All'area arabo islamica non dobbiamo nulla, anzi

All'area arabo islamica non dobbiamo nulla, anzi

Messaggioda Berto » mar ago 22, 2017 7:29 am

All'area arabo islamica del nazismo maomettano d'Africa e d'Asia, noi europei, occidentali, atei, aidoli, ebrei e cristiani non dobbiamo nulla, anzi
viewtopic.php?f=188&t=2674


I maomettani o mussulmani o islamici non sono vittime dei cristiani, degli ebrei e del mondo occidentale, sono sempre stati carnefici, da Maometto in poi per 1400 anni sino ai nostri giorni dove tutti possiamo sperimentare di persona la loro natura violenta e criminale e la disumanità della loro ideologia, prassi e culto politico religioso.
Maometto è stato il primo criminale islamico, persecutore e sterminatore di tutte le comunità umane e di ogni uomo diversamente religioso, pensante e politicamente indipendente.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: All'area arabo islamica non dobbiamo nulla, anzi

Messaggioda Berto » mar ago 22, 2017 7:30 am

È sempre colpa dell’uomo bianco?
Il dolorismo è la nuova religione di un occidente (e una chiesa) vittima del senso di colpa. E anche i laici balbettano omelie ecclesiali, felici di sottomettersi ai barbari
di Pascal Bruckner | 07 Agosto 2016

http://www.ilfoglio.it/chiesa/2016/08/0 ... e_c391.htm

L’odio di sé avanza in tutto l’occidente sotto attacco. Ripubblichiamo alcuni stralci del libro dell’intellettuale francese Pascal Bruckner “Il singhiozzo dell’uomo bianco”, pubblicato nel 1984 (Guanda). Istruzioni per l’uso contro le nuove prosternazioni.

A priori pesa su tutto l’occidente una presunzione di delitto. Noi europei siamo stati allevati nell’odio di noi stessi, nella certezza che vi fosse, in seno al nostro mondo, un male congenito che reclamava vendetta senza speranza di remissione. Questo male può riassumersi in due parole, il colonialismo e l’imperialismo, e in poche cifre: le decine di milioni di indiani eliminati dai conquistadores, i duecento milioni di africani deportati o scomparsi nel traffico degli schiavi, infine i milioni di asiatici, di arabi, di africani uccisi durante le guerre coloniali e poi nelle guerre di liberazione. Schiacciati sotto il peso di questi ricordi infamanti, siamo stati indotti a considerare la nostra civiltà come la peggiore, mentre i nostri padri si sono creduti i migliori. Nascere dopo la Seconda guerra mondiale, significava acquisire la certezza di appartenere alla feccia dell’umanità, a un ambiente esecrabile che, da secoli, in nome di una pretesa avventura spirituale, opprime la quasi totalità del globo. Un continente che non finiva mai di parlare dell’uomo mentre lo massacrava in tutti gli angoli del pianeta, un continente basato sul saccheggio e sulla negazione della vita, meritava soltanto d’essere a sua volta calpestato. Il mondo intero accusa l’occidente, e molti occidentali partecipano a questa campagna: la nostra responsabilità viene affermata con indignazione, con disprezzo. Nessun discorso sul Terzo mondo può concludersi o cominciare senza che riecheggi questo leitmotiv: l’uomo bianco è malvagio.

Che cosa ci rimane, a noi figli e nipoti dei barbari che hanno depredato terra e mare? Fare sempre e dappertutto il nostro atto di contrizione. “Ciascuno di noi è colpevole davanti a tutti, per tutto e dappertutto, e io più degli altri” (Dostoevskij), tale è la nostra più intima convinzione. Il sangue versato ricade su di noi e nulla, ci sembra, può riscattare l’infamia commessa, nessun compenso ristabilire l’equilibrio rotto dall’offesa coloniale. Tutti i nostri titoli di gloria, secoli di sforzi, di calcoli, di perfezionamenti, di imprese, di eroismo, che avevano fatto regnare una certa forma di saggezza umana, sono stati spazzati via, ridotti a zero: sapere che questa fioritura artistica o tecnica era legata a una egual dose d’ignominia, ci ha scoraggiati dall’accettarla o dal riprenderla. Così la svalutazione del messaggio europeo è diventata un codice comune a tutta l’intellighenzia di sinistra dopo la guerra, proprio come l’odio del borghese è stato in Europa, dopo il 1917, un autentico passaporto intellettuale, quando nessun articolo poteva giustificarsi senza un’invocazione rituale al proletariato messianico e un ostentato disgusto per i possidenti. L’indipendenza delle antiche colonie ci lascia tuttavia una possibilità di riscatto: impegnarci a fianco dei popoli in lotta, aiutare sempre e dappertutto il sud a distruggere il vitello d’oro occidentale.

Così la nascita del Terzo mondo come forza politica ha generato una nuova categoria: il militantismo espiatorio. In che modo l’odio di sé sia divenuto il dogma centrale della nostra cultura, è un enigma di cui la storia d’Europa è feconda. E’ strano infatti che nel secolo dell’ateismo militante, pensatori agnostici che hanno aguzzato il loro ingegno nella lotta contro le chiese e le loro dottrine ci abbiano riconciliati d’altra parte con la nozione che è alla base stessa del cristianesimo: il peccato originale. Mentre nei costumi e nel pensiero si verificava un formidabile rivolgimento dei valori – il rifiuto delle immagini di autorità, lo smantellamento degli idoli e dei tabù – , la morte di Dio e del Padre si univa – Sartre ne è l’esempio magistrale – a un rafforzamento della cattiva coscienza, come se una società che aveva eliminato perfino l’idea del peccato preparasse la via regia al senso di una colpevolezza generale. Il quale costituisce il prezzo da pagare per appartenere all’Europa vittoriosa, che per un momento ha trionfato sul resto del mondo. Perché la politica moderna ha cessato senza dubbio d’ispirarsi al cristianesimo, ma le sue passioni sono quelle del cristianesimo. Viviamo in un universo politico impregnato di religiosità, ebbro di martirologia, affascinato dalla sofferenza, e i discorsi più laici sono, quasi sempre, soltanto la ripresa o il balbettamento in tono minore delle omelie ecclesiali. Che una tale brama di “dolorismo”, che un tal gusto per la figura dell’oppresso in genere possano coesistere con un anticlericalismo ancora virulento non è, quindi, che un paradosso secondario

Il terzomondismo accredita una visione manichea, la quale vorrebbe che il peccato degli uni testimoniasse indefinitamente a favore della grazia e della virtù degli altri. La povertà spirituale di certi movimenti di liberazione, gli slogan più sommari dei loro capi sono quindi gonfiati a dismisura come altrettante parole del Vangelo, mentre il rigore intellettuale, la logica, l’educazione, monopolio dei paesi ricchi, sono respinti come diabolici stratagemmi dell’imperialismo. Le più insignificanti insurrezioni, le più trascurabili rivolte contadine, hanno diritto a una risonanza enorme, sproporzionata in rapporto alla loro importanza reale; si santifica l’ignoranza, il settarismo dei capibanda tropicali, si glorifica la marcia degli splendidi asiatici chiamati a distruggere la civiltà europea, insomma le più grandi follie sono portate alle stelle da alcuni spiriti eletti, ben felici di sottomettersi a un’autorità primitiva, di prosternarsi “davanti allo splendore d’una sana barbarie. Secondo questo principio, tutto ciò che innalza, loda, celebra l’occidente è sospettato delle peggiori infamie; in compenso, la modestia, l’umiltà, il gusto dell’autodistruzione, ciò che può spingere gli europei a eclissarsi, a rientrare nei ranghi, è onorato, salutato come altamente progressista. La regola aurea di questo masochismo è semplice: ciò che viene da noi è cattivo, ciò che viene da altri è perfetto. Insomma, si concede sistematicamente un premio di eccellenza agli ex colonizzati. Ama i tuoi nemici: mai la nostra epoca miscredente, negli anni Settanta, ha seguito così fedelmente la parola del Cristo.

La religione della simpatia compassionevole che dimostriamo a gara verso tutto ciò che vive, soffre e sente, dal contadino del Sahel al cucciolo di foca, passando per il prigioniero di Amnesty International e gli animali da pelliccia, scuoiati per scaldare le spalle delle nostre elegantone. L’esaltazione degli istinti di benevolenza, “oralità istintiva che non ha cervello ma sembra esser composta solo da un cuore e da mani soccorrevoli” (Nietzsche), queste lodi cantate giorno e notte dai media, dalla stampa, dagli uomini politici, dalle personalità letterarie o artistiche, affondano direttamente le loro radici nel cristianesimo più imbastardito. Questa religione per afflitti dice che bisogna patire la vita come una malattia. Finché ci saranno uomini che rantolano, bambini che soffrono la fame, finché le prigioni saranno piene, nessuno avrà il diritto di essere felice. Si tratta di un imperativo categorico che c’impone il dovere di amare l’uomo impersonale, e, di preferenza, l’uomo lontano. Proprio come Gesù diceva che i poveri sono i nostri maestri, i terzomondisti fanno della miseria dei paesi meridionali una virtù da prendere a modello. Si amano i tropici per le loro pecche e le loro lacune, la carestia e il male sono al tempo stesso sottilmente combattuti e valorizzati; è un’ambiguità temibile da cui la chiesa cattolica non è mai uscita, ma che contamina allo stesso modo tutte le organizzazioni assistenziali nel Terzo mondo.

Come non sentirsi giudicati sul metro di un martirologio sublime, non sentirsi ignobili e nocivi di fronte a questo grande tribunale della tragedia, che celebra i suoi fasti nell’angusto perimetro dell’apparecchio televisivo o della colonna di giornale? Un Golgotha di sofferenze ci contempla, noi siamo i complici diretti di un sistema economico che saccheggia le risorse dei più sprovveduti. Davanti a questi crimini, ogni spettatore deve dirsi: “Goebbels, sono io!”. Per convincere i cuori reticenti, i media non indietreggeranno davanti a nulla: all’enormità dell’accusa – siete peggio dei nazisti! – si aggiunge l’enormità di quanto viene mostrato. Nessun pudore trattiene la cinepresa; l’orrore non tollera censura, ogni immagine deve avere la sconvenienza di un limite varcato nell’angoscia. Si fa appello all’inaudito, al mai visto, e anzi ve ne fanno vedere anche un po’ di più. Carestie, inondazioni, terremoti vengono riprodotti all’istante per le cineprese: catastrofi fissate su Polaroid. Una catena ininterrotta di immagini va da quelli che mettono in scena la morte degli altri al pubblico del mondo intero, e questa catena dà a tutti il diritto di vedere tutto. Ma favorendo una soltanto delle nostre pulsioni: il voyeurismo. E poiché ci si immagina che, per scuotere gli animi, occorre uno spettacolo sempre più crudo, si aprono all’avidità dello sguardo territori in cui nessuno era penetrato, si punta l’obiettivo su mutilazioni, torture, malattie ancora inedite sullo schermo. La semplice vista di bambini dal ventre gonfio non vi basta? Vi mostreranno questi stessi bambini ridotti a scheletri. Ancora nessuna reazione? Eccoli ridotti a un mucchietto d’ossa e di pelle. Ecco sangue, ferite, ulcere purulente, croste di pus, viscere traboccanti, organi strappati…

Solo la dismisura è in grado di commuovere il pubblico e di interessarlo a questi problemi. E se l’apatia persiste, vuol dire che, così si crede, le immagini non sono abbastanza spettacolari: quindi non vi saranno limiti all’asta degli orrori. Così si produce l’inevitabile perversione dello sguardo: prendiamo gusto al gioco, ne vogliamo sempre di più, la nostra soglia di tolleranza non cessa di aumentare; non chiediamo più di essere commossi, ma sorpresi: ogni volta ci occorre qualcosa di più piccante nell’abiezione. Il valore d’urto di un’informazione è indipendente dalla verità dei suoi termini. L’improbabile, l’enorme saranno considerati sempre meglio del verosimile. Conta solo l’impatto e non l’influenza. Non ci preoccupiamo più di sapere se quelle foto riguardano esseri reali, le vogliamo soltanto più speziate. E vinca la peggiore.

Nella storia biblica della cacciata dal paradiso terrestre, c’erano quattro personaggi: l’uomo tentato, la femmina tentatrice, l’animale tentatore e la cosa tentante. Più due mediazioni: dal serpente alla donna, poi dalla donna ambasciatrice del peccato all’uomo. Storia semplice, rispetto ai molteplici travestimenti che l’occidente utilizza per circuire e sedurre il casto Terzo mondo: il male europeo è multiforme, di volta in volta pornografia, rock, gadget, jeans, droghe, bevande gassate, tecnologia, turismo, denaro: Satana è legione, ha cento maschere, cento travestimenti per sedurre l’oasi primaverile. Da qui la sfumatura d’indefinibile rimpianto con cui accogliamo la normalissima maturazione delle nazioni che entrano nel ciclo delle prove d’iniziazione alla vita politica; da qui anche la nostra collera contro il sacrilego corruttore, il mondo industrializzato, che affretta l’evoluzione smaliziando prematuramente l’umanità innocente.

Così, per spiegare i disastri, la repressione, la corruzione, il nepotismo, la stagnazione che imperversano nell’emisfero sud, si ricorre a questo concetto magico fra tutti: il neo colonialismo. Poiché l’Europa ha lasciato i suoi possedimenti solo per installarvisi meglio, tocca a lei assumersi gli errori e gli sbagli che vi si commettono. Mirabile cortocircuito: di nuovo, il presente non è che un duplicato del passato, e l’antica invettiva può avere libero corso: nelle prigioni iraniane, siriane, algerine si pratica la tortura? E perché i loro agenti “sono gli allievi dei nostri poliziotti” (Claude Bourdet). Lo sciismo s’irrigidisce in un fondamentalismo oscurantista? E’ perché “le ‘soluzioni’ dell’occidente hanno fatto fallimento” e condannano certi paesi all’integralismo (Roger Garaudy). La miseria avanza a grandi passi: naturalmente, a causa delle multinazionali e del loro svergognato saccheggio. Sempre per spiegare l’analfabetismo, le epidemie, le guerre, la decadenza del tenore di vita, il dispotismo dei nuovi padri del popolo, si invocano i colonialisti francesi, gli imperialisti americani, i dominatori inglesi, gli affaristi olandesi, tedeschi o svizzeri, perché in tutto il globo ci sono soltanto due tipi di paesi: i “paesi malati” e i “paesi ingannati” (Roger Garaudy). Insomma, invece di tener conto dei fatti, di cercare le cause determinanti, si prediligono le cause remote che esonerano da ogni responsabilità gli stati tropicali: istigatore universale, il neocolonialismo diventa così il mezzo per accantonare in perpetuo i veri problemi.

Laggiù, in Francia, nello stesso momento in cui innaffiavate le piante o sorseggiavate un caffè, la televisione vi mostrava bambini dilaniati dalle mine, oppositori politici torturati, profughi ammassati sulle giunche che affondavano con tutti i loro beni, vittime di una tempesta o dei pirati che li colavano a picco dopo averli taglieggiati. Potevate credere che fosse una finzione, e bastava premere un bottone per far cessare quelle scene d’incubo. Ma qui, la miseria impregna i muri, l’aria che si respira, l’orizzonte che si abbraccia, forma la sostanza stessa della città. Gli alberghi più lussuosi, le ville meglio custodite sono cittadelle dotate di un privilegio transitorio, circondate dalla sporcizia e dall’infelicità. E, ogni momento, vi aspettate di vedere la porta della vostra camera aprirsi per lasciar passare una teoria di sciancati, di straccioni famelici, di donne miserabili, pronti a occupare lo spazio che la vostra prosperità vi attribuisce indebitamente.



???

Per Eco il terrorismo islamico è figlio dell'Occidente insensibile
Colpa nostra che li facciamo vivere in periferia. Ma certe teorie dimostrano che il giustificazionismo fa più danni dell'Isis
Luigi Mascheroni - Dom, 02/08/2015
http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 57745.html

Non è sicuro che l'Occidente - domani o tra cent'anni - sarà distrutto. Ma è sicura una cosa. Che se sarà distrutto, lo sarà dall'Occidente stesso.

Gli aerei-bomba di Al Qaida, le armate dell'Isis, gli sbarchi-invasione dal Nord Africa provocano meno danni alla civiltà occidentale rispetto a quelli causati dai nostri sensi di colpa. Dalla nostra umiliante volontà di fare mea culpa per ogni violenza accada fuori dalla nostra porta. Dalla pietosa vocazione al martirio che ci spinge a caricarci del peccato originale di ogni male mondiale. Dall'insopportabile vittimismo con il quale cerchiamo di attenuare il disprezzo che ci riservano i nostri carnefici.

La retorica buonista, così tanto dannosa, la conosciamo bene. E ci nausea ormai.
Il terrorismo islamico?
In realtà è una risposta a scoppio ritardato allo spirito di conquista cristiano.

La povertà del Terzo Mondo?
È una conseguenza dello sfruttamento colonialista europeo.

La fame dei popoli che premono alle nostre frontiere?
L'ha provocata il modello capitalistico, che arricchisce pochi e dissangua molti.

Le rivolte nelle periferie multietniche delle nostre città?
Alimentate dal razzismo europeo e dalle élite finanziarie.

Il massacro dei giornalisti di Charlie Hebdo ?
Se la sono cercata, con la loro mancanza di rispetto dell'«altro».

L'anarchia nei Paesi nord-africani o mediorientali?
Risultato dell'intervento militare dell'Occidente.

I terroristi che minacciano le nostre città e il nostro stile di vita?
Sono freedom fighters o partigiani: la loro reazione è, se non da condividere, da capire...

È sempre colpa della malvagità dell'Occidente, mai della brutalità altrui. Ma perché? Chi lo dice? Sempre noi, purtroppo, sempre noi occidentali. Lo ha detto ieri, ancora una volta, Umberto Eco, l'intellettuale italiano più famoso del mondo, all'assemblea dei ministri di 83 Paesi all'Expo. A conclusione di un intervento condivisibilissimo sulla cultura come elemento di integrazione e di sviluppo economico, sottolineando il fatto che molti terroristi che oggi criticano l'Occidente sono cresciuti proprio all'interno dell'Occidente, Eco ha detto: «C'è da chiedersi se ai fanatici che oggi metterebbero una bomba nelle navate della cattedrale di Notre-Dame a Parigi sia stata data la possibilità di guardare veramente Notre-Dame, di capire cosa rappresentava, o se invece siano stati costretti semplicemente a passargli davanti e a vederla come simbolo di una società che li confinava a vivere nelle bidonville».

No, caro professor Eco. Non è così: il passaggio da «Io vivo nella bidonville» quindi «Io posso diventare un terrorista» non è soltanto un passaggio giuridicamente e moralmente vietato. Ma è anche una scorciatoia intellettuale facile e ruffiana. La violenza, seppure può avere cause scatenanti, ha sempre una responsabilità individuale. Come l'integralismo religioso e come la tirannide politica - pur se favoriti da particolari contesti storici - sono sempre figli della fede e del Paese all'interno dei quali si sviluppano. Pol Pot fu responsabile della morte di due milioni di cambogiani perché nutrito da due millenni di dispotismo asiatico: il fatto di aver studiato alla Sorbona di Parigi ha solo reso più raffinato, al limite, il tentativo di giustificazione filosofica della strage. E l'odio per gli Usa e Israele di Osama bin Laden mette le radici nella religione musulmana fedele alla Sharia : le provocazioni dell'Occidente hanno solo ingigantito il rancore.

Non è l'Europa a spingere i giovani invasati nelle braccia dei carnefici dell'Isis, ma la loro fragilità. L'Europa ci mette semmai i soldi per pagargli il biglietto di sola andata per il Califfato. Vorrebbero far saltare Notre-Dame non perché nessuno li ha invitati a entrare, ma perché si sono sempre rifiutato di farlo.

L'Occidente non è esente da colpe. Anzi. Ha sofferto per secoli del medesimo fondamentalismo religioso e della stessa insofferenza alla democrazia di cui sono malati oggi molti popoli e nazioni. Ma da tali vizi si è saputo affrancare attraverso un accidentato percorso politico e culturale. Lo stesso sul quale ci auguriamo anche altri, oggi, possano incamminarsi. Una strada però che il vittimismo e i sensi di colpa dell'Occidente - invece che facilitare - rendono più lunga per loro e più pericolosa per noi.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: All'area arabo islamica non dobbiamo nulla, anzi

Messaggioda Berto » mar ago 22, 2017 7:31 am

AMICIZIE PERICOLOSE: OSAMA BIN LADEN E GLI AMERICANI
di Michel Chossudovsky
docente di Economia all’Università di Ottawa, centro per la ricerca sulla Globalizzazione (CRG)

http://www.alternativa-antagonista.com/ ... &Itemid=15

Il seguente testo traccia la storia di Osama bin Laden e dei legami della Jihad Islamica con le opzioni della politica estera degli USA durante la Guerra Fredda e le sue conseguenze.

