All'area arabo islamica non dobbiamo nulla, anzi

Re: All'area arabo islamica non dobbiamo nulla, anzi

Messaggioda Berto » mar ago 22, 2017 8:09 am

Buongiorno amici. Ora più che mai dobbiamo leggere e conoscere il Corano per capire perché l'islam militante dei terroristi islamici e dei Fratelli Musulmani non si fermerà e mira a sottomettere l'Europa.

Vi propongo il mio editoriale pubblicato oggi su Il Giornale.

https://www.facebook.com/MagdiCristiano ... 4487924808

Quanto mi fanno ribollire il sangue i buonisti, relativisti e islamofili nostrani che di fronte alle atrocità perpetrate dai terroristi islamici che sgozzano, decapitano, ardono vivi, massacrano i “nemici dell’islam”, puntualmente si affrettano a scagionare l’islam, Allah, il Corano e Maometto e contemporaneamente ci auto-colpevolizzano sostenendo che i cristiani sarebbero responsabili di crimini non meno efferati compiuti a partire dalle Crociate, così come gli ebrei (anche se non sono israeliani) avrebbero già quasi del tutto completato il genocidio dei palestinesi.
Questo vero e proprio odio nei nostri stessi confronti si sta rivelando il colpo di grazia del tracollo della civiltà profondamente in crisi di quest’Europa sempre più scristianizzata e materialistica, con la prospettiva concreta della sua sottomissione alla dittatura islamica, in un contesto dove sussistono condizioni similari a quelle che portarono all’islamizzazione delle popolazioni delle sponde meridionali ed orientali del Mediterraneo dopo essere state al 99% cristiane per sette secoli.

Dopo la morte di Maometto nel 632, gli eserciti islamici sbaragliarono rapidamente prima l’impero persiano nel 637, poi logorano l’impero bizantino con la conquista di Siria e Palestina (633-640), Egitto (639-646), Gerusalemme (638). La conquista dell'Africa del Nord avvenne dal 647 al 763. Nel 711 iniziò l’occupazione della Spagna protrattasi per ben otto secoli fino al 1492. Nel 718 gli islamici si spinsero in Francia occupando Narbona, Tolosa (721), Nimes e Carcassone (725), prima di essere fermati a Poitiers (732).
In Italia i primi attacchi islamici alla Sicilia iniziarono nel 652 e il controllo stabile sulla Sicilia è durato fino al 1061, mentre solo nel 1190 finisce la presenza islamica nell’isola. Le incursioni islamiche raggiunsero la Sardegna, Amalfi, Gaeta, Napoli e Salerno, il Monferrato, la Riviera Ligure. Nell’813 gli islamici distrussero l’odierna Civitavecchia, avanzarono verso Roma e saccheggiarono la Basilica di San Pietro e la Basilica di San Paolo per due volte (la seconda nell’864). A Bari fondarono un Emirato islamico durato 25 anni a partire dall’847.
La Storia ci dice che dalla morte di Maometto nel 632 fino a quando i cristiani cominciarono a reagire organizzando le Crociate a partire dal 1.096, ovvero 464 anni, gli islamici avevano già occupato con le guerre e una lunga scia di sangue le sponde orientale e meridionale del Mediterraneo, la Spagna, la Sicilia e avevano per due volte saccheggiato la Basilica di San Pietro a Roma.


Ebbene oggi stiamo assistendo all’espansionismo del terrorismo islamico che occupa militarmente dei territori in Siria, Iraq, Libia, Nigeria, Mali, Somalia, Yemen, Afghanistan, Pakistan, Indonesia e Filippine; alla crescente islamizzazione delle istituzioni civili in Turchia, Tunisia, Algeria e Marocco; alla presenza di terroristi islamici europei che sferrano attentati all’interno dell’Europa; alla diffusione di una rete sempre più capillare di moschee, scuole coraniche, tribunali sharaitici, enti assistenziali islamici, siti di propaganda jihadisti, centri studi e di formazione che condizionano le leggi secolari e ci impongono di non criticare l’islam, banche islamiche che supportano questa islamizzazione della nostra società.

Eppure quest’Europa è sempre più tentennante su come reagire. Se dovessimo attendere non 464 anni ma anche soltanto 40 anni per deciderci ad intervenire per salvare quel che resterà di cristianità sulle altre sponde del Mediterraneo ma soprattutto per salvarci dal terrorismo e dell’invasione islamica all’interno stesso dell’Europa, sarà decisamente troppo tardi. Non esisteremo più né come società europea né come civiltà laica e liberale dalle radici cristiane.

La nostra debolezza l’ha descritta in modo impeccabile monsignor Giuseppe Bernardini, vescovo di Smirne, quando il 13 ottobre 1999, ha raccontato che “durante un incontro ufficiale sul dialogo islamo-cristiano, un autorevole personaggio musulmano, rivolgendosi ai partecipanti cristiani, disse a un certo punto con calma e sicurezza: «Grazie alle vostre leggi democratiche vi invaderemo; grazie alle nostre leggi religiose vi domineremo». C’è da crederci, perché il «dominio» è già cominciato con i petrodollari, usati non per creare lavoro nei paesi poveri del Nord Africa e del Medio Oriente, ma per costruire moschee e centri culturali nei paesi dell’immigrazione islamica, compresa Roma, centro della cristianità. Come non vedere in tutto questo un chiaro programma di espansione e di riconquista? È un fatto che termini come «dialogo», «giustizia», «reciprocità», o concetti come «diritti dell’uomo», «democrazia», hanno per i musulmani un significato completamente diverso dal nostro. Sappiamo tutti che bisogna distinguere la minoranza fanatica e violenta dalla maggioranza tranquilla e onesta, ma questa, a un ordine dato in nome di Allah o del Corano, marcerà sempre compatta e senza esitazioni”.

Ecco perché oggi più che mai è necessario conoscere il Corano.

“O voi che credete, non sceglietevi per alleati i giudei e i nazareni, essi sono alleati gli uni degli altri. E chi li sceglie come alleati è uno di loro. In verità Allah non guida un popolo di ingiusti”. (5, 51)
“Vorrebbero che foste miscredenti come lo sono loro e allora sareste tutti uguali. Non sceglietevi amici tra loro, finché non emigrano per la causa di Allah. Ma se vi volgono le spalle, allora afferrateli e uccideteli ovunque li troviate”. (4, 89)


Sono decenni che la Chiesa promuove, legittima e difende il dialogo con i musulmani. Il risultato concreto è che i cristiani che rappresentavano il 30% della popolazione del Medio Oriente fino al 1945, oggi si sono assottigliati al 3% e continuano a subire un vero e proprio genocidio.

Dico che è arrivato il momento di svegliarci dal sonno della ragione con cui ci siamo imposti di non conoscere la verità presente nel Corano, che per i musulmani è Allah stesso. Solo riscattando il nostro dovere di conoscere la verità del Corano potremo salvaguardare la nostra civiltà.
Magdi Cristiano Allam



«I cristiani che si vergognano delle Crociate sono succubi del laicismo dominante»
di Luigi Negri


http://www.lanuovabq.it/it/articoli-i-c ... 8.facebook


Recentemente su IlSussidiario.net è apparso un articolo di don Federico Pichetto che condanna le Crociate, di cui i cristiani - dice sostanzialmente Pichetto - dovrebbero vergognarsi perché sono un tradimento del cristianesimo. Il giudizio non riguarda solo l'evento storico in sé ma più in generale la posizione che un cristiano deve avere di fronte alle vicende del mondo, anche oggi. Giudizi gravi che meritano, seppure a distanza di tempo, una replica puntuale e autorevole.

Caro don Pichetto,

ti scrivo queste righe cercando di rispondere al tuo intervento sulle Crociate.

In effetti tu parli di Crociate che non sono mai esistite: Crociate sostenute dalla nascente borghesia, che come ognun sa, alla fine dell’XI secolo - quando la prima Crociata fu bandita – non c’era nella società europea, o comunque era una minoranza con un potere limitatissimo.
E poi riprendi le Crociate come progetto di imposizione violenta del Cristianesimo a popolazioni straniere.

Non tocca a me rifare il punto su questa vicenda secolare su cui la migliore storiografia, e non solo quella cattolica, ha dato un contributo decisivo.
Per dirla con il mio grande amico Franco Cardini, le Crociate sono state un grande «pellegrinaggio armato», protagonista del quale fu, nei secoli, il popolo cristiano nel suo complesso.
Una avanguardia di santi, una massa di cristiani comuni e, nella retroguardia, qualche delinquente.

Non so quale avvenimento della Chiesa possa sfuggire a una lettura come questa.

Sta di fatto che noi – cristiani del Terzo millennio – alle Crociate dobbiamo molto.
Dobbiamo che non si sia perduta la possibilità dei grandi pellegrinaggi in Terrasanta: nei luoghi della vita storica di Gesù Cristo e della nascita della Chiesa.
Alle Crociate dobbiamo che si sia ritardata la fine della grande epopea della civiltà bizantina di almeno due secoli, e si sono soprattutto salvate dalla dominazione turca le regioni della nostra bella Italia, che si affacciano sul mare Adriatico, Tirreno e Ionio, falcidiate da quelle sistematiche incursioni di corsari e di turchi che hanno depauperato nei secoli le nostre popolazioni.

Anche la tua bella Liguria ha dovuto costruire parte dei suoi paesi e delle sue piccole città a due livelli - il livello del mare e il livello della montagna - per poter sfuggire a queste invasioni che hanno fatto morire nel buio della cosiddetta civiltà araba e islamica centinaia e migliaia di nostri fratelli cristiani, a cui era stata tolta anche la dignità umana e di cui noi facciamo così fatica a fare memoria.

Nessuna realtà cristiana esprime la perfezione della fede che è solo in Gesù Cristo, ma nessuna esperienza cristiana è invincibilmente diabolica. Passare dalla fede alle opere è compito fondamentale del cristiano di ogni tempo.

Ora, per recuperare questa bellezza della storia cristiana bisogna guardare la realtà secondo tutta l’ampiezza cattolica. La mia generazione e quella di molti amici dopo di me - che per l’intelligenza e l’apertura di monsignor Luigi Giussani hanno potuto dialogare personalmente per esempio con Regine Pernoud, con Leo Moulin, con Henri de Lubac, con Hans Urs von Balthasar, con Joseph Ratzinger, con Jean Guitton e molti altri - hanno un sano orgoglio della nostra tradizione cattolica.

Per questo sentono in modo assolutamente negativo desumere acriticamente l’immagine della Chiesa dalla mentalità laicista che cerca di dominare la nostra coscienza e il nostro cuore.

Certo, l’essenza di questa tradizione cattolica - e che, quindi, comprende anche le Crociate - è il desiderio di vivere il rapporto con Cristo e di annunziarlo nella concretezza del suo popolo che è la Chiesa, nelle grandi dimensioni che rendono il cristiano autenticamente uomo: la dimensione della cultura, della carità e della missione. È questo il Cristo che sta all’origine di tante iniziative del passato e del presente. Nessuna iniziativa lo esprime adeguatamente, ma l’assenza di qualsiasi capacità di presenza nel mondo e di giudizio sulla vita degli uomini e sui problemi degli uomini fa dubitare che esista una fede autenticamente cattolica.

La fede in Cristo può rischiare di ridursi a essere spunto per mozioni soggettive e spiritualistiche da cui metteva in guardia il santo padre Benedetto XVI all’inizio della sua splendida enciclica Deus Caritas Est: un Cristo che rischia di stare acquattato nel silenzio della coscienza personale, che non diventa fattore di vita e di cultura, che non tende a creare una civiltà della verità e dell’amore. Ricordo ancora con commozione quando facevo la terza liceo una lezione di Giussani in cui disse letteralmente: «La comunità cristiana tende a generare inesorabilmente una civiltà».

Nella mia esperienza pastorale e culturale ho sempre sentito come punto di riferimento sostanziale la grande certezza di Giovanni di Salisbury che diceva: «Noi siamo come nani sulle spalle di giganti». È perché siamo sulle spalle di giganti che vediamo bene il presente e intuiamo le linee del futuro. È questo che rende così appassionata la nostra responsabilità, senza nessuna dipendenza dagli esiti, con la certezza di portare il nostro contributo, piccolo o grande che sia, alla grande impresa del farsi del Regno di Dio nel mondo, che come dice il Concilio Vaticano II coincide con la Chiesa e la sua missione.

Un cordiale saluto

Monsignor Luigi Negri
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Re: All'area arabo islamica non dobbiamo nulla, anzi

Messaggioda Berto » mar ago 22, 2017 8:13 am

Chi è responsabile delle atrocità nel mondo musulmano?
di Uzay Bulut
2 luglio 2015
Pezzo in lingua originale inglese: Who is Responsible for the Atrocities in the Muslim World?
Traduzioni di Angelita La Spada

https://it.gatestoneinstitute.org/6094/ ... -musulmano

Se il colonialismo fosse il problema principale, anche i musulmani sono ancora colonizzatori – e non di quelli particolarmente "umani".

Il jihad islamico e la violenza islamica; l'approvazione della schiavitù sessuale; la disumanizzazione delle donne; l'odio e la persecuzione dei non musulmani sono tutte pratiche comuni nel mondo islamico sin dalla nascita della religione. Negare tutto e dare la colpa agli "infedeli".

Ma è l'America che dice a questi uomini di trattare le loro mogli o sorelle in modo disumano? Se si vuole criticare l'Occidente per ciò che sta accadendo nel mondo musulmano, dovremmo biasimarlo per non aver fatto molto per fermare queste atrocità.

Cercando di mascherare i danni che l'ideologia islamica ha fatto al mondo musulmano, dando però la colpa all'Occidente delle atrocità islamiche, non aiuteremo mai i musulmani a prendere atto dei loro fallimenti e a trovare gradualmente il modo per risolverli.

Ogni volta che si parla di Isis, Boko Haram, Iran o di qualunque gruppo terroristico del mondo musulmano, molte persone tendono a considerare l'Occidente responsabile delle devastazioni e delle uccisioni che essi commettono. Nulla si discosta di più dalla verità. Accusare l'Occidente dei fallimenti del mondo musulmano è settarismo e un tentativo di addossare una colpa e impedirci di capire la reale causa del problema.

Quando questi gruppi terroristici islamici rapiscono le donne per venderle come schiave del sesso o "mogli"; perpetrano crocifissioni di massa e conversioni forzate; decapitano persone innocenti; cercano di estinguere le minoranze religiose e demoliscono siti archeologici insostituibili, pensare che la colpa sia dell'Occidente è ridicolo, offensivo e sbagliato.

I paesi occidentali, come molti altri stati, cercano di proteggere la sicurezza dei loro cittadini. Pertanto, ciò di cui hanno fondamentalmente bisogno è avere come partner paesi pacifici con cui avere relazioni economiche, commerciali e diplomatiche. Non hanno bisogno di gruppi terroristici che distruggono la vita, la pace e la stabilità in vaste zone del mondo musulmano.

I paesi occidentali hanno anche valori democratici e umanitari, che i paesi islamici non hanno. Le esperienze religiose e storiche del mondo occidentale e del mondo islamico sono così enormemente diverse che essi hanno finito per avere culture e valori del tutto differenti.

L'Occidente, che si fonda sui valori ebraici, cristiani e laici, ha creato una cultura molto più umanitaria, libera e democratica. Purtroppo, gran parte del mondo islamico, conformemente alla legge islamica della sharia, ha creato una cultura misogina, violenta e totalitaria.

Questo non significa che l'Occidente sia perfetto e senza peccato. Esso commette ancora alcuni crimini spaventosi: l'Europa è colpevole di aver spianato la strada al massacro di sei milioni di ebrei nell'Olocausto, e di non proteggere ancora le comunità ebraiche. Ancora oggi, molti paesi europei distorcono la logica di riconoscere Hamas, che afferma apertamente di voler perpetrare un genocidio contro il popolo ebraico.

L'Occidente, però, accetta la responsabilità dei fallimenti nei propri territori: ad esempio, non essendo in grado di proteggere le donne europee dagli stupratori musulmani. Questi uomini raggiungono l'Europa per beneficiare delle opportunità e dei privilegi che essa offre, ma invece di mostrare gratitudine al popolo europeo e ai governi, violentano le donne e cercano di imporre la legge islamica della sharia.

Se si vuole criticare l'Occidente per ciò che sta accadendo nel mondo musulmano, dovremmo biasimarlo per non aver fatto molto per fermare queste atrocità.

L'Occidente e in particolar modo gli Stati Uniti dovrebbero fare tutto il possibile per fermarli – soprattutto i genocidi commessi contro ebrei, cristiani e altri non musulmani del mondo islamico.

Dovremmo anche stigmatizzare l'Occidente – e altri, come le Nazioni Unite e la loro visione distorta della guerra di Gaza – per sostenere coloro che orgogliosamente compiono attacchi terroristici contro i civili israeliani e dovremmo biasimare l'Occidente per non schierarsi con lo Stato di Israele alla luce dell'odio genocida verso gli ebrei.

Dovremmo condannare l'Occidente per aver lasciato crescere l'antisemitismo in Europa, rendendo di giorno in giorno la vita insopportabile agli ebrei.

Dovremmo biasimare l'Occidente per accettare da oltre 40 anni senza protestare l'occupazione turca di Cipro Nord.

Dovremmo criticare l'Occidente per aver lasciato il destino dei curdi, un popolo perseguitato e apolide, alla mercé della Turchia, dell'Iran, dell'Iraq e della Siria – e ora dello Stato islamico (Isis). Il 25 giugno, l'Isis ha sferrato l'ennesimo attacco mortale, uccidendo e ferendo decine e decine di persone nella città di Kobane, nel Kurdistan siriano.

E dovremmo stigmatizzare soprattutto l'attuale governo americano per non essere disposto a prendere seri provvedimenti per fermare lo Stato islamico, Boko Haram e altri gruppi estremisti islamici.[1]

L'elenco potrebbe continuare. Inoltre, non sarebbe realistico affermare che tutti questi gruppi o regimi fraintendono gli insegnamenti della loro religione esattamente nello stesso modo.

E sarebbe anche irrealistico asserire che sia stato l'Occidente a creare in tutto il mondo musulmano queste centinaia di gruppi terroristici islamici.

La domanda, allora, è: "Chi o cosa crea tutti questi gruppi e regimi terroristici?"

