All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Re: A l'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » gio feb 23, 2017 10:20 am

...


EPA: benedizione o condanna? I nuovi accordi economici tra Africa ed Europa
http://africaeuropa.it/2014/10/30/epa-b ... -ed-europa

Possono tre semplici lettere cambiare il volto delle relazioni tra Africa ed Europa?

La risposta è sì, se le lettere in questione – e, p, a – unite vanno a forma l’acronimo inglese EPA, che sta ad indicare i nuovi Accordi di partenariato economico siglati – al novembre 2014 – dall’Unione europea con tre differenti gruppi di Stati africani: il cosiddetto West Africa group (comprendente i 15 Paesi della Comunità economica dell’Africa occidentale più la Mauritania), il SADC-EPA group (formato da Botswana, Lesotho, Mozambico, Namibia, Sudafrica e Swaziland) e l’East African Community (Kenya, Tanzania, Uganda, Burundi e Ruanda).

Accordi che – a conclusione del lungo processo di ratifica da parte dei singoli parlamenti nazionali – andranno a ridisegnare le relazioni economiche e commerciali tra i due continenti con effetti ad oggi ancora difficili da immaginare.

Nella sostanza gli stati africani, per vedere garantito ai propri prodotti l’accesso al mercato europeo senza dazi (come avveniva fino al 1° ottobre 2014), hanno dovuto sottoscrivere una serie di nuovi accordi (gli EPAs appunto) in cui si impegnano a liberalizzare i propri mercati facilitando l’accesso ai prodotti provenienti dall’Europa attraverso la progressiva abolizione dei dazi in entrata.

Agli Stati africani sarà però consentito di mantenere alcune tasse a protezione di prodotti o settori considerati strategici.

Per rendere l’idea di quale sarà la portata dei nuovi accordi basti pensare che gli scambi commerciali tra Unione europea e Africa occidentale – nel 2013 – erano parti a 68 miliardi di euro (FONTE UE)

Nonostante le rassicurazioni dei negoziatori europei – il commissario europeo al commercio (uscente) De Gucht, ha parlato di un processo con mutui benefici e motore di un’occasione di sviluppo per l’Africa – non mancano le preoccupazioni per le possibili ricadute sulle già fragili economie africane.

We can create local wealth and jobs and Governments should support family farming more effectively, say West African farmers

La rete delle organizzazioni contadine e degli allevatori dell’Africa occidentale – riunite nel network ROPPA – ha più volte messo in guardia di fronte alle possibili ripercussioni dell’apertura dei mercati africani ai prodotti agricoli europei.

Il rischio – da loro paventato – è quello di vedere i mercati africani invasi di prodotti europei a basso costo, affossando così un settore che rappresenta la principale fonte di sostentamento per i 300 milioni di abitanti della regione.

Prezzi che – sottolineano i vertici del ROPPA – sono viziati dai sussidi che l’Ue continua a pagare ai propri agricoltori: aiuti che si tramuterebbero in forme di dumping commerciale e concorrenza sleale nei confronti dei produttori africani.

Come sottolineato dall’inchiesta “The Dark Side of the italian Tomato” che denuncia come l’esportazione di pomodoro concentrato – prodotto in Italia e coperto da sussidi – abbia negli ultimi anni invaso il mercato ghanese provocando la crisi del mercato locale e costringendo migliaia di agricoltori ad emigrare (alcuni di questi verso la stessa Italia).

Sulla questione dei sussidi bisogna però ricordare come la Commissione europea si sia impegnata – nell’ambito degli stessi Epa – a provvedere alla loro progressiva cancellazione. Resta da capire in che tempi e con quali modalità.

Vi è poi il tema delicato dei mancati introiti per le casse dei governi africani derivanti dalle tasse imposte sui prodotti di importazione. Risorse che, per molti Paesi, rappresentavano un capitolo importante dei budget nazionali.

Il dibattito è aperto e noi di africaeuropa ci sentiamo in dovere di provare ad affrontare un tema tanto complesso quando importante per il futuro di milioni di africani. Un tema che è stato snobbato e dimenticato dalla maggior parte dei media italiani, nonostante la recente scadenza del 1 ottobre 2014.

Per questo abbiamo deciso di dedicare agli EPAs una serie di post (ad iniziare dalla MINIGUIDA qui sotto) che andranno ad approfondire i vari aspetti – non solo economici, ma anche politici – dei nuovi accordi.

Questo perché crediamo che la conoscenza e l’informazione siano alla base di ogni possibile cambiamento.

Un ringraziamento speciale va all’ ECPDM (European Centre for Development Policy Management) per la mole di materiali e approfondimenti sull’argomento che mette a disposizione – gratuitamente – attraverso il proprio sito internet.




Fermiamo gli "Epa"
http://www.nigrizia.it/notizia/fermiamo-gli-epa

Difendiamo il futuro dei popoli africani dagli accordi economici che l'Europa vuole imporre. Appello rivolto alle associazioni, alle reti sociali, agli istituti missionari e a tutte le donne e gli uomini di buona volontà. Firma anche tu.

L’Unione Europea, anche a motivo della crisi economica, persegue una politica sempre più aggressiva per forzare i paesi ACP (Africa, Caraibi, Pacifico) a firmare gli EPA (Economic Partnership Agreements - Accordi di partenariato economico). Una trattativa questa durata quasi dieci anni; la Ue esige che entro il 1° ottobre 2014 gli accordi siano siglati (questo è il primo passo che precede la vera e propria firma che può avvenire anche a diversi mesi di distanza dopo la soluzione di tutti gli aspetti legali).

Le relazioni commerciali tra la Ue e i paesi ACP sono state regolate dalla Convenzione di Lomé (1975-2000) e poi di Cotonou (2000-2020) con la clausola che i prodotti ACP - prevalentemente materie prime - potessero essere esportati nei mercati europei senza essere tassati. Questo però non valeva per i prodotti europei esportati nei paesi ACP, che dovevano invece sottostare a un regime fiscale di tipo protezionistico. ???

Ora, la Ue chiede ai paesi ACP di eliminare le barriere protezionistiche in nome del libero scambio perché così richiede il WTO (l’Organizzazione Mondiale del Commercio) che persegue la politica di totale liberalizzazione del mercato. Con gli EPA, infatti, le nazioni africane saranno costrette a togliere sia i dazi che le tariffe oltre ad aprire i loro mercati alla concorrenza. La conseguenza sarà drammatica per i paesi ACP: l’agricoltura europea (sorretta da 50 miliardi di euro all’anno) potrà svendere i propri prodotti sui mercati dei paesi impoveriti. I contadini africani, infatti, (l’Africa è un continente al 70% agricolo) non potranno competere con i prezzi degli agricoltori europei che potranno svendere i loro prodotti sussidiati. E l’Africa sarà ancora più strangolata e affamata in un momento in cui l’Africa pagherà pesantemente i cambiamenti climatici.

La Ue vuole concludere in fretta questo negoziato vista l’importanza strategica dell’accordo soprattutto per il rincaro delle materie prime che fanno molta gola alle potenze emergenti (i BRICS ), in particolare Cina, India e Brasile già così presenti in Africa.

Per di più gli EPA aprirebbero nuovi mercati per i prodotti europei, ma anche nuovi spazi per investimenti e servizi.

Il tentativo dell’Unione Europea di siglare gli EPA con i 6 organismi regionali coinvolti - Comunità dei Caraibi (Cariforum), Africa Centrale (CEMAC), Comunità dell’Africa Orientale (EAC) e Corno d’Africa, Africa Occidentale (ECOWAS), Comunità di sviluppo dell’Africa Australe (SADC) e infine i paesi del Pacifico – sta conoscendo significativi ostacoli. Al momento, la Ue ha firmato un accordo definitivo solo con i quindici stati dei Caraibi. Le altre aree si sono rifiutate di firmare in blocco e la Ue ha perseguito la politica di firmare EPA provvisori con i singoli paesi: 21 hanno finora siglato gli accordi anche se pochi hanno firmato, dando un chiaro segnale della inaccettabilità degli accordi e della fallibilità diplomatica dell’Ue su questo fronte, e che sin dalla Conferenza di Lisbona (2007) si doveva presagire. In questo clima il Coordinamento per i Negoziati EPA, promosso dall’Unione Africana (UA), ha invitato tutti a non firmare per ora gli accordi EPA, ma di aspettare dopo il vertice Africa-Ue che si terrà il prossimo aprile.

Noi, donne e uomini impegnati nella lotta per il rispetto dei diritti umani, missionari e laici, riteniamo che gli EPA siano profondamente ingiusti per queste ragioni:

- in un’Africa già così debilitata, questi accordi costituirebbero un colpo mortale per l’agricoltura africana, in particolare per l’industria della trasformazione e della lavorazione dei prodotti agricoli, che può e deve arrivare a sfamare la propria gente;

- l’eliminazione dei dazi doganali nei paesi ACP, che costituiscono una bella fetta del bilancio statale, metterebbero in crisi gli stati ACP;

- gli accordi fatti dalla Ue con i singoli stati d’Africa hanno la conseguenza di spaccare le unità economiche regionali essenziali per una seria crescita dell’Africa;

- non è vero che sia il WTO a esigere gli EPA, che sono invece frutto delle spinte neoliberiste di Bruxelles;

- la Ue deve rendersi conto che l’Africa sta guardando ai BRICS , in particolare a Cina, Brasile e India come partner più allettanti che l’Europa.

Noi guardiamo anche con grande preoccupazione ai negoziati di libero scambio(DCTFA) con tre importanti paesi del Nordafrica: Egitto, Tunisia e Marocco, ai quali bisogna aggiungere la Giordania. La Ue vorrebbe negoziare la liberalizzazione dei settori agricoli, manifatturieri, ittici nonché l’apertura dei mercati pubblici alle compagnie europee. A nostro parere questo costituirebbe una minaccia diretta alle aspirazioni sociali e democratiche promosse dalle ‘primavere arabe’. Questi accordi rinchiuderebbero le economie di questi paesi in un modello di crescita rivolta all’esportazione e aprirebbero i mercati di quei paesi alle multinazionali europee.

