’inaudito, al mai visto, e anzi ve ne fanno vedere anche un po’ di più. Carestie, inondazioni, terremoti vengono riprodotti all’istante per le cineprese: catastrofi fissate su Polaroid. Una catena ininterrotta di immagini va da quelli che mettono in scena la morte degli altri al pubblico del mondo intero, e questa catena dà a tutti il diritto di vedere tutto. Ma favorendo una soltanto delle nostre pulsioni: il voyeurismo. E poiché ci si immagina che, per scuotere gli animi, occorre uno spettacolo sempre più crudo, si aprono all’avidità dello sguardo territori in cui nessuno era penetrato, si punta l’obiettivo su mutilazioni, torture, malattie ancora inedite sullo schermo. La semplice vista di bambini dal ventre gonfio non vi basta? Vi mostreranno questi stessi bambini ridotti a scheletri. Ancora nessuna reazione? Eccoli ridotti a un mucchietto d’ossa e di pelle. Ecco sangue, ferite, ulcere purulente, croste di pus, viscere traboccanti, organi strappati…

Solo la dismisura è in grado di commuovere il pubblico e di interessarlo a questi problemi. E se l’apatia persiste, vuol dire che, così si crede, le immagini non sono abbastanza spettacolari: quindi non vi saranno limiti all’asta degli orrori. Così si produce l’inevitabile perversione dello sguardo: prendiamo gusto al gioco, ne vogliamo sempre di più, la nostra soglia di tolleranza non cessa di aumentare; non chiediamo più di essere commossi, ma sorpresi: ogni volta ci occorre qualcosa di più piccante nell’abiezione. Il valore d’urto di un’informazione è indipendente dalla verità dei suoi termini. L’improbabile, l’enorme saranno considerati sempre meglio del verosimile. Conta solo l’impatto e non l’influenza. Non ci preoccupiamo più di sapere se quelle foto riguardano esseri reali, le vogliamo soltanto più speziate. E vinca la peggiore.

Nella storia biblica della cacciata dal paradiso terrestre, c’erano quattro personaggi: l’uomo tentato, la femmina tentatrice, l’animale tentatore e la cosa tentante. Più due mediazioni: dal serpente alla donna, poi dalla donna ambasciatrice del peccato all’uomo. Storia semplice, rispetto ai molteplici travestimenti che l’occidente utilizza per circuire e sedurre il casto Terzo mondo: il male europeo è multiforme, di volta in volta pornografia, rock, gadget, jeans, droghe, bevande gassate, tecnologia, turismo, denaro: Satana è legione, ha cento maschere, cento travestimenti per sedurre l’oasi primaverile. Da qui la sfumatura d’indefinibile rimpianto con cui accogliamo la normalissima maturazione delle nazioni che entrano nel ciclo delle prove d’iniziazione alla vita politica; da qui anche la nostra collera contro il sacrilego corruttore, il mondo industrializzato, che affretta l’evoluzione smaliziando prematuramente l’umanità innocente.

Così, per spiegare i disastri, la repressione, la corruzione, il nepotismo, la stagnazione che imperversano nell’emisfero sud, si ricorre a questo concetto magico fra tutti: il neo colonialismo. Poiché l’Europa ha lasciato i suoi possedimenti solo per installarvisi meglio, tocca a lei assumersi gli errori e gli sbagli che vi si commettono. Mirabile cortocircuito: di nuovo, il presente non è che un duplicato del passato, e l’antica invettiva può avere libero corso: nelle prigioni iraniane, siriane, algerine si pratica la tortura? E perché i loro agenti “sono gli allievi dei nostri poliziotti” (Claude Bourdet). Lo sciismo s’irrigidisce in un fondamentalismo oscurantista? E’ perché “le ‘soluzioni’ dell’occidente hanno fatto fallimento” e condannano certi paesi all’integralismo (Roger Garaudy). La miseria avanza a grandi passi: naturalmente, a causa delle multinazionali e del loro svergognato saccheggio. Sempre per spiegare l’analfabetismo, le epidemie, le guerre, la decadenza del tenore di vita, il dispotismo dei nuovi padri del popolo, si invocano i colonialisti francesi, gli imperialisti americani, i dominatori inglesi, gli affaristi olandesi, tedeschi o svizzeri, perché in tutto il globo ci sono soltanto due tipi di paesi: i “paesi malati” e i “paesi ingannati” (Roger Garaudy). Insomma, invece di tener conto dei fatti, di cercare le cause determinanti, si prediligono le cause remote che esonerano da ogni responsabilità gli stati tropicali: istigatore universale, il neocolonialismo diventa così il mezzo per accantonare in perpetuo i veri problemi.

Laggiù, in Francia, nello stesso momento in cui innaffiavate le piante o sorseggiavate un caffè, la televisione vi mostrava bambini dilaniati dalle mine, oppositori politici torturati, profughi ammassati sulle giunche che affondavano con tutti i loro beni, vittime di una tempesta o dei pirati che li colavano a picco dopo averli taglieggiati. Potevate credere che fosse una finzione, e bastava premere un bottone per far cessare quelle scene d’incubo. Ma qui, la miseria impregna i muri, l’aria che si respira, l’orizzonte che si abbraccia, forma la sostanza stessa della città. Gli alberghi più lussuosi, le ville meglio custodite sono cittadelle dotate di un privilegio transitorio, circondate dalla sporcizia e dall’infelicità. E, ogni momento, vi aspettate di vedere la porta della vostra camera aprirsi per lasciar passare una teoria di sciancati, di straccioni famelici, di donne miserabili, pronti a occupare lo spazio che la vostra prosperità vi attribuisce indebitamente.
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Re: Il continente nero è tra i più razzisti della terra

Messaggioda Berto » lun mar 26, 2018 9:15 am

Un articolo e/o una delle indagini sul razzismo mondiale pieno di errori e di lacune come quelli che tra i paesi meno razzisti al mondo vi siano il Pakistan (dove i cristiani vengono uccisi perché cristiani) e il Sudafrica (dove i bianchi vengono uccisi perché bianchi, le donne struprate)


I 10 Paesi più razzisti del mondo
Anna Mazzone - 20 maggio 2013

https://www.panorama.it/news/esteri/raz ... migrazione

La mappa dei razzisti nel mondo regala qualche sorpresa. Secondo i risultati della ricerca World Value Survey , condotta tra il 1981 e il 2008 da un gruppo di studiosi olandesi su 87 paesi del mondo con interviste a più di 256 mila persone, il razzismo si annida persino nel cuore del Vecchio Continente, in Francia, e raggiunge i massimi livelli nelle ex colonie britanniche, dall'India a Hong Kong.

I paesi storicamente più razzisti (come Giappone e Sudafrica) si sono invece rivelati tra i più tolleranti della classifica, che vede all'ultimo posto, e quindi campione di tolleranza, gli Stati Uniti, il Canada e la Gran Bretagna. Ma è veramente così? In molti sostengono che i cittadini del Regno Unito e quelli americani e canadesi, bombardati dalle imposizioni del politically correct, alla fin fine non se la siano sentiti di rispondere in maniera sincera alle domande su chi preferirebbero come vicino di casa. Mentre più schiette sono state le risposte provenienti dall'emisfero orientale del mondo. E l'Italia come si colloca? Vediamo Paese per Paese qual è il termometro del razzismo del mondo.

1. Hong Kong. All'ex colonia britannica in territorio cinese va la maglia nera del paese più "intollerante" del pianeta. Il 71.8 per cento degli intervistati ha dichiarato che rifiuterebbe di vivere vicino a persone di "una razza differente" da quella della propria famiglia.

2. Bangladesh. Subito dopo l'ex colonia britannica in territorio cinese, i più razzisti sono gli abitanti del Bangladesh. Il 71.7 per cento non vuole avere rapporti con gente di "razze" diverse dalla propria.

3. Giordania. Terzo classificato è il piccolo regno di Giordania, dove i razzisti si attestano al 51.4 per cento. Basti pensare che la Giordania è meta di migliaia di palestinesi che raggiungono il Regno per poter studiare e lavorare, ma - nonostante siano apparentemente integrati nella società - non possono frequentare determinati corsi di laurea (come medicina e fisica), non possono diventare insegnanti e non possono acquistare beni immobili (case e terreni).

4. India. Chiude il gruppo dei fab four dell'intolleranza l'elefante indiano, con il 43.5 per cento di tasso di razzismo. In questo caso, il fattore culturale è determinante e la struttura castale della società, con sanzioni molto dure per chi entra in contatto con individui "impuri", determina una ferrea gerarchia razzista che affonda le sue radici nella notte dei tempi e che per questo motivo è molto difficile da scardinare.

5. Egitto. Il paese delle Piramidi è tra i più razzisti del continente africano, assieme alla Nigeria. Il tasso di intervistati che si rifiuta di stare vicino a razze diverse si aggira tra il 30 e il 39.9 per cento. Nonostante l'ampio numero di immigrati dai paesi del sud-est asiatico che in Egitto (come in Nigeria) offrono le proprie capacità professionali per diversi generi di attività, il razzismo dei pronipoti dei faraoni sembra non essersi minimamente attenuato. I razzisti d'Egitto sono in compagnia della medesima percentuale in Arabia Saudita, Iran, Vietnam, Indonesia e Corea del Sud.