In quasi ogni parte del mondo musulmano, le discriminazioni sistematiche e perfino gli omicidi sono dilaganti – soprattutto di donne e non musulmani. Tuttavia, le organizzazioni estremiste islamiche non sono le uniche colpevoli. Molti civili musulmani che non hanno legami con alcun gruppo islamista si macchiano quotidianamente di questi reati. Il jihad (la guerra al servizio dell'Islam) e la sottomissione dei non musulmani sono profondamente radicati nei testi sacri e nella storia dell'Islam.

Fin dal VII secolo, gli eserciti musulmani hanno invaso e conquistato le terre abitate da ebrei, cristiani, induisti, buddisti e mazdei: da oltre 1.400 anni essi continuano il loro jihad o raid islamici, contro le altre religioni.

Molte persone sembrano essere giustamente sconvolte dalle barbarie dell'Isis, ma il jihad islamico non è solo perpetrato dallo Stato islamico. Il jihad violento è una tradizione centenaria dell'ideologia islamica. L'Isis non è altro che un'armata jihadista dell'Islam. E ce ne sono molte.

Tutto questo è un problema islamico. L'Occidente libero non ha assolutamente nulla a che fare con la creazione e la preservazione di questa cultura non libera.

L'Occidente, al contrario, è stato vittima di campagne militari islamiche e di ambizioni imperialiste: le popolazioni cristiane d'Europa sono state esposte per secoli alle invasioni ottomane e alla sottomissione. La caduta dell'Impero bizantino ha segnato il culmine del jihad islamico nelle terre cristiane. Molti luoghi in Europa – come ad esempio, Grecia, Bulgaria, Albania, Bosnia, Croazia, Ungheria, Serbia e Cipro – sono stati invasi e occupati dagli eserciti ottomani. Altri obiettivi, tra cui Venezia, l'Austria e la Polonia, hanno dovuto combattere feroci guerre difensive per proteggere i loro territori.

I problemi storici e attuali del mondo musulmano non sono dunque problemi "importati" da una fonte esterna: essi sono questioni politiche e culturali interne, che i regimi e i popoli musulmani hanno reiterato per secoli.

Alcune delle cose che le donne non possono fare in Arabia Saudita sono state elencate dal magazine The Week: alle donne saudite non è consentito "andare da nessuna parte senza un accompagnatore maschile, aprire un conto bancario senza il permesso del marito, guidare un'auto, recarsi alle urne, farsi una nuotata, competere liberamente nello sport, provare gli abiti quando si fa shopping, entrare in un cimitero, leggere una rivista di moda senza censure, acquistare una Barbie e così via".

Naturalmente, non c'è nulla di specifico nei testi sacri islamici che riguarda le auto, le riviste di moda o le bambole Barbie. Ma ce n'è abbastanza per spiegarci perché i motivi di questi abusi siano diffusi in tutto il mondo islamico e perché i religiosi, gli imam e i mufti li approvino.

Il problema centrale consiste nel vedere come le linee che la teologia islamica traccia preparino il terreno in cui questo tipo di discriminazione prospera in modo sistematico, perché è decantata e come viene propugnata.

L'Arabia Saudita non è l'unico paese musulmano in cui le donne vengono disumanizzate. In quasi tutto il mondo musulmano – compresa la Turchia, che è considerata come uno dei paesi musulmani più "liberali" – le donne sono continuamente maltrattate o uccise dai loro mariti, fidanzati, padri, fratelli o dagli altri uomini.[2]

È l'America che dice a questi uomini di trattare le loro mogli o sorelle in modo disumano?

È l'Occidente che davvero impedisce loro di rispettare i diritti umani o di risolvere le loro questioni politiche attraverso vie diplomatiche e pacifiche? I musulmani sono troppo stupidi per prendere decisioni sagge e agire responsabilmente? Perché gli americani o gli europei dovrebbero avere desideri malvagi per il resto del mondo?

Demonizzare le nazioni occidentali – nonostante il loro progresso culturale, scientifico e razionale – è semplicemente razzismo puro.

"La convinzione che l'Occidente sia sempre colpevole è tra le molte cattive idee per il XXI secolo" ha scritto il pastore anglicano australiano, Mark Durie. "Questa idea irrazionale e inutile viene insegnata oggi in molte scuole ed è ormai parte integrante della visione del mondo di molti. Si tratta essenzialmente di una strategia che mira a zittire e sabotare il pensiero critico".

Un altro termine che impedisce di comprendere le cause profonde dei conflitti nel mondo musulmano è il "relativismo morale" – un termine politicamente corretto che in realtà significa vigliaccheria morale.

Difendere "il relativismo morale" e affermare che "tutte le culture sono uguali" equivale a dire che una cultura che incoraggia i matrimoni di minori, a picchiare le donne e a vendere le ragazzine al mercato delle schiave non è diversa da una cultura che rispetta le donne, riconosce i loro diritti e che rinuncia alla violenza gratuita.

Un altro capro espiatorio dei fallimenti nel mondo musulmano è lo storico colonialismo britannico.

Ma se il colonialismo fosse il problema principale anche i musulmani sono stati colonizzatori e lo sono ancora oggi – e non di quelli particolarmente "umani". I colonizzatori musulmani non sembrano nemmeno aver contribuito molto alla cultura dei posti che hanno invaso e colonizzato. In realtà, essi hanno effettivamente ritardato il progresso delle aree colonizzate. La stampa a caratteri mobili, ad esempio, è arrivata nei territori ottomani quasi 200 anni dopo rispetto all'Europa.

"I libri (...) minano il potere di coloro che controllano il sapere orale, poiché rendono la conoscenza immediatamente disponibile a chiunque sia in grado di padroneggiare l'alfabetismo", hanno scritto Daron Acemoglu e James Robinson. Questo ha minacciato di compromettere l'esistente status quo, in cui la conoscenza è controllata dalle élites. I sultani ottomani e l'establishment religioso temevano la distruzione creativa che ne sarebbe conseguita. La loro soluzione è stata quella di vietare la stampa".[3]

"Gli imperi europei – britannico, francese e italiano – hanno avuto una breve presenza nel Nord Africa e in Medio Oriente rispetto all'Impero ottomano, che governò quella regione per più di 500 anni", ha detto lo storico Niall Ferguson.

"La cultura esistente oggi nel grande Medio Oriente e in Nord Africa somiglia ben poco alla cultura che gli europei cercarono di attuare lì a partire dal XIX secolo fino a metà del XX secolo.

"Non si può dire che sia stata colpa dell'imperialismo e lasciare fuori l'impero più longevo del Medio Oriente, ossia l'Impero ottomano, un impero musulmano le cui origini sono molto più antiche rispetto a qualsiasi impero europeo menzionato in questo contesto".

I paesi musulmani continuano a occupare e colonizzare vari territori – tra cui il Kurdistan, il Belucistan e la parte settentrionale di Cipro, uno Stato membro dell'Unione Europea.

"Una delle conseguenze più tragiche dell'invasione turca del 1974", secondo il Ministero degli Esteri della Repubblica di Cipro, " e della successiva occupazione illegale del 36,2 per cento del territorio della Repubblica di Cipro, è la distruzione violenta e sistematica del patrimonio culturale e religioso delle aree occupate.

"Centinaia di monumenti storici e religiosi di varie regioni delle zone occupate sono stati distrutti, saccheggiati e danneggiati. Sono stati condotti 'scavi' illegali, i tesori culturali sono stati trafugati dai musei e le collezioni private sono state vendute all'estero".

I gruppi musulmani e i regimi continuano a perseguitare le popolazioni autoctone come ad esempio assiri, caldei, mandei, shabak, copti, yazidi e i bedoon.

"Un segmento importante della popolazione bedoon vive sotto costante minaccia di deportazione", secondo l'analista Ben Cohen. "Circa 120.000 bedoon vivono senza nazionalità e privi dei diritti che derivano dalla cittadinanza".

"I membri della comunità non possono ottenere certificati di matrimoni, carte di identità o patenti di guida. È vietato loro l'accesso ai servizi sanitari e all'istruzione pubblica. Il loro status di seconda classe gli preclude l'accesso ai tribunali per dare seguito alle loro accuse di discriminazione ben documentate. E in quelle rare occasioni in cui trovano la volontà di protestare pubblicamente – come accaduto nel 2011, quando i manifestanti mostravano dei cartelli con lo slogan 'Ho un sogno' – le forze di sicurezza reagiscono con straordinaria brutalità, usando sconsideratamente armi come cannoni ad acqua, granate a concussione e gas lacrimogeni".

Non è l'Occidente né Israele a commettere questi crimini contro la comunità bedoon: è il Kuwait, un paesi islamico ricco, che tratta le persone indifese come se fossero schiave.

In Qatar, un altro Stato islamico ricco, gli immigrati nepalesi che costruiscono uno stadio di calcio "muoiono al ritmo di uno ogni due giorni (...) Questa cifra non include le vittime tra i lavoratori indiani, dello Sri Lanka e del Bangladesh. (...) Il consiglio nepalese che si occupa della promozione del lavoro all'estero ha detto che 157 dei suoi lavoratori in Qatar sono morti tra gennaio e metà novembre dello scorso anno. Nel 2013, la cifra dei morti in quel periodo ammontava a 168".

La famiglia di un lavoratore immigrato nepalese, che è morto in Qatar, si prepara a seppellirlo. I lavoratori nepalesi in Qatar sono costretti a lavorare in condizioni pericolose, e muoiono al ritmo di uno ogni due giorni. (Fonte dell'immagine: Guardian video screenshot)

"In Libia, la naturalizzazione è prevista solo a un uomo di origine araba", ha reso noto l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). "E molti membri della comunità akhdam in Yemen, una piccola minoranza etnica che potrebbe discendere dagli schiavi africani, non possono ottenere la cittadinanza".

Questo non è forse apartheid?

In Kuwait, solo i musulmani possono chiedere la naturalizzazione; mentre in Libia, la legge sulla cittadinanza prevede la revoca della nazionalità se si abiura l'Islam per convertirsi a un'altra religione".

Non è forse apartheid? Le leggi sull'apartheid sembrano regnare in molti luoghi del mondo musulmano.

Cercando di mascherare i danni che l'ideologia islamica ha fatto al mondo musulmano, dando però la colpa all'Occidente delle atrocità islamiche, non aiuteremo mai i musulmani a prendere atto dei loro fallimenti e a trovare gradualmente il modo per risolverli.

"I musulmani di tutto il mondo hanno vinto un minor numero di Premi Nobel rispetto al Trinity College di Cambridge. Essi hanno fatto grandi cose nel Medioevo", ha scritto su Twitter il biologo evoluzionista Richard Dawkins, dopo che altri utenti del social media lo hanno fortemente criticato.

Sembra che avere riserve di petrolio, pro capita, superi di gran lunga qualunque cosa i paesi occidentali siano in grado di raggiungere a livello scientifico.

Che cosa trattiene i musulmani, quando hanno vantaggi impareggiabili derivanti dai tesori sotterranei? Perché nel mondo musulmano non avviene una rivoluzione scientifica? Perché gran parte della storia islamica è contrassegnata dal jihad aggressivo?

Il jihad islamico e la violenza islamica; l'approvazione della schiavitù sessuale; la disumanizzazione delle donne; l'odio e la persecuzione dei non musulmani sono tutte pratiche comuni nel mondo islamico sin dalla nascita della religione.

Molti insegnamenti contenuti nei testi sacri islamici, come le biografie del fondatore della religione, fissano i parametri in cui questi abusi non solo vengono commessi ma sono anche ampiamente tutelati. Questi sono gli insegnamenti che sono diventati la cultura del mondo musulmano.

Purtroppo, la maggior parte dei musulmani ha sprecato molto tempo, energia e risorse a uccidere e distruggere, ma – ad eccezione degli splendori artistici più sfolgoranti di qualche civiltà – non si è dedicata al progresso culturale e scientifico.

Di recente, Hamad bin Jassim bin Jaber al-Thani, l'ex primo ministro del Qatar, ha detto che le accuse mosse all'Emirato, reo di aver pagato tangenti per aggiudicarsi i diritti di ospitare la Coppa del Mondo 2022, erano "ingiuste" e dettate dall'islamofobia dell'Occidente e dal razzismo verso gli arabi.

Gli eventi recenti indicano che egli era, nella migliore delle ipotesi, "male informato".

Bisogna negare ogni cosa e incolpare gli "infedeli" per i vostri limiti. Nulla è più importante del vostro onore e niente è peggiore della vostra vergogna.

Se i musulmani volessero creare un futuro migliore, nulla li fermerebbe, se non loro stessi. Dovremmo imparare ad analizzare criticamente il nostro presente e il nostro passato.

Gli attivisti per i diritti umani in Occidente, mentono ai musulmani riguardo alla loro cultura, e accusano e minacciano l'America, l'Europa o il "sionismo" per i problemi dei musulmani; questo non può mai portare a nessun sviluppo positivo nel mondo musulmano. La cultura islamica e l'ideologia religiosa sono responsabili di questi problemi.

Se mai ci saranno un'illuminazione, una riforma o una rinascita del mondo musulmano, solo un approfondito esame e un seria analisi possono essere il punto di partenza.

Uzay Bulut, musulmana di nascita, è una giornalista turca che vive ad Ankara.

[1] Anche i Fratelli musulmani, la Repubblica islamica dell'Iran, al-Qaeda, Al-Badr, al-Gama'a al-Islamiyya, la Jihad islamica, il Fronte al-Nusra, Hizb-ut-Tahrir, Al Ghurabaa, Al-Itihaad al-Islamiya, Al-Mourabitoun, le Brigate Abdullah Azzam, Jaish al-Muhajireen wal-Ansar, Jamaat Ul-Furquan, Jamaat-ul-Ahrar, Jamaat-ul-Mujahideen Bangladesh, Jamiat al-Islah al-Idzhtimai, il Fronte islamico dei combattenti del Grande Oriente, Al-Shabaab, Abu Sayyaf, Tehreek-e-Nafaz-e-Shariat-e-Mohammadi, Majlis al-Shura delle Forze unite dei Mujaeddin del Caucaso, solo per citarne alcuni.

[2] Vedi "Gender Equality Gap Greatest in Islamic Countries, Survey Shows", di Patrick Goodenough, October 29, 2014; "The Treatment of Women In Islam", di Rachel Molschky, October 7, 2013; "Women Suffer at the Hands of Radical Islam", di Raymond Ibrahim, January 9, 2014; "As Muslim women suffer, feminists avert their gaze", di Robert Fulford, National Post; Ayse Onal, un autorevole giornalista turco dice nel suo libro, Honour Killing: Stories of Men Who Killed, che in Turchia i delitti d'onore sono in media uno al giorno – tra il 200 e il 2005 ne sono stati denunciati 1.806.

[3] Daron, Acemoglu & Robinson, James (2012), Why Nations Fail: The Origins of Power, Prosperity, and Poverty, Crown Publishing Group.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: All'area arabo islamica non dobbiamo nulla, anzi

Messaggioda Berto » mar ago 22, 2017 8:13 am

???

Isis: le responsabilità degli Stati Uniti nel caos mediorientale
Fabio Marcelli
Giurista internazionale

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/08 ... le/1099060

La nuova chiamata alle armi contro l’Isis segna il culmine di una spasmodica ricerca del nemico che ha contrassegnato gli sforzi dell’Occidente a partire dall’attentato alle Torri Gemelle e anche prima.

L’Isis costituisce indubbiamente di una minaccia per la pace, la sicurezza internazionale e i diritti umani. Ma una risposta efficace deve prendere in considerazione le sue cause e identificare i sostegni di cui esso ha goduto e continua a godere. Fra le prime, la distruzione dello Stato iracheno e la susseguente emarginazione dei sunniti da parte del governo settario di Al Maliki. Quanto ai secondi, non sono convinto che ci sia un lucido disegno dietro il sostegno al peggiore fondamentalismo islamico che si rende oggi responsabile di violazioni di massa dei diritti umani in tutta l’area medio-orientale. Ma si tratta di un punto che andrebbe approfondito, anche con una commissione d’inchiesta, sia a livello statunitense che internazionale.

Gli errori e le contorsioni di una potenza imperialista, gli Stati Uniti, sempre più allo sbando e vittima delle sue visioni scarsamente lungimiranti e delle sue insuperabili contraddizioni, costano, infatti, parecchio al pianeta e all’umanità, specie a quelle sue particolarmente disgraziate componenti che stanno vivendo, da anni a questa parte, i sanguinosi contraccolpi delle scelte sciagurate degli incauti strateghi di Washington. Ironia della sorte, oggi gli Stati Uniti bombardano l’Isis, che fino a pochi anni fa hanno sostenuto, quantomeno indirettamente per tramite di Arabia Saudita, Qatar, Turchia, ecc. Oggi si prende in considerazione addirittura, per stroncare il pericolo indubbiamente costituito dallo Stato islamico, l’ipotesi di svolgere raid in Siria, in coordinamento con il regime di Assad che fino a poco tempo fa era il tiranno da cacciare ad ogni costo.

Per non parlare della Libia, dove il sostegno ai fondamentalisti islamici, già pagato con la vita dal console statunitense a Bengasi, ha prodotto una situazione sanguinosa e caotica, con pesantissimi contraccolpi sul nostro Paese, in termini di arrivo in massa di rifugiati, nuovi pericoli terroristici e perdite economiche. Ci troviamo insomma di fronte a una vistosa inadeguatezza strategica della superpotenza statunitense, come si può vedere anche su altri scacchieri internazionali dalla Palestina all’Ucraina.

Varie sono a mio avviso le conseguenze che ne scaturiscono. In primo luogo, la sicurezza del pianeta e la lotta al terrorismo non possono continuare ad essere appannaggio della decadente superpotenza statunitense che ha già avuto modo ampiamente più volte di dimostrare la propria inadeguatezza, frutto del resto di un evidente e insanabile conflitto di interessi.

Occorre oggi più che mai un governo multipolare del pianeta che attribuisca alle potenze emergenti a partire da Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica (i cosiddetti Brics), e non solo a loro, un ruolo molto superiore a quello di cui godono attualmente per quanto riguarda la soluzione di tutte le urgenti questioni che incombono a livello globale, specie in materia di sicurezza internazionale, pace, lotta al terrorismo. Si può discutere se quest’ultima etichetta si attagli o no all’Isis. Certamente si tratta di formazione politico-militare ispirata al peggiore fondamentalismo che sta compiendo massacri ed altre violazioni di massa dei diritti umani, di cui sono complici coloro che l’hanno sostenuto e continuano a sostenerlo.