Primo sospettato nell'attacco terroristico a New York e a Washington, bollato dalla FBI come “terrorista internazionale” per il suo ruolo nell'attentato alle ambasciate USA in Africa, il saudita Usama bin Laden venne reclutato durante la guerra sovietico-afghana sotto gli auspici della CIA, per combattere gli “invasori sovietici"[1].

Nel 1979 “la più grande operazione occulta nella storia della CIA” fu lanciata come risposta all’invasione sovietica dell'Afghanistan, avvenuta a sostegno del governo filo-comunista di Babrak Kamal[2]: “Con l'attivo incoraggiamento della CIA e dell'ISI (Inter Services Intelligence) del Pakistan che cercava di trasformare la jihad afghana in una guerra globale pagata da tutti gli stati mussulmani contro l'Unione Sovietica, circa 35,000 radicali mussulmani provenienti da 40 paesi islamici raggiunsero i combattenti dell'Afghanistan tra il 1982 e il 1992. Decine di migliaia, inoltre, andarono a studiare nelle madrasa Pakistane. Infine più di 100,000 radicali mussulmani stranieri furono direttamente influenzati dalla jihad afghana”[3].
La jihad islamica era supportata dagli Stati Uniti e dall'Arabia Saudita con una significativa parte delle risorse generate dal commercio di droga nella Mezzaluna Dorata: “Nel Marzo 1985, il Presidente Reagan firmò il National Security Decision Directive 166, che autorizzava gli aiuti militari e le operazioni occulte in favore dei mujahidin, e chiarì che la guerra segreta in Afghanistan aveva un nuovo obiettivo: la sconfitta delle truppe sovietiche in Afghanistan tramite le operazioni coperte e la ritirata dei sovietici.
La nuova assistenza occulta degli USA iniziò con un vertiginoso aumento delle forniture di armi - un costante aumento dalle 65.000 tonnellate annuali nel 1987, inoltre un flusso incensante di specialisti della CIA e del Pentagono che viaggiavano verso il quartier generale segreto dell'ISI Pakistano sulla principale strada per Rawalpindi in Pakistan. Qui gli specialisti della CIA incontravano gli ufficiali dell'intelligence Pakistano per aiutarli a pianificare le operazioni in favore dei ribelli afghani”[4].
La CIA, usando l'ISI militare del Pakistan, giocò un ruolo chiave nell'addestramento dei Mujahidin. In cambio la CIA sponsorizzava l'addestramento alla guerriglia integrata con l'insegnamento del Corano: “I temi predominanti erano che l'Islam fosse una ideologia socio-politica completa, che il sacro Corano era stato violato dalle atee truppe sovietiche, e che il popolo islamico dell'Afghanistan avrebbe riottenuta l'indipendenza rovesciando il regime di sinistra appoggiato da Mosca”[5].
L'APPARATO PAKISTANO D'INTELLIGENCE
L'ISI Pakistana fu usata come un tramite. La CIA appoggiava di nascosto jihad, operando attraverso la ISI Pakistana e la CIA non canalizzava direttamente i suoi aiuti ai Mujahidin.
In altre parole, per condurre al successo queste operazioni coperte, Washington fu attenta a non rivelare lo scopo ultimo della jihad, che consisteva nel distruggere l'Unione Sovietica.
Come disse Milton Beardman, agente della CIA “Noi non dovevamo addestrare gli arabi”.
Secondo Abdel Monam Saidali, del Centro Studi Strategici di Al-aram, in Cairo, bin Laden e gli “arabi afghani” avevano ricevuto un “addestramento assai sofisticato che era stata permesso dalla CIA”[6].
L'agente della CIA Beardman conferma, a tal riguardo, che Osama bin Laden non era consapevole del ruolo che egli svolgeva per conto di Washington. Nelle parole di Osama bin Laden (citate da Beardman): “né io, né i miei fratelli abbiamo mai avuto sentore degli aiuti statunitensi”[7].
Motivati dal nazionalismo e dal fervore religioso, i guerriglieri islamici erano inconsapevoli di combattere l'Armata Rossa per conto dello Zio Sam. Mentre vi erano contatti ai massimi vertici della gerarchia dell'intelligence, i leader dei ribelli islamici nel teatro delle operazioni non avevano contatti con Washington o con la CIA. Assieme alla CIA - che appoggiava e riforniva la guerra con massicci quantitativi di aiuti militari USA - l'ISI pakistana aveva sviluppato una “struttura parallela che aveva grande influenza su tutte le decisioni di governo”[8].
L'ISI aveva uno staff composto da militari e da ufficiali dell'intelligence, burocrati, agenti occulti e informatori, stimati in 150.000 unità[9]. Inoltre le operazioni della CIA avevano anche rinforzato il regime militare del Pakistan guidato del Generale Zia Ul Haq: ”Relazioni tra la CIA e l'ISI si erano accresciute in continuazione in seguito all'eliminazione da parte del General Zia di Bhutto e l'avvento del regime militare. Durante buona parte della guerra afghana, il Pakistan era assai più aggressivamente anti-sovietico che gli stessi USA. Subito dopo l'invasione militare sovietica dell'Afghanistan nel 1980, Zia Ul Haq inviò il capo dell'ISI a destabilizzare gli stati dell'Asia centrale sovietica. La CIA approvò tale piano solo nell'ottobre 1984. La CIA era assai cauta dei pakistani. Sia il Pakistan che gli USA adottarono una politica di inganni con prese di posizione pubbliche per la negoziazione di soluzioni, mentre in privato erano d'accordo che una escalation militare sarebbe stata la strada migliore”[10].
IL TRIANGOLO DELLA DROGA DELLA MEZZALUNA D'ORO
La storia del traffico di droga in Asia Centrale è intimamente collegata con le operazioni coperte delle CIA.
Prima della guerra sovietico-afghana, la produzione di oppio in Afghanistan e Pakistan era diretta unicamente verso piccoli mercati regionali. Non vi era una produzione locale di eroina[11].
A tal riguardo, lo studio di Alfred McCoy conferma che in due anni di operazioni della CIA in Afghanistan, “il confine Pakistan-Afghanistan divenne il maggior produttore mondiale di eroina, fornendo il 60% della domanda USA. In Pakistan, la popolazione eroinomane passò dallo zero del 1979 al 20% della popolazione nel 1985, il più alto tasso di incremento registrato al mondo”[12]. Gli agenti della CIA controllavano tale commercio. Quando i mujahidin occupavano un territorio in Afghanistan, essi ordinavano ai contadini di coltivare il papavero come forma di tassa rivoluzionaria. Attraverso il confine con il Pakistan, i leader afghani e i gruppi locali sotto controllo dell'Intelligence del Pakistan gestivano centinaia di laboratori dell'eroina. Durante questo decennio la DEA (la U.S. Drug Enforcement Agency) di Islamabad non riuscì a imporre alcuna contromisura. Ufficiali USA avevano rifiutato di investigare sui carichi di eroina gestiti dai propri alleati poiché la politica sul narcotraffico USA in Afghanistan era subordinata alla guerra antisovietica.
Nel 1995, l'ex direttore della CIA delle operazioni afghane, Charles Cogan, ammise che la CIA aveva sacrificato la guerra alla droga per combattere la guerra fredda. “La nostra missione principale era di arrecare il maggior danno possibile ai sovietici. Non avemmo mai le risorse o il tempo necessari per dedicarci ad investigare sul traffico di armi, e non credo che dobbiamo rammaricarci per questo. Ogni situazione comporta delle conseguenze (…) e le conseguenze erano in termini di droga, sì. Ma l'obiettivo principale era stato raggiunto. I sovietici avevano lasciato l'Afghanistan”[13].
ALLA FINE DELLA GUERRA FREDDA
Alla fine della guerra fredda, le regioni dell'Asia Centrale non sono strategiche soltanto per le loro estese riserve di petrolio: esse producono tre/quarti dell'oppio mondiale, rappresentando così un provento di miliardi di dollari per i gruppi affaristici, le istituzioni finanziarie, le agenzie d'intelligence ed il crimine organizzato.
Il ricavato annuale del traffico di droga della mezzaluna d'oro (tra i 100 e i 200 miliardi di dollari) rappresenta all'incirca un terzo del ricavato del traffico mondiale dei narcotici, stimato dall'ONU nell'ordine dei 500 miliardi di dollari [14].
Con la disintegrazione dell'Unione Sovietica, una nuova ondata nella produzione di oppio era stata scatenata. (Secondo le stime dell'ONU, la produzione di oppio in Afghanistan nel 1998-99 - in coincidenza con la destabilizzazione delle ex repubbliche sovietiche - raggiunge la cifra record di 4600 tonnellate).
Il potente business delle mafie nella ex-URSS, alleate con il crimine organizzato, conta sul controllo strategico delle rotte dell'eroina.
L'ISI, che aveva una estesa rete d'intelligence militare, non venne smantellato alla fine della guerra fredda.
La CIA continuò a supportare la jihad islamica anche fuori dal Pakistan.
Nuove operazioni coperte furono attuate nell'Asia centrale, nel Caucaso e nei Balcani. L'apparato militare e d'intelligence del Pakistan servì essenzialmente come “catalizzatore della disintegrazione dell'URSS e l'emergere di sei nuovi paesi mussulmani dell'Asia centrale”.
Intanto le missioni islamiche della setta dei Wahabiti provenienti dall'Arabia Saudita si erano stabilite nelle stesse repubbliche mussulmane e all'interno della Federazione Russa, usurpando il ruolo delle istituzioni secolari dello stato. Nonostante la sua ideologia anti-americana, il fondamentalismo islamico era largamente utile alla strategia di Washington nell'ex URSS.
Dopo la ritirata delle truppe sovietiche nel 1989, la guerra civile in Afghanistan continuò intensamente. I Talibani erano sostenuti dai Deobandi pakistani e dal loro partito politico la Jamiat-ul-Ulema-e-Islam (JUI).
Nel 1993, JUI entrò nella coalizione di governo del primo ministro Benazzir Bhutto. Furono stabiliti legami tra il JUI, l'esercito e l'ISI.
Nel 1995, con la caduta del governo del Hezb-I-Islami di Hektmatyar, a Kabul, i Talibani non solo instaurarono un governo islamico rigido, ma arrivarono a controllare anche “centinaia di campi di addestramento in Afghanistan e le fazioni del JUI”. E il JUI, con il supporto del movimento saudita Wahabita, giocò un ruolo chiave nel reclutamento di volontari nelle guerre nei Balcani e nell'ex-URSS.
Il Jane Defense Weekly conferma a tal riguardo che “metà delle truppe Taliban e del loro equipaggiamento provengono dal Pakistan, grazie all'ISI”. Ciò avvenne dopo la ritirata delle truppe sovietiche: entrambe le parti nella guerra civile esplosa in Afghanistan continuarono a ricevere appoggi occulti da parte dell'ISI.
In altre parole, appoggiate dell'intelligence militare del Pakistan che era a sua volta controllato dalla CIA, lo stato islamico dei Talibani ha largamente servito gli interessi geopolitici degli USA. Il commercio di droga della Mezzaluna d'oro è stato, inoltre, usato per finanziare e equipaggiare l'esercito mussulmano bosniaco (partendo dagli inizi degli anni '90) e l'UCK in Kosovo.
Negli ultimissimi mesi è stata raggiunta la prova che mercenari mujahidin combattono nelle fila dell'UCK (l’Esercito di liberazione del Kosovo) impegnato in assalti terroristici contro la Macedonia. Senza dubbio, ciò spiega perché Washington abbia chiuso gli occhi sul regno di terrore imposto dai Talebani e sulla lampante violazione dei diritti delle donne, la chiusura delle scuole per bambine, il licenziamento delle impiegate dagli uffici del governo e il rafforzamento della legge delle punizioni della Sharia.
LA GUERRA IN CECENIA
Per quanto concerne la Cecenia, il principale leader dei ribelli Shamil Basayev Al Khattab fu addestrato e indottrinato nei campi sponsorizzati dalla CIA in Afghanistan e Pakistan.
Secondo Yossef Bodansky, direttore della Task Force sul terrorismo e la guerra non convenzionale del Congresso USA, la guerra in Cecenia era stata pianificata durante un summit segreto della Internazionale hezbollah tenutasi nel 1996 a Mogadiscio, in Somalia.
Il summit fu seguito da Osama bin Laden e da alti ufficiali dell'intelligence iraniano e pakistano. A tal riguardo, il coinvolgimento dell'ISI in Cecenia “iniziò con la fornitura di armi e di esperti ai ceceni: l'ISI e i suoi alleati radicali incitavano alla lotta in questa guerra".
Il principale oleodotto della Russia transita attraverso la Cecenia e il Daghestan. Nonostante la formale condanna del terrorismo islamico da parte di Washington, i beneficiari indiretti della guerra in Cecenia erano proprio le compagnie petrolifere anglo-americane, che cercavano di controllare le risorse petrolifere e le pipelines vicine al Mar Caspio.
I contingenti dei due principali eserciti dei ribelli ceceni (rispettivamente guidati da Shamil Basayev e da Emir Khattab) erano stimati in 35.000 effettivi, supportati dall'ISI pakistano, che inoltre giocava un ruolo chiave nell’organizzare ed addestrare l'esercito ribelle ceceno.
Nel 1994 l'ISI aiutò Basayev e i suoi aiutanti addestrandoli alla guerriglia nella provincia di Khost in Afghanistan, nel campo di Amir Muawia, costruito nei primi anni '80 dalla CIA e dall'ISI e comandata dal famoso signore della guerra afghano Gulbuddin Hekmatyar.
Nel luglio 1994, lasciato il campo di Amir Muawia, Basayev venne trasferito a Markaz-i-Dawar, un altro campo di addestramento in Pakistan, per un addestramento avanzato nelle tattiche di guerriglia. In Pakistan, Basayev incontrò i più alti gradi militari e agenti dell'intelligence del Pakistani: il ministro della Difesa, gen. Aftab Shahban Mirani, il ministro dell’Interno, gen. Naserullah Babar ed il capo della branca dell'ISI incaricata di supportare la causa islamica, gen. Javed Ashraf (ora in pensione). Questi accordi ad alto livello si rivelarono veramente utili a Basayev.
Dopo il suo addestramento Basayev venne assegnato a guidare gli assalti contro le truppe federali russe nella prima Guerra Cecena, nel 1995.
La sua organizzazione aveva anche sviluppato legami con organizzazioni criminali a Mosca e forti legami con la mafia albanese e l'UCK. Nel 1997-98, secondo il Servizio di Sicurezza Federale Russo (FSB): “i signori della guerra cecena hanno iniziato a comparare delle proprietà in Kosovo... utilizzando aziende di copertura regolarmente registrate in Jugoslavia”.
L'organizzazione di Basayev è stata coinvolta nel racket internazionale, nel traffico di narcotici, nel sabotaggio di oleodotti russi, rapimenti, sfruttamento della prostituzione, traffico di dollari falsi, traffico di materiale nucleare, nonché nel crollo del 1997 della piramidi finanziarie della mafia albanese.
Accanto all'esteso riciclaggio di narcodollari, i ricavati di varie attività illecite sono state incanalate verso il reclutamento di mercenari e l'acquisto di armi. Durante il suo addestramento in Afghanistan, Shamil Basayev strinse rapporti con il comandante mujahidin veterano saudita Al Khattab che aveva combattuto come volontario in Afghanistan. Non appena Basayev fece ritorno a Grozny, Khattab venne invitato (all'inizio del 1995) a costituire una base dell'esercito in Cecenia per l'addestramento dei combattenti mujahidin.
Secondo la BBC, la presenza di Khattab in Cecenia era stata possibile “tramite l'Organizzazione di Aiuto islamico con base in Arabia saudita, un’organizzazione religiosa militante, fondata da miliardari che trasferivano fondi in Cecenia”.
CONCLUSIONI
Fin dalla Guerra Fredda, Washington ha consapevolmente appoggiato Osama bin Laden, mentre lo inseriva nella lista dei maggiori ricercati dall'FBI come il più pericoloso terrorista del mondo.
Mentre i Mujahidin erano occupati a combattere la guerra degli USA nei Balcani e nell'ex-URSS, l’FBI conduceva una guerra interna contro il terrorismo, agendo in maniera indipendente dalla CIA che, invece, fin dalla guerra sovietico-afghana, appoggiava il terrorismo internazionale.
Paradossalmente, mentre l’amministrazione Bush definiva la jihad islamica “una minaccia per l'America”, questa stessa organizzazione islamica era da tempo diventata uno strumento chiave delle operazioni di intelligence militari degli USA nei Balcani e nell'ex-URSS.
Sull’onda degli attacchi terroristici a New York e a Washington, la verità prevarrà per impedire che l'amministrazione Bush, assieme alla NATO, imponga operazioni militari avventuristiche che minaccino l'umanità.



[1] Hugh Davies, International: “Informers' point the finger at binLaden”; “Washington on alert for suicide bombers”, The DailyTelegraph, London, 24 August 1998.
Si veda anche Fred Halliday, "The Un-great game: the Country that lost theCold War, Afghanistan”, New Republic, 25 March 1996.

[2] Ahmed Rashid, “The Taliban: Exporting Extremism”, ForeignAffairs, November-December 1999.

[3] Steve Coll, Washington Post, July 19, 1992. Dilip Hiro, “Fallout from the Afghan Jihad”, Inter Press Services, 21 November 1995. Weekend Sunday (NPR);

[4] Eric Weiner, Ted Clark; 16 August1998.Ibid.Dipankar Banerjee; “Possible Connection of ISI With Drug Industry”, India Abroad, 2 December 1994.

[5] Ibid. Vedi Diego Cordovez and Selig Harrison, “Out of Afghanistan: The Inside Story of the Soviet Withdrawal”, Oxford university Press, New York, 1995. Vedi anche The review of Cordovez and Harrison in International Press Services, 22 August 1995.

[6] Alfred McCoy, “Drug fallout: the CIA's Forty Year Complicity inthe Narcotics Trade”. The Progressive; 1 August 1997.

[7] Ibid.

[8] Ibid.

[9] Douglas Keh, “Drug Money in a changing World”, Technical document no 4, 1998, Vienna UNDCP, p. 4.
Vedi anche: Report of the International Narcotics Control Board for 1999, E/INCB/1999/1 United Nations Publication, Vienna 1999, p49-51. E Richard Lapper, “UN Fears Growth of Heroin Trade”, Financial Times, 24 February 2000.

[10] Report of the International Narcotics Control Board, op cit, p49-51. Vedi anche: Richard Lapper, op. cit. International Press Services, 22 August 1995.

[11] Ahmed Rashid, “The Taliban: Exporting Extremism”, ForeignAffairs, November- December, 1999, p. 22.Quoted in the Christian Science Monitor, 3 September 1998)

[12] Tim McGirk, “Kabul learns to live with its bearded conquerors”, The Independent, London, 6 November1996.
Vedi: K. Subrahmanyam, “Pakistan is Pursuing Asian Goals”, India Abroad, 3 November 1995.

[13] Levon Sevunts, “Who's calling the shots?: Chechen conflict finds Islamic roots in Afghanistan and Pakistan”, The Gazette, Montreal, 26 October 1999.

[14] Ibid.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: All'area arabo islamica non dobbiamo nulla, anzi

Messaggioda Berto » mar ago 22, 2017 7:32 am

Niram Ferretti e Pierfrancesco Bottero

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A parte i giornalisti egiziani para-salviniani e con amicizie "rossobrune", il vezzo di attribuire le cause della violenza islamista e del radicalismo musulmano a fatti storici recenti, cagionati dall'occidente, dagli americani, dalle contraddizioni del capitalismo, del neo-liberismo è purtroppo assi diffusa. Come diffusa è la sottovalutazione del fenomeno. Questo vale soprattutto per chi, meglio del giornalista egiziano, in modo più raffinato e collaudato riduce l'islamismo a una "frazione di minoranza" del mondo islamico che noi occidentali abbiamo causato, strumentalizzato, usato e che ora continuiamo a fomentare con le nostre reazioni "isteriche".
Purtroppo una certa cultura, che si fregia del titolo di “progressista” e “di sinistra”, pare rimasta ancorata a strumenti di analisi un tempo di gran moda ma oggi quanto meno obsoleti, se non altro perché non disgiunti da premesse obsolete, ossia da visioni del mondo che se mai l’hanno avuta, non hanno più oggi, nel secolo XXI (a un quarto di secolo dalla caduta del “socialismo reale” e dalla crisi anche delle socialdemocrazie del secondo dopoguerra), alcuna concreta capacità di render obbiettivamente conto dei fatti.