6. Algeria e Marocco. Un gradino sotto l'Egitto troviamo altri due Paesi dell'Africa del Nord, in cui il tasso di razzismo si attesta tra il 20 e il 29.9 per cento. La storia di Algeria e Marocco indubbiamente segna le risposte degli intervistati. Il Marocco, in quanto Regno, tende a essere strutturalmente chiuso alle etnie provenienti da altri Paesi e l'Algeria, straziata da lunghi anni di guerra, oggi rappresenta un caleidoscopio identitario, nel quale ogni comunità tende a non mescolarsi pur di preservare la propria esistenza.

7. Francia. A sorpresa Parigi si attesta tra i Paesi europei dove il razzismo si fa maggiormente sentire. Secondo i dati di World Value Survey, il 22.7 per cento dei francesi si augura di non avere un vicino di casa di "razza diversa". La Francia rientra così nel gruppo di quei Paesi con tasso di razzismo tra il 20 e il 29.9 per cento, in compagnia di Turchia, Bulgaria, Mali, Zambia, Thailandia, Filippine e Malesia.

8. Italia. Nel nostro Paese il tasso di razzisti oscilla tra il 10 e il 14.4 per cento. Una percentuale minima, che colloca l'Italia sul fondo della classifica mondiale sul razzismo come Paese sostanzialmente tollerante. In compagnia di Roma troviamo la Finlandia e poi Polonia, Ucraina, Grecia, Repubblica Ceca e Slovacchia. Poco più razzisti del gruppo dell'Italia solo Il Venezuela, la Russia e la Cina, con un tasso di intolleranza tra il 15 e il 19.9 per cento.

9. Germania e Giappone. Sono i capifila del gruppo dei penultimi in classifica, in compagnia di Cile, Perù, Messico, Spagna, Belgio, Bielorussia, Croazia, Pakistan e Sudafrica. A Tokyo e Berlino il tasso di risposte razziste si attesta tra il 5 e il 9.9 per cento, nonostante tutte le ricerche condotte precedentemente avessero evidenziato soprattutto in Giappone la tendenza a un razzismo di base, non solo verso l'esterno (Cina e Coree), ma anche verso l'interno, nei confronti dei giapponesi con la pelle più o meno scura.

10. Stati Uniti e Gran Bretagna. Sono i paesi meno razzisti del mondo, assieme a Canada, Brasile, Argentina, Colombia, Guatemala, Svezia, Norvegia, Lettonia, Australia e Nuova Zelanda. Il loro tasso di intolleranza è tra lo 0 e il 4.9 per cento. Cifre definite "fisiologiche" dai ricercatori olandesi, che evidenziano come i Paesi del "nuovo Continente" (le Americhe), eccezion fatta per il Venezuela, tendono a essere largamente tolleranti nei confronti delle etnie diverse e si aggiudicano la palma di luoghi meno razzisti del mondo.
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Re: Il continente nero è tra i più razzisti della terra

Messaggioda Berto » lun mar 26, 2018 9:15 am

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Re: Il continente nero è tra i più razzisti della terra

Messaggioda Berto » lun mar 26, 2018 9:16 am

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Re: Il continente nero è tra i più razzisti della terra

Messaggioda Berto » lun mar 26, 2018 9:19 am

Razzismo dei neri sudafricani verso i bianchi, omicidi, espropri, stragi


Altre tensioni razziali in Sudafrica: il vice presidente dei combattenti per la libertà economica (un partito socialista rivoluzionario nero) trova / intimidisce un giornalista afrikaner al di fuori del Parlamento in Sudafrica.

https://www.facebook.com/10001852189269 ... 7082854687



Il genocidio del popolo boero
mercoledì 24 settembre 2008

http://controstoria88.blogspot.it/2008/ ... boero.html

Spesso, nella storia, vi sono genocidi dimenticati o rimossi dalla memoria comune, ma non per questo non vi sono delle vittime innocenti. Questa mia affermazione è riferita alle atrocità commesse dalla comunità nera sudafricana nei confronti di quella dei boeri.
Ora cercherò di riassumere la storia del popolo boero in modo cronologico dalla perdita della sua libertà:
-1902; i boeri perdono la loro libertà
-1990; Nelson Mandela (terrorista comunista) viene rilasciato
-1994; tramite elezioni illegali il ANC (partito comunista) vince tramite elezioni illegali, e il NWB (movimento di resistenza boero) inizia la lotta per l'indipendenza del suo popolo.

A dieci anni dalla fine dell'Apartheid la persecuzione razziale in Sud Africa esiste ancora, ma si è capovolta, la praticano i neri nei confronti dei cittadini bianchi o boeri, i quali, con il partito marxista al potere, sono oggetto di una pulizia etnica oltremodo brutale. I morti ammazzati, bruciati vivi, segati a metà aumentano vertiginosamente ogni giorno. La solita storia insomma, se le vittime del genocidio sono di pelle nera (come nel caso del Darfur) per bloccarlo si mobilitano Usa, Onu e Ue, ma se le vittime sono bianche e dagli occhi chiari non gliele frega niente a nessuno, nessuno muove un dito per pretendere il riconoscimento dei loro diritti.


Dal 1° luglio l'assemblea nazionale ha fatto legge il "Firearm control bill", che annulla di fatto la prerogativa dei contadini boeri sul possesso di armi per autodifesa. Ormai in molti danno per scontato un "effetto Zimbabwe", un bis della pulizia etnica contro i bianchi condotta nell'ex Rhodesia dal dittatore Mugabe. Certo i bianchi in Sudafrica sono 3,5 milioni ma, anche in Zimbabwe cominciò così e, prima ancora, con i Tedeschi in Namibia. Chi può ha cominciato a scappare. Il rischio, quando morirà l'estremo parafulmine Nelson Mandela è che venga meno ogni freno e il genocidio contagi le città. Il problema è che i bianchi sudafricani non hanno una madrepatria che gli accoglierebbe compensandone i danni: vivendo lì da tre secoli e mezzo sono oramai dei nativi, quanto gli statunitensi in America.

Rudi Botes, 47 anni, rinvenuto con gli occhi cavati nella fattoria Genbade presso Bultonfontein, Adriana Van Der Riet, 86 anni, uccisa con 20 pugnalate in una fattoria nelle Rocklands, Martmaria Da Bruin, 18 anni, stuprata in un lago di sangue nel suo letto a Honeydew, Roelof Gottschalck, 34 anni, impiccato a Rustenburg. Hanno antichi nomi europei questi martiri del Sud Africa. Ma tutto questo non nasce dal nulla, anzi era prevedibile data la politica razzista intrapresa dal governo nero di Pretoria. Nel 2004 il premier Thabo Mbeki, a capo di un monocolore dell'African National Congress d'ispirazione comunista, ha varato un pacchetto di leggi per il "potenziamento economico dei neri" (Bee Laws). Si tratta di leggi che, nella sostanza, rimuovono il diritto inviolabile alla proprietà privata, cancellano ogni toponimo Afrikaaner, chiudono i loro centri culturali, scolastici, radiofonici, completando la rimozione di ogni segno di matrice europea del Programma per il rinascimento africano. Sulla china del genocidio si arriva però con il programma di redistribuzione della terra, che consente che qualunque nero accampi un diritto su un podere Afrikaaner, per quanto datato o velleitario, di appropriarsene tout court: immaginate cosa accade quando i tribunali o gli interessati non acconsentono. O quando gli imprenditori agricoli rifiutano le società con azionisti neri, imposte dalle Bee Laws.

E dire che i primi a rimetterci dall'estinzione dei Boeri sono giusto i neri. Il Sudafrica era il granaio del continente, grazie all'export sottocosto delle fattorie bianche. Molte delle 24 nazioni che ora soffrono la fame nella fascia subsahariana lo devono al crollo della produzione boera, che dava cibo a 130 milioni di africani. E persino in alcune zone del Sudafrica quest'anno è comparso lo spettro della fame.
Pubblicato da Controstoria a 06:31
Etichette: Afrikaaner, Genocidio Boeri, Neslon Mandela, Sud Africa


I bianchi discriminati in Sudafrica
https://it.wikipedia.org/wiki/Razzismo_contro_i_bianchi

Il Sudafrica dopo Mandela: dove la minoranza bianca è discriminata e sotto la soglia della povertà
Giulia Bonaudi - Ven, 04/12/2015
http://www.ilgiornale.it/news/mondo/i-b ... 01485.html

Dalla fine delle politiche discriminatorie verso i neri in Sudafrica si è verificato una sorta di apartheid all'inverso: oggi ad essere discriminati sono bianchi, molti dei quali infatti sono senza lavoro e senza casa.

Se da un lato i neri hanno subito un processo di empowerment, termine che sta ad indicare la forza e il potere conquistati; dall'altro lato, quasi come se fosse il rovescio della stessa medaglia, i bianchi hanno visto diminuire la loro influenza nella società sudafricana.