Per sconfiggerne la resistibile ascesa si mettano in campo iniziative volte a restituire ai popoli che sono oggi vittima dell’Isis, come lo furono in passato di altri, sovranità, autodeterminazione e diritti, a cominciare da quello fondamentale alla vita e alla sicurezza. Si imbocchino cioè strade completamente opposte a quelle percorse finora dalla suerpotenza dominante, con grande giubilo del complesso militare-industriale e delle bande armate terroriste e fondamentaliste dei tagliagola e più scientifici massacratori di ogni appartenenza, rivestiti o meno di uniformi statali, tutti uniti nel segno della morte, della violenza e dell’oppressione ai danni dei deboli.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: All'area arabo islamica non dobbiamo nulla, anzi

Messaggioda Berto » mar ago 22, 2017 8:18 am

???

Perché ci odiano
Stagioni: 2003
Paolo Barnard

http://www.report.rai.it/dl/Report/punt ... 594a3.html

IN STUDIO MILENA GABANELLI
Queste immagini che risalgono a due mesi fa, mostrano un Islam militante e minaccioso, capace di atti di indicibile violenza verso il cuore della nostra civiltà moderna, al punto che ci sentiamo in diritto di colpire al cuore della loro. Nel mondo occidentale oggi, mentre si fa la conta delle bombe, c'è la convinzione sempre più forte che l'Islam ci odi e si parla di scontro fra civiltà. E allora abbiamo cercato di capire quanto profondo è il risentimento verso le nostre culture e se è possibile stabilire una colpa in questo stato di cose. Di responsabilità, vedremo, ce n'è per tutti, di odio contro di noi, forse meno di quel che pensiamo. Ma poi c'è lui, Osama Bin Laden, e qui tutto cambia.

IMMAGINI REPERTORIO ATTENTATO DELL'11 SETTEMBRE ALLE TORRI GEMELLE DI NEW YORK

IN STUDIO MILENA GABANELLI
Chi è stato a combinare questo disastro lo sappiamo tutti. Ma cosa passa per la testa dell'uomo più pericoloso del mondo! Ce lo spiega attraverso una testimonianza unica di cui anticipiamo un brano, chi è stato dentro l'odio di Al Qaida e della Jihad Internazionale per 14 anni.

Brano tratto dall'intervista al testimone che non vuole essere filmato

"Conosco tutti i gruppi terroristici arabi e posso dirle che non hanno un singolo leader capace di capire il mondo moderno, o di fare un'analisi politica. Faccio un esempio: Osama Bin Laden ha colpito i civili americani perché non capisce come funzioni una democrazia. Osama mi disse che nelle democrazie occidentali sono i cittadini a comandare e dunque sono i cittadini americani ad aver deciso di aiutare Israele e di colpire l'Islam, e di conseguenza lui li colpisce".

IN STUDIO MILENA GABANELLI
Un uomo che odia la democrazia senza nemmeno sapere cosa sia, ma su questa testimonianza ritorneremo nel corso della puntata che chiarirà particolari importanti sulle minacce di Al Qaida, ma per adesso andiamo con ordine.

IMMAGINI REPERTORIO DISCORSO GEORGE W. BUSH DEL 20 SETTEMBRE 2001 ALLE CAMERE RIUNITE AL CAMPIDOGLIO:

"Odiano quello che vedono in questo Parlamento, un Governo nato democraticamente mentre i loro leader sono autocratici, loro odiano le nostre libertà, le nostra libertà religiosa."

IN STUDIO MILENA GABANELLI
Bush appena dopo l'11 settembre si chiede "perché ci odiano?", su quella domanda tutto l mondo occidentale si è interrogato per capire le ragioni del risentimento arabo verso l'Occidente. Un risentimento che Al Qaida strumentalizza a suo favore ma che ha origini lontane. Infatti quasi mezzo secolo prima un altro presidente americano, Eisenhower aveva capito qual era il nodo della questione. Come dimostra questo documenti riservato del 1958 che Paolo Barnard ha trovato negli archivi della sicurezza nazionale di Washington. Dice Eisenhower:

"Il problema è che c'è una campagna di odio nei nostri confronti, e non da parte dei governi arabi, ma da parte della gente comune."

IN STUDIO MILENA GABANELLI
Nello stesso documento si legge:

"All'opinione pubblica mondiale non deve apparire che le nazioni mediorientali sono solo delle pedine nella gara di potere per accaparrarsi le loro risorse."

IN STUDIO MILENA GABANELLI
E ancora. Recita un memorandum del Consiglio per la Sicurezza Nazionale americano dello stesso1958:

"La maggioranza degli arabi vede gli Stati Uniti come contrari alla realizzazione delle loro mire nazionalistiche. Credono che l'America stia cercando di proteggere i propri interessi petroliferi in Medio Oriente sostenendo lo status quo e opponendosi al progresso politico ed economico dell'area."

IN STUDIO MILENA GABANELLI
Il documento continua ammettendo che nei fatti gli Stati Uniti impedivano agli arabi la possibilità di diventare politicamente autonomi e quindi di gestire i loro pozzi. Siamo nel 1958 e il risentimento arabo contro l'America è già in corso. Ma per capire meglio bisogna tornare ancora più indietro. In questo viaggio, che parte dal 1917 e si chiude il giorno che precede la guerra all'Iraq, Paolo Barnard ha ricostruito le ragioni storiche che hanno portato due mondi in conflitto fra loro.

AUTORE
Medio Oriente: dalla Palestina a Israele, passando per Giordania, Iran, Iraq, Arabia Saudita, Egitto. Qui l'occidente ha infilato una serie di interferenze politiche, partizioni di popoli, interventi militari.

D - Il nome Balfour le dice qualcosa?

PALESTINESE DI TULKARAM, CISGIORDANIA
Certo, Balfour era il colonialista inglese che dopo la prima guerra mondiale consegnò la mia terra, la Palestina, ai sionisti colonizzatori. Tutti sappiamo chi è Balfour. Anche i bambini qui sanno chi è e che cosa ha fatto Arthur Balfour.

AUTORE
Arthur Balfour era Ministro degli Esteri della Gran Bretagna quando divenne potenza coloniale in Palestina. Nel 1917 Balfour pubblicò la famosa dichiarazione che prende il suo nome, con cui l'Inghilterra riconosceva ai sionisti, e cioè agli ebrei immigrati dall'Europa, il diritto di formare uno Stato in Palestina, rimangiandosi clamorosamente la promessa di autodeterminazione fatta ai palestinesi. Alcuni studiosi, come l'ebreo israeliano Ilan Pappé, vedono proprio questo atto come la scintilla che ha acceso il grande risentimento arabo.

ILAN PAPPÉ - Università Haifa Israele
Ciò fa parte della memoria collettiva dei palestinesi e degli arabi ancora oggi. Se gli inglesi attraverso la dichiarazione di Balfour non avessero dato sostegno all'idea di una nazione ebraica in Palestina, oggi la tragedia palestinese non sarebbe fra noi.

AUTORE
Quella tragedia è stata il primo lamento di ogni arabo che ho incontrato. Ma usciamo dal coro. Akiva Orr è l'uomo ideale per questo: ebreo, vittima dell'Olocausto, cittadino d'Israele. Ha l'aria indurita del veterano, e in effetti lo è. Fu soldato israeliano nella guerra del 1948, fondatore dello Stato d'Israele, testimone in prima persona degli eventi alla base della grande rabbia araba.

AKIVA ORR - ex partigiano israeliano
Nella guerra del 1948 la maggior parte di noi combatteva per ottenere una nazione ebraica fianco a fianco a quella palestinese. Eravamo convinti che sarebbe stato così. Neppure ci immaginavamo che i nostri leader gli avrebbero sottratto quasi tutta la terra. A quel tempo non sapevamo che Ben Gurion e il Re Abdallah della Transgiordania si erano segretamente accordati per spartirsi la parte che l'Onu attribuiva ai Palestinesi.

AUTORE
Akiva Orr è uno di quelli che c'erano e ha conservato un archivio impressionante, tanto quanto la sua memoria.

AKIVA ORR - ex partigiano israeliano
Siamo a un km a nord di Tel Aviv. Mi ricordo che 60 anni fa prima della nascita dello Stato di Israele qui c'era un piccolo villaggio di contadini palestinesi, non più di 200 anime. Fuggirono tutti dalla guerra del1948, e qui gli israeliani costruirono l'università. I palestinesi non ricevettero una lira per questa terra, e così è stato per il 90% delle terre che gli abbiamo sottratto.

AUTORE
Queste ingiustizie crearono ostilità anche contro l'occidente, visto come il manovratore alle spalle di Israele. Profetico è il dispaccio top secret che segue, a firma dell'ambasciatore americano a Baghdad. E' il 1952:

"Ogni iracheno che incontro solleva lo stesso problema, la Palestina. Mi dicono che non hanno nulla contro gli ebrei, con cui hanno convissuto per secoli, ma i sionisti sono crudeli e aggressivi. La creazione di uno stato d'Israele su terre che furono arabe per secoli è una ferita eterna anche alla spiritualità musulmana, che non scomparirà col tempo, né verrà attenuata dai soldi americani, visto che proprio l'America ha reso questa ferita possibile col suo intervento."

AUTORE
Ma non c'è solo la Palestina nel risentimento storico degli arabi. Dopo la seconda guerra mondiale Inghilterra Francia e America videro fin da subito che i loro interessi in Medio Oriente erano minacciati dal nazionalismo laico arabo. E si diedero da fare.

TARIK ALI' - Storico, Londra
Perché il Medio Oriente è così importante? Per il petrolio, è ovvio, e quando una nazione ha il petrolio l'ultima cosa che l'occidente vuole vedere in quella nazione è la democrazia, perché c'è il pericolo che i popoli decidano democraticamente di usare il petrolio per il proprio sviluppo. Così fu in Iran nel 1953, dove la CIA e gli inglesi rovesciarono Mohammed Mossadegh che era un democratico, e con lui schiacciarono ogni forza laica.

AUTORE
Nel 1953 il colpo di stato anglo americano contro Mossadegh, il leader iraniano democraticamente eletto, spianò la strada alla dittatura dello Shah di Persia, rovesciata nel 1979 dalla sanguinosa rivoluzione islamica Khomeinista. Una tragedia dopo l'altra che devastò le aspirazioni dei moderati di tutto il Medio Oriente. Dare un'occhiata ai memoriali della CIA che siamo riusciti ad ottenere non lascia indifferenti :

"L'operazione deve, se possibile, apparire legale o quasi legale piuttosto che un colpo di stato diretto. I nostri agenti devono iniziare subito un attacco al governo di Mosadegh attraverso una propaganda sporca."

ILAN PAPPÉ - Università Haifa Israele
La stessa strategia fu applicata dall'occidente in tutto mondo musulmano, dall'Iraq all'Algeria, fino all'Arabia Saudita e fu usato Israele come braccio armato, come nel 1956 e nel 1967, quando Israele con l'appoggio di Francia e Inghilterra e più tardi degli Stati Uniti distrusse l'egiziano Nasser, che stava sostenendo i nazionalisti laici in Algeria e in Iraq. I partiti arabi moderati furono distrutti e nel vuoto prosperò l'estremismo religioso.
Gli israeliani negli anni '70, imitando le scellerate strategie anti nazionaliste di Francia e Inghilterra, sostennero Hamas nella speranza che indebolisse dall'interno il partito palestinese laico Fatah. Naturalmente l'hanno poi pagata assai cara.

IMMAGINI REPERTORIO ATTENTATO A LUXOR

AUTORE
Un gruppo di fuoco della Jamaat Islamia egiziana fu responsabile delle atrocità di Luxor nel 1997. Montasser Al Zayat ne era stato un membro attivo, quello che noi chiameremmo un terrorista islamico. Dopo anni di carcere duro oggi fa l'avvocato ed è una testimonianza vivente di come nel vuoto politico abbia prosperato l'Islam più violento.

MONTASSER AL ZAYAT - avvocato, Cairo
Ciò che ci spinse alla violenza fu il soffocamento di ogni altra possibilità di espressione da parte del regime al potere. Per noi giovani non c'erano assemblee universitarie o partiti, c'erano colpi di mitra e camere di tortura. Smettete di sostenere i nostri regimi repressivi e la violenza estremista morirà con loro.

AUTORE
Dunque l'Occidente, e in particolare l'America, sono accusati di aver incoraggiato il soffocamento delle società arabe per tutelare i propri interessi, e cioè il petrolio.

TESTO DOCUMENTO DELLA GULF OIL COMPANY:

"Nell'atmosfera odierna in Medio Oriente, dove c'è amarezza e ostilità, il valore del sistema patriarcale del governo Kuwaitiano e la sua amicizia con l'occidente sono apprezzatissimi. In Kuwait l'assenza di processi elettorali irresponsabili, l'assenza di una stampa popolare e l'assenza degli aspetti più spiacevoli del nazionalismo sono fattori che ci aiutano nel nostro business."

AUTORE
Così recita un documento confidenziale della Gulf Oil Company, caduto per caso nelle mani del Dipartimento di Stato Americano nel 1950. Ai governi arabi amici l'America elargiva sostegni e lo dimostra un altro memorandum segreto del Dipartimento di Stato americano dell'anno 1953:

"L'essenza del presente approccio è che una certa collaborazione a favore degli obiettivi di base degli Stati Uniti porterà a notevoli aiuti ai paesi richiedenti."

AUTORE
Lo stesso memorandum richiede lo strangolamento economico del nazionalista egiziano Nasser colpevole, testualmente, di compromettere gli interessi occidentali.
La parola alla difesa: qui all'università di Tel Aviv lavora il team del professor Kramer. La loro idea? Tutto sbagliato, l'occidente è da assolvere e gli arabi devono solo incolpare se stessi.

MARTIN KRAMER - professore università di Tel Aviv
Se non c'è la democrazia nei paesi musulmani non è colpa dell'America. Basta guardare alla Libia o alla Siria o al Sudan, paesi completamente fuori dall'influenza degli Stati Uniti, e sono tutti dittature persino peggiori delle altre. Sono 50 anni che gli stati mediorientali si governano da soli e quello che hanno prodotto è un fallimento dopo l'altro! Ciò che la sinistra chiama risentimento arabo non è altro che la loro frustrazione perché hanno fallito, ma invece di guardarsi allo specchio incolpano l'occidente.

AUTORE
Le responsabilità storiche occidentali nel mondo arabo, come abbiamo visto, sono documentate, ma in effetti rimane difficile capire perché ancora oggi in un paese come l'Egitto accadano queste cose: questa è la polizia che c'è all'università tutti i giorni, per controllare che gli studenti non facciano manifestazioni; non ho ottenuto il permesso di parlare con gli studenti, ci vuole il permesso del Ministero dell'Interno per parlare con gli studenti all'università. E allora ce ne andiamo. Poco più in là uno studente accetta di parlare, poi guarda dietro alle mie spalle e...
(IMMAGINI POLIZIOTTO CHE VIETA AL RAGAZZO DI PARLARE)

AUTORE
Rabbia e frustrazione ribollono dentro questa moschea; oggi venerdì giornata di preghiera per queste persone, la polizia qua intorno è impressionate sto filmando di nascosto per non farmi vedere, il motivo per cui è qua è che questa rabbia che è contro il governo egiziano, la politica americana la politica occidentale, questa rabbia non deve assolutamente andare per le strade sotto forma di manifestazione, guardate che razza di spiegamento per una giornata di preghiera; questa repressione non può fare altro che peggiorare i rapporti fra questa gente e il proprio governo e i governi occidentali che l'appoggiano.
Tento l'entrata nella moschea, con la telecamera nascosta naturalmente, il rischio è alto, rischio l'arresto ma anche l'aggressione all'interno, ma se c'è un luogo che mi può spiegare la rabbia del mondo Islamico, bé, questo è l'ideale.

GUIDA DEL GIORNALISTA, CAIRO
Là c'è il tizio della polizia segreta, quello sulla sedia, lo vedi?

AUTORE
Siamo sotto stretta sorveglianza, è evidente, ma nonostante ciò gli oratori parlano a ruota libera.

D - Cosa discutono qui?

UOMO ALL'INTERNO DELLA MOSCHEA
Parlano di quello che sta accadendo in Iraq e in Palestina. C'è un complotto contro i musulmani e l'islam in tutto il mondo.

AUTORE
Qui ci sono i gruppi più radicali, inclusa la nota Fratellanza musulmana. E' un 'occasione unica per capire se è vero che in queste moschee si fomenta l'odio per l'occidente.

MOHAMMED ABDED KUDUZ - Fratellanza Musulmana
Stiamo facendo esattamente quello che gli italiani hanno fatto, e cioè protestiamo contro la guerra in Iraq; solo che qui non esiste libertà e l'unico posto in cui possiamo farlo è nella moschea.

AUTORE
Chiedo che cosa pensano dell'Occidente, se sono ostili alla nostra cultura e se fanno una distinzione tra le azioni decise dai nostri governi e le responsabilità della gente comune.

MOHAMMED ABDED KUDUZ - Fratellanza Musulmana
Non abbiamo nulla contro la cultura europea, anzi la ammiriamo perché ha permesso a milioni di persone di manifestare. Siamo però contro Bush e il suo governo per quello che stanno facendo. Il Profeta disse che l'Islam è la religione della tolleranza, e qui si rivendica solo il diritto di tutti alla pace. l'America ha le armi più avanzate, ma noi abbiamo la fede: la sfida è la loro tecnologia contro Dio. Non vinceranno mai.

AUTORE
La distinzione che fanno fra occidente e politiche americane è nettissima. Ma è altrettanto evidente che i regimi arabi hanno molto di cui rispondere, come ha evidenziato il rapporto dell'ONU sullo sviluppo arabo del 2002, scritto interamente da intellettuali del Medio Oriente. L'analisi è spietata: le società arabe sottovalutano le donne, non fanno buon uso del sapere globale, e non conoscono i diritti umani.

MARTIN KRAMER - professore università Tel Aviv
L'assenza nella storia del mondo arabo di un periodo riformista li ha condannati all'arretratezza, c'è la negazione della libera ricerca. Gli arabi devono smettere di incolpare gli altri e devono farsi carico dei propri problemi. I Turchi avevano tutti i motivi per odiare l'occidente, che dopotutto gli aveva disfatto un impero centenario, ma si sono dati da fare e oggi si stanno unendo all'Europa e sono un modello per il Medio Oriente. Gli ebrei potevano addossare all'Europa qualsiasi loro problema dopo l'Olocausto, ma hanno invece impugnato il loro destino. Gli arabi continuano a pretendere dall'occidente delle scuse e pretendono di diventare moderni dettando le loro condizioni.