L’Europa non può permettersi un negoziato del genere dopo il fallimento del Processo di Barcellona, firmato il 28 novembre 1995, con 15 paesi del Mediterraneo che voleva instaurare un’area di libero scambio nel Mare nostrum.

Siamo alla vigilia delle elezioni europee. Noi chiediamo che questi negoziati sia con i paesi ACP sia con i paesi del Mediterraneo diventino soggetto di dibattito pubblico. Non è concepibile che una potenza economica come la Ue non abbia una seria politica estera verso i paesi più impoveriti, verso soprattutto il continente a noi più vicino:l’Africa.

Ci appelliamo a tutti quei gruppi, associazioni, reti, istituti missionari che hanno già lavorato sugli EPA a riprendere a martellare i nostri deputati a Bruxelles.

Non possiamo non ascoltare l’immenso grido dei poveri. È in ballo la vita di milioni di persone, ma anche il futuro della Ue.



Alberto Pento
Le primavere arabe (che poi arabe non sono) hanno dimostrato che non erano affatto primavere ma tristi inverni, egemonizzate dal nazismo islamico dei Fratelli Mussulmani con tutto quello che ne è conseguito in orrende guerre civili, guerre all'occidente e al cristianesimo, sterminio dei cristiani e degli ebrei nei paesi a prevalenza islamica, terrorismo ovunque nel Mondo.



Africa Meridionale: approvati accordi Epa con l’Ue
Fonte: Africanews

http://www.nigrizia.it/notizia/africa-m ... pa-con-lue

Il Parlamento Europeo ha approvato ieri gli Accordi di partenariato economico con sei paesi della Comunità di sviluppo dell'Africa meridionale, dopo nove anni di negoziati durante i quali l’Angola ha abbandonato il processo. La progressiva liberalizzazione dei commerci con l’Europa, ad eccezione del settore agricolo e ittico, coinvolgerà Namibia, Mozambico, Botwana, Swaziland, Lesotho e, in misura minore, il Sudafrica.

Tali accordi erano stati contestati da diverse Ong, per le possibili conseguenze del libero accesso dell’Europa ai mercati africani dei paesi più in difficoltà, che da parte loro avrebbero ben poco da esportare in Occidente. Per garantire un reale beneficio per la popolazione, afferma il relatore del Parlamento europeo a capo del processo, Alexander Graf Lambsdorff, sono state previste numerose garanzie di tutela, aventi come paradigma dominante diritti umani e sviluppo sostenibile.
Gli accordi saranno applicati dopo la ratifica da parte del Consiglio dell’Unione europea e dei parlamenti dei singoli stati; proprio quest’ultimo passaggio si è rivelato critico per altre comunità di Stati africani che stanno valutando se accettare o meno gli accordi. (Africanews / Euractiv)









PAC
La politica agricola comune (PAC) è una delle politiche comunitarie di maggiore importanza, impegnando circa il 34% del bilancio dell'Unione europea. È prevista dal Trattato istitutivo delle Comunità.
https://it.wikipedia.org/wiki/Politica_agricola_comune
I sei paesi che costituirono il Mercato Europeo Comune erano appena usciti dalla guerra, in cui la popolazione aveva conosciuto situazioni di gravissima penuria alimentare. In Germania una situazione prossima alla fame si era perpetuata fino all'alba degli anni cinquanta. Quando i partner dell'accordo romano inviarono i propri ministri dell'agricoltura, circondati da stuoli di collaboratori tecnici, a Stresa, tra il 3 e l'11 luglio 1958, per decidere quale sarebbe stata la politica agraria del Mec, l'ordine dei governi era fondamentalmente uno: assicurare la certezza e l'abbondanza dei rifornimenti, qualunque situazione potesse attraversare il mercato mondiale. La durissima rivalità tra USA e Urss rendeva facilmente prevedibili, infatti, difficoltà di transito marittimo: l'imperativo fu di assicurare il cibo a tutti gli europei. Della situazione approfittò la Francia, consapevole delle proprie immense risorse agrarie. Lucidamente, de Gaulle ordinò al ministro Pisani di obbligare la Germania, che risentiva ancora, psicologicamente, della sconfitta, a pagare il conto del successo agricolo francese. Adenauer dovette ordinare al proprio ministro di accettare, per entrare nel consorzio, il diktat del Generale
Una delle misure consiste nella fissazione di livelli minimi di prezzo per i prodotti agricoli, che generano enormi eccedenze. La procedura usuale dell'Unione Europea è pagare gli esportatori perché vendano tali prodotti all'estero.
...

Nuova Pac 2014-2020: chi perde e chi guadagna
http://www.uci.it/dettaglionews/Notizie ... i-guadagna


???
Troppi sussidi agli agricoltori europei. L'Ocse striglia l'Ue
Nel mentre il Consiglio dei ministri dell'agricoltura europei cerca di trovare la quadra sui punti oscuri della nuova Pac, l'Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione chiede un taglio più sostanzioso dei contributi pubblici. Perchè dovrebbe farlo l'Europa mentre le altre nazioni incrementano gli aiuti pubblici?

http://www.teatronaturale.it/tracce/mon ... a-l-ue.htm

Ancora troppe difficoltà nel trovare la quadra per la nuova riforma della Pac e così il Consiglio europeo dei Ministri dell'agricoltura, riunitosi il 23 settembre scorso, decide di aprire le porte di dare il via a un dibattito pubblico sulla stato di avanzamento della riforma della Pac.

Il pacchetto si compone di quattro testi principali :
- la proposta di regolamento recante norme sui pagamenti diretti agli agricoltori
- la proposta di regolamento per un'organizzazione comune di mercato dei prodotti agricoli (Ocm unica) ( 13369/13 )
- la proposta di regolamento sul sostegno allo sviluppo rurale
- la proposta di regolamento sul finanziamento, sulla gestione e sul monitoraggio della politica agricola comune

Proprio mentre in Europa è in corso un difficile negoziato tra Consiglio, Commissione e Parlamento, l'Ocse, con il rapporto Agricultural Policy: Monitoring and Evaluation 2013, striglia l'Europa, rea di aver alzato gli aiuti all'agricoltura. L'Ocse ha infatti rilevato che il sostegno pubblico all'agricoltura è arrivato al 19% dei redditi derivanti dal settore primario, quando nell'anno precedente era al 18%. Un calo sicuramente anche dovuto alla diminuzione del Pil agricolo di molti paesi, colpiti da eventi calamitosi, tuttavia l'Ocse punta l'indice contro l'accordo politico del 26 giugno scorso che non rappresenta un cambio di rotta della Pac.

L'Europa, secondo l'Ocse, contribuirebbe all'agricoltura di più rispetto alla media dei paesi sviluppati, media pari al 17% dei redditi agrari nel 2012 e del 15% nel 2011.

Vi è però da sottolineare che gli aiuti complessivi al settore agricolo, nell'area Ocse, sono incrementati da 201 a 258 milioni di dollari tra il 2011 e il 2012. I paesi che erogano i contributi più generosi sono il Giappone (56% del reddito agrario), Corea (54%), Norvegia (63%) e Svizzera (57%). Fanalini di coda Australia (3%), Cile (3%) e Nuova Zelanda (1%).

Sono soprattutto alcune economie emergenti ad aver aumentato i sostegni all'agricoltura. In Cina, nel 2012, hanno raggiunto la percentuale record: 17% del reddito agricolo, ovvero quasi pari al livello europeo. In Indonesia sarebbe arrivato al 21% e in Kazakistan ha raggiunto il 15%.

Sono molti i paesi che stanno incrementando i sussidi per arrivare all'autosufficienza, specie in alcuni settori strategici. La Russia vuole arrivare a coprire l'80-90% del proprio fabbisogno di cereali, zucchero, oli vegetali, carne e prodotti lattieri. E' così probabile che aumenti gli aiuti, fino ad oggi fermi al 12% dei redditi agricoli.

Secondoo il direttore dell'Ocse, Ken Ash: “con i mercati mondiali per i prodotti alimentari e delle materie prime capaci di tenere alti i prezzi delle derrate agricole, è giunto il momento per i governi a impegnarsi credibilmente a sostenere riforme agricole di ampio respiro. Soddisfare le esigenze di una popolazione mondiale in crescita richiede un allontanamento dalle politiche distorsive e sprecone del passato per favorire invece misure che migliorino la competitività, consentendo agli agricoltori di rispondere ai segnali del mercato, garantendo nel contempo che l'innovazione tanto necessaria sia interamente finanziata”.

I paesi che aderiscono all'Ocse sono 47 e rappresentano l'80% dell'agricoltura mondiale.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: A l'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » gio feb 23, 2017 10:57 pm

Migrare (emigrare/immigrare) non è un diritto universale inalienabile,
nel senso che non si può andare a vivere in un altro paese a prescindere dalla volontà di quel paese; nessuno ha il diritto di entrare in casa d'altri a proprio arbitrio e violare il diritto di altri alla sua terra, alla sua casa, alla sua proprietà, alla sua libertà.

Al “diritto umano di emigrazione” come diritto “di lasciare qualsiasi paese incluso il proprio” sancito dalla Dichiarazione del ’48 all’Articolo 13 e dai Patti internazionali sui Diritti Civili e Politici del 1976 all’Art.12.2, non corrisponde un “diritto umano di immigrazione” che presupporrebbe dei doveri di accoglienza da parte degli Stati.


???