Probabilmente , detta cultura, è nobile e a giusto titolo definita “progressista”, non saro’ certo io a negarlo, ma certo non è più da tempo, a mio modesto avviso, granché progressiva (nel senso che effettivamente promuova il progresso sociale o la comprensione delle dinamiche reali della società concreta, del “divenire storico”).
Per quanto le formazioni e strutture economiche e “di classe” rappresentino aspetti del mondo contemporaneo da cui ben difficilmente si può prescindere e per quanto la storia delle relazioni internazionali fra “metropoli imperialiste” e “paesi coloniali, semi-coloniali, neo-coloniali” , non possa essere passata sotto silenzio, i modi con i quali certa (non proprio tutta, fortunatamente) cultura progressista utilizza detti strumenti, paiono essere addirittura regressivi rispetto ai modelli originali, quelli proposti dai loro antichi maestri, che ben conoscevano, quanto meno, il valore progressivo dell’esportazione nel mondo della civiltà occidentale attraverso quella che all’epoca si chiamava ancora “internazionalizzazione del capitale”, per quanto questa avesse in sé , inevitabilmente, anche aspetti indubitabilmente brutali.
Non ripeterò qui né le celebri citazioni (che spesso ho fatto a proposito altrove) dal “Manifesto del partito comunista”, ne’ quelle da Hilferding, Rosa Luxemurg o dallo stesso Lenin circa “la fase suprema del capitalismo” costituita “dall’imperialismo”, per sottolineare quanto il successivo terzomondismo abbia rappresentato un ben evidente regredire culturale e delle capacità esplicative circa la comprensione di dinamiche profonde e concrete del capitalismo (incluso quello di stato, socializzato dal “capitalista collettiva ideale”, come lo chiamò Engels) e della società moderna rispetto, ad esempio, alle analisi del marxismo classico e persino del leninismo delle origini.

Il peccato originale, quello di ritenere che i fenomeni storici abbiano una radice fortemente prevalente (se non quasi esclusiva) nelle contraddizioni della formazione economico sociale, appartiene però “all’originale”, al positivismo sociale e sociologico, al “materialismo storico e dialettico”. In detta visione, la storia delle idee, delle ideologie, delle religioni, della medesima cultura, appare in qualche modo “soprastrutturale” e/o “derivata” o quanto meno così fortemente “condizionata” da esserne comunque “determinata”.
La “dialettica” di Marx, per la quale questa relazione fra struttura materiale e sovrastruttura culturale – ideologica godeva pur sempre, in ultima analisi, di una certa “reciprocità” di influenze nel divenire storico è stata malintesa o addirittura dimenticata da molti degli epigoni, anche “non marxisti” della predetta “cultura progressista”.

Vi sono “progressisti” che sono disposti a riconoscere un ruolo relativamente grande a religioni e ideologie, alla soprastruttura culturale, ma solo qui in occidente, perché quelle religioni, ideologie, soprastrutture culturali sono uno strumento delle classi dominanti capitalistiche e quindi immediatamente un nemico, al contrario di religioni e culture di altre aree del mondo che possono svolgere un ruolo diverso.

Nel film “Reds” sulla vita di John Reed (l’unico americano sepolto entro le mura del Cremlino) si rappresenta come il giornalista radicale statunitense, che accompagnava in quel frangente Zinoviev (braccio destro di Lenin) in un giro propagandistico, in piena guerra civile, si fosse letteralmente scandalizzato per come tale bolscevico ateo mangiapreti si rivolgesse alle masse musulmane inneggiando al “ruolo rivoluzionario della religione islamica”. Rivoluzionario, nella propaganda comunista dell’epoca, giacche’ naturalmente avverso all’imperialismo occidentale e ai suoi interessi. Questa bassa propaganda era in contrasto con la teoria leninista, ma era pur sempre, nell’immediato, mobilitante masse popolari che potevano essere utili alla causa, e ciò, ripetuto negli anni e accentuatosi in epoca staliniana, alla lunga ha prodotto quegli effetti nefasti che conosciamo, quelli del terzomondismo più improbabile.

Sia come sia, rispetto al preteso “primato della struttura sociale” ovvero “materiale” della società, personalmente non la penso più cosi da qualche decennio e non per questo, rispetto alle questioni del terrorismo islamista e del radicalismo musulmano in genere (o altre similari, compreso il fenomeno del “populismo”) mi pongo dal punto di vista della xenofobia o dell’estremismo islamofobico o dimentico il sussistere anche di fattori economici e sociali tra quelli che devono concorrere alla comprensione della realtà nel suo divenire.

Del resto, sappiamo tutti bene che quello dell’ISLAM è un mondo molto complesso e differenziato e che, anche nell’ottica dello “scontro di civiltà” (a proposito occorrerebbe rileggersi il Marx che scriveva sulla stampa circa la guerra civile e circa la questione “indiana”, o lo stesso Engels de “l’Origine della Famiglia, della proprietà privata e dello Stato”, per capire quale lettura dare a tale termine, proprio da un osservatorio “progressista”) , da un punto di vista meramente tattico, sarebbe infantile e deleterio porre tutto contemporaneamente nel medesimo calderone, ottenendo così l’effetto di trovarsi ad affrontare tutto insieme e compatto un mondo che altrimenti fa della contraddizione e del contrasto interno, anche molto violento, una delle modalità della propria esistenza storica.

Quello a cui assistiamo contiene quindi, chi lo nega, anche aspetti gravemente deleteri e giustamente preoccupanti (diciamo così, “reattivi”) di xenofobia, razzismo, islamofobia, ma tutto ciò risulta ancora comparativamente, se possibile, meno reazionario, negli effetti ultimi, della “politica dello struzzo” perseguita in modo ampiamente maggioritario dalle classi dirigenti e dalla cultura prevalente occidentale, che preferisce di gran lunga rimanere immersa nelle sue “pie illusioni” (per dirla marxianamente) piuttosto che prendere coscienza del fatto che quello in atto è un mondo in trasformazione che ha, tra le sue opzioni di divenire storico possibile, decisamente possibile, una grave involuzione democratica determinata paradossalmente anche dal volere disarmare la democrazia e la civiltà occidentale contemporanea, con i suoi capisaldi, rispetto ai suoi nemici mortali “esogeni”.

Disarmo costituito anche da ogni “compromesso” culturale al RIBASSO con l’integralismo connaturato alla cultura islamica (di moltissime delle sue tendenze, non solo di qualche gruppetto estremista o peggio…terrorista), tutt’altro che insignificanti politicamente e numericamente, che non ha PALESEMENTE la pur minima intenzione di integrarsi davvero nella “cultura democratica” (anche nel più soft dei modi circa, ad esempio, una reale per quanto minimale separazione fra Stato, politica, morale e religione) e che va ben al di là dei gruppi terroristi islamisti, pervadendo una parte non insignificante del mondo musulmano in sè, ANCHE in occidente. Compromessi culturali AL RIBASSO che accadono di continuo, seppur in modo contraddittorio e inconseguente (per fortuna) in più parti d’ Europa e dell’Occidente, proprio a cagione di una malintesa idea della tolleranza, una tolleranza culturalmente disarmata anziché disarmante, del tutto strabica che, di fatto protegge spesso, per fare l’esempio più eclatante, minoranze prepotenti che stanno costringendo alla semi-clandestinità o all’espatrio altre minoranze, già vittime di persecuzioni plurisecolari in occidente e di un progetto pianificato di sterminio di massa, concepito nel bel mezzo dell’Europa e quasi nel bel mezzo del XX secolo.

La convergenza, sempre di fatto, fra estrema destra nazifascistoide e islam radicale nel fomentare la ripresa dell’antisemitismo più becero, volgare e violento, è un elemento della realtà che i “progressisti” o sottovalutano apertamente o addirittura alimentano a propria volta con un proprio virulento collaterale antisionismo, non raramente diffuso (o comunque non sufficientemente contrastato) da intellettuali radicals ebrei o di origini ebraiche, in un ennesimo paradosso della storia che trova ancora la sua spiegazione fondamentale nella semenza “terzomondista” e “antisionista”, oltre che falsamente “pacifista”, sparsa nel campo dell’intellettualità “progressista” dalla più raffinata e insinuante propaganda sovietica “antimperialista” degli anni della guerra fredda (dopo che l’URSS fu invece fondamentale nell’armare Israele, tramite i neosatelliti quali la Cecoslovacchia , per la sua sopravvivenza dalla prima grande aggressione socialnazionalista islamica, subito dopo la proclamazione dell’indipendenza dello Stato ebraico).

Dunque le questioni che ci sono davanti sono piuttosto complesse e, per dirla marxianamente, oggettivamente contraddittorie, ed è vero che ogni semplificazione propagandistica, effettuata anche con le migliori intenzioni, conserva in se’ il rischio di non cogliere la complessità e quindi di risultare sostanzialmente inefficace nel contrastare i pericoli fomentandone altri, simmetrici, sicuramente a propria volta nefasti.

Tuttavia, se non si ha chiara nemmeno la complessità della realtà, se non si hanno chiari i pericoli che stiamo correndo da parte non solo del terrorismo islamista (punta dell’iceberg) ma del radicalismo musulmano (della cultura e della mentalità musulmano – integralista) e del suo diffondersi nel mondo (non sto parlando dell’immigrazione o comunque prevalentemente non mi occupo qui dell’immigrazione), certo non solo in Europa o in occidente, allora abbiamo poche speranze di cavarcela.

Per essere meno vaghi, se in nome del “politicamente corretto”, mentre il suddetto “ progressista” non ritiene (per altro giustamente) che ci debbano essere censure o autocensure significative (a parte i toni civili, si spera) nel criticare il papa, il patriarca ortodosso, il gran rabbinato, la Chiesa, la CEI, la Sinogaga, Gesù Cristo, San Paolo, la Bibbia, Mosè, Giosuè, la Torah, lo Stato Ebraico, il Vaticano, quando invece taccia facilmente quale “inaccettabile islamofobia” la critica, anche qualora massimamente rispettosa dei canoni dell’ordinaria buona educazione ma in modo non edulcorato, alla Shariah, al Profeta, al Corano, alla Sunna, alla “cultura e costumi islamici”, allora la REAZIONE ha buone carte per vincere. Soltanto che nel fronte reazionario vincitore …..all’avanguardia, oggettivamente, per usare il linguaggio un tempo caro a tanti “progressisti” anche di casa nostra, non ci saranno gli islamisti e neppure i nazifascistoidi o gli xenofobi reattivi loro massimi avversari nominali, ci saranno proprio loro, detti “progressisti” che subito dopo la vittoria saranno sacrificati (per primi) in quanto saranno comunque ritenuti portatori (e al massimo grado) di tutte le perversioni morali dell’occidente effemminato, corrotto nei costumi, miscredente se non satanico.

Detti “progressisti” resteranno tuttavia a lungo convinti che il radicalismo musulmano abbia fondamentalmente ragioni storico-sociali relativamente recenti, in cui alla base ci sarebbe in modo prevalente l’imperialismo occidentale (non so se l’invasione sovietica dell’Afghanistan rientri in tale categoria) con i suoi strascichi e con le diseguaglianze sociali generate dai rapporti di produzione capitalistici e dal, a propria volta “criminale”, neoliberismo. Rimosse queste cause, ecco che i musulmani si modernizzeranno, secondo le profezie del PROGRESSO, in modo semi-automatico, anzi, diventeranno tutti militanti “illuminati” del Movimento Atei Agnostici Razionalisti del mondo e faranno dell’Odifreddi pensiero il nuovo Corano a cui ispirare ogni istante della loro vita intellettuale. “Il nemico attuale” è, per dirla con una canzone comunista, sempre e ancora “uguale a quel che combattemmo sui monti nostri e in Spagna”. Peccato che quel nemico trovi consensi crescenti in ampi strati della popolazione, e non solo fra gli “analfabeti funzionali”, anche perché da parte delle forze democratiche occidentali, di sinistra, di centro e di destra, ci sono ancora troppo spesso troppe esitazioni e “distinguo” nel prendere di petto le questioni scottanti, non certo per quello che appaiono o per quello che vengono percepite anche a causa di propagande amplificanti e strumentali, ma semplicemente per quelle che effettivamente SONO.



Quando lo storico diventa cantastorie
Niram Ferretti
22 agosto 2017

http://www.linformale.eu/franco-cardini ... antastorie

Franco Cardini, apologeta indefesso dell’Islam e antiameriKano hardcore non ci delude mai. Il suo filoislamismo è la fioritura tardiva di semi gettati in gioventù, quando il burbanzoso storico fiorentino era un seguace di Jean Thiriart, ardente ammiratore del Reich, condannato a tre anni per collaborazionismo e fondatore della Giovane Europa, l’organizzazione che aveva come scopo quello di sganciare il vecchio continente dagli Stati Uniti e dal Patto Atlantico.

Da quegli ardori giovanili bruni con tinteggiature nere Cardini passò poi ad un forte afflato per l’ex Unione Sovietica dove dimorò per qualche tempo. La luce palingenetica del Corano non splendeva ancora scintillante ma era prossima a venire. D’altronde, tra fascismo, comunismo e Islam è sempre stata presente una indubbia somiglianza di famiglia, già apprezzata da Adolf Hitler, al quale non erano sfuggite le consonanze organiche tra Volk e Umma. Per quanto riguarda il fascismo, fu invece la Sceriffa di Massaua, discendente dell’imam Alì, a proclamare Mussolini protettore e difensore dell’Islam. Ed ecco che Cardini, in una splendida intervista concessa recentemente al Secolo XIX, ci fornisce ancora una volta la sua fiction sulla storia sempre più assomigliante a un grande e gustoso romanzo d’appendice con tocchi da romanzo criminale, in cui il criminale non è da scoprire a fine testo ma è subito annunciato dall’inizio, è l’Occidente, e la vittima il terzomondo martoriato.

Ma assaggiamone degli estratti:

“Da quando, mezzo millennio orsono, è iniziato il colonialismo e quindi la globalizzazione (perché essa è iniziata allora) questo principio è stato costantemente violato. Ora siamo arrivati alla fase del redde rationem e l’imponente afflusso di migranti nel ricco Occidente ne è una delle espressioni più vistose. Il nemico da battere, lo ripeto, è questo ingiusto sistema economico: esso ha innegabilmente reso prospero l’Occidente, ma ha generato uno squilibrio che è ormai improcrastinabile curare, anche nel nostro stesso interesse. Invece, in Occidente, ci siamo concentrati di volta in volta su altri nemici che ci hanno distratto da quello più feroce: dapprima, tutto il male del mondo era causato dal nazismo e dal fascismo, poi, caduti quei regimi, tutte le colpe furono dell’Unione Sovietica e del comunismo; finito l’impero sovietico e il tramontato il comunismo, ora si è passati al fondamentalismo islamico (fingendo di non sapere che è stato tenuto a battesimo dalle potenze occidentali) e, più in generale, all’Islam”.

Respirare, calma, dolcemente. Così era scritto sul biglietto che teneva tra le mani Herman Goering durante il processo a Norimberga. Sì, tocca respirare e farlo dolcemente. Ecco individuato il nemico, lo stesso che anche Bergoglio, il papa peronista tanto amato da Cardini (Peron è un altro amore del suddetto), ci ha indicato perentorio. È la sperequazione economica, la povertà causata dal Weltmarket. Il nemico “più feroce” è questo. La logica catallattica, la sua intrinseca iniquità. Adam Smith e con lui Von Hayek, Von Mises, e altri cantori del capitalismo, dovrebbero essere trascinati in una fantasmatica Norimberga cardiniana e pagare il fio. Altro che Goering e Alfred Jodl. D’altronde, già Lutero aveva individuato nel denaro lo sterco del demonio. Cosa possono mai essere al cospetto del capitalismo il nazismo, il fascismo, il comunismo? Passatempi per ragazzi violenti con idee rigeneratrici un po’ troppo spinte in là, mentre il capitalismo è intrinsecamente mortifero, non irradiando benessere per tutti, privilegiando una parte del mondo e l’altra meno, ammassando fortune e provocando povertà. Non ha forse esso inaugurato, come scriveva il barbuto profeta ebreo che degli ebrei aveva vergogna “il tempo della corruzione generale e della venalità universale, nel quale regna “il bellum omnium contra omnes”? Non si tratta di “Un Moloch che pretende il mondo intero come vittima a lui spettante”?

Come battere il “nemico più feroce” Cardini non ce lo spiega. Certo ci avevano già provato fascismo e nazismo e comunismo ad aizzarsi contro Pluto, le banche, e i Signori delle banche per liberare l’uomo dal giogo della sperequazione finanziaria. L’esito non arrivò. Il capitalismo è un Leviatano difficile da abbattere, forse perché tutto sommato produce buoni risultati anche se è vero, non produce il paradiso in terra, e a Cardini tutto questo non sta bene.

Il suo cuore buono duole, duole. Guarda ai poveri, agli immigrati, soprattutto musulmani. Anche la mano di Bergoglio il papa che ha deciso di trasformare la Chiesa in una grande ONLUS, si stende su di loro, con attenzione particolare. Cardini è bergogliano nel midollo, come nel midollo Bergoglio è peronista. Ma ascoltiamo di nuovo il professore.

“Che l’Islam sia una minaccia sta ormai diventando un dogma laico, diffuso dai Signori della Paura, i quali – per fini economici, ma anche in vista di vantaggi politici ed elettorali – sfruttano le insicurezze e i timori delle persone istigando all’odio. I loro metodi vanno smascherati”.

Gli va riconosciuto un gusto netto e chiaro per le figure archetipe, per le contrapposizioni manichee, come si rispetta in ogni feuilleton, dai Tre Moschettieri ai Protocolli dei Savi di Sion. “I Signori della Paura” sono evocativi, ricordano sinistramente i Saggi ebrei convenuti a Praga a complottare per dominare il mondo. Sì, vanno smascherati. Cardini è indomito, deciso. Peccato che invece di smascherare fa esattamente il suo contrario, maschera, apparecchia tutto un Carnevale, una festa dell’inganno. Lo fa ormai da anni, lo continua a fare.

«Le tecniche di questi Signori paiono ispirate al romanzo “Il montaggio” di Vladimir Volkoff: si spigola fra i fatti di cronaca mettendo in fila eventi orribili, snocciolando uno dopo l’altro nomi, fatti, date così da dare l’impressione che i musulmani siano ovunque e sempre una minaccia. Ogni fatto di cronaca nera, anche minimo, il cui protagonista è un musulmano, viene ingigantito e proposto a modello. Si passa quindi senza scrupolo alcuno dalla presentazione analitica e casistica, fondata magari su un numero circoscritto di episodi, a un’indebita generalizzazione sulla base di una arbitraria selezione degli eventi proposti come esemplari: si descrive un albero ma lo si presenta come fosse uno qualunque di una foresta di centomila alberi tutti uguali. E così non si riconoscono, consapevolmente e colpevolmente, le migliaia di casi di onesti musulmani che vivono pacificamente nelle nostre città e che stanno cercando (concediamo del tempo) o hanno già trovato il modo di essere bravi musulmani non solo in Europa, ma d’Europa. Queste migliaia di persone inappuntabili non fanno notizia, si parla pochissimo di loro. Eppure esistono! Così come esistono, ma sono quasi del tutto trascurati, i molti pronunciamenti, incontri, documenti in cui i musulmani condannano apertamente l’uso della violenza in nome di Dio e prendono le distanze dal terrorismo. I mass media hanno una responsabilità enorme. La disinformazione genera squilibri gravi che danneggiano la democrazia».

Dunque Parigi, Bruxelles, Berlino, Nizza, Rouen, Orlando, Manchester, Barcellona sarebbero un “numero circoscritto di episodi”, un festival del sangue occasionale, una increspatura sul mare pacifico dell’Islam buono dove galleggiano placide le migliaia, e perché no, i milioni di “inappuntabili”. Quanto ai “molti pronunciamenti”, gli “incontri” e ai “i documenti” in cui (attenzione al generico plurale) “i musulmani” condannerebbero apertamente “l’uso della violenza” prendendo “le distanze dal terrorismo”, si tratta di uno scampolo del romanzo senza alcun rapporto con la realtà.