Ann le Roux è una donna sudafricana bianca di sessant'anni. Nel 1994, quando Nelson Mandela divenne il primo presidente nero del Sudafrica, viveva in una casa a Melville, un quartiere della città di Johannesburg, con la sua famiglia. Dopo la morte del marito, Ann fu costretta a vendere la sua casa di Melville. A causa delle politiche governative mirate a promuovere l'assunzione dei neri alla fine dell'apartheid. Ad aggravare la situazione della donna è arrivato il licenziamento, avvenuto in seguito a una pausa che si era presa per via del lutto familiare. Sedici anni dopo, Ann è costretta a vivere tra una roulotte e una tenda che divide con altre sette persone, tra cui sua figlia e i suoi quattro nipoti, nel campo abusivo di Coronation Park, a Krugersdorp.

A quanto pare, quindi, vi sono minoranze etniche che hanno la precendeza nella lottta alla discriminazione raziale. E la minoranza bianca sudafricana non sembra rientrare tra queste. Sono i nuovi poveri del Sudafrica, migliaia di bianchi che un tempo appartenevano alla classe media, e che oggi come Ann si trovano costretti a chiedere l’elemosina o a vendere gadget improbabili, annidati nei parcheggi dei supermarket ad aiutare per una manovra, sperando nella generosità di qualcuno. Trovare lavoro poi è diventato impossibile: tanto più che moltissime compagnie hanno smesso da tempo di assumere impiegati bianchi. In molti moduli di accettazione online, una volta arrivati alla richiesta della razza, il processo si interrompe per chi barra la casella ‘white’. Nessuna assunzione per loro.

Si stima che i sudafricani bianchi che oggi vivono nei campi abusivi sono circa 450mila. "Al momento, il nostro colore non è il colore giusto in Sudafrica", ha detto Ann La Roux. Dunque, a conti fatti, sembrerebbe che il Sudafrica è ancora più ineguale di quello del 1994.


Non c’è futuro per bianchi in Sud Africa
sabato 6 settembre 2008

http://www.agoravox.it/Non-c-e-futuro-p ... n-Sud.html

I criminali hanno già preso il potere in Sud Africa e non c’è più un futuro
per gli Africani Bianchi, nativi di questo Paese, oramai.

Questo è uno dei tanti messaggi fatto conoscere da Andries Ludik, Avvocato Sud Africano, molto conosciuto, la cui famiglia è stata attaccata in casa, da criminali,terrorizzata , sua moglie Margot, stuprata in fronte al loro giovane figlio la settimana scorsa.

L’Avvocato racconta: giusto guidando lungo i quarieri periferici, vedo come adesso è il Sud Africa, dappertutto, alti muri e reti elettrificate. Mi sono mosso da Morelatapark (zona vicino Pretoria), per andare in un complesso residenziate sicuro, a nord est di Pretoria, e scopriamo una persona dentro la nostra casa, armata, tutti i soldi spesi per proteggere le nostre vite, di mia moglie e dei miei figli, non è servito, perchè siamo stati attaccati lo stesso.

Essere attaccati e sottoposti ad una serie interminabile di violenze, torturati, e terrrorizzati, da criminali, entrati nelle nostre case, e rimasti impuniti, è semplicemene disgustoso.

Le persone di pelle chiara, i bianchi, sono forzati ad andarsene dal Sud Africa, perchè il regime del Governo, l’ANC, usa una barriere razzista per allontanare dal mercato del lavoro, i bianchi, preferendo solo coloro di
pelle scura, e tagliando fuori, coloro che sono semplicemente, bianchi.

La legge sull’Eonomia Africana in Sud Africa, (BEE Law) era stata designata per proteggee la maggioranza della popolazione contro le minoranze. Simili leggi sono usate da altri stati, ma in maniera inversa, per dare alle minoranze, voce e diritti, non come qui che a questi ultimi vengono tolti, visto che i, bianchi sono le minoranze.

La legge sulle minoranze (BEE), assicura che i bianchi non possano mai trovare alcuna sorta di impiego. Basicalmente, questa legge proibisce ai bianchi di lavorare in qualsiasi posto, se vuoi un lavoro devi
essere nero. Questo è ridicolo e vergognoso.

Non c’è futuro in Sud Africa per i Bianchi, questa è la realtà, si vive in una nazione, dove il governo non può dare alcuna forma di sicurezza e sopratutto possibilità di gestirsi la vita.


De Klerk: “Oggi il Sudafrica discrimina i bianchi”
L’ex leader che mise fine all’apartheid: neri favoriti in tutto
Lorenzo Simoncelli

http://www.lastampa.it/2014/04/30/ester ... emium.html

Il Sudafrica di oggi è ancora più ineguale di quello del 1994». A vent’anni dalle prime elezioni democratiche del Paese, questo il bilancio di F.W. De Klerk, l’uomo che, insieme a Nelson Mandela, ha messo la parola fine al regime dell’apartheid. L’ex presidente sudafricano, oggi 78enne, dagli uffici della Fondazione a lui intitolata, racconta com’è cambiata la «Nazione Arcobaleno». Cominciando dalle critiche al partito al governo, l’Anc (Africa National Congress), accusato di mettere in atto «aggressive politiche di discriminazione razziale». Un attacco che pesa come un macigno, in un Paese, che ha visto la sua storia martoriata dai conflitti etnici.

In che modo il governo sta discriminando la popolazione sudafricana?

«La decisione di favorire i neri nelle istituzioni pubbliche, così come nell’economia, ci sta portando ad una situazione in cui si viene scelti per il colore della pelle e non per le reali competenze dei singoli. Siamo vicini al punto in cui non ci potremmo più definire una democrazia non razzista. La strumentalizzazione delle cariche pubbliche per promuovere obiettivi di partito e gli attacchi retorici stanno indubbiamente portando ad un deterioramento delle relazioni tra le varie minoranze».

Qual è il bilancio a 20 anni dalle prime elezioni democratiche del Paese?

«L’economia è tre volte quella del ’94, sono state costruite case per il 25% della popolazione, e garantiti servizi base come elettricità e sanità per milioni di sudafricani. Tuttavia siamo una società ancora più ineguale del 1994. Innanzitutto per il fallimento della scuola che non fornisce un’educazione di livello all’85% dei nostri bambini. A questo si aggiunge l’inaccettabile tasso di disoccupazione. Solo il 43% dei sudafricani tra 15 e 64 anni ha un lavoro. Inoltre le tanto acclamate politiche d’uguaglianza hanno sì permesso al 20% della popolazione nera di entrare a far parte della classe media, ma per il 50% degli estremamente poveri è stato fatto poco o niente».

Conoscendo così bene Mandela crede che sarebbe soddisfatto di come il suo partito, l’Anc, sta governando il Paese?

«Sono sicuro sarebbe profondamente dispiaciuto dalla rampante corruzione all’interno dell’Anc e dall’apparente assenza di punizioni da parte del partito stesso nei confronti dei responsabili. Credo sarebbe infastidito anche dal crescente tono razzista dell’African National Congress e dall’effetto negativo che questo atteggiamento aggressivo sta avendo sulla riconciliazione nazionale. Fino al 2007 il partito ha governato abbastanza bene. Da quel momento in poi, a seguito di una svolta radicale, i risultati, ad eccezione della lotta contro l’Aids, sono venuti meno, soprattutto in campo economico e nelle politiche lavorative».

Il 7 maggio ci saranno le elezioni. Il presidente Jacob Zuma è stato più volte fischiato durante la sua campagna elettorale. Crede che il Paese sia pronto ad un cambio di leadership dopo 20 anni di governo dell’Anc?

«Credo che l’Anc perderà molti voti, ma i tempi non sono maturi per un cambio di leadership. Tuttavia non sarei sorpreso se, a breve, le divisioni e le incomprensioni tra le varie anime del partito portassero ad una scissione interna. Sarebbe un positivo passo avanti e aprirebbe le strade ad una coalizione centrista».

Recentemente Zuma è stato accusato di essersi appropriato indebitamente di denaro pubblico (18 milioni di euro circa, ndr) con la scusa di dover incrementare la sicurezza nella sua casa di campagna. Lei si sarebbe dimesso?

«Faccio ancora parte di quella classe politica secondo cui, se sei colpevole di un grosso scandalo, bisognerebbe dimettersi. Non mi sorprenderebbe se dopo le elezioni, Zuma, si accontentasse di una funzione cerimoniale e lasciasse il timone del Paese al suo vice, esattamente come fece Mandela per la gran parte del mandato».

Lei è stato l’ultimo Presidente bianco del Sudafrica, crede che un giorno il Paese tornerà ad averne uno?

«Attendo il giorno che il colore del Presidente del Paese non sarà più un elemento determinante. Se gli Stati Uniti sono riusciti a sviluppare una maturità politica che li ha portati ad eleggere un presidente nero, non vedo perché un giorno un sudafricano bianco non possa essere eletto di nuovo Presidente».




Con il termine assalti alle fattorie s'intendono una serie di ruberie svolte, a danno di proprietari di fattorie, in Sudafrica.

https://it.wikipedia.org/wiki/Assalti_a ... _Sudafrica

Il fenomeno, ancorché diffuso, viene anche strumentalizzato da ambienti di estrema destra (e siti neonazisti come Stormfront) che parlano di fenomeno che manifesta un genocidio boero[3]. A smentire tale visione sono i diversi studi che mostrano come il movente politico/razzista sia solo rinvenibile in un numero limitato di casi (circa il 2% dei casi) e che solo il 60% degli attacchi alle fattorie è rivolto contro bianchi.
L'11 novembre 2011 i parlamentari europei Philip Claeys (di Interesse Fiammingo), Andreas Mölzer (del Partito della Libertà Austriaco), Fiorello Provera (della Lega Nord) hanno presentato una dichiarazione scritta sugli omicidi di agricoltori in Sud Africa.