Abbiamo chiuso la rotta balcanica dei migranti scrivendo, attraverso il patto con la Turchia, una delle pagine più vergognose della storia comunitaria europea.
Ora, visto il “successo”, di quel patto, il governo italiano – a nome dell’Unione – lo vuole replicare con i paesi africani per bloccare la rotta libica. Chi vede gli occhi dei bambini nei campi profughi – ha detto Papa Francesco – è in grado di riconoscere la “bancarotta dell’umanità”. Davanti a parole così chiare e dure, Alex Zanotelli si dice sconcertato dal silenzio della Conferenza Episcopale Italiana e degli istituti missionari quando si gioca con la vita di milioni di migranti, “la carne di Cristo”, per dirla con le parole di Francesco
di Alex Zanotelli

http://comune-info.net/2017/02/un-patto ... o-migranti

“Siamo stati capaci di chiudere la rotta balcanica,- ha detto il Presidente della Commissione Europea, Tusk – possiamo ora chiudere la rotta libica.” Parole pesanti come pietre pronunciate in occasione del Memorandum firmato a Roma il 2 febbraio dal nostro Presidente del Consiglio Gentiloni con il leader libico Fayez al Serraj, per bloccare le partenze dei migranti attraverso il canale di Sicilia.
È la vittoria del cosiddetto Migration Compact (Patto per l’Immigrazione), portato avanti con tenacia dal governo Renzi e sostenuto dall’allora Ministro degli Esteri , Gentiloni. “Lo stesso impegno profuso dall’Europa per la riduzione dei flussi migratori sulla rotta balcanica, – aveva affermato Gentiloni lo scorso anno davanti alla Commissione Trilaterale,- va ora usato sulla rotta del Mediterraneo Centrale per chi arriva dalla Libia.” Gentiloni, ora che è presidente del Consiglio, lo sta realizzando. Trovo incredibile che si venga ad osannare l’accordo UE con la Turchia per il blocco dei migranti. Ci è costato sei miliardi di euro, regalati a un despota come Erdogan ed è stato pagato duramente da siriani, iracheni, afghani in fuga da situazioni di guerra. “I 28 paesi della UE hanno scritto con al Turchia – ha affermato Hein del Consiglio Italiano per i Rifugiati – una delle pagine più vergognose della storia comunitaria. E’ un mercanteggiamento sulla pelle dei poveri.”

Visto il successo (!!) di quel Patto, il governo italiano lo vuole replicare con i paesi africani per bloccare la rotta libica, da dove sono arrivati in Italia lo scorso anno 160.000 migranti. Ecco perché il governo italiano, a nome della UE, ha fatto di tutto per arrivare a un accordo con la Libia, un paese oggi frantumato in tanti pezzi, dopo quella guerra assurda che abbiamo fatto contro Gheddafi (2011). Il governo italiano e la UE hanno riconosciuto Fayez al Serraj come il legale rappresentante del paese, una decisione molto contestata dall’altro uomo forte libico, il generale Haftar. Per rafforzare questa decisione l’Italia ha aperto la propria ambasciata a Tripoli.

Il Piano della Commissione Europea prevede di creare in Libia una ‘linea di protezione’ (una specie di blocco navale) il più vicino possibile alle zone d’imbarco per scoraggiare le partenze dei profughi. Il vertice dei capi di Stato della UE a Malta (3 febbraio) ha approvato questo accordo fra l’Italia e la Libia. Ma questo è solo un primo e fragile tassello del Migration Compact, definito da G. Ajassa su la Repubblica “necessario, anzi urgente!” La UE vuole arrivare ad accordi con i vari stati da cui partono i migranti. Per ora la UE ha scelto cinque paesi chiave: Niger, Mali, Senegal, Etiopia e Nigeria, promettendo tanti soldi per lo sviluppo. Lo scorso novembre una delegazione, guidata dall’allora Ministro degli Esteri, Gentiloni ha visitato il Niger , Mali e Senegal. Si è soprattutto focalizzata l’attenzione su un paese- chiave per le migrazioni: il Niger. E’ significativo che la prossima primavera l’Italia aprirà un’ambasciata nella capitale del Niger, Niamey. “I ‘buoni’ sono la Ue, l’Italia, il Migration Compact, che si spacciano per i salvatori umanitari – scrive il missionario Mauro Armanino che opera a Niamey- i ‘brutti’ sono migranti irregolari… Noi preferiamo stare con i ‘brutti’, coloro che ritengono che migrare è un diritto!”

Che ipocrita quest’Europa che offre soldi all’Africa per “svilupparsi” e impedire i flussi migratori, mentre la strozza economicamente! La UE sta forzando ora i paesi africani a firmare gli Accordi di Partenariato Economico (EPA) che li obbliga a togliere i dazi doganali, permettendo così alla UE di svendere sui mercati sub-sahariani i suoi prodotti agricoli, affamando così l’Africa. Senza parlare del land-grabbing, perpetrato anche da tante nazioni europee nonché dalla macchina infernale del debito con cui strangoliamo questi popoli. Per cui la fuga di milioni di esseri umani. Ad accoglierli ora ci sarà il blocco nei vari paesi e poi quello navale. E se riusciranno ad arrivare in Europa, troveranno muri, filo spinato, campi profughi e lager. Il Ministro dell’Interno, Marco Minniti, vuole infatti rilanciare i famigerati Centri di Identificazione e di Espulsione (CIE) in tutte le regioni d’Italia, che sono veri e propri lager.

”Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi – ha detto Papa Francesco ai rappresentanti dei Movimenti popolari lo scorso novembre – è in grado di riconoscere immediatamente, nella sua interezza, la “bancarotta dell’umanità”! Cosa succede al mondo di oggi che,’ quando avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarle, ma quando avviene questa ‘bancarotta dell’umanità’, non c’è quasi una millesima parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto! E così il Mediterraneo è diventato un cimitero e non solo il Mediterraneo…molti cimiteri vicino ai muri, muri macchiati di sangue innocente.”

Davanti a queste parole così chiare e dure, mi sconcerta il silenzio della Conferenza Episcopale Italiana. Ma altrettanto mi sorprende il silenzio degli Istituti missionari: finora non c’è stata una presa di posizione unitaria e dura su quanto sta avvenendo, che ci toccano direttamente come missionari.


Questi hanno occhi per tutti fuori che per la loro gente europea; per questi rinnegati gli europei possono tranquillamente crepare



Migrare e non migrare, accogliere e non accogliere, diritti e doveri
viewtopic.php?f=194&t=2498
Non esiste il dovere assoluto ad accogliere e il diritto assoluto ad essere accolti.
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Re: A l'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » ven feb 24, 2017 7:48 am

Accoglienza o ospitalità imposta o forzata è un crimine contro l'umanità
viewtopic.php?f=196&t=2420

Ospitalità, non sempre è sacra - accoglienza come crimine e tortura
viewtopic.php?f=141&t=1911

Rifugianti, asilanti, diritti umani, obbligazioni e realismo
viewtopic.php?f=194&t=1811

Manipolazione criminale dei valori e dei diritti umani universali, quando il male appare come bene
viewtopic.php?f=25&t=2484

Diritti Umani Universali dei Nativi o Indigeni Europei
viewtopic.php?f=25&t=2186

Diriti e doveri omani naturałi e ogniversałi
viewtopic.php?f=205&t=2150

Il razzismo anti Nativi e Indigeni europei
viewtopic.php?f=25&t=2372



La solidarietà se non è libera è una forma di schiavitù, lo stesso vale per l'accoglienza e l'ospitalità. Il nostro diritto, come indigeni, ad accogliere o non accogliere viene prima del diritto degli altri, dei foresti, ad essere accolti se veramente bisognosi. Se fossimo comunque obbligati ad accogliere saremmo soltanto degli schiavi. Oltretutto accogliere e ospitare gli islamici che poi cercheranno di imporci con la violenza il loro Idolo del terrore e la sua legge disumana è da irresponsabili e da dementi. Gli uomini di stato che si prestano a tale operazione violano la legge fondamentale della nazione, della solidarietà nazionale indigena e sono imputabili di alto tradimento: vanno arrestati, imprigionati, condannati e se il caso fucilati come in tempo di guerra.

Chiudere ai migranti irregolari e selezionare con attenzione chi può entrare e chi no, come si fa in ogni casa di tutto il mondo. Far entare assassini, stupratori, ladri e parassiti è da irresponsabili e da dementi. Aiutare se si può e soltanto la buona gente che ti rispetta e ti è riconoscente; gli altri niente e via.




Sull’immigrazione Collier pone quesiti irriverenti a Merkel e Francesco
Il saggio del prof. di Oxford sul Catholic Herald
di Maria Antonietta Calabrò | 30 Aprile 2016

http://www.ilfoglio.it/esteri/2016/04/3 ... e_c697.htm

Paul Collier, professore di Economia e Politiche pubbliche alla Blavatnik School of Government dell’Università di Oxford

I nostri cuori ci stanno portando fuori strada sulla crisi dei rifugiati”. “Non indurre in tentazione: i leader politici e religiosi dell’Europa devono ricordare questo principio morale fondamentale”. Un approccio totalmente controcorrente rispetto alla melassa retorica che a ben guardare, secondo Paul Collier, è anche il modo più miope ed egoista per gestire il problema dell’immigrazione senza risolverlo, anzi aggravandolo, seppure mettendosi la coscienza a posto con qualche gesto di bontà.

“Le lacrime non bastano”, ha titolato in copertina a tutta pagina il magazine cattolico inglese Catholic Herald, proponendo una lunga e articolata analisi di Collier, professore di Economia e Politiche pubbliche alla Blavatnik School of Government dell’Università di Oxford, uno dei massimi esperti mondiali sul problema delle migrazioni e autore dello studio “Exodus”, ritenuto da Robert D. Putnam “una lettura imprescindibile per chiunque voglia approfondire il tema”. L’articolo di Collier sul Catholic Herald critica ad alzo zero le politiche della cancelliera tedesca Angela Merkel e l’impostazione compassionevole dei leader religiosi europei (con tanto di foto dell’incontro di Lesbo tra papa Francesco, il patriarca Bartolomeo e il primate greco Hieronymus). Collier dimostra infatti l’effetto paradossale delle politiche e degli atteggiamenti delle “porte aperte, che hanno spinto (indotto in tentazione) in Europa i più giovani, acculturati e ricchi siriani, lasciando il loro paese privo delle risorse umane necessarie per farlo ripartire non appena la guerra finirà”.