AUTORE
La replica a Saad Eddin Ibrahim, un arabo vittima di un regime arabo, un uomo di grande cultura, ma soprattutto coraggioso: in Egitto criticò le irregolarità elettorali che elessero Mubarak, e il suo destino fu segnato. Carcere, processi, di nuovo carcere e dopo ben tre attacchi ischemici, oggi gli è proibito cercare aiuto medico all'estero.

SAAD EDDIN IBRAHIM - Ibn Kaldun Center, Cairo
Di chi è la colpa? Certo, è soprattutto dei nostri stessi leader che privandoci delle libertà fondamentali hanno ucciso lo sviluppo economico e scientifico del mondo arabo. Io non cerco capri espiatori, ma non posso assolvere le potenze occidentali, che ci hanno addossato enormi problemi. E' noto per esempio che il regime egiziano riceve grande sostegno dagli Stati Uniti.
E' un peccato, perché l'America per tanti arabi è un sogno da emulare. Dove le cose si complicano è nella politica estera americana. Nella loro mancanza di comprensione per i palestinesi, c'è un risentimento contro questo ed è lo stesso risentimento che troviamo nei sudamericani, negli africani, e persino negli europei, che con la vicenda dell'Iraq hanno mostrato una profonda insofferenza per l'egemonia americana nel mondo.

AUTORE
Il ritornello è sempre lo stesso: viva l'America, che in effetti qui sbuca da ogni angolo, ma abbasso la politica estera americana.

RAGAZZO
Sul modo di vestire, questo è il nostro stile, ci piace, lo copiamo dall'America, certo, ma è bello. C'è solo una cosa che non mi va dell'America: preferiscono fare la guerra più di ogni altra cosa. E' tutto quello che ho da dire.

D - Alcuni di voi pensano che gli arabi odiano l'occidente. Il presidente Bush disse "Perché ci odiano?"

UOMO
Noi non odiamo l'occidente

D - No?

UOMO
Nessuno odia l'occidente. Odiamo quello che i vostri governi fanno contro di noi, come Bush. Gli interessano solo i soldi.

AUTORE
Queste dichiarazioni le mostro a un gruppo di musulmani in quest'aula molto lontana dal Medio Oriente, all'università di Berkley-California. Essere musulmani in America non è facile oggi perché si è cittadini del Paese che l'Islam ritiene causa di tanti suoi mali.

STUDENTESSA MUSULMANA- Università Berkley, California
Da qui, dall'America, ci arriva chiaro il dolore e il senso di ingiustizia che provano; la distanza fisica e culturale non ce lo impediscono. Quello che sta accadendo è ingiusto, e lo dico anche se vivo qui.

STUDENTE MUSULMANO - Università Berkley, California
Sono nato e cresciuto in America e sono musulmano. Ho però vissuto per tre anni in Libano. Laggiù le notizie non sono schermate come qui in America, laggiù, per esempio, vedevo in televisione come gli israeliani veramente trattano i palestinesi. Purtroppo lo stile di vita americano ti fa dimenticare quella realtà. Io sono un sergente del corpo dei marines...siamo così ciechi qui..."Colpisci e terrorizza", ma vi rendete conto? Ci saranno sempre più morti e a Baghdad ci sono un sacco di bambini... ma è pazzesco. Conosco una donna irachena di San Francisco che è andata a visitare la sua famiglia in Iraq di recente e le ha detto addio.. immaginatevelo...perché alla fine è questo che accade e noi siamo così ciechi da non capirlo.

D - Ma la politica estera americana serve a garantire anche a voi il vostro standard di vita qui negli USA!

HATIM BAZIAN- Università Berkley, California
Da immigrati abbiamo sudato amaro per crearci ciò che abbiamo, a lavare i piatti di notte nelle cucine, a fare i lavori più spiacevoli. Lo standard di vita ce lo siamo conquistato. Da musulmano che vive in America sono critico nei confronti della politica estera verso il mio paese e condivido questo pensiero con tutte le altre minoranze e come tutte le altre non musulmane. Ci stanno arrestando e perquisendo, ci espellono, ci discriminano e tutto ciò sotto una legge del Congresso che dopo l'11 di settembre ha sospeso le garanzie costituzionali degli immigrati.

MOSCHEA AD OAKLAND (Stati Uniti)

D - Scusi, non ho capito, posso parlare con lei o no?

UOMO
No, mi spiace

D - Non può?

UOMO
No, di questi tempi è meglio stare lontani dai guai...

D - E' stato in Italia?

UOMO
Sì, a Roma

D - Senti, possiamo parlare della relazione fra musulmani e americani?

UOMO
No, grazie, no, no grazie....

D - Sono di una Tv italiana..

POLIZIOTTO
Mi faccia vedere i suoi documenti...

AUTORE
Oggi c'è paura e sospetto fra questi americani musulmani. Per registrare un'opinione devo ricorrere ai soliti trucchi e trovo Nasser, un leader arabo americano che è doppiamente incastrato. Per le sue opinioni forti teme sia le autorità che i suoi stessi correligionari.

UOMO
Questa è la mia opinione ok? Il nostro problema come musulmani non è l'America, non sono gli inglesi o i francesi, o gli ebrei con Israele. Il nostro problema sono i nostri leader.
Tutti i leader arabi sono scimmie...prendi questi leader e mettili in una nazione europea, o in America, magari come governatori di uno stato americano e guarda come sarebbero giudicati come leader: te lo dico io, non durerebbero 5 minuti. Sono inutili, sono inetti e non farebbero nulla per la loro gente.

AUTORE
Solo dopo aver assicurato il leader della comunità musulmana di un moschea di San Francisco che Report non sarà visto in America, mi viene concesso incontrarli e di approfondire il nostro tema. I toni sono ottimistici, e mi dicono che non solo la vita in America non contrasta con l'adesione all'Islam, ma anzi! La musica cambia però sul tema caldo della politica estera americana.

SAN FRANCISCO, INTERNO MOSCHEA

UOMO 1
Come musulmani americani noi siamo fermamente convinti che l'Islam più prospero, più avanzato, si possa praticare proprio qui, dove c'è possibilità di scambio, di confronto, di dibattito, dove c'è democrazia, dove ci si può esprimere liberamente. Ed è purtroppo vero che i mediorientali hanno sviluppato una retorica vuota sull'occidente: perché non si aprono al mondo attraverso l'istruzione? Perché non producono le tecnologie, perché non hanno infrastrutture. Ricordate: non è l'Islam che soffoca le società, sono le società soffocanti dei dittatori mediorientali che soffocano l'Islam.

D - E allora immaginate che un vostro fratello o sorella musulmani in Medio Oriente vi dica: siete americani e musulmani e la vostra nazione ci sta facendo molto male; voi cosa gli rispondereste?

UOMO 2
Gli direi di distinguere la gente dalla politica. Ma non possiamo pretendere che chi sta laggiù in quei paesi possa facilmente capire questa differenza.

UOMO 3
Qui in America io sto studiando legge e so che c'è una carta dei diritti fondamentali che viene applicata dal governo a tutti i cittadini. Perché allora la stessa scala di valori non fa parte della politica estera americana in Palestina? Nessun americano tollererebbe qui il trattamento riservato ai palestinesi.

AUTORE
Se è per questo nessun americano tollererebbe qui le atrocità che Hamas infligge agli israeliani.
Lascio la moschea, ma all'ultimo vengo fermato...ce n'è anche per noi!

UOMO 4
Berlusconi odia l'Islam, ne parla sempre male. Non credo che Berlusconi capisca l'Islam, e dunque perché ne parla male?. Lui è proprio contro l'Islam.

D - E' incredibile che quella sua battuta sia giunta fin qua a S Francisco&

UOMO 1
Certo che sì, ma è arrivata anche alle Hawaii, dappertutto. Si è trattato di una dichiarazione pesante fatta da un paese, l'Italia, che è noto per la sua tolleranza, e che in Medio Oriente è sempre stato considerato un paese amico.

D - E secondo voi basta una dichiarazione come quella per aumentare il risentimento dei musulmani contro l'occidente?

UOMO 1
Certamente, perché è stato diffuso ovunque, in tutti i giornali, televisioni e siti Internet musulmani. Quelle parole sono state ampiamente sfruttate dagli estremisti islamici per sostenere che è inutile dialogare con l'occidente, perché l'occidente ci ritiene inferiori. Non era quello il momento di fare gaffe che non aiutano affatto il dialogo fra le nostre civiltà.

IN STUDIO MILENA GABANELLI
Gaffe a parte, fin qui si è capito che non c'è odio per il popolo occidentale e tantomeno per gli americani. Dal Medio Oriente come dall'America musulmana sono tutti d'accordo: il punto sta nella politica estera di Washington. Ma anche dentro al mondo arabo si dice: basta dare la colpa agli altri, dobbiamo cambiare i nostri regimi, un clima di speranza che andrebbe supportato. E torniamo in Israele dove nulla potrà mai giustificare il kamikaze che si fa esplodere fra la gente però è importante tentare di capire alcuni fatti. Siamo a Camp David nel luglio del 2000, ai negoziati di pace fra israeliani e palestinesi. Il mediatore era Bill Clinton, al tavolo delle trattative Arafat e il premier israeliano Barak. L'occasione fu definita storica, e storico fu il fallimento.

AUTORE
Da allora le cose in Palestina e in Israele sono precipitate in una spirale di sangue infinita, con centinaia di morti e conseguenze politiche gravissime. Dopo il naufragio di Camp David i media occidentali tessero le lodi di Bill Clinton, coraggioso mediatore, e parlarono della storica offerta che l'israeliano Barak aveva fatto ad Arafat. Arafat invece fu seppellito da un'accusa infamante: aver rifiutato la pace per meschini quanto oscuri interessi.

MARTIN KRAMER - Università Tel Aviv
Io dico che Arafat non vuole la pace, e tutto lì.

D - Ma lei é sicuro che ha rifiutato la pace?

MARTIN KRAMER - Università Tel Aviv
Sicuro? Certo che lo sono!

D - Lei è d'accordo che a Camp David Arafat rifiutò la più grande offerta di pace mai fatta dagli israeliani?

MARTIN KRAMER - Università Tel Aviv
Effettivamente a Camp David gli israeliani fecero ad Arafat un'offerta di straordinaria generosità: i palestinesi avrebbero ottenuto la quasi tutta la Cisgiordania e Gaza per formare il loro Stato, e si era pronti a dividere Gerusalemme. In cambio chiedevamo al leader palestinese un impegno a terminare il conflitto e la rinuncia al diritto di rimpatrio dei rifugiati palestinesi. Ma Arafat rifiutò perché aveva altre mire.

AUTORE
Questa versione dei fatti è divenuta una verità acquisita e reiterata sui nostri media.

IMMAGINI REPERTORIO PROGRAMMA TV "BALLARO'"

AUTORE
Lutwak dice:" E' Arafat a non volere la pace! " E questo è quello che ci hanno sempre detto, scritto dai giornali e raccontato dalle Tv. Gli arabi però sostengono che le cose sono andate in un altro modo, e lo dice anche chi i negoziati li ha fatti in prima persona: Robert Malley, dell'International Crisis Group di Washington, era al fianco di Clinton in quell'occasione: Arafat ha rifiutato la pace?

ROBERT MALLEY - International Crisis Group Washington
I titoli sui media hanno oscurato la realtà più che illustrarla. Il pubblico deve dimenticare questa falsa idea che Arafat aveva di fronte una serie di proposte scritte alle quali avrebbe potuto dire sì o no. Non c'era nulla di scritto, le cose non andarono così. Fra l'altro gli fu chiesto di accettare uno scambio di territori dove cedeva un 9% in cambio di un1%, era illogico; e poi non vi fu una proposta valida per la spartizione di Gerusalemme, né per il ritorno dei profughi palestinesi.

AKIVA ORR- ex partigiano israeliano
Arafat non poteva accettare un accordo come quello di Camp David dove non si menzionava il diritto al ritorno dei profughi. Se lo avesse fatto lo avrebbero ucciso. In realtà a noi israeliani non venne mai spiegato cosa fu offerto ai palestinesi.

ROBERT MALLEY - International Crisis Group Washington
Questa mistificazione di Camp David ha prodotto un vero disastro. Ha convinto infatti le opinioni pubbliche americane e israeliane che Arafat voglia solo la guerra e che perciò non abbia senso continuare il processo di pace, e che di conseguenza le azioni militari di Israele siano pienamente giustificate. Questo è il tragico lascito della mistificazione di Camp David.

AUTORE
E se tutto questo, come dice Malley, e' vero, la distorsione operata dai media non ha certo contribuito a distendere i rapporti fra l'opinione pubblica araba e l'Occidente. Quello che certamente li ha deteriorati è lo spezzone di intervista che segue.
Nel 1996, il segretario di Stato americano Madeleine Albright risponde alla domanda di una giornalista del network CBS. La domanda era: "e' stato imposto l'embargo all'Iraq per disarmare Saddam Hussein. Quell'embargo ha ucciso 500 mila bambini, più dei morti di Hiroshima. Ne valeva la pena?"

Madeleine Albright:
"E' una scelta molto dura, ma pensiamo che ne valga la pena."

AUTORE
Forse non ne valeva la pena visto che dopo tanti bambini morti e 12 anni di embargo SaddamHussein e' ancora da disarmare e si fa una guerra per questo.

TARIQ ALI' - storico, Londra
Uno degli esempi peggiori del sistema di due pesi e due misure applicato al mondo arabo è oggi davanti agli occhi di tutti. La scusa per l'invasione dell'Iraq è l'eliminazione delle sue armi di distruzione di massa. Ma l'arabo medio si sta chiedendo: perché solo l'Iraq? C'è una nazione nell'area che veramente possiede grandi arsenali di distruzione di massa sia chimici che nucleari, ed è Israele. E perché nessuno la disarma? Naturalmente la risposta è che Israele è una democrazia, ma a tutt'oggi l'unica nazione che ha usato sia armi nucleari che chimiche per ammazzare migliaia di innocenti è stata la più grande democrazia del mondo, e cioè l'America. Anche Saddam ha usato i gas contro la propria gente, ma mentre lo faceva era il pupillo dell'America e proprio Donald Rumsfeld gli stringeva la mano a Baghdad nel 1983. Queste ipocrisie non sfuggono al mondo arabo.

AUTORE
Un esempio storico da cui cominciare: quando il 29 novembre del 1947 l'assemblea generale dell'ONU votò a favore della nascita dello stato di Israele, Israele accolse il voto con gioia. Ma quando la stessa assemblea dell'ONU sancì l'11 dicembre 1948 che i rifugiati palestinesi avevano diritto di tornare allo loro case, Israele ignorò la risoluzione, e come quella decine di altre fino a oggi, senza subirne conseguenze.

ILAN PAPPÉ - Università Haifa Israele
La lista di chi si permette impunemente di ignorare le risoluzioni ONU è lunga. Dal 1968 fino a oggi, Iraq a parte: Israele è in prima fila, poi Turchia, Marocco, Croazia, Armenia, Russia, Sudan, India, Pakistan e Indonesia. In tutto sono 91 risoluzioni cestinate da questi Paesi. (stacco mus ) Questo si chiama sistema di giudizio internazionale di due pesi e due misure.

AUTORE
Ma quando si parla di Osama Bin Laden e di ciò che ha fatto tutto cambia. Quello che abbiamo cercato e' una chiave per la comprensione dell'odio di Al Qaida, e alla fine come vedrete la troveremo.
E' dalla vita di questo uomo che dobbiamo iniziare, per capire almeno in parte cosa percorse la mente di Mohammed Atta e dei suoi complici fino alla mattina dell'11 settembre 2001. Il suo nome è Sayyid Qutb, scrittore, poeta, insegnante, ma soprattutto purista islamico, nato in egitto nel 1906, morto nel 1966 impiccato dal presidente egiziano Gamal Nasser, dopo quasi 12 anni di carcere duro. In carcere Qutb scrisse il suo testamento religioso che si intitola "Pietre Miliari" e che oggi è un testo fondamentale per i terroristi di Al Qaida. E la cosa che sorprende è che, di nuovo, c'entra l'America, ma per ragioni ben diverse da quelle viste fin qui. E' un intreccio complesso e ho chiesto aiuto al professor Adnan Musallam, oggi il maggior esperto della vita di Qutb.

ADNAN MUSALLAM - Università Betlemme, Cisgiordania
Sayyi Qutb era una persona assai infelice, era alla ricerca continua di una realizzazione, che in parte trovò negli interessi letterari, dove ebbe discreto successo. Ma alla fine la farraginosa politica egiziana e la opprimente dominazione inglese lo portarono a pensare che l'unica soluzione era un ritorno al purismo del Corano.
Nel 1949 Qutb fu spedito negli Stati Uniti dal governo del Cairo, che si voleva sbarazzare della sua voce critica. Come scusa gli diedero il compito di stilare un rapporto sul sistema scolastico americano.

AUTORE
Lontano dall'Islam, Qutb si chiude in sé conducendo una vita solitaria nelle periferie americane, e matura l'idea che gli americani erano distaccati, freddi, superficiali, specialmente nella loro relazione con le chiese. I loro valori umani gli apparivano distorti, e giunse alla conclusione che se l'Islam avesse seguito quella cultura si sarebbe distrutto.

ADNAN MUSALLAM - Università Betlemme, Cisgiordania
Quando ritorna in Egitto, si unisce alla Fratellanza Musulmana, che presto verrà repressa da Nasser con arresti di massa. Nel carcere di Tura, fra torture e repressione, Qutb scrive il suo testo fondamentale, Pietre Miliari, dove paragona la situazione morale dell'Egitto di Nasser a quella del paganesimo del mondo arabo prima di Maometto. Il testo comincia a circolare fra i giovani radicali islamici nelle carceri. Più di venti anni dopo, ritroviamo quel testo citato dal numero due di Al Qaida, Ayman Al Zawahiri, come sua ispirazione sulla strada del vero Islam.

AUTORE
Ricapitoliamo: un giovane egiziano, colto, di classe media, lascia un mondo arabo laico per vivere in occidente, e finisce col trarne la conclusione che entrambi quei mondi minacciano di distruggere l'Islam per sempre.
Questo e' Mohammed Atta, il leader dei terroristi dell'11 settembre. Esiste dunque un parallelo fra la sua esperienza occidentale e quella di Sayyid Qutb. Ce lo testimonia questo uomo al Cairo, che oggi vive nella ex casa di Atta e che l'ha conosciuto fin da ragazzino.