In Sudafrica uccidere un bianco non è reato
Più di tremila assassinati in quindici anni nei modi più atroci, quasi tutti senza un colpevole. La strage dei boeri viaggia al ritmo di due delitti alla settimana con la compiacenza del governo. Che ha un obiettivo preciso: l’esproprio delle loro terre
Gian Micalessin - Lun, 29/03/2010
http://www.ilgiornale.it/news/sudafrica ... reato.html

Se andate in Sudafrica per i mondiali di calcio fate un salto a Petersburg, nelle province settentrionali. Da quelle parti troverete una collinetta disseminata di croci bianche.

Contatele. Sono più di tremila. Una per ciascun agricoltore bianco ucciso dal 1994, da quando la «rivoluzione colorata» incominciò a cambiare il volto del Paese. Una rivoluzione che, 16 anni dopo, sembra pronta ad approfittare della «distrazione» del mondiale per metter le mani sulle fattorie dei boeri.

Se dunque l’apartheid era ignobile, il silenzio che circonda il clima di violenza e soprusi sofferto dagli agricoltori boeri non sembra migliore. Chiedetelo al 69enne Nigel Ralf. Lo scorso fine settimana Nigel, come ogni giorno da 50 anni, sta mungendo le vacche della sua fattoria di Doornkop nel mezzo del KwaZulu-Natal. Quando quei quattro ragazzotti neri gli si piantano davanti e gli chiedono del latte, Nigel manco alza la testa. «Non vendo al dettaglio» risponde. Un attimo dopo è a terra con un proiettile nel collo e uno nel braccio. Poi i quattro gli sono addosso, lo fanno rialzare, lo colpiscono con il calcio della pistola, lo spingono fuori dalle stalle. Stordito e confuso Nigel si ricorda di sua moglie. Mezz’ora prima l’ha lasciata dentro la fattoria con i tre nipotini. «Lynette, Lynette chiudi la porta, barricati dentro». Lei lo sente, ma non intuisce. S’affaccia, cerca di capire meglio. La risposta sono tre proiettili al petto. La poveretta s’accascia, cade sul letto, agonizza tra le braccia insanguinate di Nigel mentre i bambini urlano terrorizzati e i tre tagliagole fuggono portandosi dietro una vecchia pistola, un telefono e un paio di binocoli. Bazzecole, banalità quotidiane.

Sui giornali non fanno neanche notizia, ma sulla collinetta di Petersburg solo l’altr’anno sono state piantate altre 120 croci bianche. I plaasmoorde - gli assassini di fattoria come li chiamano i boeri - colpiscono ormai al ritmo di un paio di casi a settimana, ma per le autorità, per i capi dell’Anc e per i seguaci del presidente Jacob Zuma la campagna di violenza contro gli ultimi 40mila agricoltori bianchi non è certo un problema. Per capirlo basta seguire le ultime apparizioni pubbliche di Julius Malema, il 29enne leader dell’ala giovanile dell’African National Congress. Per questo «giovane leone» pupillo del presidente il modo migliore per riscaldare le folle accalcate intorno alle sue mercedes blindate è intonare «Dubula Ibhunu», la vecchia canzone dell’Anc il cui titolo significa emblematicamente «Spara al Boero». Un inno rispolverato ed eseguito con spavalda e incurante allegria negli stessi giorni in cui Lynette agonizzava tra le braccia del marito, mentre un altro farmer 46enne veniva freddato dalla salva di proiettili sparati contro la sua fattoria di Potchefstroom e una serie di fendenti massacrava un allevatore 61enne sorpreso nel sonno dagli assalitori penetrati in una tenuta di Limpopo.
Ovviamente chiunque osi collegare il fiume di sangue versato nelle fattorie e la canzonetta cantata a squarciagola da Julius e dalle sue allegre combriccole viene immediatamente tacciato di calunnia e diffamazione. «Quella canzone come molte altre intonate nei giorni della lotta fa parte della nostra storia e della nostra eredità e non può certo esser vietata» precisa con orgoglio un comunicato dell’African National Congress sottolineando lo struggente carattere «sentimentale» delle storiche note.

Peccato che quel rigurgito d’antichi sentimenti nei confronti degli agricoltori bianchi coincida, a livello politico, con il progetto di nazionalizzazione delle fattorie avanzato, negli ultimi tempi, dal dipartimento di sviluppo rurale. La proposta del dipartimento che intende dichiarare assetto d’interesse nazionale tutte le tenute coltivabili di ampie dimensioni potrebbe portare all’esproprio di tutte le terre possedute tradizionalmente dai boeri. E così mentre i tifosi si godranno i mondiali di calcio l’odiato color bianco scomparirà definitivamente dalle campagne del Paese «colorato».



Ai bianchi in Sudafrica vengono negati i posti di lavoro e presto verrà portata via la loro terra senza compensazione. Di conseguenza, sempre più persone si trovano a vivere nelle dispense nei campi bianchi abusivi perché vengono sistematicamente negati aiuti da qualsiasi altra parte.

https://www.facebook.com/LaurenCSouther ... 9084210830
Whites in South Africa are being denied jobs and will soon have their land taken away without compensation. As a result, more and more people are finding themselves living on handouts in white squatter camps because they are routinely denied help from anywhere else.


Così in Sudafrica si giustifica il genocidio dei bianchi
Nicola Mattei
26/03/2018

http://www.ilprimatonazionale.it/esteri ... nchi-82208

Città del Capo, 26 mar – Una pulizia etnica. Di questo si può ormai parlare in Sudafrica, dove dalla fine dell’apartheid ad oggi si è scatenata una vera e propria “caccia al bianco”. A farne le spese soprattutto gli agricoltori (i cosiddetti “farmers“) afrikaners – i bianchi, quindi – della regione attorno a Johannesburg e Pretoria, la Gauteng Province (“provincia dell’oro”), ma già da tempo ribattezzata “Gangster Paradise”.

I numeri sono impressionanti: oltre 12mila attacchi negli ultimi 20 anni, quasi 2mila morti. Ma le cifre, fornite dal South Africa Police Service, potrebbero essere stimate al ribasso ed essere dunque ben più elevate in questa tragica conta dei morti che registra stillicidi quotidiani. Parliamo di un assalto al giorno e almeno un morto ogni quattro: di fronte a dati del genere non è più fuori luogho parlare di genocidio. Pianificato o meno, la realtà è questa. Tanto che perfino un Paese compassato e molto attento alle questioni di natura “etnica” come l’Australia sta pensando di concedere visti speciali ai bianchi in fuga dal Sudafrica.

Se però in occidente la questione non è affrontata, o evitata come a giustificare ciò che è successo prima della fine dell’apartheid, in Sudafrica sembrano al contrario avere le idee molto chiare in proposito. Succede così che Mbuyiseni Ndlozi, portavoce del partito di estrema sinistra EFF (Economic freedom fighters, Combattenti per la libertà economica) – 25 seggi al parlamento – arriva a giustificare quel che sta succedendo rivangando la storia di secoli fa: “Quella non è la loro terra, ma è stata conquistata con un crimine contro l’umanità“, ha spiegato, aggiungendo che “i bianchi devono mostrare pentimento per quel crimine rinunciando ai propri possedimenti“.

Le parole di Ndlozi seguono a stretto giro di posta una mozione, approvata ad inizio mese, che prevede di arrivare all’esproprio delle terre dei farmers bianchi. La mozione è passata anche con i voti dell’EFF, il cui leader Julius Malema era in passato finito nell’occhio del ciclone per essere stato ripreso mentre cantava la canzoncina anti-bianca “Shoot the Boer”. Ndlozi non è, da parte sua, andato molto lontano da qui: “La giustizia porterà alla riconciliazione“, ha aggiunto. A quale giustizia si riferisca è facilmente immaginabile.


Stop alle violenze e al genocidio dei bianchi in Africa.
Manifestazione dei bianchi in Sudafrica
https://www.facebook.com/senatorfrasera ... 7967691236
È stato un onore parlare contro il genocidio degli agricoltori bianchi sudafricani. Diffondete il video e che la consapevolezza per questa terribile situazione.

Senator Fraser Anning
https://www.facebook.com/senatorfrasera ... 3Y&fref=nf
Manifestazione da tenersi il 12 aprile 2018 in Australia




Colonizzazione e decolonizzazione
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Re: Il continente nero è tra i più razzisti della terra

Messaggioda Berto » lun mar 26, 2018 9:21 am

Razzismo tra gli afromaomettani mediterranei e i neri dell'Africa nera



Africa, esplode il razzismo tra fratelli: "Hai la pelle più scura e porti l'ebola"
Emanuela Fontana - Mer, 05/11/2014

http://www.ilgiornale.it/news/mondo/afr ... 65186.html

In Marocco parte una campagna di sensibilizzazione contro le intolleranze anche in vista della Coppa Africa. Aumentano le segnalazioni di attacchi e insulti verbali ai subsahariani

Una donna di colore entra nell’hammam e le donne presenti escono dalla stanza. Un uomo torna a casa dal lavoro e sente un gruppo di ragazzini che gli gridano contro: “Ebola! Ebola!”.