“La visita del Papa è stata un’affermazione eloquente della dignità dello spirito umano e della durata universale della coscienza cristiana”, scrive Collier .“La situazione dei milioni di siriani sfollati a causa dei conflitti richiede infatti la nostra generosità di spirito. Ma la generosità non basta: le nostre risposte devono essere fondate sulla ragionevolezza. Il cuore senza testa può portare a risultati poco migliori rispetto alla testa senza cuore. Credo che l’ondata di cuore abbia momentaneamente travolto il lento sforzo della testa: le reazioni cristiane al cospetto dei rifugiati e delle migrazioni sono caratterizzate da una certa confusione morale, e tutto ciò mentre non riescono ad affrontare le necessità reali”. Quali? Innanzitutto quello di garantire sostegno ai paesi vicini che forniscono rifugi sicuri, agli sfollati. “Questo è davvero un requisito fondamentale del diritto internazionale”. Il modello da seguire per Collier è quello della Conferenza di Londra nel mese di febbraio 2016, che il premier Cameron ha ospitato e che ha trovato i miliardi necessari per compensare i governi dei vicini della Siria per la fornitura di rifugio sicuro ai siriani in fuga e un “ministro inglese, e non tedesco, si è recato nei paesi confinanti con i dirigenti d’azienda per vedere cosa è possibile fare per creare posti di lavoro in loco, a cominciare dalla Giordania”.

Per Collier inoltre ci sono tre potenti argomenti etici a sostegno delle restrizioni in materia di immigrazione.

-Il primo è la preoccupazione per gli interessi dei poveri dell’Europa.
Gli europei con redditi superiori alla media non hanno – secondo Collier – il diritto morale di sacrificare l’interesse dei loro concittadini più poveri. Inoltre essi non dovrebbero respingere le preoccupazioni dei poveri come semplici sintomi di razzismo.

-In secondo luogo, il diritto di emigrare da un paese non implica di per sé il diritto di immigrare in qualsiasi altro paese di scelta.

-Terzo: gli stati nazionali con le loro frontiere “non sono abomini morali, né dinosauri del bigottismo.

La probabile alternativa a un sentimento simpatetico per milioni di concittadini non è un sentimento di simpatia per miliardi di essere umani, ma una ritirata nell’individualismo, nell’egoismo e nell’alienazione”.
Resta aperta dunque, per Collier, la domanda: “A quale modello allora deve guardare la Chiesa?”. A quello della Merkel o a quello di Cameron? E già chiederselo, sul Catholic Herald, non è poca cosa.
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Re: A l'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » ven feb 24, 2017 8:03 am

L'Europa non è ricca come ci vogliono far credere, l'Europa è piena di poveri:
i paesi dell'Est non sono paesi ricchi e la loro gente è costretta ad emigrare all'Ovest e
i paesi dell'Ovest hanno decine di milioni di poveri: Grecia, Italia, Spagna, Francia sono piene di poveri.

Poi si consideri che in Europa la vita costa moltissimo, troppo e la prova è che si fanno pochi figli perché manca il lavoro per tutti, manca la casa, la donna è costretta a lavorare anche fuori casa perché la vita costa troppo.
E la vita in Europa costa tanto perché è fredda e non ha molto sole di cui invece è ricchissima l'Africa.


Povertà in Europa

Come è cambiata la povertà in Europa con la crisi: uno su quattro a rischio
In Italia si è registrato il quarto maggior incremento (tra 2008 e 2015) delle persone a rischio di povertà o esclusione sociale
17 ottobre 2016

http://www.repubblica.it/economia/2016/ ... -149956839

MILANO - Quasi un quarto della popolazione europea vive a rischio povertà o esclusione sociale: un esercito che ha raggiunto quota 118,7 milioni nel 2015, in aumento rispetto ai dati del 2008, anno di inizio della crisi economica (115,9 milioni). Si tratta appunto di quasi un quarto (23,7%) della popolazione dell'Ue, di nuovo ai livelli del 2008. Sono definiti in questa condizione in quanto ricadenti in almeno una delle tre condizioni: a rischio di povertà dal punto di vista reddituale (dopo i trasferimenti sociali), in difficoltà economiche materiali, in nuclei familiari con basso lavoro.

LEGGI. Più italiani che stranieri nei centri Caritas

Tra i quindici i Paesi dell'Ue dove l'indice di povertà è aumentato in questi anni, l'Italia si trova al quarto posto (+3,2%) dietro a Grecia (+7,6%), Cipro (+5,6%), e Spagna (+4,8%). Complessivamente nella Penisola sono 17,4 milioni gli italiani a rischio povertà o esclusione nel 2015 rispetto ai 15 milioni del 2008. Dall'altro lato della medaglia, i maggiori declini di persone a rischio si sono visti in Polonia (da 30,5 a 23,4%), Romania, Bulgaria e Lettonia.

Come è cambiata la povertà in Europa con la crisi: uno su quattro a rischio
(ansa)
MILANO - Quasi un quarto della popolazione europea vive a rischio povertà o esclusione sociale: un esercito che ha raggiunto quota 118,7 milioni nel 2015, in aumento rispetto ai dati del 2008, anno di inizio della crisi economica (115,9 milioni). Si tratta appunto di quasi un quarto (23,7%) della popolazione dell'Ue, di nuovo ai livelli del 2008. Sono definiti in questa condizione in quanto ricadenti in almeno una delle tre condizioni: a rischio di povertà dal punto di vista reddituale (dopo i trasferimenti sociali), in difficoltà economiche materiali, in nuclei familiari con basso lavoro.

LEGGI. Più italiani che stranieri nei centri Caritas

Tra i quindici i Paesi dell'Ue dove l'indice di povertà è aumentato in questi anni, l'Italia si trova al quarto posto (+3,2%) dietro a Grecia (+7,6%), Cipro (+5,6%), e Spagna (+4,8%). Complessivamente nella Penisola sono 17,4 milioni gli italiani a rischio povertà o esclusione nel 2015 rispetto ai 15 milioni del 2008. Dall'altro lato della medaglia, i maggiori declini di persone a rischio si sono visti in Polonia (da 30,5 a 23,4%), Romania, Bulgaria e Lettonia.
Povertà reddituale. Una persona su sei è a rischio povertà per questa voce, il 17,3% della popolazione: il loro reddito disponibile è inferiore alla soglia di povertà stabilità in quel Paese. Si tratta di un dato (2015) in lieve crescita rispetto al 2014 (17.2%) e in crescita più significativa rispetto al 2008 (16.5%). I dati più significativi riguardano: Romania (25,4%), Lettonia (22,5%), Lituania (22,2%), Spagna (22.1%), Bulgaria (22,1%), Estonia (21.6%), Grecia (21.4%), Italia (19.9%) e Portogallo (19.5%). Quelli messi meglio sono Repubblica Ceca (9,7%), Olanda (12,1%), e Danimarca (12.2%).

Deprivazione materiale. Una persona su dodici, l'8,1% del totale, fa fatica a vivere e pagare le proprie bollette, accendere il riscaldamento, o concedersi una settimana di vicanza lontana da caso. Anche in questo caso ci sono punte ben sopra il 20% come Bulgaria, Romania e Grecia, mentre si scende sotto il 5% in Svezia (addirittura 0,7%), Lussemburgo o Finlandia.

A bassa intensità lavorativa. Il 10,5% della popolazione under 60 vive in famiglie in cui gli adulti lavorano meno del 20% del loro potenziale. Si tratta del primo calo dal 2008 ad oggi. Grecia, Spagna e Belgio hanno la sitauzione peggiore.

Europei a rischio di povertà o esclusione sociale
Eurostat, 2008 e 2015 % popolazione in migliaia
2008 2015 2008 2015
EU* 23.7 23.7 115 910 118 760
Belgium 20.8 21.1 2 190 2 340
Bulgaria 44.8 41.3 3 420 2 980
Czech Republic 15.3 14.0 1 570 1 440
Denmark 16.3 17.7 890 1 000
Germany 20.1 20.0 16 340 16 080
Estonia 21.8 24.2 290 310
Ireland 23.7 : 1 050 :
Greece 28.1 35.7 3 050 3 830
Spain 23.8 28.6 10 790 13 180
France 18.5 17.7 11 150 11 050
Croatia : : : :
Italy 25.5 28.7 15 080 17 470
Cyprus 23.3 28.9 180 240
Latvia 34.2 30.9 740 610
Lithuania 28.3 29.3 910 860
Luxembourg 15.5 18.5 70 90
Hungary 28.2 28.2 2 790 2 730
Malta 20.1 22.4 80 90
Netherlands** 14.9 16.8 2 430 2 810
Austria 20.6 18.3 1 700 1 550
Poland 30.5 23.4 11 490 8 760
Portugal 26.0 26.6 2 760 2 760
Romania 44.2 37.3 9 110 7 430
Slovenia 18.5 19.2 360 380
Slovakia 20.6 18.4 1 110 960
Finland 17.4 16.8 910 900
Sweden 14.9 16.0 1 370 1 560
United Kingdom 23.2 23.5 14 070 15 030
Iceland 11.8 13.0 40 40
Norway 15.0 15.0 700 770
Switzerland 18.1 : 1 330 :




Povertà nei paesi dell'est europeo

Un nuovo esercito di poveri dell’Est
15. 10. 2013 (oggi nel 2016 è ancora peggio)
http://www.stefanogiantin.net/esteri/un ... ri-dellest

Fare finta di niente, in molti ancora ci riescono. Ma non vederli, non vedere i vecchi e i tanti nuovi poveri creati dalla crisi in Europa è sempre più difficile. Povertà che nel Vecchio continente ha ormai raggiunto proporzioni angoscianti. Ad avvalorare una sensazione diffusa è arrivato un rapporto della Federazione Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa (Ifrc). Un rapporto che ha evidenziato come «milioni di europei vivano» in uno stato permanente «d’insicurezza», di «silenziosa disperazione» provocata da «depressione, rassegnazione, perdita di speranza» nel futuro perché senza lavoro e impossibilitati a sostenere la propria famiglia. Sono ormai 43 milioni coloro che hanno ogni giorno problemi a mangiare a sufficienza, 120 milioni nell’Ue quelli a rischio povertà. Disperazione e povertà che però, analizzando il rapporto “Think Differently”, non è ugualmente distribuita.