CONOSCENTE DI MOHAMMED ATTA
Mohammed Atta era un ragazzo estremamente serio, usciva poco, non si mischiava con i gruppi di ragazzini chiassosi, appariva come molto attaccato alla sua famiglia, diciamo, un tradizionalista. Ma il suo grande cambiamento avvenne mentre viveva in occidente. Lo notai subito dagli abiti che indossava, dall'atteggiamento, sempre più cambiato ogni anno che tornava qui per le vacanze. Poi, improvvisamente non si è più visto.

AUTORE
Questo è l'appartamento del Cairo da cui il giovane Atta partì per quello che doveva essere il suo trampolino di lancio professionale in occidente, fra Amburgo e gli Stati Uniti. E queste sono le strade del quartiere di Zaytum, sempre al Cairo, che Satyyid Qutb lasciò nel lontano 1949.


ADNAN MUSALLAM - Università Betlemme, Cisgiordania
Entrambi vissero immersi nell'occidente, e si sentirono totalmente alieni ad esso. Tuttavia dubito che Sayyid Qutb avrebbe mai legittimato le azioni di Al Qaida. Le sue idee sono state manipolate dai seguaci di Bin Laden per giustificare ciò che fanno oggi.

AUTORE
Dunque gli ingredienti di questo integralismo islamico sono: una personalità smarrita, il terrore di perdere la propria identità culturale e religiosa, il disprezzo per l'occidente pagano e dilagante, e la passione per il martirio nel nome dell'Islam. Qutb e Atta li possedevano tutti. Ci si chiede: gli uomini di Al Qaida seguono tutti quel modello? Cosa pensano i terroristi che l'11 settembre hanno gioito del massacro di 3000 civili innocenti? E dove pensano di portare il loro Islam estremo?
Trovare queste risposte appare impossibile, poiché occorrerebbe interrogare un loro leader, cosa che oggi è più che mai ardua. Ma quando il caso ci metto lo zampino anche l'impossibile accade. Al ritorno dal Cairo faccio tappa in un paese mediorientale dove una vecchia amicizia mi comunica che qualcuno molto in alto nell'organizzazione è disposto a parlare. L'appuntamento è nel parcheggio di un aeroporto; mi viene detto che la telecamera deve immediatamente sparire. Saranno 7 ore passate sul sedile posteriore di un'auto che gira ininterrottamente per la città senza potersi mai fermare.

IN STUDIO MILENA GABANELLI
E in questa città del Medio Oriente Paolo Barnard ha incontrato un uomo che ha visto e partecipato alla nascita ed evoluzione del movimento terroristico più pericoloso del mondo, il suo posto era ai vertici a fianco di Osama Bin Laden e del suo vice Aiman Al Zawairi, e per questo in grado di spiegare come pensa e perché agisce Osama Bin Laden.
L'intervista è rubata e per ragioni di sicurezza di quest'uomo non possiamo rivelare l'identità e nemmeno il luogo di incontro.

AUTORE
L'insider vuole precisare prima di tutto una cosa.


"La mia strada si e' separata da quella di Osama Bin Laden nel 1998. Per anni l'ho sempre contestato, e non mi sono fatto ammaliare dai suoi soldi. Osama mi aveva messo a disposizione un budget illimitato, si parla di milioni di dollari, per gestire un settore vitale della sua organizzazione, ma rifiutai. Gli dissi: tu porterai la rovina sull'Islam."

D - I nostri esperti di terrorismo hanno scritto montagne di analisi sulle strategie di Bin Laden. Ma quali idee muovono veramente questo uomo?

"Osama segue il principio islamico del Tawakòl, ma in maniera deviata. Questo principio dice che se uno compie un'azione corretta, e se ne assume le conseguenze, allora Allah gli concede il successo. Ma Bin agisce senza pensare alle conseguenze, senza rispettare i limiti, convinto che Dio farà il resto per lui. Ha seguito questa convinzione quando ha pianificato per l'attacco dell'11 settembre.
Osama distorce tutto l'Islam a suo piacimento. Per esempio, secondo la legge islamica Mohammed Atta non poteva attaccare l'America. Esiste una Fatwa, e cioè un editto sacro, emanato dall'imam Sayyed Abdel Aziz, che era il capo della Jihad Egiziana prima di Al Zawahiri, secondo cui il guerriero santo che trova ospitalità in una nazione non può assolutamente attaccarla. Atta era ospite dell'America e non poteva attaccarla. E' stato Osama a dargli la licenza."

D - Bin Laden odia tutti gli occidentali?

"No, non odiano la Francia o l'Italia, voi siete fuori dalla loro mira. Il ragionamento vale solo per gli Stati Uniti e per l'Inghilterra."

D - Ma è vero che sono la povertà e l'ignoranza a motivare questi spietati terroristi?

"No, la povertà non è centrale per capire la loro mentalità. La disperazione lo è. Si sentono perduti in un mondo musulmano perduto. Ayman Al Zawahiri mi disse che per salvare l'Islam era necessario colpire il nemico lontano, per poi distruggere il nemico vicino: questo significa colpire l'America per abbattere i regimi arabi."

TARIK ALI' - Storico, Londra
I giovani terroristi come Mohammed Atta pensano che l'Islam sia schiacciato dall'America e dai regimi arabi. Negli anni '60 avrebbero avuto la sinistra o i nazionalisti nelle cui fila sfogare la frustrazione politica; oggi vedono che l'unico a levarsi contro i loro nemici è Osama Bin Laden. E' impossibile fermare questo con la forza delle armi; dobbiamo prosciugare la palude politica che li soffoca, e cioè permettere lo sviluppo democratico in Medio Oriente e togliere l'appoggio occidentale ai regimi arabi repressivi.

AUTORE
L'Insider mi dice che Osama Bin Laden si sposta da paese a paese su un minuscolo aereo che sfugge ai radar. Ma allora e' ancora vivo. E' riuscito a fuggire dall'Afghanistan. Perché non si mostra più in video? Molti sostengono che quella sia la prova che è già morto.

TESTIMONE
Osama non è morto. Non si fa più filmare dopo l'incidente di Karachi, quando poche ore dopo la consegna ad Al Jazeera dell'ultimo suo video fu catturato l'agente di Al Qaida che l'aveva consegnato al corriere. Il corriere aveva addosso le microspie dei servizi americani e pakistani, e così il capo della sicurezza di Bin Laden ha detto stop. Ma Osama è sicuramente vivo per un altro motivo: tutti gli uomini di Al Qaida hanno ordine di fare una certa cosa in tutto il mondo nelle 24 ore successive alla morte di Bin Laden e quella cosa non è accaduta ancora.

D - Ma quale cosa?

TESTIMONE
Questo non vi è concesso saperlo.

IN STUDIO MILENA GABANELLI
Speriamo che nessuno lo uccida e che invece intervenga rapida e pietosa la natura ma probabilmente questo non succederà e siccome questa organizzazione, lo dimostrano i fatti, gode di budget illimitati e l'obiettivo è quello da colpire è la gente che abita i paesi democratici&cosa fare? Credo che non ci sia discussione sul fatto che debba essere definitivamente disinnescata. Con la guerra? Con questa guerra?
La storia di solito la scrive chi vince&se vince davvero, ed è in grado di mettere la parola FINE.


Idiozie e odio contro Israele e gli ebrei
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Islam, palestinesi, ebraismo, ebrei, Israełe
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Palestina: le ragioni di Israele
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Re: All'area arabo islamica non dobbiamo nulla, anzi

Messaggioda Berto » mar ago 22, 2017 8:33 am

???

Le crisi del Medio Oriente e le responsabilità dell’Europa
Anno XLVIII, 2006, Numero 1, Pagina 26
SANTE GRANELLI

http://www.thefederalist.eu/site/index. ... 93&lang=it

Molteplici avvenimenti si sono succeduti nei diversi scacchieri dell’area compresa tra Europa, Asia ed Africa (il cosiddetto «grande Medio Oriente»), dopo l’avvio da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati della «guerra al terrorismo», iniziata con l’invasione dell’Afghanistan nel novembre del 2001 e quella dell’Iraq nel marzo del 2003. Essi hanno contribuito a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica europea e dei grandi mezzi d’informazione sul circolo vizioso che si è creato e sui gravi rischi che il mondo nel suo complesso (ma l’Europa in particolare) dovranno affrontare se, in un tempo ragionevolmente breve, non verranno sciolti i nodi che da tempo attanagliano la regione, nodi che l’iniziativa nordamericana ha solo contribuito ad aggravare. Se tali avvenimenti hanno evidenziato la precarietà degli equilibri che si sono creati, più difficile appare l’identificazione delle possibili soluzioni e, soprattutto, degli strumenti che dovranno essere adottati per realizzarle.
Per limitarsi alle questioni che maggiormente colpiscono l’opinione pubblica: non vi è alcuna indicazione che il terrorismo legato al fondamentalismo islamico e «al-quedista» sia stato messo in condizione di non nuocere; non emerge un’onorevole via d’uscita per gli americani e per i loro alleati dall’Iraq (che anzi sembra ormai avviato alla guerra civile e forse addirittura alla dissoluzione), la stessa pacificazione dell’Afghanistan è ben lungi dall’essere completata. Del pari, restano «conflittuali» i rapporti tra Israele e palestinesi, ulteriormente aggravatisi dopo il successo di Hamas alle elezioni, la costituzione del governo Haniyeh e il conseguente irrigidimento del governo israeliano; infine non si scorge alcuna seria prospettiva per raggiungere un accordo con il governo iraniano sul dossier nucleare né appare probabile che si possa convincerlo a rinunciare ai suoi programmi senza fare ricorso alla forza militare, come si discute ormai apertamente in taluni circoli politici e militari, negli Stati Uniti[1] e, più sommessamente, in Israele. Nel frattempo, il prezzo del greggio ha superato i 70 dollari al barile e molti analisti ipotizzano che, di fronte ad un ulteriore aggravamento della situazione politica generale del Medio Oriente, si possa presto raggiungere e superare il limite, fino a pochi anni fa considerato impensabile, dei 100 dollari, con conseguenze non difficili da immaginare sulla situazione di molti paesi (segnatamente in Europa) le cui economie si reggono tuttora ampiamente su fonti d’energia non rinnovabili.
È opinione diffusa che un tale aggravamento della situazione sia dovuta alla decisione degli Stati Uniti di agire in modo unilaterale (forti, dopo la caduta dell’impero sovietico, del proprio ruolo di unica superpotenza mondiale) per la tutela del proprio interesse nazionale, senza preoccuparsi della legittimità internazionale, come peraltro era richiesto da molti commentatori oltranzisti che da tempo richiamavano il parallelo tra gli Stati Uniti e l’antica Roma imperiale.[2] Queste posizioni, già presenti nel dibattito politico che aveva preceduto i drammatici eventi del settembre 2001, si sono rafforzate in seguito all’attentato terroristico alle torri gemelle ed al Pentagono, offrendo alla nuova Amministrazione, anche sulla scorta del precedente della guerra in Kossovo,[3] il destro per agire, ignorando il giudizio, ed anche l’ostilità, di molti alleati.
Le indubbie responsabilità degli Stati Uniti non devono farci trascurare quelle, non meno gravi, dell’Europa. Nel gennaio del 2003, sul Corriere della Sera, l’ex-ambasciatore Sergio Romano metteva in luce gli elementi di disparità presenti nell’atteggiamento nordamericano verso la Corea del Nord, da una parte, e verso l’Iraq dall’altra, concludendo la sua analisi con l’osservazione che ciò che manca in Medio Oriente è una «potenza… capace di imporre agli Stati Uniti il rispetto dei suoi interessi e consigli», laddove questa potenza è presente in Estremo Oriente (la Cina) e ciò ha giustificato la prudenza degli americani nel trattare l’affaire nord-coreano. Concludeva Romano: «La potenza che non c’è è l’Europa. Divisi, i paesi dell’Europa possono tutt’al più, come il Presidente francese ed il Cancelliere tedesco, fare una decorosa battaglia giuridica fondata sulle competenze dell’ONU e sulla necessità di una seconda risoluzione. Ma non possono dire con fermezza all’America che gli equilibri medio-orientali sono in ultima analisi equilibri europei e che nessuno ha il diritto di sovvertirli senza tener conto delle loro esigenze».[4]
Se siamo quindi di fronte a situazioni di crisi potenzialmente esplosive, non solo in Medio Oriente ed in Asia centrale, ma anche in altre aree del mondo,[5] ciò non è imputabile solo al conclamato unilateralismo nordamericano. Non meno gravi appaiono le responsabilità dell’Europa che, a causa della propria divisione (del suo non esistere come «potenza»), non è in grado né di tutelare i propri interessi, né di svolgere un ruolo attivo ed efficace per promuovere soluzioni pacifiche così da poter contribuire ad «alleggerire gli Stati Uniti di una parte considerevole del peso delle loro responsabilità mondiali».[6]

Non basta però limitarsi a sottolineare l’attuale impotenza dell’Europa in relazione a queste crisi, o ricordare le sue responsabilità storiche e sottolineare i limiti della politica imperiale nordamericana. I problemi dell’area sono complessi e la definizione di soluzioni eque e durature (e l’identificazione degli strumenti politici che ne rendano possibile la realizzazione) richiedono un’analisi che sappia scrutare in profondità gli avvenimenti e identifichi i motivi specifici che stanno alla base di tali situazioni di crisi. In particolare, al di là dell’aggravamento del conflitto iracheno e della questione del terrorismo fondamentalista (che dovrebbe essere considerato più un effetto che una causa), sembra abbastanza chiaro che due sono oggi i focolai più pericolosi per il futuro dell’area, e quindi dell’Europa e del mondo. Si tratta della crisi nucleare iraniana e del sempre più difficile rapporto tra israeliani e palestinesi. È su queste due situazioni — che hanno tra loro molti più elementi di correlazione di quanto normalmente non si pensi — che occorre concentrare l’attenzione.

La politica dell’Iran dopo l’elezione di Ahmadinejad.

Molto sconcerto e qualche preoccupazione hanno accolto, nel giugno del 2005, la notizia dell’inatteso successo del Sindaco di Teheran, Mahmoud Ahmadinejad nella votazione di ballottaggio per la presidenza della repubblica islamica dell’Iran. Con il 62% dei voti espressi, Ahmadinejad, la cui base elettorale era costituita soprattutto dai diseredati che affollano i quartieri più poveri nella zona sud di Teheran, ha sconfitto il leader clericale e pragmatico (ex-Presidente della Repubblica) Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, che molti, sia in patria che all’estero, consideravano il sicuro successore del riformista Khatami, del quale avrebbe proseguito — così si ipotizzava — la politica di caute aperture, avviando forse anche un dialogo diretto con gli Stati Uniti.
Ambienti con una migliore conoscenza della complessa realtà iraniana avevano fatto osservare che molto difficilmente Ahmadinejad avrebbe modificato in termini sostanziali la politica seguita da tutti i governi che si sono succeduti nella repubblica islamica dopo la rivoluzione khomeinista del 1979. Nel numero di agosto del 2005, la rivista Middle East Monitor così riassumeva i termini della questione: «Nel più probabile scenario nucleare, le conversazioni con l’Unione europea continueranno in larga misura come prima, come promesso da Ahmadinejad, con l’Iran che continuerà ad insistere che la propria attività nucleare è a fini pacifici e gli Stati Uniti che conserveranno il proprio scetticismo sul processo diplomatico», per proseguire affermando che le possibili differenziazioni nella politica iraniana dovute all’elezione di Ahmadinejad «sono state almeno in parte esagerate».[7] Questo giudizio, sostanzialmente non negativo, proveniente dal mondo degli affari era confermato dalla decisione delle grandi società di assicurazione inglesi di continuare a considerare l’Iran, anche dopo l’elezione del nuovo Presidente, come un paese a rischio inferiore rispetto ad altri paesi medio-orientali ed in particolare all’Arabia Saudita.
Successive dichiarazioni del nuovo Presidente hanno contribuito a mettere in dubbio tali valutazioni. Ha preso credito l’ipotesi che l’Iran si apprestasse ad irrigidire il proprio atteggiamento sia sulla specifica questione nucleare che nel quadro più generale del ruolo che il paese intende svolgere nello scacchiere regionale e nei confronti dei conflitti che insanguinano il Medio Oriente (Palestina, Libano, Iraq, ecc.). Ampia eco hanno trovato le parole di Ahmadinejad che, in occasione dell’annuale manifestazione pro-palestinese di fine ottobre 2005, ha dichiarato che Israele «dovrebbe essere cancellato dalla carta geografica». In realtà Ahmadinejad ha soltanto reiterato, magari con una enfasi maggiore rispetto ai suoi predecessori, un’affermazione che risale agli inizi della rivoluzione khomeinista, attribuita allo stesso leader della rivolta contro lo Shah e ripresa, dopo di allora, da ogni leader iraniano soprattutto in occasione delle frequenti manifestazioni a favore della Palestina.[8]