Se non per qualche pronunciamento sbrigativo e di ufficio in cui si rilancia la vulgata dell’Islam buono e viene profferita l’amenità che “loro”, i terroristi, non sarebbero veramente musulmani, non vi alcun pronunciamento ufficiale e rappresentativo da parte di esponenti di grande rilievo del mondo islamico che abbia avuto risonanza mondiale o sia servito come base per manifestazioni nelle piazze, sdegni diffusi e reiterati, prese di distanza nette e radicali.

Tutte le volte in cui è stata fatta “una arbitraria selezione degli eventi”, ovvero Parigi, Bruxelles, Berlino, Nizza, Rouen, Londra, Manchester, Barcellona sarebbero per Cardini “una arbitraria selezione degli eventi”, le “migliaia di persone inappuntabili” sono rimaste inappuntabilmente a galleggiare nelle acque placide della loro moderata e silenziosa indifferenza. Taciti guerrieri. Al Cardini dal cuore sanguinante per l’Islam martoriato e gli immigrati, questo basta.

Nell’intervista lo storico falsario procede poi a rifilare una sua patacca preferita, sempre la stessa, a riscrivere la storia per chi non l’abbia letta. Così l’intervistatore compiacente porge l’atout all’intervistato. “Europa e Islam sono nemici da sempre: questa è una delle affermazioni che circolano con maggior insistenza; ma, lei afferma, non è fondata”, e lui risponde:

«Persino non pochi libri di storia in uso nelle nostre scuole sostengono questa tesi. È falsa. Quello compreso tra il 1200 e il 1500, pur segnato da numerose guerre, è stato uno dei periodi più gloriosi della civiltà europea. È stato il tempo delle grandi cattedrali, della nascita delle università, di importantissime acquisizioni scientifiche, di uno straordinario sviluppo dell’arte. Tutto ciò avvenne grazie a una grande floridezza economica che, nata sotto l’impulso operoso dei comuni, delle repubbliche marinare, delle città mercantili europee, fu determinata in gran parte dai costanti, intensi traffici con il vicino Oriente musulmano».

Qui lasceremo parlare direttamente Raymond Ibrahim, già direttore associato del Middle East Forum, a cui porgemmo su queste pagine la seguente domanda circa un anno fa citando direttamente lo storico fiorentino.

“Gli apologeti dell’Islam ci dicono che l’Islam è parte integrante dell’Occidente in quanto, quando era ancora un impero ha aiutato a formare la nostra cultura con le sue innovazioni. Qui in Italia un noto storico, Franco Cardini, recentemente ha affermato che “l’Islam è alla base della modernità”. Qual è il suo punto di vista?

“Questa visione è solo un altro esempio di come la vera storia dell’Islam e dell’Europa sia stata meticolosamente distorta e deformata in modo da glorificare l’Islam e umiliare quella che è stata l’Europa cristiana. La realtà e la storia, documentate dai più celebri storici dell’Islam, ci raccontano qualcosa di molto diverso, ben noto ai bambini europei di una volta, ma che adesso è diventato un tabu riconoscere. La guerra o il jihad contro l’Europa è la vera storia dell’Islam e dell’Occidente. Solo un decennio dopo la nascita dell’Islam nel settimo secolo il jihad detonò dall’Arabia. Due terzi di quella che allora era la cristianità venne conquistata permanentemente e molta della sua popolazione passata a fil di spada o costretta a convertirsi, così che oggi quasi nessuno si rende conto che la Siria, l’Egitto e tutto il Nord Africa una volta erano i centri del cristianesimo. Poi ci fu il turno dell’Europa. Tra le nazioni e i territori che vennero attaccati o finirono sotto il dominio musulmano ci furono il Portogallo, la Spagna, la Francia, l’Italia, la Svizzera, l’Austria, l’Ungheria, la Grecia, la Russia, la Polonia, la Bulgaria, Cipro, la Croazia, la Lituania, la Romania, l’Albania, la Serbia, l’Armenia, ecc.

Nel 846 Roma venne saccheggiata e il Vaticano venne dissacrato da razziatori arabi musulmani. Circa seicento anni dopo, nel 1453, l’altra grande basilica della cristianità, Santa Sofia venne conquistata definitivamente dai turchi musulmani. Le poche regioni europee che fuggirono dall’occupazione musulmana in virtù della loro lontananza a settentrione includono la Gran Bretagna, la Scandinavia e la Germania. Ciò non significa, ovviamente, che non furono attaccate dall’Islam. Infatti, all’estremo nord dell’Europa, in Islanda, i cristiani usavano pregare Dio che li salvasse dal “terrore turco.

In breve, per circa un millennio, l’Islam ha posto nei confronti dell’Europa cristiana e per estensione alla civiltà occidentale, una minaccia esistenziale quotidiana. In questo contesto quale è l’utilità nel sottolineare le anomalie? Anche quella eccezione periferica che gli accademici occidentali cercano di trasformare nella regola, la Spagna islamizzata, è stata recentemente smascherata da Dario Fernández Morera nel suo Il Mito del Paradiso Andalusiano”.

Ma nella fiction cardiniana tutto ciò è espunto, e al suo posto riluce un magnifico affresco di cultura, armonia, pace. Per tacere, naturalmente, del fatto che durante il dominio islamico ebrei e cristiani erano considerati dhimmi, sudditi inferiori i cui diritti erano unicamente garantiti dai loro protettori sulla base della loro ottemperanza al pagamento della jizia, la tassa, o pizzo, con cui erano tutelati dalla violenza da parte di chi li proteggeva. Ci sono altre perle, naturalmente come quella sulle crociate interpretate come antefatto del…colonialismo. Il misfatto è sempre, inevitabilmente, bianco.

“Le crociate – considerate come difesa contro un Islam aggressivo e sanguinario – vennero usate dagli occidentali quasi come antefatto giustificativo del loro dominio, ossia per dare giustificazione morale al colonialismo. Giova però ricordare che la prima grande espansione musulmana, iniziata nel VII secolo – contrariamente a quanto molti credono – si verificò con pochissima violenza (come ho diffusamente spiegato nel mio libro): i popoli si lasciarono conquistare, l’Islam ebbe vita facile nella sua espansione a causa della debolezza dell’impero persiano e di quello bizantino il quale, pur glorioso, a quell’epoca era in forte crisi. Bisogna inoltre rammentare che talora i cristiani imposero il proprio credo con la spada: si pensi a Carlo Magno o all’Ordine Teutonico dell’Europa nordorientale del medioevo. In conclusione, chi sostiene che Europa e Islam siano da sempre nemici e che ciò sia sempre avvenuto per colpa totale o prevalente dell’Islam mostra di conoscere assai poco la storia”.

Insomma, una delle più grandi imprese colonialiste e imperialiste al mondo, quella islamica, e di cui sopra Raymond Ibrahim ha elencato sommariamente le tappe, sarebbe stata in realtà una impresa “poco violenta”. “I popoli si lasciarono conquistare” docilmente, mentre “bisogna ricordare talora i cristiani imposero il proprio credo con la spada”.

La dolcezza conquistatrice dell’Islam e la violenza guerriera del cristianesimo è il corrispettivo ideologico della violenza colonizzatrice dell’Occidente e dell’arrendevolezza delle vittime del terzo mondo. Cardini non conosce requie, l’allucinazione ha preso il sopravvento, ha corroso i fatti, liquidato per sempre la realtà. Resta solo la colpa occidentale da additare e in modo particolare il suo inespiabile suggello, il profugo, l’immigrato, da custodire e amare senza esitazione. Sarà lui a farci espiare le nostre colpe, ad additarci il Sol dell’Avvenire.
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Re: All'area arabo islamica non dobbiamo nulla, anzi

Messaggioda Berto » mar ago 22, 2017 7:32 am

“Il confronto più perdurante ed aggressivo”. Intervista con Daniel Pipes
Niram Ferretti
30 agosto 2016

http://www.linformale.eu/3877-2

Daniel Pipes, è oggi uno dei più acuti osservatori del Medio Oriente. Dalla storia dell’Islam medioevale, al centro della sua tesi di dottorato del 1978, è poi passato all’Islam moderno e contemporaneo sui quali ha focalizzato buona parte della sua attenzione di storico e studioso a sua volta figlio di un altro storico, Richard Pipes, il grande sovietologo di Harvard.

Pipes che è stato docente a Harvard, all’Università di Chicago e al Naval War College, ha abbinato accademia e politica essendo stato scelto da George W. Bush nel 2003 come uno dei membri del consiglio direttivo del United States Institute of Peace e da Rudolp Giuliani come consigliere nella sua campagna per le presidenziali del 2008

Fondatore e presidente del think tank The Middle East Forum ha scritto numerosi libri e innumerevoli articoli sui temi dell’islamismo, della storia islamica e del jihadismo. Tra di essi In the Path of God: Islam and Political power (1983), The Long Shadow: Culture and Politics in the Middle East (1999), Militant Islam Reaches America (2002). In italiano, pubblicato da Lindau è disponibile, Il lato oscuro della storia, l’ossessione del grande complotto (2005)

Professor Pipes, Vorrei cominciare con una domanda sul rapporto tra il terrorismo islamico e l’Islam. Ci è stato detto ripetutamente che le radici del terrorismo islamico non sono da rintracciare nella religione ma nella disoccupazione, nella frustrazione, nel nazionalismo e, spiegazione privilegiata, nella reazione alla politica estera occidentale, specificamente la politica estera degli Stati Uniti. Cosa ci può dire in proposito?
La prima spiegazione che fa riferimento alla disoccupazione è un’idea sciocca e screditata la quale riflette l’influenza marxista secondo la quale gli interessi economici governerebbero tutto. Come si suole dire, “Sei ciò che mangi”. Non sono d’accordo. Gli interessi materiali hanno una grande importanza ma sono le idee che guidano maggiormente gli esseri umani. In altre parole, “Sei ciò che pensi”. Prendiamo un caso singolo. E’ impossibile sostenere che Mohamed Lahouaiej Bouhlel il quale ha ucciso 86 persone in vacanza sulla Promenade Des Anglais a Cannes, lo abbia fatto per ragioni economiche. La seconda spiegazione, relative alla politica occidentale, è una comoda scusa. Sì, l’occidente ha una storia di intrusioni in giro per il mondo. Ma perché abbiamo una risposta violenta così sproporzionata tra i musulmani? Che abbia qualcosa a che vedere con il fatto di essere musulmani? Indubbiamente l’Islam è, e non si tratta di una sorpresa, la chiave della violenza politica perpetrata in suo nome da parte dei musulmani.

Secondo Samuel P. Huntington, l’Islam e l’Occidente sono inevitabilmente in conflitto a causa di un profondo e irriducibile contrasto di valori. Lei sostiene questa visione?
Huntington era un brillante studioso il quale, in questo caso, ha portato un’idea interessante troppo in là. Sì, le differenze di civiltà esistono e hanno una grande importanza. No, i conflitti politici e le guerre hanno meno a che vedere con queste differenze che con l’ideologia e l’ambizione personale. Rintracciare le relazioni tra le civiltà è un grande tema per un seminario ma non dovrebbe essere un fattore da prendere troppo seriamente da parte degli aventi diritto al voto e dai politici.

Quali sono secondo lei, le cause principali del progressivo conflitto tra Islam e l’Occidente che ha avuto luogo all’inizio del ventesimo secolo?
Nel periodo tra il 1800 e il 1920, i musulmani cercarono senza successo di emulare l’Occidente liberale (principalmente la Gran Bretagna e la Francia) in modo da accedere alle risorse del potere e della ricchezza; successivamente, tra il 1920 e il 1980 emularono l’Occidente illiberale (l’Italia, la Russia e la Germania) e fallirono di nuovo. Negli ultimi quarant’anni sono tornati alla loro storia. Anche qui stanno fallendo. Spesso penso a quale sarà la prossima tendenza, forse un ritorno al liberalismo con risultati migliori? O all’illiberalità?

Tra il 1980 e il 1995, in altre parole, molto prima dell’invasione dell’Iraq nel 2003, gli Stati Uniti hanno intrapreso diciassette operazioni militari nel Medio Oriente, tutte dirette contro i musulmani, tuttavia dal presidente Clinton al presidente Obama, abbiamo sempre sentito dire che l’Occidente non ha un problema con l’Islam. Questa narrazione non sta mostrando la corda?
Sono in disaccordo con la sua premessa. Il governo americano è intervenuto numerose volte a sostegno dei musulmani, come gli albanesi, i bosniaci, gli iracheni, i sauditi, i somali, i siriani. Inoltre milioni di musulmani sono stati accolti negli Stati Uniti, alcuni fatti immigrare anche a spese dei contribuenti.
Sono anche in disaccordo con il suo commento sulla narrative che sta “mostrando la corda”. La politica degli Stati Uniti dal 1992 è stata quella non di opporsi all’islamismo in generale ma unicamente a forme violente di islamismo. È una politica che è stata largamente perseguita.

“Per circa mille anni, da quando i Mori arrivarono in Spagna al secondo assedio di Vienna da parte dei Turchi, l’Europa fu sotto una costante minaccia islamica”, ha scritto Bernard Lewis. L’attuale rinascita islamica è in continuità con il passato o si tratta di un fenomeno diverso che origina da altre cause?
Vedo principalmente una continuità. Il confronto europeo-islamico è possibilmente il più lungo e aggressivo della storia umana, paragonabile a quello tra leoni e iene. Ha subito molti cambiamenti, con i musulmani che hanno controllato parti sostanziali dell’Europa soltanto un secolo fa. Questo confronto ha avuto una nuova fase con l’accordo sul lavoro tedesco-turco del 1961 e la riforma americana sull’immigrazione del 1965.

Secondo il politologo Tedesco Matthias Kuntzel, “Il punto d’avvio dell’islamismo è la nuova interpretazione del jihad, esposta con militanza irremovibile da Hassan al Banna, il primo a predicarla come guerra santa nei tempi moderni”. È d’accordo che i Fratelli Musulmani, l’organizzazione fondata da al Banna, sono stati la principale agenzia per la rinascita del jihadismo nell’Islam moderno?
No, li vedo solo come uno tra i movimenti islamisti importanti. Il più importante è il wahabismo (o salafismo), la cui dottrina è quella che informa il governo saudita con tutte le sue vaste risorse, poi la linea khomenista della Repubblica Islamica dell’Iran, poi i Fratelli Musulmani, poi la scuola indiana Deobandi.

Nel suo ultimo libro, Eretica: Perchè l’Islam necessita di essere riformato, Ayaan Hirsi Ali, colloca i musulmani in tre categorie: I musulmani della Mecca, la vasta maggioranza che rappresenta la parte più tollerante della religione, i musulmani di Medina, o l’ala jihadista, e i Musulmani in mutamento, i dissidenti e i riformisti che mettono in discussione il dogma religioso. Ritiene che questo schema sia utile?
Sì e corrisponde in linea generale alla triade di risposte alla modernità che ho offerto nel mio libro del 1983, In the Path of God, che ho qualificato come riformiste, islamiste e secolariste.

In una recente intervista che ho fatto allo storico israeliano Benny Morris, egli è stato molto chiaro nel sottolineare come il rifiuto arabo sia stato fin dall’inizio l’ostacolo principale per una risoluzione del conflitto arabo-israeliano. Se Morris ha ragione allora ogni possibile idea di pace è del tutto illusoria. È anche il suo punto di vista?
Sono d’accordo che il rifiuto arabo sia la causa del conflitto. Vorrei sottolineare che ha assunto quattro forme principali nell’ultimo secolo: il pansirianismo, il panarabismo, l’islamismo e il palestinismo. Non sono d’accordo sul fatto che la pace sia una illusione. Se Israele e i suoi alleati fossero sufficientemente risoluti la deterrenza funzionerebbe e probabilmente il conflitto avrebbe fine.

Di tutti i paesi al mondo, Israele è il più denigrato, basta guardare alle risoluzioni delle Nazioni Unite dal 1967 ad oggi paragonate a quelli nei confronti di qualsiasi altro stato. Quali sono le ragioni di questa situazione?
Ne conto quattro: l’influenza nazista, l’influenza sovietica, l’antisemitismo e il vasto numero di stati arabi e musulmani che fanno parte dell’ONU.

Con la perdurante Guerra civile in Siria, l’Iran che si avvia ad ottenere armi nucleari e il potere crescente della Russia in Medioriente, il ruolo degli Stati Uniti sembra progressivamente irrilevante nella regione. Cosa prevede?
Non escluda gli Stati Uniti. Prevedo che la regione attraverserà crisi peggiori e che molti attori regionali si rivolgeranno agli Stati Uniti perché assumano un ruolo più rilevante come è già accaduto nell’Asia dell’Est.


http://www.linformale.eu/the-longest-an ... niel-pipes
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Re: All'area arabo islamica non dobbiamo nulla, anzi

Messaggioda Berto » mar ago 22, 2017 7:35 am

???

Terrorismo: il lato oscuro dell’Occidente
Marcello Pamio - 17 agosto 2005

http://www.disinformazione.it/terrorismo2.htm

Gli esperti dell’intelligence, gli analisti militari e anche qualche giornalista ben oliato, cercano con ogni mezzo di presentare l’annoso problema del terrorismo come un problema di civiltà, anzi come uno “scontro di civiltà”, per usare un termine caro allo stratega Samuel Huntington. Ovviamente la civiltà incriminata è quella islamica!
Tutti all’unisono, con la compiacenza dei media, puntano il dito contro l’estremismo islamico, le moschee, le scuole coraniche, il musulmano, il talebano, il diverso, ecc.
Risultato?
Le moschee da luoghi di culto sono diventate centri pericolosi di addestramento; il burka e il chador da semplici vestiti sono diventati scafandri da kamikaze; gli zainetti scolastici sulle spalle delle possibili bombe, fedeli che pregano in ginocchio dei possibili martiri, ecc.
Nessuno però di questi esperti internazionali si pone qualche semplice domanda: cos’è effettivamente il terrorismo? Cos’è questa rete chiamata al-Qaeda? Ma soprattutto: cosa spinge un giovane a riempirsi di tritolo e a farsi saltare in aria?
E’ semplice condizionamento religioso, come qualcuno vorrebbe farci credere? Bastano delle vergini in paradiso a spingere un ragazzo a immolarsi? O invece c’è dell’altro?
Non è facile rispondere, ma cercheremo di analizzare il problema per trovare, se esistono, eventuali soluzioni.

Cos’è il terrorismo
Partiamo dalla prima domanda: cos’è il terrorismo?
Per rispondere a questa domanda è necessario comprendere quali sono le differenze tra un kamikaze mediorientale che si fa saltare in aria uccidendo persone civili e un missile occidentale che fa saltare in aria un mercato o un quartiere uccidendo persone civili.
Mettiamo da parte gli ideali, religioso nel primo caso e materialistico nel secondo: la risposta, per usare un termine einsteniano, è relativa e dipende dal sistema di riferimento.
Da punto di vista di un iracheno un missile intelligente che massacra a Baghdad centinaia di persone civili è un atto terroristico criminale contro l’umanità, per l’occidente invece (una parte sempre più ristretta per fortuna) è lo scotto da pagare per avere la democrazia!
Quando un kamikaze fa una strage dentro un autobus in pieno centro, dal nostro punto di vista è un atto terroristico criminale, per il mediorientale (una parte sempre più ristretta per fortuna) è lo scotto da pagare per sconfiggere il Satana occidentale.
E allora, come la mettiamo?

Premetto che tutto quello che va contro la vita è da aborrire, ma cambiando il punto di riferimento, cambia la percezione anche se la sostanza è la stessa: sempre un atto criminale è. E infatti il terrorismo è un atto criminale il cui scopo è quello di creare terrore e paura. Quindi non esiste il “terrorismo islamico”, piuttosto che il “terrorismo arabo” piuttosto di quello “basco”, ecc.: esiste solamente “il terrorismo”.
In questa definizione rientrano tutti coloro che creano terrore e spavento.
Lascio a voi il compito di stilare una lista (preparate parecchi fogli) di nomi di personaggi politici e di presidenti che a livello mondiale foraggiano e creano il terrore.
Siamo arrivati al primo esame di coscienza:
le guerre per il petrolio, per l’oro, per i diamanti, per una posizione geostrategica o per esportare la democrazia, che ammazzano sempre e solo persone civili, sono molto diverse dal terrorismo cosiddetto islamico?