Sul Mediterraneo di certo si soffre tanto, nel Nord Europa le cose vanno un po’ meglio. Ma la recessione sembra soprattutto aver aumentato la cesura tra il più ricco ovest del continente e l’Europa dell’Est e i Balcani. «I poveri stanno diventando più poveri», conferma l’Ifrc, in particolare in cinque Paesi dell’Ue, nazioni dove la percentuale delle persone a rischio povertà o esclusione sociale – quelle che hanno un reddito medio inferiore al 60% della mediana nazionale -, è sempre più alta. In testa, Bulgaria (49,1%), Lettonia (40,4%), segue a ruota la Romania (40,3%), la Lituania (33,4%). E subito dopo arriva la Croazia, con un 32,7% della popolazione a rischio. Croazia dove la percentuale di cittadini «che vivono sotto la soglia di povertà» è cresciuta dal 17,3% del 2008 al 21,1% del 2011, dove il 20% della popolazione più ricca guadagna 5,4 volte tanto rispetto al quinto più povero (4,5 nel 2008). Non sta molto meglio la Romania (22% sotto la soglia di povertà), dove cinque anni fa «il 20% della popolazione faceva parte della classe media». Oggi, il numero si è dimezzato, accusa la Croce Rossa. Nessuna sorpresa. La crisi «ha colpito il 70% della popolazione adulta, i salari medi sono scesi del 24% mentre il costo della vita è salito del 30%».

Poi, la Bulgaria e la Lituania, dove la Croce Rossa dà voce alla disperazione di tante «giovani famiglie con figli piccoli, in cerca d’aiuto». L’Ungheria, con «350mila persone senza lavoro e benefit sociali e l’80% della classe media senza risparmi» adeguati per affrontare i chiari di luna. Ma anche in Slovenia – dove nel 2011 il 13,6% viveva sotto la soglia di povertà, +1,3% – le cose non vanno bene. Il numero delle “razioni” di cibo distribuito dalla Croce Rossa è cresciuto fino alle 150mila del 2012 (+12.000), beneficiari soprattutto pensionati e «lavoratori che non ricevono salari da mesi e mesi». Altri, come in Kosovo e non solo, soffrono «per l’incremento significativo dei prezzi dei beni di base». Ancor peggio stanno i nuovi “barboni”, i vecchi del Montenegro, dove dal 4,9% del 2008 si è passati a un tasso del 9,3% di persone sotto la soglia di povertà. Homeless che stanno «diventando visibili», ogni giorno di più. Con 160 euro al mese tanti pensionati non possono più permettersi di pagare l’affitto, alcuni «dormono nella stazione delle corriere» di Podgorica.

Un quadro pesante che spetterebbe alle autorità mitigare. Ma i soldi scarseggiano, quasi ovunque. E la povertà, la storia insegna e la Croce Rossa ricorda, potrebbe presto portare a recrudescenze xenofobiche, ultranazionalismi e «instabilità sociale», causata dalla «più grave crisi umanitaria in sei decenni», ha ribadito il segretario generale dell’Ifrc, Bekele Geleta. I rischi di rivolte, rammenta anche l’Ilo, sono cresciuti del 12% dal 2011 al 2012. E benvenuti nella vecchia Europa, un pugile suonato, finito all’angolo. Perso, forse per sempre, sulla strada di una crisi senza fine.

https://www.youtube.com/watch?v=pn-wGgzCIqA

http://www.west-info.eu/it/west-news/po ... ori/?t=669
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Re: A l'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » ven feb 24, 2017 10:53 am

Povertà, poartà/povartà e mexeria venete
viewtopic.php?f=161&t=2444


L'Italia di Renzi è senza futuro: boom di poveri e crollo dei nati
Istituzioni sempre più deboli. La società non investe più sul futuro: i giovani risultano più poveri dei nonni. Il risultato? La povertà cresce e crollano le nascite
Sergio Rame - Ven, 02/12/2016

http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 38225.html

Una società che si regge da sé, senza contare più su istituzioni indebolite, e che diventa così terreno fertile per il populismo. L'Italia di Matteo Renzi, descritta dal cinquantesimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, è senza futuro.

Un Paese che ha abdicato qualsiasi speranza nelle istituzioni e che non investe più. Un'Italia in cui "il corpo sociale si sente rancorosamente vittima di un sistema di casta", mentre "il mondo politico si arrocca sulla necessità di un rilancio dell'etica e della moralità pubblica" e "le istituzioni sono inermi (perché vuote o occupate da altri poteri), incapaci di svolgere il loro ruolo di cerniera". E così, mentre aumenta la povertà e crescono le preoccupazioni nei confronti dell'immigrazione, le coppie smettono di fare figli e i giovani restano intrappolatio in lavori a basso costo e bassa produttività.


I giovani più poveri dei nonni

Sfiduciati dalla crisi, gli italiani si aggrappano al risparmio e non investono sul futuro. Le risorse dirottate nel salvadanaio impoveriscono la società e i giovani si ritrovano più poveri dei loro nonni. È un'Italia rentier, avara di speranze, dove l'immobilità sociale genera insicurezza. Tanto che, dall'inizio della crisi nel 2007, in Italia sono stati accantonati 114,3 miliardi di euro di liquidità aggiuntiva. Una cifra maggiore del Pil dell'Ungheria. Per i millennial è un ko economico. I loro redditi sono più bassi del 15% rispetto alla media. Un gap che cresce al 26,5% se si fa il confronto con i loro coetanei di venticinque anni fa. La ricchezza dei giovani è inferiore del 41% rispetto a quella dei sessantenni, che stanno sempre meglio. Per gli over 65 il reddito infatti è aumentato del 24,3%. "La ricchezza dei millennial - si legge nell'analisi del Censis - è inferiore del 4,3% rispetto a quella dei loro coetanei del 1991, mentre per gli italiani nell'insieme il valore attuale è maggiore del 32,3% rispetto ad allora e per gli anziani è maggiore addirittura dell'84,7%". Il divario tra i giovani e il resto degli italiani si è ampliato nel corso del tempo perché venticinque anni fa i redditi dei giovani erano superiori alla media della popolazione del 5,9% (mentre oggi sono inferiori del 15,1%) e la ricchezza era inferiore alla media solo del 18,5% (mentre oggi lo è del 41,1%).


Gli italiani rinunciano a curarsi

"La scure non guarirà la sanità italiana. Gli effetti socialmente regressivi delle manovre di contenimento del governo si traducono in un crescente numero di italiani (11 milioni circa) che nel 2016 hanno dichiarato di aver dovuto rinunciare o rinviare alcune prestazioni sanitarie, specialmente odontoiatriche, specialistiche e diagnostiche". Secondo il Rapporto Censis, infatti, "il mercato del lavoro genera sempre meno opportunità occupazionali lasciando senza redditi un numero sempre più crescente di famiglie". Un impoverimento diffuso che non necessariamente coincide con la condizione di povertà economica: l'area del disagio sociale è infatti più ampia. "La deprivazione - si legge nel dossier - coinvolge anche famiglie che sono al di sopra della soglia di povertà. Sono in condizioni di deprivazione materiale grave 6,9 milioni di persone nel 2014 (+2,6 milioni rispetto al 2010) e uno zoccolo duro di 4,4 milioni di deprivati di lungo corso, cioè almeno dal 2010". I nuclei familiari in povertà alimentare sono oltre 2 milioni nel 2014 (pari all'8% del totale). E i minori in povertà relativa nel 2015 oltre 2 milioni (il 20,2% del totale). La crisi e la stentata ripresa generano un'incertezza diffusa che alimenta un pessimismo diffuso: solo pochi pensano di essere al riparo dal rischio di cadere in condizioni di disagio. Le famiglie in "deprivazione abitativa" sono 7,1 milioni nel 2014 (+1,7% rispetto al 2004). Quelle in "severa deprivazione abitativa" 826.000 (+0,4% rispetto al 2004). Circa il 20% ha problemi di umidità in casa, il 16,5% di sovraffollamento e il 13,2% di danni fisici all'abitazione. Le famiglie in deprivazione di beni durevoli sono 2,5 milioni nel 2014, di queste 775mila sono in gravi condizioni di deprivazione.


Roma e Milano sempre più povere

Le capitali italiane - quella politica, Roma e quella finanziaria, Milano - pesano di meno per Pil delle omologhe aree urbane delle altre nazioni del vecchio Continente. "Sono molti i Paesi europei in cui la capitale - spiega il Censis - condensa in misura straordinaria popolazione e soprattutto ricchezza. Stoccolma, Bruxelles, Vienna, Lisbona, Praga pesano per oltre il 30% della rispettiva ricchezza nazionale. Milano e Roma, pur con il loro primato nazionale, pesano ciascuna per poco meno del 10% del Pil italiano". All'interno di questa 'fotografià rientra la difficile strada dell'autonomia abitativa dei giovani italiani. In Italia la generazione dei millennial ha un peso demografico scarso: i giovani di 20-34 anni rappresentano appena il 16,4% della popolazione totale, la percentuale più bassa tra i Paesi dell'Unione europea. E sono in diminuzione: oggi non arrivano a 11 milioni (erano quasi 15 milioni nel 1991), mentre la popolazione anziana (13,4 milioni) è in costante crescita. Anche le nostre grandi aree urbane, se paragonate a quelle del resto del continente, risultano le meno giovani: la quota di popolazione tra 20 e 34 anni si attesta al 15-16% a Roma, Milano e Torino. I giovani di 18-24 anni ancora in famiglia in Italia sono il 92,6%, nella fascia di età 25-34 anni la quota scende al 48,4%: dati molto elevati rispetto alla media dell'Ue (rispettivamente, 78,9% e 28,9%).