Più preoccupanti sono apparse le dichiarazioni e le iniziative assunte in rapporto alla questione nucleare, quali la nomina del conservatore Ali Laridjani a capo del team negoziale sul dossier nucleare, le ampie modifiche apportate nei quadri diplomatici iraniani con la sostituzione di molte personalità legate all’ex-Presidente e, più in generale, il rifiuto di sottostare alle richieste del mondo occidentale di sospendere le attività di arricchimento dell’uranio e la minaccia, più volte reiterata, di uscire dal Trattato di non proliferazione nucleare.
È utile, a questo proposito, richiamare la posizione ufficiale del governo iraniano sul dossier nucleare e cercare di analizzare, anche sul piano della situazione geopolitica del paese e della sua storia più recente, le sue motivazioni. Essa è stata espressa con chiarezza dallo stesso Presidente all’Assemblea generale della Nazioni Unite all’inizio dello scorso ottobre. Ahmadinejad ha esordito proponendo che le Nazioni Unite dessero vita ad uno speciale Comitato al quale affidare la stesura di un rapporto conoscitivo che includesse un’analisi sul «come materiali, tecnologie e macchinari necessari per la produzione di armamenti nucleari siano stati trasferiti al regime sionista (lo Stato di Israele, nella normale versione iraniana) in violazione al Trattato di non proliferazione e formulasse proposte concrete per rendere il Medio Oriente libero da armamenti nucleari».[9] Dopo aver lamentato l’approccio discriminante attuato dalle grandi potenze che di fatto impediscono il libero accesso all’energia nucleare anche per fini civili, Ahmadinejad ha enfatizzato la necessità che ogni paese goda della piena sovranità sui propri impianti nucleari, argomentando che, se tali impianti dipendono in via permanente, per le forniture di tecnologie, materiali fissili, ecc., dalle «arroganti» grandi potenze (bullying states), ciò comporta rendere gli Stati stessi dipendenti in tutto e per tutto da potenze esterne. «Nessun governo popolare e responsabile può accettare una tale ipotesi come un servizio al proprio paese, soprattutto se si tiene conto della storia dei paesi ricchi di petrolio sottoposti alla dominazione straniera, un’esperienza che nessun paese indipendente è pronto a ripetere».[10]
Sempre a New York, in margine ai lavori dell’Assemblea delle Nazioni Unite, Ahmadinejad ed i suoi collaboratori hanno fatto intendere che, qualora i paesi europei e gli altri alleati degli Stati Uniti avessero insistito in una linea di chiusura nei confronti della richieste iraniane sul dossier nucleare, Teheran avrebbe potuto rispondere con l’arma del petrolio (embargo delle forniture); minaccia peraltro formulata apertamente qualche tempo prima a Vienna dal nuovo negoziatore iraniano Ali Laridjani di fronte all’ipotesi che la «troika europea» (Gran Bretagna, Francia e Germania) facesse approvare al Consiglio dell’AlEA — come richiesto dagli Stati Uniti — una risoluzione per portare la questione nucleare iraniana all’attenzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Scriveva Le Monde il 22 settembre 2005: «Infine, e questa può essere la più efficace spada di Damocle nel quadro delle trattative avviate attualmente dagli europei, l’Iran ha annunciato che le sue vendite di petrolio ed altri scambi commerciali saranno determinati dal sostegno che i differenti paesi apporteranno o meno all’Iran nella sua querelle con l’AlEA».[11]

Qualche precedente storico.
Le dichiarazioni di Ahmadinejad alle Nazioni Unite ed il riferimento all’esperienza vissuta in un recente passato da molti paesi produttori di petrolio, offrono una base per analizzare l’attuale posizione del governo iraniano ponendola nel contesto della storia più recente del paese. Scrive lo storico americano Karl E. Meyer, nel suo La polvere dell’impero: «Per due volte nel secolo scorso gli inglesi scelsero e per due volte deposero lo shahinshah, il re dei re. Nel 1907 gli inglesi e i russi tagliarono l’Iran in due sfere d’influenza: la zona russa comprendeva Teheran, mentre gli inglesi tennero per sé i giacimenti petroliferi del sud del paese che proprio allora cominciavano ad essere sfruttati. A causa dunque del suo petrolio e della sua posizione geografica le forze della Gran Bretagna e della Russia occuparono questa nazione in apparenza neutrale per tutta la durata delle due guerre mondiali. Anzi, per quasi mezzo secolo la Gran Bretagna decise quanto sarebbe spettato all’Iran in cambio del suo petrolio».[12] Due fatti in particolare legati alla questione petrolifera vanno sottolineati: 1) nel maggio del 1908 una società privata britannica, che aveva ottenuto la prima concessione petrolifera, aprì il primo pozzo nel sud-est del paese; 2) all’inizio del 1911 il governo inglese decise di sostituire l’uso del petrolio a quello del carbone nella flotta militare e, nello stesso periodo, acquisì, con il 51 % delle azioni, il controllo diretto della Compagnia, la Anglo-Persian Oil Company, che possedeva le concessioni petrolifere.[13]
La vittoria degli alleati contro gli Imperi centrali in Europa, la rivoluzione sovietica, e la fine dell’Impero ottomano modificarono profondamente la situazione di potere anche nell’area medio-orientale e nell’Asia centrale, lasciando in buona sostanza la Gran Bretagna come unica potenza a livello mondiale. Ma si trattava, come i fatti successivi avrebbero dimostrato, di una «potenza debole», non in grado di sostenere costi e responsabilità del ruolo imperiale. Insopportabili apparivano soprattutto i costi che la Gran Bretagna doveva sostenere per mantenere efficaci presidi militari nei vari fronti, incluse molte aree dell’ex-Impero ottomano, per alcune delle quali si cercarono alleati arabi (ad esempio la dinastia Hashemita in Iraq ed in Giordania) cui lasciare la responsabilità di governo.[14] In Iran, nel febbraio del 1921, il generale Reza Khan, condotte le sue truppe nella capitale, faceva arrestare alcuni importanti uomini politici liberali e nazionalisti ed avviava un processo che lo avrebbe condotto, quattro anni dopo, a deporre l’ultimo Shah della dinastia turca Qajar ed a prenderne il posto, garantendo alla Gran Bretagna il mantenimento del controllo sul petrolio del paese.
Ma la situazione europea in continuo fermento mutò ben presto il quadro di potere. Nel 1941 si riformò l’alleanza tra Gran Bretagna e Russia, e lo Shah, anche a causa delle sue malcelate simpatie per il regime nazista, fu costretto alle dimissioni ed all’esilio; gli succedette il figlio, il giovane Mohammad Reza e l’Iran divenne una retrovia essenziale per il trasferimento degli aiuti alleati all’Unione Sovietica. Quando, alla fine del conflitto, il nuovo presidente americano Henry Truman impose alle truppe d’occupazione russe ed inglesi di abbandonare l’Iran, sembrava che finalmente si aprisse una nuova fase nella quale si potesse operare per la democratizzazione e la ricostruzione del paese. L’Iran disponeva di una preziosa fonte di guadagno: il petrolio. Ma i profitti, come già ricordato, erano nelle mani della Anglo-Iranian Oil Company, e quindi del governo britannico. Le tensioni che seguirono condussero alla formazione di un Fronte nazionale nel quale si ricompose un’alleanza che già si era formata al tempo della rivolta anti-inglese del tabacco del 1891 tra clero, intellettuali occidentalizzanti e bazarii).[15]
Nell’inverno del 1949, il leader del Fronte, Mohammad Mossadeq, chiamato al governo da un riluttante Shah, avviò una lunga ed estenuante trattativa con gli inglesi, tesa a migliorare le condizioni leonine dell’accordo petrolifero.[16] Chiese ed ottenne un intervento di mediazione nordamericana, ma l’amministrazione USA, che inizialmente simpatizzava per le posizioni iraniane, al momento decisivo si schierò con i britannici (era iniziata la guerra in Corea, si era ormai entrati nel regime di guerra fredda e la priorità assoluta nella politica estera degli USA era rappresentata del «containment» dell’espansionismo sovietico). A Mossadeq non restò che la scelta del confronto e della nazionalizzazione delle concessioni petrolifere. La Gran Bretagna rispose con il blocco delle attività, l’embargo navale e la minaccia dell’invasione. La crisi si sviluppò secondo schemi complessi e lo sbocco finale fu il colpo di Stato favorito (più probabilmente, «promosso») dagli anglo-americani, che portò, nell’agosto del 1953,[17] alla destituzione ed all’arresto di Mossadeq ed alla restaurazione di poteri semi-dittatoriali per il giovane Shah, che restò al potere per altri 26 anni fino all’avvento, nel febbraio del 1979, della rivoluzione khomeinista.

Dal petrolio al nucleare.
Se alla caduta di Mossadeq e in pratica fino alla metà degli anni Settanta, la situazione mondiale delle risorse energetiche naturali, e in particolare del petrolio, era caratterizzata dalla sovrabbondanza («oil glut») e di conseguenza da una offerta praticamente illimitata e da prezzi molto contenuti, oggi il quadro è ben diverso. Dopo le guerre medio-orientali e le crisi degli anni Settanta, che portarono anche alla costituzione dell’OPEC, siamo definitivamente entrati nell’era dell’«oil shortage» e la questione della disponibilità di risorse naturali (petrolio, gas, ecc.) ha ormai assunto una valenza che supera le crisi, in parte transitorie, del passato e che pone le minacce di embargo da parte dei produttori (siano essi l’Iran, l’Iraq, il Venezuela, la Nigeria, la Russia, ecc.) in una ben diversa e preoccupante prospettiva. Nel frattempo, il tumultuoso sviluppo industriale delle potenze emergenti (Cina ed India, in particolare) ha posto in continua e crescente tensione il mercato delle materie prime energetiche.[18]
Peraltro, all’aumento della domanda non fa più riscontro un analogo incremento dell’offerta. Da tempo esperti e studiosi analizzano la situazione mettendo in evidenza che il petrolio è una sostanza «non infinita» e che «a un certo momento… tutto il petrolio che si potrà scoprire nelle varie parti del mondo non potrà più rimpiazzare il petrolio che è stato prodotto (estratto e consumato) e la produzione globale raggiungerà un picco. Le società petrolifere e gli Stati che si reggono sul petrolio troveranno sempre più difficile mantenere gli attuali livelli di produzione e far fronte ai consumi crescenti. La domanda supererà di gran lunga l’offerta ed i prezzi saliranno. Peggio, se il termine ‘picco’ dà l’idea di una curva pulita con la produzione che sale lentamente fino al punto a mezza via, e va quindi scendendo gradualmente verso lo zero, nel mondo reale, l’atterraggio non sarà morbido… il bordo del plateau apparirà piuttosto come un precipizio».[19]
Altri esperti vanno oltre, ipotizzando che il picco sia già stato raggiunto (nel 2005) o sia comunque imminente. Scrive il geologo Kenneth S. Deffeyes: «Siamo di fronte ad un problema che non ha precedenti. La produzione mondiale di petrolio ha smesso di crescere; declini nella produzione stanno per iniziare. Per la prima volta dalla rivoluzione industriale, la disponibilità geologica di una risorsa essenziale non sarà in grado di far fronte alla domanda».[20] Non occorre qui addentrarsi nei particolari tecnici delle analisi di Deffeyes, che si richiamano alle equazioni sviluppate nel 1969 da un altro geologo americano, M. King Hubbert,[21] e chiedersi se abbiano più ragione i pessimisti alla Deffeyes che sostengono che il picco nel rapporto offerta-domanda è stato raggiunto e che il declino è già iniziato, oppure gli ottimisti (i «cornucopians» secondo la definizione di Deffeyes) che ritengono che il picco sia ancora lontano poiché esistono in varie parti del mondo (nelle regioni artiche, ad esempio) grandi riserve non ancora ben identificate ma certe ed il cui sfruttamento sarà reso economicamente attraente dall’aumento dei prezzi. In ogni caso, quale che sia il tempo del picco e del conseguente precipizio, anche i più ottimisti sono d’accordo nel ritenere che le fonti geologiche d’energia (petrolio, gas, carbone, scisti, ecc.) non sono eterne e che, prima o poi, non potranno non esaurirsi.[22] Si tratta di una situazione ormai ampiamente riconosciuta, anche se finora sottovalutata dal mondo della politica, specie in Europa e, fino al recente discorso del Presidente Bush sullo stato dell’Unione, anche negli Stati Uniti.[23]
Questo scenario, se da un lato rende particolarmente preoccupante, nell’immediato (i prossimi 5-10 anni), la minaccia iraniana di embargo, soprattutto verso i paesi europei che in larga misura non dispongono di fonti proprie, offre dall’altro una indiscutibile base razionale per giustificare, nel medio-lungo termine, la pretesa dell’Iran — ma anche di molti altri paesi, abbiano essi firmato o meno il Trattato di non proliferazione nucleare — di dotarsi delle capacità tecniche e scientifiche per poter utilizzare l’energia nucleare a fini pacifici e rendersi così, almeno in parte, autonomi rispetto alla disponibilità di risorse naturali non rinnovabili. Si tratta di valutazioni che negli ultimi anni hanno trovato larga eco in Iran, combinate talvolta con considerazioni di natura ecologica quali quelle che postulano — nelle parole di James Lovelock, citate dal Tehran Times (26 maggio 2005) — «che occorre smettere di produrre energia da combustibili fossili... e dobbiamo farlo entro la prossima decade». «Bruciare gas invece di carbone sembrerebbe una buona soluzione poiché riduce della metà la produzione di anidride carbonica, ma in pratica il gas naturale può risultare la più pericolosa fonte d’energia, poiché è 23 volte più potente, come gas responsabile dell’effetto serra, dell’anidride carbonica». «Non vi è alcuna alternativa ragionevole, conclude Lovelock, all’energia nucleare».[24] Tali concetti sono stati ripresi in molte petizioni popolari sottoscritte nelle Università di Teheran, notoriamente non tenere nei confronti del regime teocratico, e sono condivise dalla stragrande maggioranza degli iraniani, quali che siano i loro orientamenti politici.
La scelta di investire nello sviluppo dell’energia nucleare in Iran non è recente ma risale ad una decisione dell’ultimo Shah. Come ricorda Kenneth M. Pollack, «l’Iran era un membro firmatario (charter member) del Trattato di non proliferazione fin dal 1970 poiché lo Shah era ansioso di costruire una rete di impianti per la produzione di energia nucleare e gli Stati Uniti erano disposti a fornirli solo a paesi che avessero firmato il Trattato».[25] L’attività avviata dal regime dello Shah fu continuata dopo la rivoluzione khomeinista, anche se all’inizio essa non fu particolarmente produttiva. È con l’andata al potere del leader riformista Khatami che gli inetti responsabili del progetto (nominati più per le credenziali rivoluzionarie che per le loro capacità tecniche) furono sostituiti con veri esperti ed efficienti manager e che il progetto ricevette un impulso reale.
Nell’agosto del 2002 il mondo venne a conoscenza, grazie alla denuncia degli oppositori all’estero del regime, il National Council of Resistence, dell’esistenza di due siti (Natanz ed Arak) ove si produceva materiale fissile utilizzabile anche per la costruzione di bombe nucleari. Le successive ispezioni a Natanz (febbraio 2003) da parte di funzionari dell’AlEA, cui l’Iran era sottoposto in quanto firmatario del TNP, confermarono l’esistenza di queste attività ed aggiunsero nuove preoccupanti informazioni. «Si trovarono 160 centrifughe assemblate per un programma pilota. In un altro edificio era in via di assemblaggio un ulteriore migliaio di centrifughe in una struttura industriale in grado di ospitarne 50.000. (Ciò sarebbe stato sufficiente per produrre materiale fissile per circa 25-50 bombe nucleari all’anno). Le centrifughe di Natanz erano identiche a quelle usate dai pakistani e, nel 2004, A.Q. Khan ammise di aver fornito un ampio aiuto all’Iran».[26]

Sono questi gli sviluppi che aprirono la strada al negoziato tra l’Iran ed il Board dell’AlEA ed a quello parallelo, cui si è già accennato, tra l’Iran e la troika europea. In queste discussioni la posizione ufficiale iraniana è sempre stata l’affermazione, non facile da contraddire, che il loro programma nucleare è a soli fini civili (e quindi «pacifici») e non contempla la produzione di armi di distruzione di massa. È chiaro tuttavia, come molti hanno fatto osservare, che il governo iraniano (quello attuale retto da Ahmadinejad non diversamente da tutti quelli precedenti post-khomeinisti) ha sempre considerato con estrema attenzione anche l’opzione militare, tecnicamente possibile, dato lo sviluppo del progetto ed i precedenti di altri Stati che certamente dispongono dell’arma nucleare.
Commentando l’avvio dei negoziati con gli europei, Pollack fa osservare: «Ovviamente Teheran non aveva alcuna intenzione di fermare il suo programma nucleare e lo ha continuamente riaffermato in sedi pubbliche. In effetti, nell’autunno del 2003, appariva più determinato che mai nell’acquisire armi nucleari come il solo mezzo sicuro per impedire agli Stati Uniti di invadere l’Iran così come era avvenuto in Afghanistan ed in Iraq».[27] Sono valutazioni non dissimili da quelle formulate più recentemente da M.me Azadeh Kian-Thiébaut (La République islamique d’Iran) che scrive: «Nel momento in cui il governo iraniano ed i suoi negoziatori sul dossier nucleare si impegnavano a rassicurare l’AlEA, l’Europa e gli Stati Uniti sulle intenzioni pacifiche dell’Iran, il quotidiano conservatore Jomhouri-ye Eslami, legato alla Guida, ha rivendicato, nel suo editoriale dell’8 novembre 2004, lo sviluppo dell’arma nucleare, qualificandolo come un ‘diritto naturale’ del popolo iraniano. Una tale dichiarazione è tuttavia in contraddizione con la posizione della Guida Khamanehi che, qualche giorno prima, si era opposto pubblicamente e per ragioni religiose allo sviluppo, alla detenzione o all’utilizzo dell’arma nucleare».[28]
Si possono meglio valutare queste posizioni, in apparenza ambivalenti e contraddittorie, se si considera che l’Iran è a tutti gli effetti accerchiato da truppe nordamericane. Come fa notare Kian-Thiébaut, «particolarmente dopo la tragedia dell’11 settembre 2001, l’esercito nordamericano è divenuto il più importante vicino dell’Iran, che si trova accerchiato da ovest (l’Iraq, la Turchia), da sud (il Golfo Persico, Qatar, Bahrein, Kuwait, Arabia Saudita), da est (Afghanistan, Pakistan) ed infine da Nord (Azerbaidjan)».[29] Se, infine, a questo si aggiunge che le uniche potenze nucleari della regione sono Israele e Pakistan, entrambi alleati degli Stati Uniti e che in particolare lo Stato ebraico ha più volte fatto intendere di essere pronto a bombardare le centrali nucleari iraniane (ripetendo quanto fatto con l’Iraq nel 1981), si possono comprendere le legittime preoccupazioni del regime iraniano e la sua intenzione di non accettare nulla che gli impedisca di sviluppare un proprio programma nucleare, anche per fini militari.

Da tutto ciò appare più chiaro l’intreccio delle questioni drammatiche che agitano la regione. Esse riguardano sia l’accesso alle fonti energetiche naturali (petrolio e gas), per le quali gli occidentali (Stati Uniti ed Europa) intenderebbero conservare una situazione di privilegio, anche di fronte alle necessità crescenti delle potenze asiatiche emergenti, sia, in contrasto, l’esigenza, molto sentita dalla parte iraniana, di garantirsi strumenti di difesa, anche attraverso una modifica a proprio favore dell’equilibrio geo-politico tra gli Stati della regione, alcuni dei quali (gli alleati degli USA, Israele e Pakistan) possiedono l’arma atomica. Tali questioni, se non affrontate e risolte con il negoziato e con le necessarie iniziative politiche che tengano conto dei legittimi interessi di tutte le parti in causa, potrebbero innescare una serie di gravissime crisi che colpirebbero innanzitutto l’Europa, ma potrebbero anche condurre ad una catastrofe generalizzata di dimensioni difficilmente immaginabili.