Cos’è al-Qaeda
Passiamo alla seconda domanda: cos’è al-Qaeda?
Quella che oggi viene definita “la rete di al-Qaeda” altro non è che una struttura militare creata, organizzata, armata e addestrata dalla CIA per bloccare e contrastare le truppe sovietiche in Afghanistan.
All’inizio si trattava di una vera e propria resistenza afgana, poi nel corso degli anni, e grazie ai parecchi soldi d’oltreoceano, si è trasformata o l’hanno trasformata in qualcosa d’altro...
Pensate che «fino al 1987 si stima che gli USA abbiano fornito a queste forze della guerriglia 65.000 tonnellate di armi, fra le quali i micidiali antiaerei Stinger, e aiuti economici fino a 470 milioni di dollari»[2]

Gli ultimi stanziamenti al regime afgano sono datati agosto 2001! Avete capito? Fino ad un mese prima del disastroso attentato alle Torri Gemelle, il Pentagono ha inviato soldi dei contribuenti ad un paese lontano e desolato! Ce n’è ancora: il signore del terrore, Osama bin Laden, l’ingegnere che ha studiato in Inghilterra nonché miliardario principe saudita, dal 4 al 14 luglio 2001 ha soggiornato nell’ospedale americano di Dubai.[3] La mente di al-Qaeda, la cellula numero uno, solamente 2 mesi prima dell’attentato di New York era ricoverato per problemi renali in un ospedale, e per di più americano…
E’ scontato che, cartina geografica alla mano, chi controlla l’Afghanistan può decidere quali saranno in futuro i destini energetici dell’area…
Quindi oggi, il nemico numero uno al mondo (se fosse ancora vivo!) è una creatura dei servizi segreti statunitensi.
Secondo esame di coscienza: fidarsi è bene, e non fidarsi è meglio si dice! Prima di scegliere le amicizie (il Saddam, l’Osama, ecc.), prima di scegliere le dittature da foraggiare e i governi da ribaltare, sarebbe bene prendere in seria considerazione tutte le possibile conseguenze.

Cosa spinge una persona a farsi saltare in aria
L’ultima domanda è sicuramente la più difficile: cosa spinge un giovane a immolarsi?
Quali motivazioni possono spingere un giovane a farsi detonare?
Prima di tentare una risposta è bene a questo punto smontare una volta per tutte il mantra classico che vuole inculcarci nelle nostre teste come l’origine di tutto sia stato l’11 settembre 2001 con l’attacco al cuore degli Stati Uniti. Assolutamente falso!
L’11 settembre ha decretato l’inizio della Terza Guerra Mondiale: Bene occidentale contro il Male islamico. Se andiamo però ad analizzare onestamente su quale terreno fertile il terrorismo di matrice islamica è nato e si è sviluppato, troveremo sempre lo zampino occidentale, cioè nostro. Non ci credete? So che è molto difficile da mandare giù.
Jung quando disse che «accettare se stessi senza riserve è la cosa più difficile», intendeva dire che accettarci per quello che siamo realmente, e cioè con i nostri pregi (il lato di luce) ma soprattutto con i nostri difetti (il lato d’ombra, o lato oscuro) non è facile. E aveva perfettamente ragione: è molto più semplice dare la colpa agli altri, al diverso, invece che guardarsi dentro. Ma noi siamo qui per crescere ed evolvere, giusto? E vogliamo anche trovare una risposta al terrorismo! Bene, proviamo una volta per tutte a tirare fuori il lato d’ombra occidentale.

Non serve granché, basta prendere in mano un qualsiasi libro di storia, per vedere come i paesi europei prima e la succursale britannica poi (America), hanno sempre messo a soqquadro le popolazioni e le risorse dei paesi dell’Africa, dell’Asia e del Medioriente. Pochissimi paesi sono riusciti a sfuggire alle sgrinfie colonialiste europee, e se possono vantare questo primato, lo devono solo alla scarsità delle risorse naturali del loro sottosuolo o ad una posizione geografica poco importante nello scacchiere internazionale.
Quali sono gli stati oggi che sfornano più terroristi? Iraq, Palestina, Arabia Saudita, Iran, e altri?

Andiamo per ordine e partiamo dall’Iraq.
Questo Stato sovrano nel 1991 subì l’attacco militare da parte statunitense per aver ufficialmente intrapreso una iniziativa bellica contro il Kuwait. Nessuno però ha il coraggio di dire che la guerra fu pensata, voluta e organizzata dall’allora presidente George Walker Herbert Bush. Ma veniamo ai fatti.
Il 16 gennaio 1990 l’ex ministro degli Esteri e vice primo-ministro Tareq Aziz, scrive una lettera al Segretario della Lega Araba avvertendo che «il Kuwait si sta inoltrando in modo pianificato e premeditato nel territorio dell’Iraq, costruendo installazioni militari, infrastrutture per le trivellazioni petrolifere e creando aziende agricole sul suolo iracheno»[4]
L’Iraq all’epoca era impegnato sull’altro fronte dalla guerra contro l’Iran.
In pratica le truppe militari del Kuwait penetrando illegalmente sempre più nel territorio iracheno, spostando volutamente le frontiere e costruendo stazioni di polizia hanno creato le condizioni per uno scontro armato.
La guerra non è stata spinta da motivi energetici, per il semplice fatto che l’Iraq non aveva bisogno di altro petrolio, era la seconda se non addirittura la prima riserva di oro nero del mondo.

Attenzione alle date:
L’Iraq ufficialmente entra in Kuwait nell’agosto del 1990. Casualmente dall’aprile dello stesso anno, e cioè 5 mesi prima dell’invasione, i principali media americani hanno scritto che Saddam Hussein era l’uomo più pericoloso del mondo, era il nemico della gente, aveva armi di distruzione di massa, ecc. ecc.
Non è un po’ strano tutto ciò? Perché questa campagna diffamatoria ad un ex collaboratore statunitense? Chi c’era dietro, e soprattutto chi ha istigato i kuwaitiani a una politica insensata? Il prezzo del greggio all’epoca era 21 dollari al barile: il Kuwait raddoppiò, non si sa bene perché, la produzione facendo crollare il prezzo a 8-9 dollari. In definitiva cominciarono a perdere denaro e a dare fondo alle riserve petrolifere! Nessuno sano di mente farebbe una cosa simile, se non ci fossero dietro altri scopi…
Ma quali scopi?

La lettera scritta da Tareq Aziz alla Lega Araba non ebbe risposta, e pertanto l’Iraq schierò l’esercito lungo la frontiera del Kuwait. Il 1 agosto la delegazione del Kuwait e quella dell’Iraq non raggiunsero un accordo, e il 2 agosto alle 1:30 di notte, l’esercito di Saddam passò la frontiera. La guerra che ne conseguì fa parte ahimé della storia.
Il 17 gennaio 1991 l’esercito degli Stati Uniti d’America, assieme a 31 paesi della coalizione diede il via all’operazione “Desert Storm”. Secondo un rapporto del Segretario della Difesa statunitense del 4 novembre 1997, le forze armate usarono munizioni di 105 e 120 mm compenetranti a uranio impoverito, e l’aeronautica lanciò missili perforanti A10 in 8077 voli.
L’aeronautica lanciò in totale 783.514 proiettili ad uranio impoverito da 30 mm , i quartieri generali dell’aviazione confermarono di aver fatto esplodere 64.436 proiettili da 25 mm , sempre radioattivi.
Le fonti ufficiali del governo americano e del ministero della Difesa britannico, affermano che la quantità totale di uranio impoverito lanciato sull’Iraq è stato di oltre 400 tonnellate!
I danni di tutto questo? Oltre 1.500.000 persone tra donne e bambini sono morti per gli effetti della contaminazione radioattiva e delle patologie ad essa collegate[5] (tumori, leucemie, malformazioni congenite, aborti e feti nati morti, ecc.). Basti ricordare la tristemente nota “Sindrome della Guerra del Golfo” che colpì i reduci militari.
Nessuno, dal Segretario delle Nazioni Unite alla Commissione Europea ha mandato esperti per verificare cosa realmente avvenne e quale crimine contro l’umanità è stato perpetrato.

Non ci furono controlli, come pure nessuno investigò sullo stranissimo comportamento del generale americano che guidò l’operazione “Desert Storm”. Norman Schwarzkopf infatti dopo la sconfitta di Saddam riconsegnò agli iracheni gli elicotteri catturati permettendogli il volo nel paese[6]. Con quegli elicotteri il criminale iracheno soppresse nel sangue (20.000 morti) la rivolta sciita di Najaf, Serbala, Bassora e Nassirya.[7] Perché fu permesso un simile scempio?
E perché Bush senior, alle porte di Baghdad fece tornare indietro l’esercito e non sconfisse definitivamente Saddam, se quello era il suo vero intendimento? Erano lì a pochi metri.
Forse aveva paura che la caduta dell’ex collaboratore portasse alla nascita di una repubblica islamica sul modello iraniano? Chissà…
Nessuno, tanto meno il sottoscritto, giustifica e accetta il terrorismo. Sia la guerra che il terrorismo vanno contro l’evoluzione dell’uomo. Però è d’obbligo morale cercare di comprendere. Comprendere cosa spinge una persona ad odiare un’altra fino a farsi ammazzare per ammazzarla.
Certamente una guerra illegittima come quella avvenuta in Iraq nel 1991, è un ottimo terreno fertile per coltivare e far crescete la pianta dell’odio. Sterminare senza motivo centinaia di migliaia di persone innocenti, inquinare il territorio per migliaia di anni con le radiazioni, significa accendere una miccia molto pericolosa.

Nessuno giustifica il terrorismo, ma una persona che ha vissuto sulla propria pelle un simile disastro umanitario, che ha visto morire i propri parenti dalle radiazioni occidentali, che ha visto morire di fame o di malattie gli amici cari, che ha perso la casa e tutto ciò che gli rimaneva, secondo voi, andrà in giro a dispensare amore e fratellanza? Andrà a professare la grandezza di dio, o è più facile che venga catturato da qualche gruppetto di estremisti esperti nell’addestrare le menti e fomentare l’odio contro il Satana occidentale? Che ne so, magari i Fratelli Musulmani, piuttosto che qualche setta wahabita saudita?
E’ molto più facile per una persona che non ha più alcuna voglia di vivere, che ha perso tutto quello che aveva di caro, farsi saltare in aria per un ideale distorto, rispetto ad una persona che ha vissuto relativamente in pace e non ha visto soprusi e violenze di ogni tipo.

Siamo partiti dall’Iraq e adesso saltiamo in Palestina, perché anche in questa zona molto particolare si sta giocando una partita che riguarda il mondo intero.
Tutti guardano preoccupati alla Terra Santa e nessuno fa nulla; tutti sanno dell’importanza di uno Stato Arabo assieme a quello d’Israele e nessuno muove un dito. Perché?
In questo caso però la colpa è dell’Inghilterra.
Il 2 novembre 1917 il Ministro degli Esteri britannico, Arthur James Balfour scrive una lettera, diventata la famosa “Dichiarazione Balfour”, al Lord Rothschild, il filantropo più potente della Federazione Sionista, nella quale si pone l’accento sulla costituzione «in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico». In pratica è una dichiarazione di simpatia del governo inglese per le aspirazioni sioniste.
Qualcuno, a ben donde, vide questa dichiarazione come un vero e proprio tradimento delle promesse fatte! Nell’ottobre 1915 infatti una serie di lettere tra Thomas Edward Lawrence (il famoso Lawrence d’Arabia) e lo sceriffo della Mecca, Hussein, dicevano che la Gran Bretagna negoziava con gli arabi un accordo per sollevare le tribù dell’esercito turco-tedeschi e in cambio prometteva di costruire il Grande Impero Arabo. Gli arabi hanno mantenuto la parola, e il 15 settembre 1919 le truppe inglesi prendevano stabile possesso della Palestina.


Risultato: iniziò l’immigrazione ebraica in Palestina e gli arabi non videro alcuno Stato!

Dopo l’immane tragedia dell’Olocausto si cercò un posto nel mondo dove creare lo Stato d’Israele, e invece di crearlo nel paese che causò l’ecatombe, e cioè la Germania , si pensò alla Palestina. Gli Stati Uniti riconobbero immediatamente lo Stato ebraico.
Non possiamo sapere se Gore Vidal ha ragione quando scrisse nel libro di Israel Shahak che «nel 1948 Harry Truman fu avvicinato da un sionista americano sul treno elettorale che gli consegnò una valigetta con dentro 2 milioni di dollari in contanti. Ecco perché gli Stati Uniti riconobbero immediatamente lo Stato d’Israele»
Quello che sappiamo è che gli inglesi prima e gli americani poi si sono dimenticati di una promessa fatta e di un intero popolo: quello arabo!
Tutto questo ha portato a gratuiti malesseri e profondi disagi nella società palestinese e araba in genere. La goccia poi che ha fatto traboccare il vaso è avvenuta nel 1967, quando lo Stato d’Israele occupa illegalmente la Cisgiordania e le alture del Golan.

Oggi il governo Sharon si sta muovendo, anche in maniera vigorosa, per la restituzione di alcune colonie, ma il vero problema è un muro di cemento alto ben 8 metri . Questa costruzione illegittima e moralmente deprecabile non segue i confini del 1967, e alla fine della realizzazione, i territori palestinesi saranno ulteriormente ridotti, creando una specie di lagerizzazione geografica deleteria e molto pericolosa.
Tutto questo non può aiutare in nessun modo il processo di pace: semmai fomenta odio, rabbia, violenza e di conseguenza il terrorismo!
Numerose sono le generazioni d’israeliani nate e vissute in quella terra, e giustamente la considerano la loro patria, ma lo stesso vale anche per gli arabi.
Gli esperti lo sanno bene: innalzare muri contro il terrorismo non serve a nulla, quello che serve sono “ponti umanitari”, coscienza, comprensione, fratellanza!

Terzo esame di coscienza:
Non sappiamo nulla della natura umana; non conosciamo dove e come nascono i sentimenti, le emozioni, le angosce, ecc. per cui non possiamo conoscere cosa muove e spinge un terrorista al suicido. Per noi è certamente un crimine (e infatti lo è), ma lo è anche muovere guerre ingiuste, ammazzare centinaia di migliaia di persone civili con missili intelligenti o con un calibrato embargo, ecc. Cambia il punto di riferimento ma il concetto della involuzione è lo stesso.
Il discorso che ho appena fatto per l’Iraq e la Palestina si può estendere a moltissimi altri paesi finiti sotto l’egemonia coloniale europea e americana.

Soluzioni per il terrorismo
Esistono delle soluzioni per il terrorismo? Non lo sappiamo, ma le proposte degli esperti fanno ridere i polli. Nessuno qui ha la bacchetta magica, il nostro strumento principale è il cervello, un po’ di neuroni e soprattutto buon senso. Noi però crediamo fermamente che è solo cercando di comprendere le ragioni dell’altro, facendo un serio e profondo esame di coscienza, che possiamo sperare in un vero dialogo!
Con le guerre, con le bombe, con i muri si avranno solo che morti, cadaveri, terrore e divisioni.
Le soluzioni che ci sono venute in mente rappresentano solo una piccola parte delle possibili, ma sono tutte realizzabili. Hanno solo un difetto piccolo: si scontrano con interessi geopolitici ed economici enormi e cozzano contro quelle correnti oscure che utilizzano la situazione odierna di costante paura e terrore per poter controllare e governare meglio le masse.

- Lanciare una Fatwa che separi definitivamente al-Qaeda da tutti i veri musulmani. Sappiamo bene che al-Qaeda non c’entra nulla con l’islam, per cui tutti i musulmani del mondo hanno il diritto e dovere di prendere le distanze da criminali terroristi;
- Uscita immediata delle truppe militari di occupazione da Iraq, Afghanistan e da qualsiasi altro paese mediorientale. Smantellamento di tutte le basi ed entrata delle forze di pace internazioni arabe;
- Abbattimento immediato del muro in Palestina, non solo perché considerato illegale dalla Corte di Giustizia Internazionale dell’AIA, ma soprattutto perché non serve a prevenire il terrorismo;
- Creazione di uno Stato Palestinese riconosciuto da Europa, Stati Uniti e soprattutto Israele;
- Controllo serio dei flussi di denaro che partono dall’Arabia Saudita e che vanno nelle madrasse coraniche (scuole) per poi arrivare ai gruppi fondamentalisti («Alla base della casa regnante saudita c’è la setta Wahabita, una delle tante dell’islam: una setta integralista che dà una lettura molto restrittiva delle norme del Corano»[11]);
- Eliminazione del cosiddetto brodo di cultura nei paesi mediorientali. Aiuti e finanziamenti per la creazione di scuole serie che permettano lo studio corretto e non integralista del Corano;
- Impedire qualsiasi ingerenza e/o intromissione occidentale nelle politiche locali dei paesi mediorientali;
- Impeachment (accusa, incriminazione) per «menzogna alla popolazione», «crimini contro l’umanità», e per aver «fomentato il terrorismo» a coloro che hanno voluto e collaborato a questa guerra ingiusta, illegale e illegittima;
- Rivedere i sistemi elettorali nel mondo anglosassone;
- Apertura dell’OPEC alla possibilità di uno scambio diretto petrolio-euro.
- Dirottare gli oltre 1000 miliardi di dollari (spesi l’anno scorso) per le armi verso le energie sostenibili ed ecologiche, in modo da non dipendere più dall’Arabia;
- ecc. ecc.

Non sappiamo se la realizzazione di questi punti, o di una parte di essi, sortirà i benefici paventati: certamente non aggraverà la già preoccupante situazione odierna!

http://www.disinformazione.it/venderelaguerra.htm

La madre di tutte le bugie
Estratto dal libro: «Vendere la guerra»

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La storia dei neonati strappati alle incubatrici dai soldati iracheni durante la prima Guerra del Golfo è l'ennesima dimostrazione di un principio, da tempo compreso dai propagandisti, secondo cui una bugia ripetuta tante volte finisce per essere accettata come verità.
L'offuscamento dei confini tra la verità e il mito non è certamente iniziato con l'Amministrazione Bush. La disinformazione ha fatto parte della guerra almeno dai giorni di Alessandro Magno, che disseminava grosse corazze lungo il percorso delle sue truppe in ritirata, per far credere al nemico che i suoi soldati fossero dei giganti.
L'aneddoto sul trucchetto di Alessandro Magno di solito viene raccontato ai soldati nella prima lezione di addestramento in operazioni psicologiche (spesso dette "psyop").
In un documento dell'aeronautica Usa del 1998, intitolato Information Operations, si dichiara che "le operazioni di informazione vengono applicate in tutto il raggio d'azione delle operazioni militari, dalle missioni di pace al pieno conflitto... è importante sottolineare che la guerra dell'informazione è una formula che viene attuata in tutte le attività dell'aeronautica, dalla pace alla guerra, allo scopo di consentirne l'effettiva esecuzione di tutti i compiti... L'esecuzione di operazioni d'informazione in ambito aeronautico, spaziale e cyberspaziale attraversa tutti gli aspetti del conflitto"(si osservi l'uso del "doublespeak" [o "linguaggio doppio", NdT] nel contesto dei termini "pace" e "operazioni militari").