Il calo della popolazione e l'allarme demografico

In Italia le coppie sono sempre più "temporanee, reversibili e asimmetriche, ma autentiche". Nell'ultimo anno sono nati fuori dal matrimonio 139.611 bambini (+59,9% in un decennio), pari al 28,7% del totale: dieci anni fa erano il 15,8%. "Emerge insomma - rileva il Censis - l'erosione delle forme più tradizionali di relazionalità tra le persone e il contestuale sviluppo di modelli diversi". Vince, insomma, la spinta ad abbassare le barriere di ingresso e di uscita nelle relazioni affettive. I millennial sono per l'80,6% celibi o nubili (il 71,4% solo dieci anni fa), mentre i coniugati sono il 19,1% (erano il 28,2%). L'Italia non è un Paese per genitori. Che nel Belpaese si facciano troppi pochi figli e sempre più avanti negli anni è una consapevolezza ormai diffusa nell'immaginario collettivo. Nel sentire comune, la prima causa imputata rispetto al crollo delle nascite è la grave e perdurante crisi economica. Il Censis segnala, infatti, come "senza stranieri il rischio è il declino". Nell'ultimo anno l'allarme demografico ha raggiunto il suo apice: diminuisce la popolazione (nel 2015 le nascite sono state 485.780, il minimo storico dall'Unità d'Italia a oggi), la fecondità si è ridotta a 1,35 figli per donna, gli anziani rappresentano il 22% della popolazione e i minori il 16,5%. "Senza giovani né bambini - si legge nel report - il nostro viene percepito come un Paese senza futuro".


L'allarme immigrazione e il terrorismo

Sono l'immigrazione e il terrorismo le due questioni che più preoccupano l'Europa e l'Italia. Paure che hanno portato il 65,4% degli italiani a modificare le proprie abitudini. Nell'immediato, il 73,1% ha evitato di fare viaggi all'estero, il 53,1% ha evitato luoghi percepiti come possibili bersagli di attentati (piazze, monumenti, stazioni), il 52,7% ha disertato luoghi affollati (cinema, teatri, musei, sale per concerti, luoghi della movida), il 27,5% non ha preso la metropolitana, il 18% ha evitato di uscire la sera. In realtà la stragrande maggioranza degli italiani è convinta che queste microstrategie non siano sufficienti a risolvere problemi che avrebbero bisogno di una governance condivisa sul terreno dell'ordine pubblico e dell'intelligence.


Censis: "Figli più poveri dei loro nonni"
02/12/2016

http://www.adnkronos.com/soldi/economia ... frEZM.html

In Italia i nostri figli sono più poveri dei loro nonni: nel nostro paese si registra un vero Ko economico dei giovani. Nel Rapporto 2016 sulla Situazione Sociale del Paese diffuso oggi, il Censis disegna a tinte forti questo quadro. "Sono evidenti gli esiti di un inedito e perverso gioco intertemporale di trasferimento di risorse che ha letteralmente messo ko economicamente i millennial" annota l'istituto. Rispetto alla media della popolazione, oggi le famiglie dei giovani con meno di 35 anni hanno un reddito più basso del 15,1% e una ricchezza inferiore del 41,1%, rileva il rapporto.

Nel confronto con venticinque anni fa, sottolinea il Censis, i giovani di oggi hanno un reddito del 26,5% più basso di quello dei loro coetanei di allora, mentre per gli over 65 anni è invece aumentato del 24,3%. La ricchezza degli attuali millennial è inferiore del 4,3% rispetto a quella dei loro coetanei del 1991, mentre per gli italiani nell’insieme il valore attuale è maggiore del 32,3% rispetto ad allora e per gli anziani è maggiore addirittura dell’84,7%. Il divario tra i giovani e il resto degli italiani si è ampliato nel corso del tempo, perché venticinque anni fa, valuta il rapporto, i redditi dei giovani erano superiori alla media della popolazione del 5,9% (mentre oggi sono inferiori del 15,1%) e la ricchezza era inferiore alla media solo del 18,5% (mentre oggi lo è del 41,1%).

Migranti in testa a paure per 44%, terrorismo per 34% - Sono l'immigrazione e il terrorismo le due questioni che più preoccupano l'Europa e l'Italia: la prima è segnalata come principale paura dal 48% degli europei e dal 44% degli italiani, il secondo è indicato dal 39% dei cittadini dell'Unione e dal 34% di quelli italiani. Secondo quanto rileva il Censis, in base a un'indagine realizzata su un campione nazionale di cittadini subito dopo le stragi del 13 novembre 2015 a Parigi, emerge come il 65,4% degli italiani abbia modificato le proprie abitudini a causa delle nuove paure. Nell'immediato, il 73,1% ha evitato di fare viaggi all'estero, il 53,1% ha evitato luoghi percepiti come possibili bersagli di attentati (piazze, monumenti, stazioni), il 52,7% ha disertato luoghi affollati (cinema, teatri, musei, sale per concerti, luoghi della movida), il 27,5% non ha preso la metropolitana, il 18% ha evitato di uscire la sera.


Situazione sociale, Censis: “Cresce il disagio, più difficile curarsi e scegliere di avere figli. L’Italia rischia il declino”

Il cinquantesimo rapporto del centro studi evidenzia che se non ci fossero gli stranieri nella Penisola vivrebbero "oltre 2,5 milioni di minori e under 35 in meno”. Senza "politiche di sviluppo e di disincentivo della fuga altrove" andiamo verso "una situazione di ristagno". Le famiglie in deprivazione abitativa sono 7,1 milioni e quelle che hanno difficoltà ad acquistare beni durevoli 2,5 milioni
di Luisiana Gaita | 2 dicembre 2016

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/12 ... no/3231730

Privati della possibilità di vivere in una casa sicura, di potersi curare, di mantenere i figli. La crisi economica, il conseguente restringimento del welfare e l’andamento del mercato del lavoro hanno conseguenze sulle famiglie italiane. Sono sempre più numerose quelle che, con meno opportunità occupazionali, restano senza redditi da lavoro. Eppure quello economico è solo uno degli aspetti del disagio sociale, che riguarda anche i nuclei al di sopra della soglia di povertà. E senza stranieri il rischio è il declino. Basti pensare che nel 2015 gli italiani che si sono trasferiti all’estero sono stati 102.259: una cifra praticamente raddoppiata negli ultimi quattro anni e che ha avuto una crescita del 15,1% solo nell’ultimo anno. “Immaginare un’Italia senza stranieri vorrebbe dire pensare a un Paese con oltre 2,5 milioni di minori e under 35 in meno”. Questi alcuni dei temi su cui si sofferma il cinquantesimo rapporto del Censis sulla situazione sociale.

In Italia sono in condizioni di ‘deprivazione materiale grave’ 6,9 milioni di persone (dati del 2014): sono 2,6 milioni in più rispetto al 2010. E uno zoccolo duro di 4,4 milioni vive in questa situazione almeno da sei anni. Le famiglie in deprivazione abitativa sono 7,1 milioni (+1,7% rispetto a dieci anni prima). Quelle in severa deprivazione abitativa sono 826mila (+0,4% rispetto al 2004). Circa il 20% ha problemi di umidità in casa, il 16,5% di sovraffollamento e il 13,2% di danni fisici alla casa dove vive. Le famiglie che hanno difficoltà ad acquistare beni durevoli sono 2,5 milioni nel 2014, di queste 775mila sono in gravi condizioni di deprivazione. Le famiglie in povertà alimentare sono oltre 2 milioni nel 2014 (pari all’8% del totale). E i minori in povertà relativa nel 2015 sono oltre 2 milioni, il 20,2% del totale.

L’ITALIA NON È UN PAESE PER GENITORI – Secondo una indagine del Censis, l’87,7% degli italiani pensa che il nostro Paese sia afflitto dalla scarsa natalità. Per l’83,3% la crisi economica ha reso più difficile la scelta di avere figli anche per chi li vorrebbe. Il problema principale, però, riguarda gli interventi di sostegno ai genitori: sussidi, asili nido, sgravi fiscali, orari di lavoro più flessibili, permessi per le esigenze dei figli. “Il 60,7% degli italiani – spiega il rapporto – è convinto che, se migliorassero gli interventi pubblici su vari fronti, la scelta di avere un figlio sarebbe più facile”. Pesa però anche la presa di coscienza tardiva circa la presenza di eventuali problemi di infertilità, che allunga i tempi di accesso alle cure e quindi la loro efficacia. Non solo le coppie che si sottopongono alle tecniche di Pma (procreazione medicalmente assistita) devono affrontare un percorso molto complesso, ma accesso e opportunità non sono uguali per tutti. Secondo il Censis il 76% delle coppie in trattamento pensa che chi ha problemi di questo genere in Italia sia svantaggiato rispetto a chi vive in altri Paesi europei e il 79,5% pensa che non in tutte le regioni sia assicurato lo stesso livello di qualità nei trattamenti, così come la gratuità dell’accesso alle cure (74,3%).

LA SCURE NON GUARIRÀ LA SANITÀ – Il progressivo restringimento del welfare cambia le dinamiche della spesa sanitaria. Intanto, dal 2009 al 2015 si registra solo una lieve riduzione in termini reali della spesa pubblica. “Nello stesso arco di tempo la spesa sanitaria privata – spiega il Censis – dopo una fase di crescita significativa, si riduce a partire dal 2012, per riprendere ad aumentare negli ultimi due anni (+2,4% dal 2014 al 2015), fino a raggiungere nel 2015 i 34,8 miliardi di euro, cioè poco meno del 24% della spesa sanitaria totale”. Significativo l’aumento della compartecipazione dei cittadini alla spesa: +32,4% in termini reali dal 2009 al 2015 (con un incremento più consistente per quanto riguarda nello specifico la spesa farmaceutica: 2,9 miliardi, +74,4%). “Gli effetti socialmente regressivi delle manovre di contenimento – si legge nel rapporto – si traducono in un crescente numero di italiani (11 milioni circa) che nel 2016 hanno dichiarato di aver dovuto rinunciare o rinviare alcune prestazioni sanitarie, specialmente odontoiatriche, specialistiche e diagnostiche”. Anche l’offerta ospedaliera mostra una progressiva riduzione dei posti letto (3,3 per mille abitanti in Italia nel 2013 secondo i dati Eurostat, contro i 5,2 in media dei 28 Paesi Ue, gli 8,2 della Germania e i 6,3 della Francia).