“Sono di colore, però non chiamatemi ebola”, supplica. In Marocco gli episodi di discriminazione razziale stanno aumentando: chi ha la pelle più scura può essere portatore del virus. L’ebola sta segnando in Africa un pericoloso spartiacque tra le popolazioni del nord e i subsahariani. È il nuovo razzismo, l’intolleranza che dai barconi carichi di immigrati per l’Italia, dove i “più neri” vengono schiacciati nelle stive dai “meno neri”, arriva sui marciapiedi delle grandi città. Il terrore del virus crea barriere tra cittadini dello stesso continente.

È una guerra tra fratelli che a Casablanca ha imposto la nascita di una campagna di tolleranza contro le discriminazioni figlie della paura dell’ebola dal titolo “Sono marocchino, sono africano”. L’iniziativa è organizzata dall’associazione non governativa Forum Anfa.

Le città a forte immigrazione, come Tangeri, Rabat e Casablanca, sono i luoghi dove sta crescendo la paura nei confronti di chi arriva dal sud, per il colore della sua pelle che può indicare una provenienza dai Paesi più esposti al virus, come la Liberia o la Guinea. La tensione sta crescendo, e può trasformarsi, secondo l’Osservatorio del nord sui diritti umani (ONERDH) in un serio allarme sociale: “Se non si prendono misure, la situazione può peggiorare e sarà molto difficile riportare la calma”, avverte il presidente, Mohamed Benaissa. La vita in Marocco e in generale in tutti i Paesi del Nordafrica è difficile soprattutto per chi arriva dalla Liberia. Il fotografo e presentatore televisivo Shoana Salomon ha lanciato un’altra campagna antidiscriminazione dal titolo “Sono della Liberia, non un virus”: “Quando ti chiedono di dove sei, e dici che vieni dalla Liberia – racconta una delle donne liberiane che partecipano al progetto – ti danno sempre le spalle”.

Le campagne di sensibilizzazione sono state decise anche in vista della Coppa Africa di calcio che si svolgerà in Marocco a gennaio. Il governo ha deciso di rinunciare ad ospitare la manifestazione, ma la Confederazione calcistica africana ha posto l’ultimatum: Rabat non può tirarsi indietro, e comunque entro l’11 novembre deve definire le sue intenzioni.

Il Marocco si sta attrezzando sul terreno della prevenzione in vista dell’arrivo di squadre e tifosi da tutto il continente, ma la paura e l’intolleranza sono fenomeni altrettanto difficili da gestire di un’epidemia, segnalano le associazioni del Paese.
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Re: Il continente nero è tra i più razzisti della terra

Messaggioda Berto » lun mar 26, 2018 9:22 am

Il razzismo degli altri: Arabi e Neri nella nuova Tunisia
di Chiara Sebastiani

http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/il-r ... -tunisia-2

«… in America vi sono degli uomini più ebrei degli ebrei: mi riferisco ai negri. In America un ebreo è sì un ebreo, ma prima di tutto è un bianco» (Joseph Roth, Juden auf der Wanderschaft, 1927, tr. it. Ebrei erranti, 1985).

Il 24 dicembre scorso, a Tunisi, in pieno centro e in pieno giorno, tre studenti congolesi ventenni, due ragazze e un ragazzo, vengono aggrediti da un uomo armato di coltello, e gravemente feriti. L’uomo si rivelerà affetto da disturbi psichici ma ciò non inficia l’evidente matrice razzista dell’aggressione. L’evento suscita un inedito risveglio delle coscienze. L’Associazione degli studenti e stagisti africani in Tunisia (AESAT) indice per il giorno successivo una manifestazione sull’avenue Bourguiba – uno dei luoghi simbolici della Rivoluzione del 2011. (Ben Zineb 2016) Alla manifestazione partecipa la deputata Jamila Debbech Ksiksi, prima e unica parlamentare esponente della minoranza tunisina di origini africane. L’indomani il primo ministro, Yussef Shahed, quarantenne fresco di nomina; pronuncia un discorso che da più parti viene definito “storico”. Afferma che è ora di aprire il dibattito su «un argomento tabù», vale dire sulle discriminazioni legate «al colore della pelle» di cui soffrono «i cittadini dell’Africa subsahariana». Sottolinea con vigore che si tratta di una violazione dei diritti umani, per superare la quale è necessario anche «un cambiamento di mentalità». Invita di conseguenza il Parlamento a promuovere urgentemente una legge che istituisca il reato di discriminazione razziale [1].

In quell’occasione France 24 cita Mehdi Ben Gharbia, ministro delle Relazioni con le istanze costituzionali, con la società civile e per i diritti umani, che ha parlato di un “flagello” della Tunisia (Rachid 2016). E Libération gli fa eco titolando: «La Tunisia si decide ad agire contro il razzismo verso i Neri» (Diarra 2016). Dalle sponde francesi, dove da anni viene denunciato, il razzismo sembra essersi trasferito, seguendo oscuri percorsi, sulle rive tunisine. Huffington Post Maghreb da anni – o meglio: da quando la Rivoluzione ha liberato le lingue e i media – pubblica una serie impressionante di testimonianze su aggressioni verbali e fisiche esplicitamente legate al colore della pelle delle vittime (Ben Hamadi 2013, Labassi 2016). La cronaca, recente e lontana, ne è costellata. Solo un paio di settimane dopo la Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale che si celebra il 21 marzo e alla quale i canali televisivi tunisini hanno dedicato diverse trasmissioni, uno studente della Costa d’Avorio sporge denuncia – con il sostegno dell’AESAT e della sua ambasciata – nei confronti di un taxista che prima lo imbroglia, poi lo picchia e lo insulta con epiteti razzisti [2]. Due anni fa un diplomatico senegalese, Oussmane Fall, a seguito di un diverbio all’aeroporto di Tunisi con un taxista che voleva – secondo una prassi corrente – chiedergli una cifra di gran lunga superiore a quella segnata sul contatore, viene arrestato e malmenato dalla polizia aeroportuale che non ha esitato a schierarsi con il taxista [3]. Malgrado le proteste dell’intero corpo diplomatico delle missioni subsahariane in Tunisia, e l’impegno del Ministero degli Affari Esteri Tunisino, sulla questione è caduto rapidamente il silenzio. Qualcuno ha commentato che se questo è il trattamento riservato ad un diplomatico è facile immaginare cosa subiscono gli africani “normali”. Nessuno invece si è chiesto come mai la solidarietà sia venuta solo dal corpo diplomatico “subsahariano” e non, come sarebbe stato logico aspettarsi, dal corpo diplomatico tout court, ovvero da tutte le ambasciate.

La Tunisia sarebbe dunque un paese razzista? Sulla sponda nord del Mediterraneo – infestata oggi dal razzismo anti-arabo e islamofobo – la domanda può sconcertare. Sia perché i Tunisini hanno subito il razzismo della colonizzazione prima, quello dell’emigrazione dopo, sia perché questo piccolo Paese è stato sempre citato come modello per l’intera regione del Nordafrica e del Medioriente, ieri per la sua vicinanza culturale all’Europa (Dakhlia 2011), oggi per la sua transizione democratica, unico successo, al momento, delle “primavere arabe”.
Jamila Debbech Ksiksi (nel cortile del palazzo del Bardo, sede del Parlamento).

Jamila Debbech Ksiksi, nel cortile del palazzo del Bardo, sede del Parlamento (ph. Sebastiani)

Jamila Debbech Ksisi parla con conoscenza di causa. Deputata, nata a Médenine, profondo Sud della Tunisia, da una famiglia originaria di Ben Guerdane, la città ai confini della Libia («e ne sono fiera»), è lei stessa membro della minoranza nera e il razzismo lo ha sperimentato sulla sua pelle. «Quando andavo a scuola ero sempre sola», ricorda, «gli altri mi evitavano. Ma questa esperienza mi ha dato forza». La sua carriera si snoda tra, una posizione dirigenziale nel settore pubblico, un’esperienza sindacale, un impegno attivo nella società civile, prima di approdare in Parlamento nel 2015. Ed è da quel momento che il razzismo – di cui fino allora aveva parlato poco pubblicamente – diventa uno degli ambiti del suo impegno, quasi avesse aspettato che esso andasse al di là del suo vissuto personale. Racconta:
«Da quando sono stata eletta in Parlamento, mi trovo a rappresentare la comunità nera. È la prima volta che questa vede un suo membro occupare una posizione ai vertici delle istituzioni. Poco dopo la mia elezione si è svolta la partita tra le nazionali di calcio della Tunisia e della Guinea. Al termine ci furono scontri, con violenze e insulti razzisti. In quell’occasione feci un discorso in Parlamento in seduta plenaria: esso venne apprezzato tanto dai Tunisini quanto dai subsahariani. È allora che ho pensato a una legge che faccia del razzismo un reato».