Il documento Information Operations contiene sezioni intitolate "operazioni psicologiche", "guerra elettronica", "attacco informativo", "controinganno" e "inganno militare".
Nel mondo attuale, si dichiara: "la crescente infrastruttura dell'informazione trascende l'industria, i media, l'esercito, e coinvolge entità governative e non governative. e' caratterizzata da una fusione di reti e tecnologie militari e civili... In realtà, un notiziario, un comunicato diplomatico o un messaggio militare contenente l'ordine di esecuzione di un'operazione, dipendono tutti dalla [infrastruttura dell'informazione globale]".
In questo contesto, le psyop "sono ideate per trasmettere indizi e informazioni selezionati ai leader e al pubblico straniero, allo scopo di influenzarne le emozioni, gli stimoli, le motivazioni obiettive e infine il comportamento", mentre "l'inganno militare confonde gli avversari, portandoli ad agire in base all'obiettivo dei suoi artefici".
In pratica, si dice sul documento citando lo stratega militare cinese Sun Tzu, "tutte le operazioni di guerra sono basate sull'inganno".5

La vicenda dei "neonati strappati alle incubatrici"6 dai soldati iracheni ha contribuito alla creazione del sostegno pubblico alla prima Guerra nel Golfo Persico. Al momento della sua diffusione, la storia venne largamente creduta e non vi fu alcuna smentita fino alla fine della guerra. Da allora, alcuni giornalisti e organizzazioni umanitarie hanno svolto delle indagini, giungendo alla conclusione che si trattava di un falso. Il fatto venne considerato gravissimo negli ambienti stessi delle pubbliche relazioni, eppure parte del pubblico crede ancora che sia vero.
Dopo il 2 agosto 1990, data dell'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq, gli Stati Uniti dovettero fare dietro front alla svelta. Per circa un decennio, sino ad allora, Hussein era stato un alleato degli Usa nonostante le condanne dei gruppi internazionali per i diritti umani.
La Hill & Knowlton, in quel periodo la più grande agenzia di pubbliche relazioni del mondo, fu l'ideatrice della massiccia campagna messa in atto per convincere gli americani ad appoggiare una guerra di liberazione del Kuwait occupato dall'Iraq.7
Gran parte del denaro per finanziare la campagna in favore della guerra proveniva dal governo kuwaitiano stesso, che sottoscrisse un contratto con la H&K nove giorni dopo l'entrata dell'esercito di Saddam nel paese.
La Hill & Knowlton creò il gruppo "Citizens for a Free Kuwait", una classica operazione di propaganda ideata per celare la sponsorizzazione del governo kuwaitiano in combutta con l'Amministrazione Bush senior. Durante i sei mesi successivi, il governo kuwaitiano stanziò circa 12 milioni di dollari per il Citizens for a Free Kuwait, mentre il restante finanziamento ammontava a 17.861 dollari e proveniva da 78 singoli donatori. Praticamente, tutto il budget del gruppo - 10.800.000 dollari - andò come compenso alla Hill & Knowlton. 8
I documenti archiviati al Dipartimento di Giustizia Usa dimostravano che 119 funzionari della H&K dislocati in 12 uffici in tutti gli Stati Uniti lavoravano per conto del Kuwait. L'agenzia organizzò le interviste agli esponenti kuwaitiani, la celebrazione del "Giorno di liberazione nazionale del Kuwait" e altre manifestazioni pubbliche, la distribuzione di notizie e kit informativi, e collaborò alla diffusione presso giornalisti influenti e l'esercito Usa di oltre 200.000 copie di una mini guida di 154 pagine sulle atrocità compiute dall'Iraq, intitolata The Rape of Kuwait (Lo stupro del Kuwait, NdT).9 Le dimensioni della campagna Hill & Knowlton misero in soggezione persino l'O'Dwyer's PR Services Report, una delle maggiori pubblicazioni nel settore delle pubbliche relazioni. L'editore Jack O'Dwyer scrisse che la Hill & Knowlton "ha assunto un ruolo senza precedenti come agenzia di pubbliche relazioni nella politica internazionale". La H&K ha impiegato un'incredibile varietà di tecniche e accorgimenti per la creazione di un'opinione pubblica favorevole al sostegno degli Usa al Kuwait... Tra le tecniche rientravano le esaurienti conferenze in cui venivano descritte le torture e le altre violazioni dei diritti umani compiute dal regime iracheno, e la distribuzione di migliaia di magliette con lo slogan 'Free Kuwait' e adesivi nei campus universitari in tutti gli Stati Uniti".10

Tutti i grandi eventi mediatici hanno bisogno di quello che i giornalisti e i pubblicitari chiamano "aggancio". L'aggancio ideale e' l'elemento centrale affinché una vicenda faccia notizia, provochi una forte risposta emotiva e rimanga impressa nella memoria.
Per la campagna sul Kuwait, l'aggancio arrivò il 10 ottobre 1990, quando l'Assemblea congressuale per i diritti umani tenne un'udienza a Capitol Hill, presentando ufficialmente per la prima volta le violazioni dei diritti umani dell'Iraq. L'udienza apparve come un normale procedimento congressuale ufficiale ma non era esattamente così.
Sebbene l'Assemblea fosse presieduta dai deputati Tom Lantos e John Porter, non era una commissione ufficiale del Congresso. Soltanto pochi osservatori hanno notato l'importanza di questo dettaglio. Tra questi vi era John MacArthur, autore di The Second Front, che resta il miglior libro mai scritto sulla manipolazione delle notizie durante la prima Guerra del Golfo. "L'Assemblea sui diritti umani non e' una commissione del Congresso, quindi e' libera da quelle implicazioni legali che farebbero esitare un testimone prima di mentire", ha osservato MacArthur. "Mentire sotto giuramento di fronte a una commissione congressuale e' reato; mentire dietro l'anonimato di fronte a una riunione al vertice e' soltanto diplomazia".11 La testimonianza più commovente del 10 ottobre fu quella di una ragazzina kuwaitiana di 15 anni, identificata soltanto per nome, Nayirah. Secondo l'Assemblea, il cognome di Nayirah restava riservato per evitare ritorsioni irachene contro la sua famiglia che si trovava nel Kuwait occupato. Singhiozzando, la ragazzina descrisse ciò che aveva visto con i suoi occhi in un ospedale di Kuwait City. La trascrizione della sua testimonianza venne diffusa in un kit informativo del Citizens for a Free Kuwait. "Ero volontaria all'ospedale al-Addan", raccontò Nayirah. "Mentre ero lì, ho visto i soldati iracheni entrare nell'ospedale con i fucili e dirigersi nelle camere dove si trovavano i bambini nelle incubatrici. Hanno tolto i bambini, hanno portato via le incubatrici e li hanno lasciati morire sul pavimento gelido." Continuò affermando che questo era accaduto a "centinaia" di bambini.12

Passarono tre mesi dalla testimonianza di Nayirah all'inizio della guerra. Durante questi mesi, la storia dei bambini tolti dalle incubatrici veniva ripetuta in continuazione. La raccontò il Presidente Bush. Fu raccontata durante le testimonianze al Congresso, nei talk show in TV, alla radio e al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Amnesty International riporto' la denuncia in un rapporto sui diritti umani del dicembre 1990, dichiarando che "oltre 300 neonati prematuri sarebbero deceduti dopo essere stati tolti dalle incubatrici portate via dai soldati iracheni".13
"Di tutte le accuse mosse contro il dittatore", osservò MacArthur, "nessuna ebbe più impatto sull'opinione pubblica americana di quella secondo cui i soldati iracheni avrebbero tolto 312 neonati dalle incubatrici lasciandoli morire sul pavimento gelido dell'ospedale di Kuwait City".14
All'Assemblea sui diritti umani, tuttavia, la Hill & Knowlton e il deputato Lantos non avevano detto che Nayirah era un membro della famiglia reale kuwaitiana. Infatti suo padre e' Saud Nasir al-Sabah, l'ambasciatore del Kuwait negli Stati Uniti, anch'egli presente nell'aula dell'assemblea durante la testimonianza. L'Assemblea non rivelò inoltre che il vice presidente della Hill & Knowlton, Lauri Fitz-Pegado, aveva istruito Nayirah per la testimonianza.15
Dopo la guerra, alcuni investigatori sui diritti umani cercarono conferme sulla storia di Nayirah, senza trovare alcun testimone o altre prove che potessero sostenerla. John Martin di World News Tonight dell'ABC visitò l'ospedale al-Addan e intervistò il dottor Mohammed Matar, direttore del sistema sanitario del Kuwait, e sua moglie, la dottoressa Fayeza Youssef, che dirigeva il reparto di ostetricia dell'ospedale. Secondo la loro testimonianza, le accuse di Nayirah erano false. In tutto il Kuwait erano disponibili pochissime incubatrici, non certamente le "centinaia" citate da Nayirah, e nessuno aveva visto soldati iracheni strappare neonati alle macchine. "Credo si sia trattato solo di propaganda", disse Matar.16 La testimonianza di Martin portò all'avvio di un'indagine indipendente di Amnesty International, che al tempo della testimonianza di Nayirah aveva preso per buona la storia dei "neonati strappati alle incubatrici".

Anche gli investigatori di Amnesty International non trovarono "prove credibili" che confermassero la storia e smentirono il loro precedente rapporto.17 "Siamo convinti... che la vicenda dei neonati deceduti non sia avvenuta nelle proporzioni inizialmente riferite, qualora sia effettivamente avvenuta", ha riportato un portavoce di Amnesty International.18
Anche Middle East Watch, un'altra organizzazione sui diritti umani, ha svolto un'indagine propria, concludendo che la storia fosse una mistificazione. Il direttore di Middle East Watch, Aziz Abu-Hamad, che ha condotto un'indagine di tre settimane in Kuwait dopo la guerra, ha dichiarato: "Le ricerche accurate di Middle East Watch non hanno prodotto alcuna prova per sostenere queste accuse. Dopo la liberazione del Kuwait, abbiamo visitato tutti gli ospedali nei quali secondo la testimonianza sarebbero accaduti tali episodi. Abbiamo intervistato i dottori, le infermiere e gli amministratori e abbiamo consultato gli archivi delle strutture. Ci siamo anche recati nei cimiteri e abbiamo esaminato i registri. Sebbene avessimo chiari risconti sulle varie atrocità commesse dagli iracheni, non ne abbiamo trovato alcuno sull'accusa secondo cui i soldati iracheni avrebbero tolto i neonati dalle incubatrici lasciandoli morire. Alcuni testimoni del governo kuwaitiano, che durante l'occupazione irachena avevano sostenuto la veridicità della storia delle incubatrici, hanno cambiato idea e altri sono stati screditati. La diffusione di resoconti falsi sui crimini commessi reca un grave danno alla causa dei diritti umani. In questo modo si distoglie l'attenzione dalle reali violazioni commesse dall'esercito iracheno in Kuwait, compresa l'uccisione di centinaia di persone e la detenzione di migliaia di cittadini kuwaitiani e non, centinaia dei quali sono ancora dispersi"19
Perché inventare queste storie quando il regime di Saddam Hussein offre una vastità di crimini veri? Non vi e' alcun dubbio che fosse un dittatore brutale, colpevole di aver torturato e ucciso migliaia - o meglio, centinaia di migliaia - di persone innocenti. Una spiegazione potrebbe essere che storie come quella sugli "assassini di neonati" rappresentano l'"aggancio" per la propaganda di guerra. Durante la Prima Guerra Mondiale, ad esempio, i francesi e gli inglesi avevano diffuso storie (mai documentate o confermate) secondo cui i soldati tedeschi avevano sparato a un bambino di due anni e "tagliato le braccia di un bambino rimaste appese alle vesti della madre", la vicenda venne ricamata ulteriormente quando un giornale francese pubblicoò un disegno raffigurante soldati tedeschi che mangiavano mani.20

Se gli organizzatori di guerra degli Stati Uniti volevano attaccare l'etichetta di "assassino di neonati" al collo di Saddam, avrebbero comunque potuto farlo in modo onesto. Delle 5.000 persone uccise dal gas di Saddam, nel villaggio dei curdi iracheni di Halabja nel 1988, il 75% erano donne e bambini. Il problema e' che l'episodio di Halabja e altri che videro l'utilizzo di armi chimiche, avvenivano mentre l'Iraq riceveva sostegno economico e militare dagli Stati Uniti.
"Ad ogni modo, la posizione dell'America su Halabja e' vergognosa" disse Joost R. Hiltermann di Human Rights Watch, l'organizzazione che ha svolto indagini approfondite sulla vicenda di Halabja. Infatti, il Dipartimento di Stato Usa aveva persino "dato istruzioni ai diplomatici di riferire che parte della responsabilita' ricadeva sull'Iran. Il risultato di tale sofisticheria fu che la comunità internazionale smise di raccogliere gli appelli per una ferma condanna dell'Iraq per un atto efferato quanto l'attacco al World Trade Center."21
Durante la campagna per la guerra nel 1990, l'atrocità commessa a Halabja e il tacito consenso del Dipartimento di Stato erano fatti così recenti che sarebbe stato difficile per la prima Amministrazione Bush convincere qualcuno dell'onesta' della sua indignazione morale. Dire la verità avrebbe suscitato troppe domande imbarazzanti. La campagna a favore della guerra intendeva raccontare la verità sulla natura del regime di Saddam Hussein ma per proteggersi dalle enormi conseguenze di quella verità era necessario ricorrere a quello che Churchill o Rumsfeld chiamerebbero una "scorta di bugie".

Pertanto, durante la pianificazione dell'operazione "Tempesta del Deserto", la prima Amministrazione Bush ha evitato di menzionare l'episodio di Halabja, e i giornalisti ne hanno parlato raramente.
Una ricerca nel database delle notizie di LexisNexis mostra che negli Stati Uniti la vicenda di Halabja e' stata menzionata in 188 articoli durante il 1988 (l'anno in cui si e' verificato il fatto). e' stata tuttavia citata raramente nell'anno successivo: in 20 articoli nel 1989 e solo in 29 nel 1990, l'anno in cui Saddam invase il Kuwait. Nell'intervallo di tempo tra l'invasione del Kuwait, 2 agosto 1990 e la fine dell'operazione "Tempesta del Deserto", 27 febbraio 1991, vi sono stati soltanto 39 riferimenti a Halabja.
Nel decennio successivo, la media e' stata di 16 riferimenti l'anno. Durante le elezioni presidenziali del 2000, sono stati soltanto 10.
Effettivamente la vicenda non e' ricomparsa sui media statunitensi fino al settembre 2002, quando l'Amministrazione di George W. Bush ha iniziato la pressione pubblica per la guerra in Iraq. Da allora, i riferimenti iniziano ad aumentare notevolmente. L'episodio di Halabja e' stato riportato 57 volte soltanto nel mese di febbraio 2003. In marzo, il mese dell'inizio della guerra, lo e' stato 145 volte. Erano passati quasi 15 anni, i ricordi si erano sbiaditi e si poteva tranquillamente parlare dell'uccisione con il gas dei cittadini iracheni da parte di Saddam. Furono pochi i giornalisti che scrivendo di Halabja nel 2002 e nel 2003 si sono presi la briga di menzionare il fatto che Saddam aveva commesso le atrocità peggiori mentre il padre dell'attuale Presidente lo ricopriva di aiuti finanziari.

In ben altro modo sono andate le cose dopo il racconto di Nayirah sui "neonati strappati alle incubatrici". Secondo lo stesso database di Lexis-Nexis, la storia dei neonati tolti dalle incubatrici ha ricevuto 138 citazioni durante i sette mesi intercorsi tra l'invasione del Kuwait e la fine dell'operazione "Tempesta del Deserto". Subito dopo la fine della guerra, i giornalisti, una volta andati negli ospedali kuwaitiani e raccolte le testimonianze del personale ospedaliero secondo il quale la storia era falsa, hanno iniziato a ridimensionare la versione originale. Dopo il 1992, la storia e' quasi del tutto scomparsa, con una media di appena 10 citazioni all'anno nel decennio successivo. Tuttavia, la vicenda dei neonati riaffiorò brevemente nel dicembre 2002, quando il canale HBO trasmise in anteprima un documento "basato su una storia vera" dal titolo "Live From Baghdad", nel quale si ripercorrevano le avventure di Peter Arnett e di altri giornalisti della CNN durante l'operazione "Tempesta del Deserto".
"Live From Baghdad" includeva l'intero servizio sulle dichiarazioni di Nayirah e di alcuni osservatori, dando l'impressione che la storia fosse vera.
In risposta alle proteste suscitate dall'osservatorio sui media FAIR, la HBO aggiunse una nota alla fine dei titoli di coda, in cui si ammetteva che "le accuse mosse ai soldati iracheni di aver tolto i neonati dalle incubatrici... non sono mai state comprovate".22 Naturalmente, la nota e' stata vista soltanto dai pochi telespettatori che hanno letto i titoli di coda. Prima dell'inserimento della nota, il critico televisivo del Washington Post Tom Shales, nella sua recensione di "Live From Baghdad", aveva scritto: "L'orrore compiuto in Kuwait ritorna vivido durante una sequenza in cui [Robert, il produttore della CNN] Wiener e la sua troupe viaggiano attraverso il Kuwait per indagare sulle accuse secondo cui i soldati iracheni avrebbero strappato via dei neonati alle incubatrici durante un saccheggio, ricordate?".23

Sarebbe ingiusto puntare il dito contro Shales per aver rievocato un fatto mai accaduto. Il racconto di Nayirah sulle incubatrici e' soltanto l'ennesima dimostrazione di un principio, da tempo compreso dai propagandisti, secondo cui una bugia ripetuta tante volte finisce per essere accettata come verità.
John Stauber e' il fondatore e il direttore del "Center for Media & Democracy", un istituto che analizza la propaganda condotta dalle multinazionali e dai governi. Lui e Sheldon Rampton pubblicano su "PR Watch", l'osservatorio Usa sull'industria delle pubbliche relazioni.

Note:
...






https://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_del_Golfo
Il 2 agosto del 1990 il ra‘īs (presidente) iracheno Saddam Hussein invase il vicino Stato del Kuwait per via delle sue grandissime riserve di petrolio. Le ragioni dell'invasione vanno rintracciate su due livelli: il primo, consistente in una prova di forza con gli Stati Uniti ed i loro alleati, come conseguenza dell'ambigua politica mediorientale portata avanti dal governo di Washington durante e dopo la Guerra Iran-Iraq[senza fonte]; il secondo rivendicando l'appartenenza del Kuwait alla comunità nazionale irachena, sulla scorta del comune passato ottomano e di una sostanziale identità etnica, malgrado tuttavia l'Iraq avesse riconosciuto l'indipendenza del piccolo Emirato del golfo Persico quando questo era stato ammesso alla Lega araba.
L'invasione provocò delle immediate sanzioni da parte dell'ONU che lanciò un ultimatum, imponendo il ritiro delle truppe irachene. La richiesta non conseguì risultati e il 17 gennaio 1991 le truppe degli Stati Uniti, supportate dai contingenti della coalizione penetrarono in Iraq. Le operazioni di aria e di terra furono chiamate, dalle forze armate della coalizione Operation Desert Storm motivo per cui spesso ci si riferisce alla guerra usando la locuzione "Tempesta nel deserto". L'intervento della coalizione anti-irachena ha trovato la sua motivazione più concreta nelle risorse di petrolio e nel blocco dei capitali kuwaitiani sulle piazze finanziarie americane, asiatiche ed europee, causato dall'invasione irachena.


https://it.wikipedia.org/wiki/Invasione_del_Kuwait

Il Kuwait era un ottimo alleato dell'Iraq durante la guerra Iran-Iraq poiché possedeva il più importante porto del golfo Persico, dopo che quello di Basra venne distrutto nei combattimenti. Tuttavia, a guerra conclusa, le relazioni tra i due paesi crollarono a causa di ragioni economiche e diplomatiche che culminarono nell'invasione irachena del Kuwait.


Disputa sul debito finanziario

Il Kuwait finanziò pesantemente l'Iraq durante la guerra con l'Iran, inimicandosi così la nazione persiana. Quest'ultima colpì più volte i depositi di carburante nel 1984 e il personale dell'isola di Bubiyan nel 1988.
Alla fine della guerra tra Iraq ed Iran, gli iracheni non erano nella posizione finanziaria di ripagare i 14 miliardi di dollari che il Kuwait aveva prestato loro; non potendo quindi ripagare il debito, gli iracheni diedero il via all'invasione. L'Iraq affermò che la guerra era cominciata per prevenire l'ascesa dell'influenza persiana nel Mondo arabo. Tuttavia, la riluttanza kuwaitiana a condonare il debito portò all'attrito tra i due paesi arabi. Alla fine del 1989, furono organizzati diversi incontri ufficiali tra i leader dei due paesi ma non si riuscì a trovare un accordo.


Guerra economica e perforazioni petrolifere

Nel 1988, il Ministro del Petrolio iracheno, Issam al-Chalabi, ribatté contro l'ulteriore riduzione della quota di produzione del petrolio ai membri dell'OPEC, a causa del surplus di produzione degli anni ottanta. Chalabi affermò che se il prezzo del petrolio fosse cresciuto gli introiti dell'Iraq sarebbero aumentati e il paese sarebbe stato in grado di pagare il debito di 60 miliardi di dollari. Tuttavia, a causa della propria industria petrolifera, il Kuwait fece poco riferimento al prezzo del petrolio greggio e, nel 1989, richiese il permesso all'OPEC di incrementare la propria produzione totale di petrolio del 50%, fino a un milione e trecentocinquantamila barili al giorno. Per la maggior parte degli anni '80, la produzione del Kuwait fu considerevolmente oltre il consentito dall'OPEC e questo evitò un aumento del prezzo del greggio. Una mancanza di consenso tra i membri dell'ente internazionale minò i tentativi iracheni di porre fine al surplus iracheno e di riprendersi dalla guerra. Secondo l'ex-Ministro degli Esteri iracheno, Tariq Aziz, "ogni dollaro in più sul prezzo di un barile di petrolio causava un miliardo di dollari in più di rendita innescando una forte crisi finanziaria a Baghdad." Si stima che tra il 1985 e il 1989, gli iracheni persero 14 miliardi di dollari all'anno a causa della strategia adottata al prezzo del petrolio kuwaitiano. Il rifiuto del Kuwait di diminuire la produzione di petrolio venne visto dall'Iraq come un atto d'aggressione nei suoi confronti.