L’altro nodo: la questione palestinese.
Se, nell’ottica del mondo occidentale, garantire l’accesso alle fonti energetiche esistenti in Medio Oriente (Arabia Saudita, Iran, Iraq, ecc.) rappresenta, nel breve-medio termine,[30] una delle più importanti variabili nella complessa equazione dell’area, è indubbio che non meno cruciale — e certamente altrettanto gravida di preoccupazioni — appare un’altra questione, quella rappresentata dal conflitto che dura ormai da più di mezzo secolo e che contrappone i palestinesi, tuttora privi di una legittimità statuale, allo Stato d’Israele.
Andrebbe ricordato, in proposito, che le recenti affermazioni del Presidente iraniano Ahmadinejad circa la necessità di «cancellare lo Stato d’Israele dalla carta geografica del mondo» (che hanno creato tanto scalpore in Europa ed in genere nel mondo occidentale) sono ampiamente condivise in larga parte del mondo islamico, soprattutto nei paesi confinanti con la Palestina ove la tragedia di questo popolo è vissuta in presa diretta. Poco prima della fine del 2005, a margine delle elezioni politiche svoltesi in Egitto per la prima volta con la partecipazione del Movimento dei Fratelli Musulmani (che hanno ottenuto un ampio successo, numericamente contenuto solo perché essi hanno accettato la richiesta del presidente Mubarak di limitare la presentazione di propri candidati in un terzo delle circoscrizioni), Mahdi Akef, guida spirituale del Movimento, ha dichiarato al quotidiano Ashar al Awsat: «Il nostro atteggiamento è chiaro, noi non riconosciamo Israele. Lo consideriamo una banda di sionisti trapiantati da noi dall’America, dall’Oriente e dall’Occidente. Noi diciamo che Israele non ha diritto di esistere qui da noi e se ne deve andare».[31] La più larga eco sulla stampa occidentale delle dichiarazioni analoghe della leadership iraniana deriva dal fatto che l’Iran è l’unico paese «importante» della regione, dove anche il governo — e non solo la pubblica opinione, come in molti paesi alleati degli Stati Uniti, quali l’Egitto o l’Arabia Saudita — prende ufficialmente posizione contro Israele sostenendo ed appoggiando apertamente le rivendicazioni palestinesi. [32]
Non si vuole qui esprimere una valutazione assoluta e definitiva sulla questione del maggiore o minore grado di legittimità dell’attuale quadro di potere nel Medio Oriente, del quale comunque lo Stato di Israele fa parte, costituendone una realtà che non si può disconoscere. Al tempo stesso non va dimenticata la necessità di dar vita ad uno Stato palestinese indipendente che disponga di confini certi, come ormai accettato da gran parte del mondo occidentale. Già nell’estate del 1980, poco dopo il fallimento degli accordi di Camp David, il Movimento federalista europeo ha presentato al Parlamento europeo una petizione ove si ravvisava «nella creazione di uno Stato palestinese il fatto decisivo per consentire alle forze del progresso e della pace nel Medio Oriente di prendere il sopravvento su quelle della conservazione».[33]
Anche a proposito della situazione palestinese, vale comunque la pena di richiamare alla memoria qualche precedente storico che può aiutare a comprendere la situazione attuale. Come per molte altre situazioni «difficili» che caratterizzano l’area del Medio Oriente (petrolio e nucleare iraniano, guerra in Iraq, guerre civili nel Libano, ecc.) sono le decisioni prese dalla Gran Bretagna e dai suoi alleati, alla fine della prima guerra mondiale, che hanno dato vita a quella che oggi definiamo la «questione palestinese». Ricorda Rashid Khalidi, nel suo Resurrecting Empire: «Con la Dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917, la Gran Bretagna gettò il peso della più grande potenza dell’epoca… a favore della creazione di uno Stato ebraico in quello che era allora un paese ad amplissima maggioranza araba».[34] In realtà un’attenta lettura della Dichiarazione Balfour, permette di stabilire che il governo britannico, se si dichiarava favorevole «alla fondazione in Palestina di una ‘casa’ nazionale per il popolo ebraico», precisava al tempo stesso che «nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina».[35]
Ma, come per l’Iran ed altre zone difficili del mondo, dopo l’ultimo conflitto mondiale il ruolo di potenza imperiale è passato dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti. Nel caso della Palestina, gli americani hanno semplicemente accettato che, con la fondazione dello Stato di Israele, si compissero gli inevitabili sviluppi delle scelte di fondo fatte venticinque anni prima dai britannici. Fu il Presidente Truman che, scartando il punto di vista «della maggior parte dei suoi consiglieri di politica estera sulla questione palestinese», accettò un piano delle Nazioni Unite per una «spartizione della Palestina eccessivamente favorevole ai sionisti»[36] — e certamente non in linea con la parte conclusiva della Dichiarazione Balfour — e riconobbe il nuovo Stato ebraico subito dopo la sua dichiarazione d’indipendenza nel maggio del 1948. Una frase in apparenza banale, quasi una battuta, può talvolta far capire molto meglio di lunghe ed argomentate spiegazioni l’origine di certe situazioni. Secondo una fonte nordamericana, citata da Khalidi, il Presidente Truman, per giustificare il suo appoggio alla posizione sionista nonostante le obiezioni dei suoi collaboratori, avrebbe osservato: «Mi spiace signori, ma io devo dare una risposta alle centinaia di migliaia di persone che sono in ansia per il successo del sionismo; io non ho centinaia di migliaia di arabi tra i miei elettori».[37] Forse non è improprio affermare che questa breve considerazione del Presidente Truman costituisce la base sulla quale si fondò (e si fonda tuttora) l’alleanza strategica tra gli Stati Uniti ed Israele.
È noto che i palestinesi ed i loro leader politici mantennero per lungo tempo le posizioni formulate oggi da Ahmadinejad e da Mahdi Akef (e, come già si è osservato, per nulla minoritarie nel mondo musulmano medio-orientale), negando il diritto dello Stato d’Israele ad esistere. Questa situazione, superata dalla leadership palestinese di Arafat con il riconoscimento «di fatto» dello Stato d’Israele contenuto nella dichiarazione d’indipendenza dell’OLP del 1988 e dal riconoscimento formale che costituì parte degli accordi di Oslo (1993), è ora di nuovo messa in discussione, sia pure con formule che non possono essere giudicate ultimative, dal nuovo governo palestinese, espressione della maggioranza di Hamas uscita dalle elezioni del gennaio scorso. All’inizio di aprile, in un intervento pubblicato sulla stampa europea, il nuovo capo del governo, Ismail Haniyeh, ha ribadito le ragioni dei palestinesi ai quali vengono tuttora negati diritti fondamentali da parte di Israele, per proseguire affermando: «Noi di Hamas vogliamo la pace e vogliamo porre fine al bagno di sangue… Il messaggio di Hamas e dell’ANP al mondo è questo: non ci parlate più del riconoscimento del ‘diritto di Israele ad esistere’ o della cessazione della resistenza, finché non otterrete dagli israeliani l’impegno a ritirarsi dalla nostra terra e a riconoscere i nostri diritti».[38]
Quanto agli accordi di Oslo, che ora verrebbero messi in discussione dal nuovo governo palestinese, ricorda Pollack che essi furono resi possibili dall’impegno diretto della Amministrazione nordamericana retta dal Presidente Bill Clinton. Molti nello staff clintoniano «erano convinti che la disputa arabo-israeliana fosse la più importante fonte di instabilità della regione, e che i loro predecessori nell’amministrazione Bush avevano creato un’opportunità che bisognava sfruttare».[39] Secondo il progetto clintoniano, «il processo di pace avrebbe incluso i palestinesi, la Siria (ed il suo vassallo libanese) e la Giordania. Ma ciò significava che le altre fonti di preoccupazione sulla sicurezza di Israele — quelle che andavano oltre gli Stati coinvolti nelle trattative — avrebbero comunque dovuto trovare una risposta. In altre parole l’Amministrazione avrebbe dovuto far qualcosa anche nei confronti di Iraq e Iran».[40] Nei fatti, non vi fu discontinuità tra le iniziative dell’amministrazione Bush e le trattative gestite dalla Presidenza Clinton, che condussero agli accordi di Oslo. Entrambe furono rette da regole («ground rules») dettate dai nordamericani, sulla base delle quali «nulla di un qualche rilievo fu negoziato, e tanto meno concordato».[41] Si giunse al riconoscimento formale da parte dell’ANP dello Stato d’Israele, ma quest’ultimo si limitò ad accettare l’OLP come legittimo rappresentante dei palestinesi, non riconoscendo tuttavia «il diritto dei palestinesi alla statualità, all’autodeterminazione, o alla sovranità o a confini certi».[42]
La conseguenza delle intese di Oslo, accettate dalla leadership dell’OLP, in apparenza più interessata a consolidare la propria posizione di potere che a conseguire obiettivi cruciali per il futuro dei palestinesi, fu che Israele ottenne un pieno riconoscimento dai governi dei paesi arabi (che abilmente la leadership nordamericana aveva fatto partecipare al negoziato), laddove «i palestinesi furono dimenticati dai loro sostenitori nel mondo arabo ed altrove che, a torto, ritennero che essi avessero finalmente ottenuto i loro obiettivi nazionali».[43] Non deve quindi stupire se, alla prima occasione (le elezioni del gennaio 2006), i palestinesi abbiano premiato con un’ampia maggioranza il partito di Hamas che all’esito di Oslo si era opposto.
Se la maggior parte dei governi dei paesi arabi approvarono tali accordi, questo non fu certamente il caso dell’Iran. Come ricordato in precedenza, una delle motivazioni cruciali che stavano alla base dell’iniziativa della nuova Amministrazione nordamericana era quella di fornire rassicurazioni ad Israele per la sua sicurezza anche a fronte dei due Stati «canaglia» (Iraq ed Iran) che non erano stati invitati al negoziato. L’Iran, in particolare, rappresentava già allora l’unica «potenza regionale» dell’area, il cui governo, pur mantenendo buoni rapporti con Arafat e l’OLP, appoggiava apertamente le richieste più radicali dei palestinesi, sostenute da Jihad Islamica e Hamas. Ovvia conseguenza di questa posizione fu che l’Iran mantenne una posizione ostile al tentativo americano conclusosi con Oslo ed in genere continuò la propria attività «per cacciare gli Stati Uniti fuori dal Golfo, allargare la propria influenza nella regione e far deragliare il processo di pace».[44]

In questo quadro apparve subito chiaro che il processo avviato dalla Amministrazione Clinton era destinato al fallimento. Si trattava infatti di un negoziato impari, nel quale il presunto «onesto mediatore» (il governo USA) era in realtà schierato dalla parte di uno dei contendenti e nel quale i comprimari (i paesi della regione) erano stati scelti scartando l’unica potenza regionale, l’Iran, ove il governo era effettivamente rappresentativo del sentimento filo palestinese della popolazione ed in genere di tutto il mondo islamico medio-orientale. Con indubbio realismo, il primo ministro israeliano Sharon, ed il suo successore Olmert, ne hanno preso atto ed hanno deciso per il ritiro unilaterale prima da Gaza e, successivamente, anche da altre colonie nella parte occidentale della Giordania. Ma anche questa iniziativa, se sembra offrire migliori garanzie per la sicurezza d’Israele, in particolare con l’erezione del muro, non affronta le questioni cruciali alla base di questo conflitto ormai cinquantennale, quali quelle che riguardano la fondazione di uno Stato palestinese indipendente, il rientro dei profughi, il destino di Gerusalemme, ecc., e lascia quindi aperta la via a ulteriori aggravamenti della crisi.
Che fare quindi? Non è certamente una soluzione quella di affidarsi al «beneficio del tempo». In realtà, se si vogliono affrontare i termini reali della questione, non si può non ipotizzare un nuovo negoziato che, come suggerito dai collaboratori di Clinton, affronti il conflitto israelo-palestinese nella prospettiva del riconoscimento del diritto dei palestinesi ad uno Stato sovrano, garantendo nello stesso tempo le legittime richieste israeliane in termini di sicurezza. Ma sono necessarie due condizioni perché un tale negoziato possa avere successo: 1) non si devono escludere importanti attori regionali, in primis l’Iran; 2) occorre affrontare, in parallelo, tutti gli altri problemi dell’area. Ed in effetti, già il solo coinvolgimento dell’Iran consentirebbe di prendere in considerazione, come «variabili aggiunte» alla stessa equazione, la questione del nucleare iraniano, quella di una migliore regolamentazione nell’accesso alle fonti di petrolio e di gas della regione e, last but not least, quella del come uscire dalla crisi irachena.[45]
Anche le preoccupazioni degli Stati Uniti devono naturalmente essere tenute nella dovuta considerazione. Con riferimento alla questione del nucleare iraniano, Pollack sostiene che è possibile che gli Stati Uniti debbano convivere con un Iran nucleare, e, se da una parte suggerisce il posizionamento di missili balistici americani nell’area ed un formale trattato d’alleanza con Israele, dall’altra non manca di sottolineare la necessità di aperture in termini di aiuti economici e di un’iniziativa multilaterale, aggiungendo infine che gli Stati Uniti, pur essendo una «nazione straordinariamente potente, non è onnipotente» e che vi sono problemi che semplicemente gli Stati Uniti non possono gestire da soli.[46]

Grand Bargain: ruolo e responsabilità dell’Europa.
In definitiva bisogna avviarsi verso un negoziato globale (un «grand bargain», per usare un’efficace espressione dello stesso Pollack) che affronti tutti, e non solo alcuni, i complicati dossier del Medio Oriente e includa, oltre alle questioni della sicurezza della regione e ai relativi problemi nucleari, anche importanti progetti di aiuto economico per la ricostruzione di paesi sconvolti dalla guerra o dal malgoverno, coinvolgendo tutte le parti in causa. Ma perché un tale negoziato possa essere avviato ed offra una possibilità reale di condurre ad un’efficace intesa globale, è chiaro che occorrono «onesti mediatori» che siano effettivamente disposti ad operare per soluzioni equanimi (erga omnes) e che, al tempo stesso, dispongano di un effettivo potere (politico, economico e militare) da far pesare al tavolo delle trattative, secondo le regole, che anche in questo caso non possono essere ignorate, della realpolitik e della ragion di Stato.[47]
Ma chi possono essere questi «onesti mediatori»? O meglio, chi può affiancare gli Stati Uniti, ai quali compete per motivi storici e politici la tutela degli interessi degli israeliani, assumendosi il ruolo di «rappresentanti» dei legittimi interessi delle altre popolazioni medio-orientali? L’ovvia risposta è che questo ruolo spetta all’Europa.[48] Non si tratta solo dello specifico, enorme interesse che l’Europa non può non avere, come ricordava Sergio Romano prima dell’inizio dell’invasione dell’Iraq, per una pacifica sistemazione del Medio Oriente, con il quale essa confina. Si tratta anche di offrire un aiuto effettivo (da «equal partner» e non da succube associato) agli Stati Uniti, ai quali l’Europa è pur sempre legata da una reale coincidenza di interessi e da una comune tradizione di storia, di cultura e di valori consolidati.
Ma dov’è l’Europa? Questa sommaria ricostruzione delle più recenti vicende medio-orientali (dal rischio di guerra civile in Iraq, al dossier nucleare iraniano, al conflitto israelo-palestinese) mette in evidenza, una volta di più, che l’Europa è il «grande assente». In realtà, essa ha finora oscillato tra una posizione di quasi totale disinteresse ed una di sostanziale acquiescenza alla leadership nordamericana. Nel caso dell’Iran e della querelle nucleare, alcuni Stati europei hanno sì preso l’iniziativa di un dialogo con la leadership iraniana per cercare di ottenere una rinuncia a quelle parti del programma nucleare che presentano maggiori rischi di utilizzo nel settore militare (arricchimento dell’uranio, ecc.) ma — presi nella morsa tra la richiesta nordamericana di una maggiore durezza e la minaccia iraniana di un embargo nelle forniture petrolifere — hanno fallito. In effetti, non è stato difficile per gli iraniani valutare correttamente il senso delle iniziative europee. Commentando la prima bozza di risoluzione per il Board dell’AlEA, elaborata dalla troika europea nell’inverno del 2004, il quotidiano Iran News (28 novembre 2004), scriveva: «È chiaro che la troika europea sta cedendo alle pressioni degli Stati Uniti»; e ancora: «L’Europa dovrebbe o rinunciare al suo debole tentativo per una diplomazia indipendente verso l’Iran e porre da parte le sue pretese, oppure dovrebbe fornire una prova concreta che essa non è un’appendice della diplomazia globale degli Stati Uniti… Sfortunatamente, nonostante gli sforzi condotti senza convinzione, l’Europa sembra oggi troppo debole e indecisa per poter resistere al peso enorme esercitato dagli Stati Uniti sulla sua iniziativa diplomatica».[49]

Altrettanto vacua e inconsistente è apparsa la presenza dell’Unione europea nel cosiddetto «Quartetto» che dovrebbe garantire e supervedere la realizzazione della road map, cioè del nuovo piano di pace per il conflitto israelo-palestinese proposto dalla nuova Amministrazione nordamericana, ma di fatto superato dalla iniziativa unilaterale della leadership israeliana. Anche in questo caso gli europei non hanno fatto altro che associarsi nella sostanza alle proposte americane, pronti tutt’al più ad accollarsi parte dei costi o ad offrire modeste ed irrilevanti coperture pseudo-militari.
All’inizio del 2002, commentando una fase particolarmente difficile nel rapporto tra Israele e palestinesi (la seconda Intifada era al culmine e si stavano avviando le iniziative degli Stati Uniti che avrebbero condotto agli accordi di Oslo), Il Federalista scriveva: «Perché il problema possa essere avviato a soluzione è essenziale la presenza di un secondo attore, in grado di disporre di una forte influenza politica e di grandi risorse finanziarie, che agisca di concerto con gli Stati Uniti, ma senza dipendere da essi, e che possa dare… quella garanzia di equidistanza che gli Stati Uniti non sono in grado di fornire. Questo secondo attore non potrebbe essere che l’Europa se essa fosse in grado di esprimere, con l’unità politica, le immense potenzialità che possiede grazie al suo sviluppo economico e tecnologico, alla sua popolazione e alla sua elevata interdipendenza con i paesi del Medio Oriente».[50]
Sono passati quattro anni ma questa Europa ancora non esiste né pare vi sia alcuna consapevolezza da parte della classe politica europea della propria incapacità di far fronte alle drammatiche sfide che giungono da quell’area senza affrontare il problema di dar vita ad una vera unità politica (quindi statuale) dell’Europa. Ci si continua a baloccare con l’idea che sia sufficiente rimettere in vita, magari nel 2009, un Trattato costituzionale, la cui grande novità sarebbe rappresentata dalla nomina di un Ministro degli Esteri europeo, dimenticando quanto affermava Giscard d’Estaing, sempre all’inizio dell’invasione dell’Iraq nel marzo del 2003: «Gli avvenimenti legati alla crisi irachena hanno turbato assai poco, finora, i lavori della Convenzione… In politica estera ciò che sarebbe importante sarebbe la capacità di condurre un’azione diplomatica comune. Ma malauguratamente non è questo il caso».[51]

Non sarà certamente un tale atteggiamento quasi fatalistico che potrà salvare l’Europa (e il mondo) dalle conseguenze di una possibile degenerazione del quadro politico del «grande Medio Oriente». E quanto è il tempo a disposizione dell’Europa perché essa possa dare il proprio essenziale contributo ed invertire questa pericolosa tendenza? Certamente non molto. Non è solo questione di petrolio, di «picco di Hubbert» e di sicurezza nel breve-medio termine di forniture energetiche. Cosa accadrà, nei prossimi anni — se non nei prossimi mesi — a seguito della possibile dissoluzione dell’Iraq, o con la messa in atto della minaccia di intervento militare in Iran, o con una nuova più drammatica Intifada in Palestina, oppure con la conquista del governo da parte dei fondamentalisti islamici in paesi come l’Arabia Saudita, il Pakistan o l’Algeria?