I POPOLI DELLE PENSIONI – I nuovi pensionati sono più anziani rispetto al passato e hanno anche redditi pensionistici mediamente migliori “come effetto di carriere contributive più lunghe e continuative nel tempo – spiega il rapporto – e occupazioni in settori e con inquadramenti professionali migliori”. Tra il 2004 e il 2013 l’incidenza dei nuovi pensionati di vecchiaia che hanno versato contributi per non più di 35 anni scende dal 54,9% al 37,5%, quella di chi ha versato contributi per un periodo compreso tra i 36 e i 40 anni dal 37,6% al 33,7%, mentre per chi ha percorsi contributivi superiori ai 40 anni l’incidenza si quadruplica, passando dal 7,6% al 28,8%. Migliorano le condizioni socio-economiche dei pensionati: negli anni 2008-2014 il reddito medio del totale delle pensioni è passato da 14.721 a 17.040 euro (+5,3%). Per 3,3 milioni di famiglie con pensionati le prestazioni pensionistiche sono l’unico reddito familiare e per 7,8 milioni i trasferimenti pensionistici rappresentano oltre il 75% del reddito familiare disponibile. Così, si stimano in 1,7 milioni i pensionati che hanno ricevuto un aiuto economico da parenti e amici. Ma i pensionati non possono essere considerati solo come recettori passivi di risorse e servizi di welfare, perché sono anche protagonisti di una redistribuzione orizzontale di risorse economiche: sono 4,1 milioni quelli che hanno prestato ad altri un aiuto economico.

SICUREZZA E CITTADINANZA – Nell’ultimo anno l’allarme demografico ha raggiunto il suo apice: diminuisce la popolazione (nel 2015 le nascite sono state 485.780, il minimo storico dall’Unità d’Italia a oggi), la fecondità si è ridotta a 1,35 figli per donna, gli anziani rappresentano il 22% della popolazione e i minori il 16,5%. “Senza giovani né bambini – sottolinea il Censis – il nostro viene percepito come un Paese senza futuro”. Ne è prova il boom delle cancellazioni dall’anagrafe di italiani trasferitisi all’estero. In un Paese in cui la piramide generazionale si è rovesciata gli stranieri rappresentano un importante serbatoio di energie. Proprio grazie a loro dal 2001 a oggi la popolazione è aumentata del 6,5%, raggiungendo gli attuali 60 milioni e 666mila abitanti: la presenza di stranieri si è quasi triplicata negli ultimi quindici anni (+274,7%). Ma l’effetto combinato del prolungamento della vita media e dell’omologazione dei comportamenti demografici degli stranieri a quelli degli italiani “se non affrontato da politiche di sviluppo e di disincentivo della ‘fuga altrove’ – spiega il Censis – potrebbe determinare, anche nel futuro, una situazione di ristagno per il nostro Paese”.


Crisi, raddoppiate le famiglie povere tra il 2007 e il 2014
Le persone in povertà assoluta hanno superato nel 2014 i 4 milioni, con un incremento di quasi il 130% rispetto al 200
12 giugno 2016

http://www.ansa.it/sito/notizie/economi ... 72e4e.html

Le famiglie italiane in condizione di povertà assoluta sono quasi raddoppiate negli anni della crisi: +78,5%, con una incidenza sul totale passata dal 3,5% pre-recessione al 5,7% del 2014. Lo segnala un'indagine dell' Ufficio studi della Confcommercio.

Le persone in povertà assoluta hanno superato nel 2014 i 4 milioni, con un incremento di quasi il 130% rispetto al 2007, arrivando a sfiorare il 7% della popolazione. Le famiglie assolutamente indigenti erano oltre 823mila nel 2007, sono salite a quasi 1,5 mln nel 2014.

In tema di pressione fiscale, Italia batte Germania 43,6% (del Pil) a 39,5%. Ma è un primato che non piace affatto a imprese e famiglie. Se l'Italia infatti avesse avuto la stessa pressione fiscale della Germania nel 2014, ci sarebbero stati 66 miliardi di euro in meno di prelievo fiscale, ''vale a dire 23 miliardi in meno di Irpef e altrettanti di imposte indirette, nonchè 20 miliardi in meno di carico contributivo su imprese e lavoratori''. Secono lo studio, tra 2010-2014 ci sono segnali di miglioramento, nel confronto Italia-Germania su qualità del capitale umano e carico eccessivo di tasse ''i divari restano molto ampi''.

''L'eccesso di pressione fiscale in Italia presenta una connotazione strutturale per l'incapacità di procedere a una serie revisione della spesa pubblica che riduca eccessi e sprechi'' afferma l'Ufficio studi. Fino ad oggi, ''gli unici tagli hanno riguardato la spesa in conto capitale, cioè di fatto gli investimenti pubblici''. Infatti, ''tutte le componenti di spesa corrente derivanti da scelte discrezionali di policy sono in crescita tra il 2015 e il 2017, anche se con incrementi leggermente inferiori a quelli del Pil nominale''.
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Re: A l'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » ven feb 24, 2017 10:53 am

Africa ricchissima di sole - quanto vale il sole dell'Africa?
Europa ricchissima di freddo - quanto costa il freddo dell'Europa ?


Il costo della vita in Africa e in Europa: chi è veramente la terra più ricca?

Quanto debbono lavorare gli europei per rendere vivibile o abitabile la fredda piovosa, ventosa e nevosa Europa?

Se in Africa si può morire di fame in Europa si può morie di freddo o intossicati dal fumo e dai gas.
Non è facile la vita in Europa e costa sacrificio.




???

Africa, nel Sahel a causa della siccità si prepara la più grande migrazione della storia
2017/06/24

http://www.lastampa.it/2017/06/24/ester ... agina.html


Africa e riscaldamento globale, emblema delle disuguaglianze della nostra epoca: sono i paesi ricchi a produrre gran parte dei gas serra, è l’Africa - soprattutto quella sub-sahariana, e il poverissimo Sahel - a subirne le conseguenze più gravi. Il continente ha una responsabilità minima (tra il 2 e il 4% delle emissioni annuali di gas serra); ma la sua temperatura, secondo quanto emerge da alcune ricerche delle Nazioni Unite, aumenterà una volta e mezzo più rapidamente della media globale, provocando condizioni meteorologiche sempre più estreme, con effetti potenzialmente devastanti. Prolungate siccità rischiano di esporre ad una penuria d’acqua fino a 250 milioni di africani entro il 2020. E nel 2040, secondo la Banca Mondiale, potrebbe deteriorarsi e divenire inservibile tra il 40 e l’80% della superficie dell’Africa sub-sahariana destinata alla coltivazione di cereali come grano e mais.

Già oggi, piogge scarse e irregolari sono una minaccia costante per il Corno d’Africa e altre parti dell’Africa orientale. La carestia somala del 2011, in cui morirono 250.000 persone, e l’attuale crisi alimentare del Corno sono da attribuire a un prolungato periodo di siccità che ha portato raccolti fallimentari, oltre a decimare il bestiame. Nell’emergenza in corso, le ultime stime dicono che, tra Somalia, Kenya ed Etiopia, 14,4 milioni di persone soffrono di “acuta insicurezza alimentare” e hanno bisogno di assistenza umanitaria immediata. Mentre quasi tre milioni di somali sono già a un passo dalla carestia.

Particolarmente vulnerabile appare Il Sahel, quella striscia di terra semi-arida appena sotto il deserto del Sahara. Il cambiamento climatico agisce poi su un quadro politico ed economico già molto precario. Vastissima - si estende dalla Mauritania all’Eritrea - e in forte crescita demografica, la regione conta oggi 135 milioni di abitanti, ma potrebbe averne 330 milioni nel 2050 e quasi 670 milioni nel 2100. Ogni anno, centinaia di migliaia di migranti attraversano queste aree instabili e impoverite per raggiungere il Nord Africa, e poi, eventualmente, l’Europa. Il dibattito sul tema resta aperto, tuttavia, gran parte degli studi sembrano concludere che l’aumento della temperatura - più 3-5 gradi, entro il 2050; e forse 8 gradi alla fine del secolo - renderà molte aree del Sahel ancora più inospitali, intensificando la frequenza delle migrazioni. Secondo un documento dell’ African Institute for Development Policy, l’aumento delle temperature potrebbe causare un calo della produzione agricola che va dal 13% del Burkina Faso al 50% del Sudan. Altre ricerche, più pessimiste, ipotizzano autentiche apocalissi. Il Washington Post pochi giorni fa ne ha citata una secondo cui il Sahel, a causa di una reazione a catena innescata dallo scioglimento dei ghiacci artici, rischia di inaridirsi completamente, costringendo ad emigrare centinaia di milioni di persone entro la fine del secolo. Probabilmente la più gigantesca migrazione nella storia dell’umanità.

Aldilà di previsioni che ci si augura eccessivamente funeste, è chiaro che l’emergenza Sahel è aggravata da una crescita della popolazione che appare oggi fuori controllo. Anche le Nazioni Unite, di solito inclini ad un evasivo linguaggio diplomatico, hanno detto che sfamare il Sahel sta diventando una “missione impossibile”. Chi si occupa di demografia è dello stesso parere, ma suggerisce di alleggerire la pressione limitando le nascite. Tassi di natalità troppo alti sono considerati un ostacolo allo sviluppo economico e sociale. Alcuni paesi sembrano aver recepito il messaggio. Per esempio il Niger, dove le donne partoriscono una media di 7,6 figli a testa, si è posto l’obiettivo di raddoppiare l’uso di contraccettivi. Segnali incoraggianti in una regione in cui la pianificazione familiare continua però ad essere colpevolmente trascurata.

Eppure invertire questa tendenza è possibile. Tutte le “tigri asiatiche” hanno registrato cali repentini dei loro tassi di natalità fin dagli anni sessanta. Quando alle donne vengono date opzioni realistiche di pianificazione familiare, il numero di figli si riduce, anche piuttosto rapidamente. In Bangladesh, paese islamico conservatore, oggi le donne hanno una media di 2,2 gravidanze a testa. L’Islam quindi non è un ostacolo. Quello che manca in Sahel è la volontà politica di affrontare il problema. I governi locali sono colpevoli. Ma una parte di responsabilità ricade anche sulla comunità internazionale. Le Nazioni Unite, per esempio, in un recente documento per lo sviluppo del Sahel, hanno ricordato l’urgenza della crisi e la necessità di aiuti immediati. Senza però far mai menzione, in 45 pagine, né di anticoncezionali né di pianificazione familiare.