Le crescenti tensioni tra le due nazione furono ulteriormente aggravate quando l'Iraq affermò che il Kuwait sta perforando lungo il confine nella regione della Rumaila appartenente all'Iraq stesso. La disputa sulla regione nacque già nel 1960 quando una dichiarazione della Lega Araba stabilì che il confine tra i due paesi fosse a circa 3 km a nord del confine più meridionale della Rumaila. Durante la guerra Iraq-Iran, le perforazioni irachene nella regione diminuirono mentre crebbero le operazioni di trivellamento del Kuwait. Nel 1989, l'Iraq accusò il Kuwait di usare "tecniche di perforazioni avanzate" per estrarre petrolio dalla loro parte della Rumaila. Gli iracheni stimarono che 2,4 miliardi di dollari di petrolio, che sarebbero dovuti finire nelle casse dell'Iraq, furono "rubati" dal Kuwait, chiedendo poi un rimborso. Il Kuwait ribatté che le accuse erano false e che si trattava di una scusa adottata dagli iracheni per giustificare azioni militari contro di loro. Diverse imprese straniere che lavoravano in Rumaila confermarono che si trattava di una "cortina di fumo per mascherare le intenzioni più ambiziose dell'Iraq".

Il 25 luglio 1990, solo pochi giorni prima dell'invasione irachena, l'OPEC comunicò che il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti si erano accordati per limitare la produzione giornaliera ad un milione e mezzo di barili, decretando potenzialmente una divergenza tra la politica petrolifera del Kuwait e dell'Iraq. All'epoca, più di 100 000 soldati iracheni erano dispiegati lungo il confine tra Iraq e Kuwait e degli ufficiali americani indicarono un lieve calo delle tensioni nonostante le decisioni dell'OPEC.

Pretese egemoniche irachene

Gli iracheni non affermarono mai di aver invaso il Kuwait per prendere il controllo delle riserve petrolifere ma di averlo fatto perché consideravano il Kuwait come parte dell'Iraq, separatosi a causa dell'imperialismo britannico. Dopo la firma della Convenzione anglo-ottomana del 1913, il Regno Unito strappò il Kuwait dall'Impero ottomano. Il governo iracheno affermò inoltre che l'Emiro del Kuwait era una figura molto impopolare. Rovesciando l'Emiro, l'Iraq dichiarò di voler garantire una estesa libertà politica ed economica ai kuwaitiani.

Il Kuwait fu quindi tolto al Governatorato ottomano di Basra e, anche se la famiglia reale al-Sabah aveva concluso un accordo con i britannici per la gestione degli affari esteri nel 1899, non aveva mai cercato la secessione dall'Impero Ottomano. Per questa ragione, i confini con la provincia di Basra non furono mai ben definiti e riconosciuti. Oltretutto, gli iracheni sentenziarono che l'Alto Commissariato Britannico "disegnò i confini impedendo deliberatamente all'Iraq l'accesso all'oceano in modo che l'eventuale futuro governo iracheno non avrebbe potuto minacciare il dominio britannico del golfo".
...

Nel dicembre 2002, Saddam Hussein si scusò ufficialmente per l'invasione del Kuwait, poco tempo prima di essere deposto in seguito alla seconda guerra del Golfo. Due anni dopo, anche la leadership palestinese si scusò per il loro supporto a Saddam in tempo di guerra. Un alleato di lunga data dell'Iraq, il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh, sostenne l'invasione del Kuwait e, a guerra finita, il governo kuwaitiano deportò in massa gli yemeniti presenti nel loro paese.


Iraq: i motivi dell'invasione del Kuwait
Un approfondimento a cura di Studenti.it sulle principali vicende storiche che hanno visto protagonista l'Iraq
di Carlotta Ricci 5 ottobre 2007

http://www.studenti.it/maturita/iraq5.php

Saddam Hussein era salito al potere in Iraq nel 1968 con un colpo di stato; nel corso dei successivi dieci anni Saddam Hussein ha represso in modo feroce qualsiasi tipo di opposizione alla sua dittatura personale: la ribellione kurda del 1974, i comunisti di tutte le tendenze, anche frazioni del proprio stesso partito (il Partito della resurrezione araba socialista - Baath), sono stati tutti annegati nel sangue. L'irresistibile ascesa di Saddam Hussein è culminata nel 1980 con la concentrazione di tutti i poteri nelle sue mani, e da allora è iniziato un culto ufficiale della sua personalità. La dittatura di Saddam Hussein si basa su una burocrazia borghese civile, militare e poliziesca, a cerchi concentrici, largamente determinati dall'appartenenza alla famiglia, al clan o alla provincia (Takrit) del tiranno. I privilegi di questa burocrazia sono assicurati dalla rendita petrolifera dello stato iracheno.

Nel settembre 1980, l'Iraq attacca l'Iran, dove l'anno precedente una vittoriosa rivoluzione era riuscita a cacciare il regime dello Scià: l'obiettivo iracheno era di appropriarsi dei campi petroliferi dell'Arabistan iraniano (la principale regione petrolifera iraniana) ed affermarsi così come potenza regionale dominante. La guerra dura più di otto anni, e dalla sola parte irachena i morti sono 300.000. A queste vittime devono essere aggiunti almeno 100.000 kurdi (alcune fonti kurde arrivano alla cifra di 180.000 vittime) massacrati dall'esercito nel nord dell'Iraq dal 1987 al 1989 con largo uso di armi chimiche, che portò alla distruzione della maggioranza dei villaggi del kurdistan iracheno (il caso-simbolo di questa repressione, grazie alla disponibilità di documenti fotografici, è stato lo sterminio il 16 marzo 1988 di tutti gli abitanti del villaggio di Halabdja, circa 5.000 persone, con iprite e gas sarin, mentre i sopravvissuti vennero spianati con i bulldozer). Il cessate il fuoco con l'Iran venne firmato nel 1988, senza che la frontiera esistente prima del conflitto fosse modificata.
Le distruzioni materiali provocate dalla guerra con l'Iran furono enormi (stimate a 150 miliardi di dollari), e Baghdad uscì dalla guerra con un indebitamento di 60 miliardi di dollari, oltre a ritrovarsi con un esercito totalmente sproporzionato rispetto alle dimensioni (un milione di persone mobilitate) che può mantenere.

È in questa situazione che matura la decisione di occupare il Kuwait (uno stato artificiale creato dall'imperialismo britannico delineando un confine attorno ai pozzi petroliferi, proprietà personale dell'emiro e della sua famiglia, dove nessun minimo diritto democratico era garantito): un'occupazione permanente e l'annessione del Kuwait all'Iraq avrebbe risolto tutti i suoi problemi finanziari grazie alla rendita petrolifera aggiuntiva, mentre un accordo di mediazione (in cambio del ritiro dal Kuwait) avrebbe comunque portato risorse aggiuntive.
Baghdad non si aspettava una reazione statunitense e internazionale così determinata e inflessibile (numerosi altri casi simili nel passato non avevano provocato reazioni significative a livello internazionale, per Israele, per l'Iran, il Marocco, la Turchia, l'Indonesia, ecc.) contando piuttosto che la fine della guerra fredda avrebbe consentito un maggior margine di manovra rispetto al passato per un paese come il suo, lasciando comunque spazi per mediazioni vantaggiose. Una volta resosi conto che così non era, il regime di Saddam Hussein non poté ritirarsi senza passare attraverso la guerra del 16 gennaio - 28 febbraio 1991 - la prima guerra del Golfo - (il cui esito, vista la sproporzione nel numero delle vittime, era scontato), in quanto la legittimazione del suo regime ne sarebbe uscita a pezzi.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: All'area arabo islamica non dobbiamo nulla, anzi

Messaggioda Berto » mar ago 22, 2017 7:54 am

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Re: All'area arabo islamica non dobbiamo nulla, anzi

Messaggioda Berto » mar ago 22, 2017 7:55 am

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Re: All'area arabo islamica non dobbiamo nulla, anzi

Messaggioda Berto » mar ago 22, 2017 7:55 am

Hitler e Maometto: chi è stato il peggior criminale?
viewtopic.php?f=188&t=2659

Immagine
http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... lIslam.jpg


Islam, Maometto, Allah, Corano e Sharia sono orrore e terrore
viewtopic.php?f=188&t=2644


Il maomettismo e i maomettani o l''Islam e gli islamici sono una minaccia, una offesa, un'ingiuria, un pericolo per l'umanità intera
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 5512703312
viewtopic.php?f=188&t=2667


Islam e persecuzione e sterminio dei cristiani (cristianofobia)
viewtopic.php?f=181&t=1356


Dementi idolatri islamici della jihad nazista mussulmana
viewtopic.php?f=188&t=2537


Nella storia dove è arrivato l'Islam è poi sempre avvenuta la guerra civile e religiosa e lo sterminio di tutti i diversamente religiosi e pensanti
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All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla
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Ebraismo e Cristianesimo : violenti come l'islam? No!
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Re: All'area arabo islamica non dobbiamo nulla, anzi

Messaggioda Berto » mar ago 22, 2017 8:04 am

Croxade (Crociate)
viewtopic.php?f=24&t=1419


LE CROCIATE FURONO SOLO UNA DIFESA CONTRO L'ESPANSIONISMO ISLAMICO

Thomas F. MADDEN
La vera storia delle Crociate
tratto da: Crisis Magazine, vol. 20 n. 4 - aprile 2002.
http://it.wikipedia.org/wiki/The_Crisis_%28rivista%29


Con la possibile eccezione di Umberto Eco, gli studiosi medievali non sono soliti sollecitare l'attenzione dei media. Noi tendiamo ad una relativa quiete (se si eccettua il baccanale annuale del Congresso internazionale di studi medievali di Kalamazoo), leggendo cronache ammuffite e scrivendo studi meticolosi che ben pochi leggeranno. Si immagini, quindi, la mia sorpresa quando, nei giorni successivi all'11 settembre, il Medio Evo balzò improvvisamente alla ribalta.

In quanto storico delle Crociate, mi ritrovai con la tranquilla solitudine della mia torre d'avorio infranta da giornalisti, redattori e conduttori di talk-show ansiosi di trovare lo scoop. Cosa furono le Crociate?, chiedevano. Quando si ebbero? Quanto fu insensato l'uso della parola "crociata" nei discorsi del presidente George W. Bush? Con alcuni dei miei visitatori avevo la netta sensazione che già conoscessero le risposte alle loro domande, o almeno ne davano l'impressione. Cosa realmente volessero sentirsi dire sembrava non esser altro che la conferma delle loro opinioni. Per esempio, mi veniva frequentemente chiesto un commento sul fatto che il mondo islamico nutre un comprensibile rancore nei confronti dell'Occidente. Non ha la violenza presente, ribadivano, le sue radici negli attacchi brutali e immotivati delle Crociate contro un mondo musulmano raffinato e tollerante? In altre parole, davvero le Crociate non sono da biasimare?

Osama bin Laden la pensa certamente così. Nelle sue varie esibizioni televisive non manca mai di descrivere la guerra americana contro il terrorismo come una nuova Crociata contro l'Islam. Anche l'ex-presidente Bill Clinton ha additato le Crociate a lontana causa del conflitto presente. In un discorso tenuto all'Università di Georgetown, narrò (e calcò le tinte di) un massacro di ebrei avvenuto dopo la conquista di Gerusalemme, da parte dei crociati, nel 1099 ed informò il pubblico che l'episodio è tuttora amaramente commemorato, in Medio Oriente (il perché i terroristi islamici debbano essere sconvolti dall'uccisione di ebrei, non fu spiegato). Clinton venne bacchettato, sulle pagine editoriali della nazione, per il suo tentativo di criticare gli Stati Uniti rifacendosi al Medio Evo. Eppure nessuno obiettò qualcosa, circa la premessa fondamentale dell'ex-presidente.

Diciamo, quasi nessuno. Molti storici stavano già da tempo lavorando al riordino del corpus di studi sulle Crociate, prima che Clinton li costringesse ad uscire allo scoperto. Non sono revisionisti, come quelli che imbastirono l'esposizione dell'Enola Gay, ma studiosi autorevoli che hanno messo a frutto molte decadi di accurate, serie borse di studio. Per loro, questo è un "momento di insegnamento", un'opportunità di spiegare le Crociate a persone che stanno davvero ascoltando. Non durerà a lungo, qui purtroppo funziona così.

Gli equivoci sulle Crociate sono fin troppo comuni. Vengono ritratte come una serie di guerre sante contro l'Islam, generalmente lanciate da papi assetati di potere e condotte da fanatici religiosi. Si pensa che siano state il culmine dell'ipocrisia e dell'intolleranza, una macchia nera sulla storia della Chiesa cattolica in particolare e della civiltà occidentale in generale. Razza di proto-imperialisti, i crociati aggredirono un Medio Oriente pacato e deformarono una cultura musulmana illuminata, lasciando solo rovine. Per trovare variazioni su questo tema non c'è bisogno di guardare troppo lontano. Si veda, per esempio, il famoso poema epico in tre volumi di Steven Runciman, Storia delle Crociate, o il documentario BBC/A&E, Le Crociate, commentato da Terry Jones. Sono prototipi di storia terribile, e intrattengono tuttora a meraviglia.

Insomma qual è la verità sulle Crociate? Gli studiosi ci stanno ancora lavorando su. Ma molto può già esser detto con certezza. Intanto, le Crociate contro l'Oriente furono in ogni caso guerre difensive. Rappresentavano una risposta diretta alle aggressioni musulmane, un tentativo di arginare e controbattere la conquista musulmana di terre cristiane.

I cristiani dell'undicesimo secolo non erano fanatici paranoici. Dai musulmani bisognava realmente difendersi. Sebbene gli arabi sappiano essere pacifici, l'Islam nacque in guerra e crebbe nello stesso modo. Dal tempo di Maometto, la politica di espansione musulmana consistette sempre nella spada. Il pensiero musulmano divide il mondo in due sfere, la Dimora dell'Islam e la Dimora della Guerra. La Cristianità - e, se è per questo, ogni religione non musulmana - non ha dimora alcuna. Cristiani ed ebrei possono essere tollerati all'interno di un stato musulmano, sotto la legge musulmana. Ma, nell'Islam tradizionale, cristiani ed ebrei devono essere distrutti, e le loro terre conquistate. Quando Maometto stava per intraprendere la guerra contro La Mecca, nel settimo secolo, il Cristianesimo era la religione dominante. In quanto fede dell'Impero romano, attraversava il Mediterraneo intero, incluso il Medio Oriente dove nacque. Il mondo cristiano, perciò, era il primo obiettivo dei primi califfi, e tale sarebbe rimasto per i condottieri musulmani dei successivi mille anni.


Con formidabile energia, i guerrieri dell'Islam si avventarono contro i cristiani subito dopo la morte di Maometto. Ebbero successo. Palestina, Siria ed Egitto - un tempo le aree più fervidamente cristiane del mondo - soccombettero rapidamente. Nell'ottavo secolo, gli eserciti musulmani avevano conquistato tutto il nord cristiano dell'Africa e la Spagna. Nell'undicesimo secolo, i turchi selgiucidi conquistarono l'Asia Minore (la Turchia moderna), cristiana fin dal tempo di san Paolo. Il vecchio Impero romano, noto ai moderni come Impero bizantino, fu ridotto ad uno spazio geografico inferiore a quello dell'attuale Grecia. Disperato, l'imperatore di Costantinopoli spedì missive ai cristiani dell'Europa occidentale, chiedendo aiuto per i loro fratelli e le loro sorelle dell'Est.

Questo è quanto fece nascere le Crociate. Non il progetto di un papa ambizioso o i sogni di cavalieri rapaci, ma una risposta a più di quattro secoli di conquiste, con le quali i musulmani avevano già fatti propri i due terzi del vecchio mondo cristiano. A quel punto, il Cristianesimo come fede e cultura doveva o difendersi o lasciarsi soggiogare dall'Islam. Le Crociate non furono altro che questa difesa.

Papa Urbano II fece appello ai cavalieri della Cristianità, per respingere gli attacchi dell'Islam, al Concilio di Clermont del 1095. La risposta fu sbalorditiva. Molta migliaia di guerrieri fecero il voto della croce e si prepararono alla guerra. Perché lo fecero ? La risposta a questa domanda è stata malamente fraintesa. Sulla scia dell'Illuminismo, era d'uso asserire che i crociati non fossero altro che fannulloni e ladri di galline, pronti a trarre profitto dall'opportunità di razziare e saccheggiare terre lontane. I sentimenti, testimoniati dai crociati stessi, di pietà, di abnegazione e d'amore per Dio, non erano evidentemente da tenere in considerazione. Furono reputati mera facciata, a nascondere oscuri disegni.

Durante le due decadi passate accurati studi, condotti anche con l'ausilio del computer, hanno demolito questa invenzione. Gli studiosi hanno scoperto che i cavalieri crociati era nobiluomini, per lo più ricchi, e provvisti di larghe proprietà terriere in Europa. Ciononostante, abbandonarono tutto per intraprendere una missione santa. Fare una crociata non era cosa da quattro soldi. Anche i ricchi avrebbero potuto facilmente impoverire, rovinando loro stessi e le loro famiglie, nell'unirsi ad una Crociata. Non facevano così perché si aspettassero ricchezze materiali (che molti di loro già avevano), ma perché contavano su tesori che il tarlo non sbriciola e che la tignola non corrode. Erano acutamente consapevoli dei loro peccati ed ansiosi di intraprendere le fatiche della Crociata come un atto penitenziale di carità e d'amore. L'Europa è letteralmente stipata di carteggi medievali che attestano questi sentimenti, carteggi nei quali questi uomini ancor oggi ci parlerebbero, se noi ascoltassimo. Chiaramente, non si sarebbero rifiutati di accettare un bottino, potendolo avere. Ma la verità è che le Crociate si rivelarono scarse, quanto all'entità dei saccheggi. Alcuni si arricchirono, è vero, ma la stragrande maggioranza dei crociati tornò a casa con nulla in tasca.

Urbano II diede ai crociati due mete che sarebbero rimaste prioritarie per secoli, nelle Crociate orientali. La prima era liberare i cristiani dell'Est. Così ebbe a scrivere il suo successore, Papa Innocenzo III:

Come può l'uomo che ama, secondo il precetto divino, il suo prossimo come se stesso, sapendo che i suoi fratelli di fede e di nome sono tenuti al confino più stretto dai perfidi musulmani e gravati della servitù più pesante, non dedicarsi al compito di liberarli? [...] Forse non sapete che molte migliaia di cristiani sono avvinte in ceppi ed imprigionate dai musulmani, torturate con tormenti innumerabili?

"Fare una crociata - il professor Jonathan Riley-Smith ha detto magistralmente - era vissuto come un atto di amore". In questo caso, l'amore del proprio prossimo. La Crociata fu considerata uno strumento della misericordia per raddrizzare un male terribile. Come Papa Innocenzo III scrisse ai Templari, "Voi traducete in atti le parole del Vangelo, secondo cui non c'è amore più grande di quello dell'uomo che offre la sua vita in cambio di quella dei suoi cari".

La seconda meta fu la liberazione di Gerusalemme e degli altri luoghi resi santi dalla vita di Cristo. Il termine "crociata" è moderno. I crociati medievali si consideravano pellegrini, nel loro eseguire atti di rettitudine lungo la via che mena al Santo Sepolcro. L'indulgenza ricevuta per la partecipazione alle Crociate fu equiparata canonicamente all'indulgenza per il pellegrinaggio. Tale meta era spesso descritta in termini feudali. Nell'indire la quinta Crociata, nel 1215, Innocenzo III scrisse:

Considerate, carissimi figli, considerate attentamente come, se qualche re temporale venisse deposto e magari catturato, qualora venga restituito alla sua libertà originaria e giunga il tempo di far calare l'occhio della giustizia sui suoi vassalli, non li guarderà come infedeli e traditori [...] a meno che non si tratti di coloro che hanno rischiato non solo le loro proprietà, ma le loro stesse persone, nel votarsi al compito di liberarlo? [...] E similmente Gesù Cristo, il re dei re e il signore dei signori, il cui servitore nessuno di voi può negare di essere, colui che congiunse la vostra anima al vostro corpo, colui che vi riscattò col Prezioso Sangue [...] non vi condannerà per il vizio dell'ingratitudine ed il crimine dell'infedeltà, se voi rifiutate di aiutarLo?