E aggiunge:
«Il razzismo in Tunisia è un argomento tabù. Soprattutto le élites del paese non ne parlano. Molti negano, alcuni ammettono. A lungo è prevalso questo ambiguo oscillare tra diniego e riconoscimento. Con la Rivoluzione le cose sono cambiate. La Rivoluzione ha aperto le porte alla libertà di parola e alla libertà di associazione, e di conseguenza alla mobilitazione della società civile e delle organizzazioni per i diritti umani».

Un progetto di legge – che prevede tra l’altro l’aggravante della motivazione razzista per violenze o aggressioni – è stato presentato il 14 giugno 2016 al Parlamento e i deputati della coalizione di maggioranza – sia dei liberali di Nidaa Tounès sia gli islamisti di Ennahdha – si sono impegnati ad appoggiare la proposta. I promotori del progetto, esponenti dell’attivismo sociale di sinistra – è il caso del Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali (FTDES) – e dell’attivismo in materia di diritti umani – il Comitato per il rispetto delle libertà e dei diritti umani e la Rete euro-mediterranea per i diritti umani – rappresentano quella importante componente della società civile tunisina che guarda all’Europa alla cui cultura attinge. Ma la questione del razzismo in Tunisia non può essere capita solo attraverso i referenti linguistico-concettuali radicati nel contesto europeo. Il tema infatti è incastonato in un gioco di specchi e proiezioni reciproche tra le due sponde del Mediterraneo: basti pensare che in Tunisia gli arabi parlano di se stessi come “bianchi” mentre in Europa vengono messi tra i non-bianchi, o che in Francia qualche esponente delle comunità arabo-musulmane abbia invocato a propria tutela la legislazione sull’antisemitismo, ricordando ad una distratta opinione pubblica europea che arabi ed ebrei si considerano ambedue discendenti di Sem.

Lo stesso gioco di specchi e proiezioni reciproche che avviene tra le due sponde del nord e del sud del Mediterraneo si riproduce poi all’interno del Paese, sicché si può parlare di un razzismo “esterno”, dove la costruzione del “noi/altri” trova supporto nella dicotomia “cittadini/stranieri” e di un razzismo “interno” dove la stessa costruzione si basa esclusivamente sulla dicotomia “bianchi/neri”. E se il primo ha, malgrado tutto, un certo accesso alla coscienza collettiva, come dimostrano le periodiche denunce di media e associazioni dopo la Rivoluzione, il secondo sembra appartenere assai più alle zone d’ombra dell’inconscio culturale.

Di questo razzismo duale Jamila Ksiksi fornisce una sintesi folgorante:
«Ci sono i neri Tunisini e i subsahariani. Ambedue sono oggetto di discriminazione ma si tratta di discriminazioni diverse. Per i subsahariani le discriminazioni si appoggiano sulla loro condizione giuridica di stranieri, sono legate alle normative sui migranti, a problemi di accettazione e di integrazione. Per quanto riguarda i neri Tunisini, invece, non sono accettati i matrimoni con loro».

Vi sono dunque due tipi di comunità nere in Tunisia, quella dei neri di nazionalità straniera oggetto di un “razzismo di strada” che si manifesta nello spazio pubblico, e quella dei neri tunisini oggetto di un “razzismo domestico” che si manifesta negli spazi privati e della vita quotidiana. E se sui primi esistono alcuni studi (vedi ad esempio Pouessel 2014), sui secondi non c’è quasi nulla.

La comunità subsahariana
-Maha Abdelhamid fra i fondatori dell'Associazion de defense des droits des noirs.

Maha Abdelhamid fra i fondatori dell‘Associazion de defense des droits des noirs

L’espressione “subsahariani” con la quale vengono designati in Tunisia gli stranieri dalla pelle nera già connota modalità specifiche di costruzione del “noi” e degli “altri”. Se in Europa quelli della sponda sud del Mediterraneo sono comunque “Africani” – caso mai distinti tra popolazioni del “Nordafrica” e dell’“Africa nera” – in Tunisia la stessa africanità è una nozione contesa: rivendicata dai subsahariani, rifiutata dai nordafricani.

La mancanza di dati precisi sull’immigrazione subsahariana in Tunisia è in parte il frutto di scelte politiche del passato regime in parte dei mezzi carenti ci cui dispone l’IstitutoNazionale di Statistica in Tunisia. Una ricerca recente li stimava intorno ai 10 mila (Mazzella 2012). Poiché la legislazione tunisina vieta il lavoro agli stranieri quanti svolgono attività retribuite lo fanno in nero il che rende ogni quantificazione difficile. La comunità nera subsahariana visibile è in larga parte una minoranza qualificata o una vera e propria élite composta da un lato di studenti e stagisti, dall’altro da professionisti in condizioni particolari, membri del corpo diplomatico, giocatori di football, dipendenti di società offshore. Ad essa si sono aggiunti, nel decennio 2003-2013, i circa mille funzionari della BAD (Banque Africaine du Développement) – costretta a trasferire la propria sede di Abidjan in seguito al colpo di stato in Costa d’Avorio – i quali, accompagnati dai loro familiari, hanno riversato di colpo su Tunisi una nutrita élite africana.

Padre Silvio Moreno, di origini argentine, da otto anni si occupa presso al Prelatura di Tunisi della pastorale dei giovani africani – che sono al 70% cristiani (la minoranza musulmana proviene prevalentemente dal Ciad e dal Mali). Sulla questione del razzismo contro i neri in Tunisia afferma: «Il fenomeno esiste. Ma sono casi isolati, molti giovani subsahariani vengono bene accolti. Non penso che il razzismo sia una caratteristica della Tunisia. Certo qui la cultura araba lo produce». E spiega: «Molte cose si mescolano: la comunità subsahariana è fatta di neri, cristiani e francofoni. Tutto questo in un Paese musulmano …» Aggiunge, quasi a voler evitare fraintendimenti: «Per gli Occidentali, naturalmente, le cose vanno diversamente …» Vale a dire che nel caso di questi ultimi l’essere bianchi (e ricchi) trasforma cristianesimo e francofonia in connotati di prestigio. Nella borghesia tunisina la francofonia è sempre stata un tratto di distinzione e oggi si sta manifestando una discreta attrazione per il cristianesimo, alimentata proprio dall’immigrazione sub sahariana, ivi compreso quella elitaria della BAD. (Boissevain 2013) Ed è sufficiente recarsi nella cattedrale di Tunisi, situata al centro città, o nella chiesa cattolica dedicata a Giovanna d’Arco, nel vecchio quartiere delle ambasciate del Belvedere, per capire quali profondi mutamenti l’immigrazione subsahariana abbia prodotto nelle parrocchie. «Metà dei nostri parrocchiani erano della BAD» ricorda padre Silvio. Qui, in occasione delle grandi festività di Natale e di Pasqua, a fianco di pochi anziani Francesi o Italiani, una giovane, benestante, entusiasta comunità africana ha importato con i suoi fedeli i suoi costumi variopinti e i suoi cori dirompenti.

Anche gli studenti stanno cambiando il volto non solo della capitale ma delle città costiere – Sfax, Sousse, Monastir – e del Centro-Nord-ovest, Bizerta, Jendouba, grazie al reclutamento di studenti tramite reti private specializzate. I dati su questi ultimi sono anch’essi alquanto incerti. L’AESAT fornisce nel 2002 la cifra assai bassa di 1129 (Pellicani e Palmisano 2002). Secondo Christian Burkasa, presidente dell’associazione degli studenti congolesi in Tunisia, sarebbero stati circa 12 mila prima della Rivoluzione, cifra che oggi si sarebbe dimezzata. Per Padre Silvio, invece, ancora due anni fa ci sarebbero stati circa 10 mila studenti, e oggi i giovani non sarebbero meno di 7-8 mila, grazie anche al grande flusso in entrata di quelli provenienti dalla Costa d’Avorio ai quali non è richiesto il visto. Il calo, più che all’insicurezza, al razzismo, al deterioramento della formazione universitaria, gli appare legato alla crisi economica che ha fatto anche scendere il numero delle borse di studio.
«Le università private tunisine sono alla caccia di studenti subsahariani: cercano di reclutarne il più possibile. Si avvantaggiano del fatto che questi ultimi non hanno accesso alle università pubbliche tunisine, salvo nel caso di precisi accordi con altri stati – è il caso dell’Angola e della Guinea Equatoriale – che mettono a disposizione borse di studio. Le università private sono molto care – anche 70 o 80 000 dinari – e gli studenti ufficialmente non possono lavorare per mantenersi agli studi poiché solo le imprese offshore possono assumere stranieri. Sono quindi sfruttati su tutti i fronti: come manodopera saltuaria in nero, come utenti delle università, come consumatori, come inquilini. A fronte di affitti cari, vengono loro sistematicamente riservati gli alloggi peggiori, agli ultimi piani, in cattive condizioni. Inoltre nelle università private non si parla francese ma arabo, lingua che molti non conoscono. Beninteso le cose andavano diversamente quando qui c’era la BAD. Ai suoi funzionari sono stati offerti appartamenti di lusso e ottime scuole private per i figli …».

Come tutti, Padre Silvio si basa, oltre che sui dati forniti dalle associazioni studentesche, su quelli forniti dalla Caritas e dall’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni). Queste stesse fonti, oltre al contatto diretto della prelatura con le comunità africane cristiane, gli fanno quantificare in circa 15 mila la presenza complessiva della comunità subsahariana.
«Non sono tutti studenti. Ci sono quelli che usano la Tunisia come ponte per la Francia o il Canada. Ci sono quelli senza documenti e quelli che lavorano in nero. E fanno i “lavori dei neri”: nei bar e nei caffè, nei campi e nei cantieri. Un nero costa meno di un bianco: il razzismo è questo».