Ma anche fondare uno Stato europeo, una Federazione europea, non richiede molto tempo. Ciò che occorre è la volontà di farlo, quella volontà che consentì al Cancelliere Kohl di decidere rapidamente, dopo la caduta del Muro di Berlino, di rinunciare alla sovranità del marco e di dar vita alla moneta europea.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: All'area arabo islamica non dobbiamo nulla, anzi

Messaggioda Berto » mar ago 22, 2017 9:14 am

Gli Stati Uniti sostengono il jihad per fermare l'ascesa della Russia
Giovanni Giacalone
Ago 30, 2017

http://www.occhidellaguerra.it/gli-usa- ... lla-russia

La deriva radicale di matrice islamista transnazionale iniziata negli anni ’80 vedrà il susseguirsi di una serie di aperture e chiusure di fronti tra loro collegate e con dei chiari comun denominatori: il medesimo filone islamista riciclato in salse diverse, la medesima regia e strategia, il medesimo nemico slavofono/russo e i suoi alleati.

Vale la pena ricordare quanto dichiarato nel lontano 1999 da Alexander Zinoviev, scrittore e dissidente sovietico espulso dall’Urss: “La caduta del comunismo è stata trasformata nella caduta della Russia, una catastrofe deliberatamente pianificata dall’Occidente. Dico questo perché un tempo io stesso ero parte di piani che, dietro il pretesto di combattere un’ideologia, preparavano in realtà la morte della Russia…” (Le Figaro, 24 luglio 1999). In poche parole, qual miglior proxy dell’estremismo islamista per contrastare il nemico russo senza dover utilizzare truppe sul campo? Ma andiamo con ordine.


I mujahideen afghani e la lotta per la libertà contro i sovietici

Il 6 dicembre 1993 il quotidiano The Independent pubblicava un pezzo firmato dal noto giornalista Robert Fisk dal titolo “Guerriero anti-sovietico mette il proprio esercito sulla strada della pace: il businessman saudita che reclutava mujahideen ora li utilizza per progetti di costruzione su vasta scala in Sudan. Robert Fisk l’ha incontrato ad Almatig”.

Ebbene sì, trattavasi di Osama Bin Laden, quello che sarebbe poi diventato “lo sceicco del terrore”, il nemico numero uno di Washington, il simbolo assoluto del male.

Un’intervista nel quale Bin Laden appare come benefattore/guerriero coraggioso e altruista che dopo aver combattuto e inviato migliaia di volontari jihadisti (egiziani, algerini, libanesi, kuwaitiani, turchi, tunisini) in Afghanistan, finita la guerra è ritornato alla sua attività di costruttore.

Nell’intervista Bin Laden dichiara di essersi unito alla jihad afghana perché arrabbiato per l’invasione sovietica, aggiungendo poi che né lui e neanche i suoi “confratelli” avevano prove di un coinvolgimento americano nella guerra afghano-sovietica.

Evidentemente Osama Bin Laden non era al corrente dell’oramai ben nota “Operazione Ciclone”, programma di armamento dei mujahideen afghani durante il conflitto afghano-sovietico. Un’operazione durata ben dieci anni (dal 1979 al 1989), tra le più lunghe e costose mai operate dalla Cia, con un fondo iniziale di $20–30 milioni di dollari all’anno nel 1980 fino a raggiungere i 630 milioni all’anno nel 1987.

Chissà, forse Bin Laden non era al corrente nemmeno dell’esistenza dell’al-Kifah Refugee Center di Brooklyn a New York, costituito nel 1986 come ramo della Maktab al-Khidamat (Mak), quest’ultima però fondata nel 1984 proprio da Osama Bin Laden e dal suo “maestro” Abdullah Azzam per raccogliere fondi e reclutare mujahideen.

Precursore di al-Qaeda, il Mak, ebbe un ruolo fondamentale nel creare la rete di raccolta fondi e di reclutamento che sostenne poi i qaedisti dagli anni ’90 in poi.

Nel 1993 il centro “al-Kifah” di Brooklyn veniva chiuso per sospetta complicità nell’attentato al World Trade Center del febbraio 1993. Tra gli accusati per l’attacco spiccava il nome di Omar Abdel Rahman, meglio noto come lo “sceicco cieco”, ex mujahideen in Afghanistan, leader spirituale della Gamaa al-Islamiyya egiziana.

Lo “sceicco cieco” riusciva a entrare negli Usa con un visto turistico rilasciato dall’ambasciata statunitense di Khartoum nonostante che fosse nella lista nera (terror list watch) del Dipartimento di Stato Usa.

Tornando al centro “al-Kifah”, nonostante la chiusura a Brooklyn, il gruppo rimaneva curiosamente attivo a Zagabria, con un ufficio aperto nel 1991, ben dopo la fine del conflitto afghano. Di lì a poco sarebbe scoppiata la guerra di Bosnia.



Bosnia e Kosovo: stesso nemico, stesso obiettivo

Nel marzo del 1992 scoppiava la guerra in Bosnia, un sanguinoso conflitto caratterizzato da agghiaccianti atrocità commesse da tutte le parti in lotta, che avrebbe visto fronteggiarsi prevalentemente fazioni serbe di religione ortodossa contro i bosniaci musulmani e con un coinvolgimento anche della parte croata.

Se il conflitto inizialmente era legato a motivazioni etnico-nazionali, con odi ancestrali latenti, limitati e soffocati per decenni dal regime titino, poco dopo il conflitto avrebbe assunto sempre di più caratteristiche di stampo religioso.

Non solo, ma c’era un aspetto troppo spesso dimenticato e cioè il fatto che la Serbia, slava e ortodossa, veniva vista come la “lunga mano di Mosca” nei Balcani, in contrapposizione a Croazia e Slovenia che da subito avevano guardato a Ovest. In mezzo c’era la Bosnia, regione musulmana ma composta da musulmani moderati, con una visione della religione più etno-nazionale, con una spinta sufi e decisamente non belligerante. Un contesto non esattamente dei migliori per combattere i serbi, meglio armati anche a causa del fatto che Belgrado era in possesso della stragrande maggioranza dell’arsenale bellico dell’ex Repubblica Socialista di Jugoslavia.

Servivano degli input, uno politico e l’altro militare e se il primo sarebbe giunto grazie all’ex presidente bosniaco Alija Izetbegovic, legato ai Fratelli Musulmani e da sempre pronto a far entrare in Bosnia tagliagole arabi, il secondo vedeva in primis il coinvolgimento di jihadisti arabi, non a caso ex mujahideen della lotta afghana anti-sovietica che confluivano in Bosnia per dar vita all’unità “el-Mudzahid”, con base a Zenica. Una milizia di tagliagole resisi autori di crimini non soltanto contro i serbi ma anche contro quei bosniaci che non condividevano ideologia e metodi.

Vienna, Zagabria e Milano (tramite il Centro Culturale Islamico guidato dall’allora imam Anwar Shaban) diventeranno i punti di riferimento per il rifornimento del jihad in Bosnia e nel Paese balcanico passeranno elementi di spicco di al-Qaeda.

Osama Bin Laden veniva avvistato nella sala d’attesa dell’ufficio di Alija Izetbegovic niente meno che da Renate Flottau, corrispondente per i Balcani del quotidiano Der Spigel. Ayman al-Zawahiri veniva segnalato in Bosnia, nella zona di Maglaj, già nel 1992 per poi dirigere le operazioni da Khartoum servendosi di Ong di copertura, come illustrato sia da John Schindler che dall’intelligence egiziana. Il fratello di al-Zawahiri, Muhammad, negli anni ’90 aveva lavorato presso la International Islamic Relief Organization in Albania, Croazia e Bosnia. Tra i jihadisti attivi in Bosnia figuravano anche Khalid Sheikh Muhammad, “principale architetto degli attacchi dell’11 settembre”, secondo la relativa Commissione d’Inchiesta; Kemal Mustafa Kemal “Abu Hamza”, ex imam della moschea radicale di Finnsbury Park a Londra.

Lo stesso Anwar Shaban si recava in Bosnia per sfuggire all’arresto delle autorità italiane e moriva in un agguato dell’Hvo croato il 14 dicembre 1995, pochi giorni dopo la firma degli accordi di Dayton che ponevano fine al conflitto.


La guerra in Kosovo

Come illustra Germana Leoni von Dohnanyi, nel saggio Some call it peace, Yossef Bodansky rivelava che il conflitto in Kosovo non era altro che la diretta emanazione di quello in Bosnia nonché un piano concepito dal governo di Sarajevo e dai suoi alleati per lanciare una rivolta armata contro la Serbia, iniziato nel 1995 col dispiegamento di veterani albanesi e “mujahideen”.

Tra questi veterani albanesi pare vi fossero anche membri della guardia pretoriana che proteggeva il presidente bosniaco Alija Izetbegovic, formata da circa tremila uomini e denominata “Divisione Handzar”, un sinistro richiamo a vecchie e tristemente note formazioni locali della Seconda Guerra Mondiale.

Assieme agli “indipendentisti nazionalisti” dell’UCK veniva segnalata la presenza di mujahideen arabi veterani di Bosnia (sauditi, afghani, pakistani, bosniaci, macedoni, ceceni, yemeniti) e persino dei contractors legati alla Military Professional Resources Inc. con sede in Virginia.

L’ex ambasciatore in Jugoslavia, James Bisset affermava: “Già nel 1998 la Cia assisteva le britanniche Sas nell’armare e addestrare in Albania i membri dell’Uck allo scopo di fomentare una ribellione in Kosovo” (Leoni Von Dohnanyi, p.97. Bisset, We Create a Monster, Toronto Star, 31-07-2001). E ancora: “Molti membri dell’Uck sono stati spediti in Afghanistan per essere addestrati nei campi terroristi”. (Leoni Von Dohanyi ibid).

990701-M-5696S-003 U.S. Marines provide security as members of the Royal Canadian Mounted Police Forensics Team investigate a grave site in a village in Kosovo on July 1, 1999. Elements of the 26th Marine Expeditionary Unit are deployed from ships of the USS Kearsarge Amphibious Ready Group as an enabling force for KFOR. KFOR is the NATO-led, international military force which will deploy into Kosovo on a peacekeeping mission known as Operation Joint Guardian. KFOR will ultimately consist of over 50,000 troops from more than 24 contributing nations, including NATO member-states, Partnership for Peace nations and others. DoD photo by Sgt. Craig J. Shell, U.S. Marine Corps. (Released)

Altro elemento di interesse, l’Uck figurava nella lista nera delle organizzazioni terroriste del Dipartimento di Stato americano, ma come per miracolo venivano improvvisamente promossi in “freedom fighters” e a quel punto si trasformavano in un legittimo alleato in chiave anti-serba e quindi anti-Mosca. Un “miracolo” che avremmo visto ripetersi anche in Siria con la formazione qaedista “Jabhat al-Nusra” in chiave anti-Assad e quindi anti-russa.

Il susseguirsi del conflitto è ben noto e gli abitanti di Belgrado lo ricordano molto bene, tanto che ancora oggi nella capitale serba sono visibili i segni dell’aggressione Nato. Non dimentichiamo inoltre della segnalazione, durante il breve conflitto macedone nel 2001, di un’unità di jihadisti arabi nota come “unità Imran Elezi”, composta da circa un centinaio di uomini e attiva nelle zone di Kumanovo, Tetovo e Skopje.
Il conflitto siriano

Inizialmente la guerra civile siriana scoppiata nel 2011 era apparsa a molti come un fattore endogeno ma ben presto i fatti avrebbero mostrato ben altre dinamiche. Alleato storico di Mosca e pezzo essenziale di quell’”asse sciita” che collega l’Iran al Libano, la Siria era target primario per la destabilizzazione del nemico storico dell’Occidente, a prescindere che si chiamasse Russia o Unione Sovietica.

Presto ci si sarebbe resi conto che in Siria confluivano gli interessi di tutti: sauditi e qatarioti in chiave anti-sciita; israeliani in chiave anti-Hizbullah/Iran; turchi in chiave anti-Assad e anti-curda e ovviamente della Nato e di Washington in chiave anti russa.

I jihadisti dal canto loro vedevano nella destabilizzazione dei territori siriani ed iracheni una ghiotta occasione per dar vita a uno Stato islamico utilizzando le formazioni jihadiste irachene formatesi dopo l’abbattimento del regime di Saddam Hussein.

Vi è però un aspetto che spesso sfugge all’attenzione dei media e cioè il fatto che una delle formazioni jihadiste più pericolose e composta da reduci di conflitti recenti era formata proprio da elementi provenienti dai Balcani, jihadisti kosovari, albanesi e bosniaci.

Il Kosovo risulta essere il Paese con il più alto numero di jihadisti partiti dai Balcani, 319 secondo le ultime stime ma c’è chi ipotizza 340, di cui circa 150 rientrati in patria ed anche quello che avrebbe fornito il maggior numero di foreign fighters in rapporto alla popolazione. Sarebbe interessante conoscere il background di questi volontari kosovari e in particolare se hanno o meno preso in qualche modo parte ai conflitti balcanici tra il 92 e inizio 2000.

Figura di riferimento del jihadismo balcanico e kosovaro in Siria è Lavdrim Muhaxheri, noto anche come ”il macellaio” e a capo delle milizie balcaniche dell’Isis, presumibilmente ucciso lo scorso giugno.

Strano personaggio Muhaxheri: plausibili legami con l’Uck, fino al 2010 aveva lavorato per la Kfor a Camp Bondsteel, nella città kosovara di Ferzaj; in seguito veniva promosso e trasferito in un campo della Nato in Afghanistan dove restava per due anni e dove improvvisamente si radicalizzava.

Interessante la testimonianza di alcuni suoi amici e familiari che affermavano come Lavdrim non era mai stato particolarmente religioso prima di rientrare dall’Afghanistan.

Nel 2012 Muhaxheri rientrava in Kosovo dove fondava un’associazione islamica a Kacanik per poi andare a combattere in Siria con i jihadisti e veniva segnalato prima con Jabhat al-Nusra e poi con l’Isis.

Nel contempo dal Kosovo giungevano segnalazioni inquietanti su “campi di addestramento” come il “Kampet e Zeza”, segnalato da alcuni media albanesi, o come quello individuato nel 2012 sulle montagne nei pressi di Rastelica, entrambi definiti dalle autorità kosovare come “campeggi islamici” dove non sarebbero state trovate armi.

In un’intervista di giugno 2016 il sindaco di Kaçanik, Besim Ilazi, denunciava la presenza, nelle boscaglie appena fuori della cittadina, di luoghi di ritrovo dei jihadisti, con tanto di guardie armate che precludono l’accesso ai non autorizzati.

Lunga è inoltre la lista di predicatori jihadisti kosovari radicali come Mazllam Mazllami, Shukri Aliu, Rexhep Memishi, Zeqirja Qazimi, Shefqet Krasniqi, e Ridvan Haqifi.
Mosca e Damasco sconfiggono l’Isis. E adesso?

Con l’intervento militare russo in Siria e il passaggio della Turchia sotto l’asse Mosca-Damasco l’esito del conflitto è rapidamente e drasticamente mutato.

I russi sono infatti riusciti in pochi mesi a raggiungere quell’obiettivo che la “Coalizione” guidata da Washington non è riuscita a conseguire in anni di operazioni e cioè quello di distruggere l’Isis, il cosiddetto “Stato islamico”.

Il cambio di linea di Ankara è risultato fondamentale in quanto la Turchia, se prima svolgeva un ruolo di primo piano nel far transitare jihadisti e armamenti ai jihadisti anti-Assad (che si trattasse di gruppi qaedisti o Isis, tutto ampiamente documentato), l’allineamento con Mosca ha di fatto soffocato i rifornimenti ai jihadisti e l’offensiva russa e curda ha fatto il resto.

A questo punto però è fondamentale porsi una domanda, dove confluiranno i jihadisti utilizzati nel conflitto siriano e iracheno? Si aprirà un nuovo fronte? Dove? Probabilmente non bisognerà attendere molto per rendersene conto.
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Re: All'area arabo islamica non dobbiamo nulla, anzi

Messaggioda Berto » mar ago 22, 2017 9:14 am

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Re: All'area arabo islamica non dobbiamo nulla, anzi

Messaggioda Berto » mar ago 22, 2017 9:45 am

Ebraismo e Cristianesimo : violenti come l'islam? No!
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Re: All'area arabo islamica non dobbiamo nulla, anzi

Messaggioda Berto » mar ago 22, 2017 9:45 am

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Re: All'area arabo islamica non dobbiamo nulla, anzi

Messaggioda Berto » mar ago 22, 2017 1:30 pm

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