La riconquista di Gerusalemme, perciò, non fu colonialismo ma un atto di restaurazione ed un'aperta dichiarazione d'amor di Dio. Gli uomini del Medio Evo sapevano, evidentemente, che Dio aveva il potere di ricondurre Gerusalemme alla situazione precedente, che aveva il potere di far tornare il mondo intero alla Sua Legge. Eppure, come san Bernardo di Chiaravalle era solito predicare, il Suo rifiuto di far così non era che una benedizione alla Sua gente:

Di nuovo, io dico, pensate alla bontà dell'Altissimo e ponete attenzione ai Suoi misericordiosi progetti. Egli si pone in obbligo nei vostri confronti, o piuttosto finge di fare così, per aiutarvi a soddisfare i vostri obblighi verso di Lui [...]. Io chiamo benedetta la generazione che può cogliere un'occasione di indulgenza così ricca come questa.

Spesso si ritiene che l'obiettivo centrale delle Crociate fosse la conversione forzata del mondo musulmano. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Nella prospettiva cristiana medievale, i musulmani erano i nemici e di Cristo e della Sua Chiesa. Compito dei crociati era sconfiggerli e difendere la Chiesa contro di loro. Questo era tutto. Ai musulmani dimoranti nei territori conquistati dai crociati generalmente fu concesso di conservare le loro proprietà, il loro sostentamento, e perfino la loro religione. In tutta la storia del Regno crociato di Gerusalemme, il numero degli abitanti musulmani superò abbondantemente quello dei cattolici. Fu solo nel 13° secolo che i francescani intrapresero qualche tentativo di conversione dei musulmani. Tentativi senza successo, infine abbandonati. In ogni caso, si trattò di persuasione pacifica, non di minacce o addirittura di violenza.

Tuttavia le Crociate erano guerre, sicché sarebbe un errore pensarle solo pietà e buone intenzioni. Come in ogni guerra, la violenza era brutale (anche se non brutale come nelle guerre moderne). Ci furono sventure, errori gravi e crimini. Cose ben ricordate oggi, di solito. All'inizio della prima Crociata, nel 1095, un gruppo di crociati, condotti dal conte Emicho di Leiningen, si aprì la strada lungo il Reno derubando e assassinando tutti gli ebrei incontrati. Senza successo, i vescovi locali tentarono di fermare questa strage. Agli occhi di questi guerrieri, gli ebrei, come i musulmani, erano i nemici di Cristo. Depredarli ed ucciderli, pertanto, non era peccato. Effettivamente, credevano trattarsi di un atto retto, potendo i soldi degli ebrei essere usati per finanziare la Crociata verso Gerusalemme. Ma avevano torto, e la Chiesa condannò fermamente le ostilità contro gli ebrei.

Cinquant'anni dopo, quando la Seconda Crociata stava già per muoversi, san Bernardo proclamava che gli ebrei non sarebbero stati perseguitati:

Chiedete a chiunque conosca le Sacre Scritture cosa si auspica, per gli ebrei, nel Salmo. "Non per la loro distruzione io prego" sta scritto. Gli ebrei sono per noi le parole viventi della Scrittura, ci ricordano ciò di cui sempre soffrì il nostro Dio [...]. Sotto i prìncipi cristiani sopportano una prigionia dura, ma "aspettano solamente il tempo della loro liberazione.".

Ciononostante un certo Radulf, un monaco cistercense, aizzò parecchia gente contro gli ebrei di Rhineland, nonostante le numerose lettere inviategli da Bernardo, per fermarlo. Infine Bernardo fu costretto a recarsi personalmente in Germania, dove prese Radulf, lo spedì di nuovo nel suo convento, e fece finire i massacri.

Spesso si dice che le radici dell'Olocausto possono essere rintracciate in questi pogrom medievali. Può essere. Tuttavia queste radici affondano molto più indietro nel tempo, sono più profonde e più estese dei tempi delle Crociate. Ebrei perirono, durante le Crociate, ma lo scopo delle Crociate non era quello di uccidere ebrei. E' vero esattamente il contrario: papi, vescovi e predicatori assicurarono che gli ebrei d'Europa non sarebbero stati molestati. Nella guerra moderna chiamiamo le tragiche morti come queste "danno collaterale". Gli Stati Uniti hanno ucciso, con le tecnologie intelligenti, molti più innocenti di quanti i crociati avrebbero mai potuto uccidere. Ma nessuno oserebbe dire seriamente che lo scopo delle guerre americane è uccidere donne e bambini.


Da qualsiasi punto di vista la si osservi, la prima Crociata fu un gran colpo. Non c'era nessun leader, nessuna catena di comando, nessuna linea di approvvigionamento, nessuna strategia particolareggiata. Fu semplicemente l'avanzata di migliaia di guerrieri in territorio nemico, impegnati in una causa comune. Molti di loro morirono, o in battaglia o per malattia o di fame. Fu una campagna improvvisata, sempre sull'orlo del disastro. Eppure ebbe successo. Nel 1098 i crociati avevano ripristinato in Nicea ed Antiochia la legge cristiana. Nel luglio 1099 conquistarono Gerusalemme e gettarono le fondamenta di uno stato cristiano in Palestina. La gioia in Europa non conobbe freni. Sembrò che la marea della storia, che aveva alzato i musulmani a tali altezze, ora stesse girando.

Ma così non fu. Quando pensiamo al Medio Evo ci è facile vedere l'Europa alla luce di quello che è divenuta, anziché di quello che era. Il colosso del mondo medievale era l'Islam, non la Cristianità. Le Crociate sono particolarmente attraenti perché rappresentano un tentativo di contrastare quel colosso. Ma, in cinque secoli di Crociate, solamente la prima arrestò significativamente l'avanzata islamica. Poi tornò la bassa marea.

Quando la Contea crociata di Edessa cadde in mano a turchi e curdi, nel 1144, si manifestò un vasto consenso per una nuova Crociata, in Europa. Lo promossero due re, Luigi VII di Francia e Corrado III di Germania, e lo sostenne nelle sue predicazioni san Bernardo stesso. Fallì miseramente. La maggior parte dei crociati fu uccisa lungo la strada. Quelli che arrivarono a Gerusalemme fecero la peggior cosa possibile, attaccando la Damasco musulmana, già forte alleata dei cristiani. In seguito a tale disastro i cristiani europei furono costretti ad accettare non solo la rinnovata espansione del potere musulmano, ma la certezza che Dio stesse castigando l'Occidente per i suoi peccati. Movimenti pietistici laici germogliarono in tutta Europa, radicati nel desiderio di purificare la società cristiana, per renderla degna della vittoria sull'Oriente.

Lanciare una crociata nel tardo dodicesimo secolo, perciò, significò organizzare una guerra senza quartiere. Ognuno, anche debole o povero, fu invitato a prodigarsi. Ai guerrieri si chiese di sacrificare le loro ricchezze e, in caso, le loro vite, per la difesa dei cristiani d'Oriente. Tutti i cristiani furono chiamati a sostenere le Crociate tramite preghiere, digiuni ed elemosine. Nel frattempo i musulmani si accrescevano. Il Saladino, il grande unificatore, aveva inglobato il musulmano Medio Oriente in una sola entità, incitando alla guerra santa contro i cristiani. Nel 1187, nella Battaglia di Hattin, le sue forze annientarono gli eserciti alleati del Regno cristiano di Gerusalemme e trafugarono la preziosa reliquia della Vera Croce. Indifese, le città cristiane cominciarono a cedere una alla volta, fino alla resa di Gerusalemme, il 2 ottobre. Si salvò solo, lungo il litorale, qualche porto.

La risposta fu la terza Crociata, condotta dall'imperatore Federico I "Barbarossa" di Germania, re Filippo II Augusto di Francia e re Riccardo I "Cuordileone" d'Inghilterra. In qualche misura era una grande cosa, pur non grande come i cristiani avevano sperato. L'anziano Federico annegò nell'attraversare un fiume a cavallo, dimodoché il suo esercito tornò a casa prima ancora d'aver raggiunto la Terra Santa. Filippo e Riccardo arrivarono in nave, ma i loro incessanti alterchi aggiunsero ulteriori contrasti alla già critica situazione della terra di Palestina. Dopo avere riconquistato Acre (Akka), Filippo tornò a casa, dove si dedicò alla confisca dei possedimenti inglesi in Francia. Così il peso della Crociata gravò sulle sole spalle di re Riccardo. Guerriero esperto, capo carismatico e superbo stratega, Riccardo condusse le forze cristiane di vittoria in vittoria, appropriandosi dell'intera costa. Ma Gerusalemme non è sulla costa; dopo due tentativi falliti di aprirsi un varco verso la Città Santa, Riccardo desistette. Promettendo di ritornare, stipulò una tregua col Saladino, tregua che prometteva pace nella regione ed ingresso gratuito in Gerusalemme per i pellegrini disarmati. Ma restò una pillola amara da ingoiare. Il desiderio di ricondurre Gerusalemme alla legge cristiana e di riottenere la Vera Croce rimase intenso in tutta Europa.

Le Crociate del 13° secolo furono più grandi, meglio predisposte e meglio organizzate. Ma fallirono egualmente. La quarta Crociata (1201-1204) si insabbiò nelle secche della politica bizantina, sempre incomprensibile agli occidentali. Dopo una deviazione fino a Costantinopoli per sostenere il legittimo pretendente al trono imperiale, che aveva promesso grandi ricompense e un sostegno per la Terra Santa, i crociati scoprirono che il loro benefattore, benché erede del trono dei Cesari, non poteva mantenere le sue promesse. Sentitisi traditi dai loro amici greci, nel 1204 i crociati attaccarono, fecero cadere e brutalmente saccheggiarono Costantinopoli, la più grande città cristiana nel mondo. Papa Innocenzo III, che già aveva scomunicato l'intera crociata, denunciò fermamente tale azione. Ma c'era ben poco da fare. I tragici eventi del 1204 eressero una porta di ferro tra il credo cattolico romano e quello greco ortodosso, una porta che lo stesso papa attuale, Giovanni Paolo II, è stato incapace di riaprire. Per un'ironia terribile le Crociate, nate dal desiderio cattolico di riunirsi agli ortodossi, divisero - forse irrevocabilmente - gli uni dagli altri.

Nel resto del 13° secolo le Crociate fecero poco di più. La quinta Crociata (1217-1221) riuscì a liberare Damietta, in Egitto, ma i musulmani di lì a poco sconfissero l'esercito cristiano e rioccuparono la città. San Luigi IX di Francia, nell'arco della sua vita, condusse due Crociate. La prima fece capitolare Damietta, ma Luigi, ben presto raggirato dalla sottile diplomazia egiziana, si trovò costretto ad abbandonare la città. Del resto Luigi, sebbene fosse rimasto in Terra Santa per molti anni, spendendo a profusione in lavori difensivi, non realizzò mai il suo desiderio: liberare Gerusalemme. Era molto più vecchio nel 1270, quando capitanò un'altra Crociata a Tunisi, dove morì a causa di un'epidemia. Dopo la morte di san Luigi, due spietati condottieri musulmani, Baybars e Kalavun, lanciarono una brutale rappresaglia contro i cristiani in Palestina. Nel 1291, le forze islamiche erano riuscite ad uccidere o ad espellere dalla regione anche l'ultimo dei crociati, cancellando così il Regno cristiano dalle carte geografiche.

Ad onta dei numerosi tentativi e degli ancor più numerosi progetti, le forze cristiane non furono più in grado di assicurarsi una posizione sicura, nella regione, fino al 19° secolo.

E' probabile che qualcuno pensi che tre secoli di sconfitte cristiane avrebbero intiepidito gli europei, nei confronti dell'idea di Crociata. Tutt'altro. Nel senso che non c'erano alternative. I regni musulmani divennero ancora più potenti nel 14°, 15° e 16° secolo. I turchi ottomani sottomisero, in una sorta di annessione, i loro vicini musulmani, unificando così ulteriormente l'Islam, continuarono le loro incursioni verso occidente, presero Costantinopoli e penetrarono nella stessa Europa. Dal 15° secolo in avanti le Crociate non furono strumenti di misericordia per fratelli distanti, ma tentativi disperati di qualche ultimo resto di cristianità di sopravvivere. Gli europei cominciarono a prospettarsi la possibilità che l'Islam realizzasse il suo obiettivo di conquistare tutto il mondo cristiano. Uno dei grandi successi del tempo, La Nave dei Pazzi, di Sebastian Brant, diede voce a questo sentimento in un brano intitolato "Il Declino della Fede".


http://www.culturacattolica.it/default. ... &id_n=5230
http://it.wikipedia.org/wiki/Crociata



I crociati salvarono l’Europa dall’invasione dell’islam turco
di Francesco Agnoli*
da La Verità, 28/03/17

http://www.uccronline.it/2017/04/03/i-c ... slam-turco

Una delle balle spaziali più diffuse e utilizzate nelle più svariate circostanze (per attaccare la Chiesa cattolica, denigrare la civiltà europea e dare una certa lettura dei fatti odierni nel rapporto tra Occidente e islam) riguarda le crociate.

Ma che cosa furono queste benedette o maledette crociate, al di là di ideologie e qualunquismo? Anzitutto occorre analizzare ciò che le precede. Dopo la nascita dell’Islam (VII secolo d.C.), terre abitate dai cristiani come le costa dell’Africa, la Spagna, la Sicilia e numerose città appartenenti all’Impero romano d’Oriente, vengono attaccate, saccheggiate e devastate dai musulmani, che ovunque uccidono, imprigionano e fanno schiavi. Basta un qualsiasi atlante storico per comprendere la velocità con cui Maometto e i suoi eredi si impongono militarmente dove prima vivevano popolazioni cristiane o animiste.

Percorso dai pirati saraceni, in quegli anni il Mediterraneo diventa impraticabile, al punto che lo storico Henri Pirenne sostiene che è solo con l’espansione islamica che inizia il Medioevo, perché essa fu anche più traumatica delle invasioni barbariche. «I cristiani non possono far galleggiare sul mare neanche una tavola», scriveva lo storico arabo ibn Khaldun. Tra Seicento e Settecento la Sicilia è oggetto di scorrerie e razzie continue. Nell’846 si colloca il primo dei due sacchi di Roma: 73 legni con 3000 guerrieri arrivano alle foci del Tevere, e saccheggiano la città, le chiese di San Pietro e di San Paolo. Anche le città sul mare vengono periodicamente assalite.

La celebre rinascita dell’anno Mille non ci sarebbe mai stata se le Repubbliche marinare italiane non avessero, come prima cosa, riconquistato il Mediterraneo, ripulendolo dai pirati e restituendolo alla navigazione e al commercio. Ma ripercorrere le centinaia di incursioni islamiche in territorio italiano ed europeo in genere sarebbe troppo lungo: rimando per questo all’opera di Rinaldo Panetta, intitolata significativamente Pirati e corsari turchi e barbareschi nel mare nostrum.

Basti allora soffermarsi un attimo sul Medio Oriente. Gerusalemme, città abitata da cristiani ed ebrei, viene presa dai musulmani nel 638 d.C. Da allora gli abitanti originari sono sottomessi a soprusi di ogni genere. «Nel 938 la processione per la domenica delle Palme è attaccata con morti e feriti e il Sepolcro danneggiato da un incendio; nella Pentecoste del 966 il governatore eccita la popolazione musulmana contro il patriarca (ucciso e bruciato) mentre il Sepolcro è saccheggiato e incendiato; sotto il califfo al-Hakim (966-1021) vi è una lunga persecuzione anticristiana e antiebraica, culminata con la distruzione del Sepolcro il 28 settembre 1009 e la riduzione in povertà dei cristiani che impiegano 40 anni a restaurarlo» (M. Meschini, Le crociate di Terrasanta, Art; e Il jihad & la crociata, Ares). Intanto i bizantini vengono sconfitti dati turchi a Manzikert nel 1071: il loro esercito viene sbaragliato e l’imperatore catturato.

E’ la paura della fine di Bisanzio a creare il panico in Occidente e a spingere papa Urbano II alla chiamata alle armi. Gli ortodossi, per quanto fratelli separati, corrono il rischio di essere distrutti e l’Islam, che già ha conquistato la Spagna, incomincia a salire verso i Balcani, chiudendo la cristianità in una tenaglia. L’accademico René Grousset ricorda che la sconfitta di Manzikert convinse gli europei che di fronte ad una tale incapacità dei bizantini di difendersi, «le nazioni occidentali dovevano intervenire». Infatti i turchi avevano preso Nicea, e di lì avrebbero potuto assalire Costantinopoli: le crociate servivano a ritardare la caduta della città, in mano ai turchi, di oltre tre secoli e mezzo, salvando così l’Europa da un’aggressione inevitabile.

«Verso il 1090», scrive Grousset, «l’islam turco, dopo aver cacciato quasi completamente i bizantini dell’Asia Minore, si preparava alla conquista dell’Europa» (R. Grousset, La storia delle crociate, Piemme). Dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, nulla fermerà più i turchi, che invaderanno i Balcani, giungendo ben due volte alle porte di Vienna. L’intervento di Urbano II fu dunque, secondo lo storico, un atto che diede origine ad una crociata, la prima, che sarebbe più opportuno considerare non una guerra di offesa, ma di difesa: difesa di Bisanzio, del Santo Sepolcro e di terre che erano state cristiane sino alla conquista islamica.

Così riassume Samir K. Samir in Cento domande sull’Islam (Marietti): «I cristiani o i crociati che hanno combattuto la guerra non pretendevano di averlo fatto fondandosi sul Vangelo; l’hanno fatto, invece, in nome della difesa della cristianità» e come «reazione alle persecuzioni intraprese dal califfo fatimitide al-akim bi-Amri Allah contro i cristiani di Siria e di Egitto (che allora comprendeva anche la Terrasanta)», giunte fino alla «distruzione della Basilica della Risurrezione di Gerusalemme (chiamata in Occidente Santo Sepolcro), iniziata il 28 aprile 1009». Dal canto suo Jean Richard, ne La grande storia delle crociate (Newton), nota che le crociate non ebbero lo scopo di convertire gli islamici: «La “guerra santa” in quanto operazione che ha lo scopo di ottenere una conversione forzata, venne respinta da tutti i teologi e canonisti. Le crociate hanno in genere rispettato questa norma».

Quanto sostenuto sino ad ora, non da Corrado Augias o storici improvvisati che popolano la tv, ma dai massimi studiosi delle crociate, è condiviso da Arrigo Petacco, nel suo L’ultima crociata. Quando gli ottomani arrivarono alle porte dell’Europa (Mondadori): è infatti impossibile analizzare questa parte della nostra storia prescindendo da quattro secoli di aggressioni musulmane all’Europa; prescindendo dal fatto che l’assedio islamico da Ovest, iniziato con la conquista di Spagna e fermato dai franchi a Poitiers, nel 732, stava per incominciare anche a Est, proprio negli anni della prima crociata e sarebbe ripreso con alterne vicende sino al 1683, quando i cristiani dell’ultima crociata, si trovarono a liberare Vienna dai turchi.

Certamente per le crociate di guerra si trattò, e non si può negare che il moto sfuggì di mano, in molte occasioni, sia per la naturale fragilità e cattiveria degli uomini, sia evidentemente perché in svariate circostanze la volontà di difendere la cristianità si mescolò, nel cuore dei nobili e dei feudatari, con la cupidigia di nuove conquiste. Ma esse non furono nulla di paragonabile ai fatti dell’Ottocento e del Novecento: non furono cioè opera di colonialismo, o di esportazione della democrazia (vedi guerre degli Usa in terre islamiche), perché i cristiani, per lo più, si limitarono «alla liberazione della Terrasanta (abitata da cristiani ed ebrei sottomessi, ndr); a nessuno passò per la mente di togliere ai musulmani l’Africa, l’Arabia o la Persia» (G. Bordonove, Le crociate e il regno di Gerusalemme, Rusconi).

Per concludere, lo studioso Rodney Stark, nel suo Gli eserciti di Dio (Lindau), dimostra altri due fatti interessanti. Il primo: le crociate non nacquero dalla avidità dei nobili europei, molti dei quali, anzi, affrontarono «persino la bancarotta pur di recarsi in Terrasanta», né furono il primo tentativo di colonialismo europeo, essendo i regni cristiani in Oriente indipendenti da qualunque Stato europeo e, lungi dall’essere sfruttati economicamente, godettero delle ricchezze che venivano dall’Europa. Il secondo: le crociate non possono essere indicate come «una delle cause dirette dell’attuale conflitto mediorientale», visto che gli islamici fino alla fine del XIX secolo non mostrarono interesse per questi fatti. Anzi, «per molti arabi le crociate non furono che attacchi sferrati contro gli odiati turchi, e pertanto di scarso interesse».
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