Che genere di razzismo
Una delle università private a Tunisi

Una delle università private a Tunisi (ph. Sebastiani)

Vi è anche, nel razzismo, una componente di genere che vede le donne vittime due volte: da un lato di forme specifiche di sfruttamento, dall’altro delle rappresentazioni che ne derivano. «Tra la Tunisia e la Costa d’Avorio» – è ancora padre Silvio a raccontarlo – «c’è una vero e proprio traffico schiavistico reso più facile dal fatto che non è necessario il visto. Riguarda soprattutto domestiche e prostitute e si appoggia su reti estesissime».

Ma donne e ragazze provenienti dai Paesi subsahariani sono vittime di sistematiche molestie sessuali, è la denuncia di Dramane dit Boutia Konaté, presidente dell’Associazione degli Studenti e Stagisti Maliani in Tunisia, che vive in Tunisia da cinque anni, è laureato in Diritto Internazionale, sta preparando un Master presso una università privata, e dichiara di non aver incontrato problemi di razzismo.
«Il problema principale non è il razzismo, è la necessità del permesso di soggiorno. Per tutto, anche per avere un contratto di affitto regolare. Il bollo sul permesso di soggiorno è passato da 15 a 75 dinari. Inoltre quando esci dalla Tunisia all’aeroporto ti fanno pagare un’ammenda di 300 dinari se hai presentato il permesso di soggiorno in ritardo. Ma spesso il ritardo è dovuto agli uffici amministrativi che non rispettano i tempi per smaltire la pratica. E presso i commissariati di polizia qualcuno rifiuta di farla. Oppure ti chiedono del denaro. In un commissariato dell’Ariana [periferia di Tunisi] c’è un certo Ali che approfitta della situazione per portarsi a letto le ragazze. Del resto le molestie sessuali, da parte dell’amministrazione, nei confronti delle ragazze, sono correnti. Hanno a che fare con l’idea che la gente ha delle donne nere. Vengono assimilate alle prostitute».

Un ulteriore dato inquietante denunciato da Dramane è il peggioramento della situazione degli studenti subsahariani dopo la Rivoluzione.
«Ai tempi di Ben Ali le cose andavano meglio. Da tutti i punti di vista: alloggio, sicurezza, cibo …Dopo la Rivoluzione, si è cercato di favorire i Tunisini».

Lo confermano altre voci. In caso di diverbio tra Tunisini e neri subsahariani la polizia ferma sistematicamente questi ultimi. È successo per esempio una sera in cui un gruppo di Tunisini, dopo un diverbio tra un tassista e un Senegalese, sono andati all’attacco, armati di pietre e bastoni, di un palazzo nel quartiere centrale di La Fayette, interamente abitato da studenti africani. Chiamata dal Senegalese, la polizia lo ha portato al commissariato lasciando gli aggressori indisturbati. Interessante il commento di una giovane studentessa congolese, testimone dell’episodio:
«Questo incidente è perfettamente rappresentativo del clima di insicurezza che viviamo dopo la caduta di Ben Ali. Si tratta ovviamente di un problema che riguarda tutti i Tunisini ma penso che noi, stranieri neri, siamo particolarmente esposti. Da un lato perché il razzismo contro i neri è ben radicato in Tunisia. Dall’altro perché certi Tunisini pensano che gli studenti stranieri, in particolare i neri africani, fossero troppo protetti sotto il regime di Ben Ali. E’ vero che la polizia ci sosteneva spesso in caso di piccoli diverbi. Gli studenti stranieri neri sono in maggioranza nelle università private e il regime non aveva interesse a cambiare questa situazione. Oggi le stesse persone pensano che dobbiamo tornarcene a casa. Del resto quella sera ho sentito delle persone gridare: ‘Ben Ali è partito! Questa è la Tunisia, non l’Africa’» (Mania 2013).

Il quartiere La Fayette, al centro di Tunisi e al cuore della vecchia “città europea” (così chiamata in contrapposizione alla medina), un tempo elegante quartiere residenziale e sede di missioni diplomatiche, ha conosciuto dopo l’indipendenza prima un processo di “arabizzazione”, a seguito anche della partenza della nutrita comunità ebrea che vi abitava, con conseguente deterioramento degli immobili, poi un processo di terziarizzazione e di pauperizzazione, che hanno inciso sulle condizioni di sicurezza. Oggi, mentre alcuni palazzi decadenti vengono tirati giù e sostituiti da nuovi immobili di lusso, quelli vecchi, scarsamente mantenuti, vengono affittati soprattutto a stranieri, in particolare a studenti: i prezzi salgono costantemente mentre le condizioni abitative peggiorano. Lo stesso processo si osserva in altre parti della vecchia città coloniale, per esempio intorno al grande mercato informale di Moncef Bey o ai margini del vecchio quartiere italiano della Piccola Sicilia. Qui la notte, quasi a rivalsa verso una popolazione autoctona che li sfrutta e li disprezza insieme, gruppi di giovani africani, secondo le usanze degli studenti di tutto il mondo, girano rumorosi, le loro risate suonano una sfida ai residenti che dormono, le belle ragazze in minigonna fanno un contrasto stridente con le lunghe vesti scure che celano i corpi delle musulmane tunisine dei ceti popolari.

È alla luce di questo confronto latente che vanno comprese le parole di Yazid, trent’anni, ceto medio, ottimo francese, il quale lavora come informatico in Congo, parla diverse lingue africane e intrattiene con i neri rapporti di grande familiarità.
«Sai cosa ti dico? Gli Africani sono più razzisti degli Arabi. Loro si sentono superiori. Non si lasciano avvicinare. Io ci riesco perché parlo la loro lingua e li conosco, lavoro con loro. Altrimenti ti escludono. Sono fieri della loro cultura».

Aggiunge Kalthoum, buona borghesia tunisina, studi universitari in Francia, oggi insegnante in pensione:
«La gente è stata abituata in passato a vedere i Neri in veste di domestici, oggi in veste di studenti spesso di famiglie benestanti o di alti funzionari: nel primo caso questo genera disprezzo, nel secondo risentimento».

I neri tunisini
. Saadia Mosbah, tunisina, presidente e fondatrice dell'associazione M'nèmty

Saadia Mosbah, tunisina, presidente e fondatrice dell’associazione M’nèmty

Se per i neri di provenienza subsahariana in Tunisia il problema principale è legato allo stauts giuridico, ben diversa è la posizione dei neri tunisini. I primi hanno la (fondata) sensazione che senza il ricatto del permesso di soggiorno sarebbero meno esposti ad abusi ed angherie. Ma le discriminazioni che subiscono i secondi hanno esclusivamente radici storico-sociali. E se con una legge si può cambiare da un giorno all’altro lo status di un gruppo sociale, non altrettanto facile è cambiare le mentalità. Prova ne sia che se la schiavitù è stata ufficialmente abolita nel 1846, di fatto, secondo Saadia Mosbah, presidente dell’associazione M’nemti che si batte contro il razzismo, «nel sud essa ha perdurato fino al 1890. ‘E fino ad oggi a Djerba’ aggiunge» (Luytens 2015)

Ho chiamato il razzismo nei confronti dei neri tunisini un razzismo “interno” rispetto a quello nei confronti dei neri subsahariani che si può definire razzismo “esterno”. Con ciò intendo dire che le proiezioni negative della società tunisina – che sono una ben nota componente del razzismo (Siebert 2003) – nel secondo caso vengono proiettate su un gruppo definito come straniero, e quindi passibile di espulsione, mentre nel primo toccano un gruppo riconosciuto come facente parte della società, che può quindi solo essere marginalizzato (Larguèche 1999). E queste proiezioni attingono variamente – attraverso una rielaborazione distorta e fantasmatica – alla storia, alla geografia, alla religione.

«Se c’è razzismo» spiega Kalthoum, «lo si deve ad una lunga tradizione di impiego dei neri come domestici. In passato avere servitori neri, sull’esempio delle famiglie dei bey, era un tratto di distinzione». Alle origini di questa tradizione c’è la schiavitù, uno dei fattori più spesso indicati per spiegare le radici del razzismo. In realtà i processi sono più complessi. La schiavitù nelle società arabe non ha mai riguardato soltanto i Neri. In Tunisia schiavi neri provenienti da guerre tribali africane e schiavi bianchi provenienti da razzie sulle coste europee e da atti di pirateria in Mediterraneo hanno storicamente coesistito. Ma se gli schiavi neri non sono mai usciti dalla loro condizione subalterna di domestici, per gli schiavi bianchi le prospettive andavano da un estremo all’altro: per gli uomini dalle galere alle massime funzioni pubbliche, per le donne dallo stupro al matrimonio con nobili.

La schiavitù era un grande commercio al quale, negli anni della modernità, hanno partecipato tutti, Europei e Africani, Cristiani e Musulmani, governanti e avventurieri, diplomatici e mercanti, banche e associazioni caritatevoli. Agli albori della mondializzazione dei mercati, il più sicuro indicatore della differenza di condizione tra Bianchi e Neri, ancorché schiavi ambedue, stava nella differenza di prezzo – potremmo dire cinicamente dello spread – tra gli uni e gli altri: il prezzo massimo di uno schiavo nero non raggiungeva quello minimo di uno schiavo bianco (Valensi 1967). Tale differenza era legata ai rapporti di forza tra i Paesi fornitori della “merce”: la merce umana proveniente dall’Europa era dotata di maggiore competenza, rispondeva ai requisiti estetici imposti dal canone culturale dominante e proveniva da Paesi in grado di pagare alti riscatti. L’Africa, i suoi, non provava nemmeno a riscattarli: erano bocche superflue che esportava come forza-lavoro – «triste bestiame» scrive la Valensi – così come il sud italiano esportava i suoi emigranti fino a cinquant’anni fa.
Manifestazione per i diritti delle donne

Manifestazione per i diritti delle donne

È in questo contesto che si iscrive il paradosso di una Tunisia che ha abolito la schiavitù prima della Francia e degli Stati Uniti, ma tuttavia «ne conserva residui nella società e nella mentalità», come afferma Jamila Ksiksi. Residui quali certi cognomi, o lo stato civile che a Djerba mantiene la menzione ‘atig, “schiavo affrancato”, o l’interdetto matrimoniale o autobus separati per scolari bianchi e neri (Yene 2013), o addirittura cimiteri separati. «E vengono ancora usati correntemente termini razzisti come oussif” -“schiavo”, per estensione “nero”» – ricorda ancora Jamila.

E poco importa che a discendere dagli schiavi non siano solo i neri e che gli schiavi cristiani sotto i bey di Tunisi abbiano fornito allo Stato buona parte dei suoi quadri politico-militari, al punto da far concorrenza alle élites locali nei processi di promozione sociale. Conta invece che questi processi siano stati pressoché inesistenti per gli schiavi neri affrancati (Larguèche 1999). Da questa diversa traiettoria degli affrancati prende origine un disprezzo le cui componenti potrebbero essere più classiste che razziste.

Accanto alla storia, anche l’immaginario collettivo attinge alla geografia, alla straordinaria posizione della Tunisia, testa di ponte naturale tra Africa ed Europa, tra un Mediterraneo che qui tocca il suo punto più stretto e un Sahara che assume dimensioni oceaniche. Come sottolinea Jamila:
«I Tunisini si credono europei e non africani. Eppure è proprio l’antico nome della Tunisia – Ifriqiya– che si è esteso all’intero continente! La marginalizzazione dell’africanità in Tunisia è frutto di una ecisione politica. Il Maghreb era legato alla Francia e la Francia voleva che lo sviluppo della Tunisia fosse alla francese. In ciò sostenuta da Burghiba, che pure aveva tentato una apertura all’Africa».

Il razzismo attinge anche a «una comprensione distorta dell’Islam» secondo Jamila. Ci si potrebbe infatti chiedere come mai il razzismo sia il grande tabù di una società musulmana, vale a dire una società dove la stragrande maggioranza della popolazione si riconosce – per fede o per cultura – in una religione che fa dell’uguaglianza degli uomini un assunto basilare. Se ai tempi della missione profetica di Mohammed la schiavitù esisteva in tutte le società del vecchio mondo, e se l’Islam – al pari del Cristianesimo e dell’Ebraismo – non lo ha mai vietato, tuttavia il Corano e la Sunna sono privi di ambiguità per quanto concerne l’eguaglianza di tutti gli uomini, e le loro prescrizioni in materia di organizzazione sociale tendevano chiaramente ad un graduale superamento della schiavitù. Ciononostante si sono sviluppate nei secoli errate interpretazioni – l’Islam ammette la schiavitù, gli schiavi sono Neri, di conseguenza sarebbero una razza inferiore – e quantità di pratiche sociali che nulla hanno a che fare con i precetti religiosi. Ma per quanto le manifestazioni di razzismo in Tunisia siano un fenomeno prettamente socio-culturale – come emerge per esempio dalla raffinata testimonianza di una artista (Mosbah 2004) – il non-detto che lega razzismo e schiavismo all’Islam è una componente del tabù.
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Raro film tunisino che affronta la questione del patrimonio africano

Infine, se «l’africanità della Tunisia è un fatto indiscutibile», non se ne trovano quasi tracce nella letteratura, nella fiction televisiva e nel cinema, dove il notevole lungometraggio del regista Mahmoud Ben Mahmoud, Les siestes grenadines (1999) resta un caso isolato. I dati che riguardano i neri Tunisini sono straordinariamente scarsi. Alcune associazioni li quantificano intorno al 15% della popolazione ma mancano basi statistiche., anche se da un sondaggio di opinione realizzato dall’Istituto Nazionale di Statistica nel 2016 risulta che in Tunisia si verificano 700 atti di razzismo ogni giorno. Così Jamila Ksiksi ha appena fondato l’Osservatorio Africano di Lotta contro la Discriminazione Razziale che raggruppa intorno ad un ambizioso progetto scientifico una nutrita squadra di giuristi, avvocati, giornalisti, artisti, sociologi, docenti con lo scopo di studiare le discriminazioni presenti «nelle leggi, nelle istituzioni, negli spiriti» e di fornire al contempo studi e ricerche, azioni di sostegno alle minoranze discriminate e una intepretazione dello sviluppo che guardi all’Africa e non solo all’Europa. In quest’ultima direzione, peraltro, sembra anche muoversi la politica tunisina: è proprio di queste settimane il viaggio di Youssef Chahed in una serie di Paesi dell’Africa subsahariana con lo scopo di rafforzare la cooperazione economica Ma se le linee politiche si possono cambiare da un giorno all’altro, più complicato è trasformare le coscienze.

L’identità negata

La coscienza del Tunisino è la coscienza del decolonizzato. La coscienza del decolonizzato è una coscienza infelice. Non sa come definirsi non sa quale sia la sua lingua. Ha creduto che l’indipendenza, con un colpo di bacchetta magica, avrebbe restituito alle popolazioni la loro identità, la loro cultura, i loro valori antichi. (Béji 2008). Se ciò non è avvenuto ciò dimostrerebbe che gli antichi padroni avevano ragione: gli arabi sono irrimediabilmente inferiori. Il razzismo che si manifesta nei confronti dei Neri è la proiezione del senso di inferiorità che si annida nell’inconscio culturale dei “decolonizzati”. Sulla negritudine dell’africano si fonda la bianchezza dell’arabo. L’arabo “decolonizzato” è razzista anzitutto verso sé stesso, al punto da disprezzare la propria lingua, da definirsi in qualunque modo – berbero, fenicio, romano – purché non sia arabo. Per il colonizzato il mondo si divideva in due: il Bianco e il non-Bianco, nero, arabo, indiano poco importa. La città coloniale si divideva in «una città di bianchi, di stranieri» e una città indigena – «il quartiere negro, la medina, la riserva […] luogo malfamato popolato di uomini malfamati» (Fanon 1961). Con l’indipendenza, una parte della popolazione – élites e ceti medi – ha sognato di diventare bianca a sua volta.

Al giovane arabo che si chiede come mai France24 sia così sensibile al razzismo in Tunisia ma insensibile al razzismo in Francia risponde la giovane africana chiedendosi come mai gli arabi della diaspora, pronti a mobilitarsi contro il razzismo che li colpisce in Europa, passino sotto silenzio quello che esiste nei loro Paesi di origine. Questo costante gioco di rispecchiamenti e di proiezioni è al cuore delle problematiche del razzismo in Tunisia.
Dialoghi Mediterranei, n.25, maggio 2017
Note
[1] Cfr. “Youssef Chahed: une loi criminalisant le racism sera bientôt adoptee”, Businessnews, 26 dicembre 2016, ttp://www.businessnews.com.tn/youssef-chahed–une-loi-criminalisant-le-racisme-sera-bientot-adoptee,520,69227,3
[2] Cfr. “Agression raciste à Tunis: Plainte contre un chauffeur de taxi”, Kapitalis, 11 aprile 2017 http://kapitalis.com/tunisie/2017/04/11 ... r-de-taxi/
[3] Cfr. “Un diplomate sénégalais violemment tabassé à l’aéroport Tunis-Carthage”, Espace Manager, 6 luglio 2015, http://www.espacemanager.com/un-diploma ... ce-qui-est
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Chiara Sebastiani, sociologa, politologa, psicoanalista, è docente di Politiche urbane e locali e di Teoria della sfera pubblica presso l’Università di Bologna. Tra i suoi temi di interesse le politiche delle città, lo spazio pubblico, le questioni di genere. Su questi temi ha svolto ricerca in Europa e in Africa. Ha vissuto e insegnato in Tunisia dove dal 2011 ha seguito sistematicamente le trasformazioni in corso, scrivendp numerosi articoli e un libro (Una città una rivoluzione. Tunisi e la riconquista dello spazio pubblico, Cosenza, Pellegrini Editore, 2014). Tra le sue altre pubblicazioni: La politica delle città, Bologna, Il Mulino, 2007 e La sfida delle parole. Lessico antiretorico per tempi di crisi, Bologna, Editrice Socialmente, 2014.
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