Alberto Pento
Comunque sia non spetta certo a noi accogliegli che non né abbiamo le possibilità, né socio-economiche, né ambientali.




Fonti di energia rinnovabili sono utilizzate in molti paesi africani per soddisfare il fabbisogno energetico locale.
https://it.wikipedia.org/wiki/Energie_r ... _in_Africa
Fonti di energia rinnovabili sono utilizzate in molti paesi africani per soddisfare il fabbisogno energetico locale. Piccoli impianti di produzione energetica eolici, solari e geotermici sono presenti in molte località dell'Africa e forniscono energia nelle zone più remote dove manca una rete di distribuzione.

Energia solare
Mappa delle risorse globali di energia solare. I colori indicano l'energia solare disponibile sulla superficie nel periodo tra il 1991 e il 1993.

Molti paesi africani godono di un numero elevato di giorni di sole all'anno; oltre l'80% del territorio riceve quasi 2000 kw di energia solare all'ora per metro quadro. Uno studio recente mostra che un impianto solare che coprisse lo 0,3% della superficie del Nordafrica basterebbe a soddisfare il fabbisogno energetico dell'intera Unione europea. Numerosi progetti per la produzione di energia solare, anche su grande scala, sono già in corso in molti paesi africani, inclusi Sudafrica e Algeria.
...
Sebbene l'energia solare sia usata in occidente per fornire energia a grandi agglomerati urbani, in Africa il suo impiego è particolarmente indicato per soddisfare fabbisogni energetici locali, per esempio relativi al rifornimento di energia elettrica per piccole comunità e per alimentare impianti di desalinazione, pompaggio e purificazione dell'acqua, contribuendo in questo modo a uno dei problemi più diffusi dell'Africa subsahariana, ovvero la scarsa disponibilità di acqua potabile incontaminata e di acqua per l'irrigazione. Il Kenya è un paese particolarmente adatto per fare da apripista in questo settore, essendo dotato di un ministero dell'agricoltura particolarmente ben finanziato ed efficiente, che ha dato tra l'altro vita a un importante centro per la ricerca agricola, il Kenya Agricultural Research Center.Nonostante i costi relativamente elevati di installazione e messa in opera di queste tecnologie, sulla lunga distanza esse risulterebbero più economiche di altre basate sui combustibili fossili. Insieme ad altre iniziative, come quelle portate avanti dalla rete SEARNET che diffonde presso gli agricoltori africani il know-how necessario per l'immagazzinamento di acqua piovana, l'uso di pompe idriche a energia solare potrebbe mutare radicalmente le condizioni di vita degli agricoltori di gran parte del continente. Iniziative basate sull'utilizzo di fonti idriche ed energetiche rinnovabili stanno emergendo in moltissimi paesi, inclusi Botswana, Etiopia, Kenya, Malawi, Ruanda, Tanzania, Uganda, Zambia e Zimbabwe.


https://it.wikipedia.org/wiki/Energie_r ... ne_europea

http://www.lifegate.it/imprese/news/qua ... _in_italia
In Italia, l’irraggiamento medio annuale varia dai 3,6k kWh/m2/giorno della pianura padana ai 4,7 kWh/m2/giorno del centro Sud e ai 5,4k kWh/m2/giorno della Sicilia. Esistono mappe online della “Distribuzione della radiazione solare giornaliera media annua sul piano orizzontale (kWh/mq/giorno)”: questa è fonte Atlas.
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Re: A l'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » ven feb 24, 2017 8:40 pm

I 24 milionari neri non arricchiranno l’Africa
Ilaria Beretta

http://www.mondoemissione.it/africa/i-2 ... no-lafrica

Tra i super ricchi fotografati come ogni anno dalla classifica mondiale stilata da Forbes, ci sono anche 24 miliardari africani. Una cifra che farebbe ben sperare in un generale sviluppo del continente ma che – se analizzata – rivela tutt’altra consistenza.

La prestigiosa rivista economica statunitense Forbes ha divulgato nei giorni scorsi la classifica degli uomini più ricchi del mondo: una lista di oltre mille persone che l’anno scorso si sono distinte per il proprio patrimonio in dollari. Tra loro ci sono anche 24 miliardari africani.

Innanzitutto i magnifici 24 – che rispetto alla medesima statistica dell’anno scorso sono quattro in meno, complice il calo del prezzo del petrolio e delle materie prime su cui si basano gli investimenti africani – provengono da 8 Stati su un continente che ne conta in totale 54. Secondo una stima fornita dal Sole24ore nel 2014, poi, in Africa i miliardari sono solo 200mila su una popolazione di 1,1 miliardi: una nicchia di privilegiati che segna un divario profondo col resto della popolazione che spesso vive sotto la soglia di povertà.

Analizzando la stringata lista di Forbes, si scopre che, con 6 connazionali presenti, l’Egitto e il Sud Africa superano a pari merito tutte le altre nazioni africane, seguite dalla Nigeria dal cui territorio provengono anche il primo milionario africano di quest’anno. Aliko Dangote è il fondatore del più grande agglomerato dell’Africa occidentale, il Dangote Group produttore di zucchero, farina e cemento che ha stabilimenti in Camerun, Etiopia, Zambia e Tanzania. Dangote, attraverso una holding, possiede il 90% della quota in borsa del gruppo: una percentuale che supera l’80%, la soglia di proprietà fissata dalla borsa nigeriana e che il patron è chiamato ad abbassare entro il prossimo ottobre. Intanto per l’ottavo anno consecutivo Dangote si conferma l’uomo più ricco del continente e si classifica 51esimo sulla lista generale con un netto di circa 15,4 miliardari di dollari. Al secondo posto, con un patrimonio di 6 miliardi di dollari, Nicky Oppenheimer un sudafricano la cui famiglia tiene da 85 anni un ruolo privilegiato nel mercato dell’estrazione di diamanti. Altri due sudafricani – specializzati in vestiario e beni di lusso – seguono nella lista dei miliardari neri. Dal Marocco, il miliardario segnalato da Forbes è il re Mohammed VI che possiede la Società nazionale d’investimento, una holding che detiene partecipazioni in diverse società quotate in borsa.

Nassef Sawiris, 55 anni, invece, è l’uomo più ricco d’Egitto: nel 2014 ha stretto un accordo con una società d’investimento di Abu Dhabi per sviluppare una centrale elettrica a carbone nel Paese delle piramidi; alla sua figura fa riferimento anche una società di fertilizzanti chimici e una quota del 6% di azioni del colosso sportivo Adidas. Con un patrimonio di 10 miliardi, lo segue a ruota Mike Adenuga, un self-made man nigeriano, che ha fatto la sua fortuna rivendendo bibite e che – dopo aver stretto accordi di favore con i militari che gli hanno assegnato redditizi appalti pubblici – oggi è impegnato nel settore immobiliare, delle telecomunicazioni e ovviamente del petrolio.

Tra le poche donne di colore presenti nella lista di Forbes, c’è Isabel dos Santos. Si tratta della figlia più giovane del presidente dell’Angola Jose Eduardo dos Santos, che avrebbe trasferito alcune partecipazioni di società statali all’azienda della donna, secondo quanto rivelato da quattro membri del Parlamento europeo che hanno chiesto di formare una commissione d’inchiesta sul caso.

Infine, Mohammed Dewji della Tanzania si riconferma a 40 anni il più giovane milionario africano con una fortuna di circa 1 miliardo di dollari impegnati nel settore tessile, edilizio e dei trasporti.

Nonostante quest’anno Forbes noti come i mercati azionari volatili, il calo dei prezzi del petrolio e il dollaro sempre più forte abbiano fatto calare per la prima volta dal 2009 i patrimoni dei potenti, il rapporto 2014 Global Wealth Report del Crédit Suisse sostiene ancora che i milionari in Africa sono destinati a raddoppiare nei prossimi anni, con una velocità di progressione paragonabile soltanto alla Cina.

I miliardari africani rispecchiano infatti una impressionante crescita economica: dal continente passano infatti sempre più capitali da investire nelle infrastrutture ma questa fortuna si concentra nelle mani di una classe medio-alta legatissima al potere politico dei Paesi. Inoltre, l’Africa è tenuta d’occhio dagli investitori internazionali sia perché si tratta un mercato in crescita sia per il fatto che molti Paesi del continente possono vantare una gestione elastica del fisco nazionale che ha normative facili da eludere e tenute ancora in bassa considerazione dai controlli fiscali mondiali. Intorno agli investitori stranieri, dunque, si stringono i ricchi africani i cui patrimoni si inseriscono facilmente nel circolo dei capitali mondiali.

Inoltre, mentre aumenta la ricchezza in molte città dell’Africa, non diminuiscono gli indici di benessere del popolo come il tasso di mortalità infantile o la presenza di malattie come malaria e colera. Nonostante i 24 miliardari di Forbes, l’estensione della ricchezza verso il basso per il continente è ancora un miraggio.
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Re: A l'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » ven feb 24, 2017 10:49 pm

Africani in Europa


Islam: il pericolo (sottovalutato) arriva dall’Africa
by Redazione Rights Reporter on Gen 16, 2016
http://www.rightsreporter.org/islam-il- ... -da-africa

In queste ore in cui è in corso l’ennesimo attacco islamico a obbiettivi occidentali in Burkina Faso l’occidente dovrebbe porsi alcune domande in merito alla espansione dell’Islam nel continente africano e come questo stia diventando sempre più evidentemente un nuovo fronte della guerra di conquista islamica.

Il Nord Africa è sempre stato islamico anche se negli ultimi anni, se si fa eccezione per Tunisia ed Egitto, si è notata una forte espansione dell’estremismo wahabita in special modo in Marocco. In Africa Occidentale ormai l’Islam ha preso possesso in pianta stabile nella maggioranza dai Paesi mentre in Africa Centrale, se si fa eccezione per la Repubblica Centrafricana, trova ancora qualche difficoltà ad attecchire. L’Africa Orientale invece con la Somalia in mano agli Al-Sahaabab e con l’espansione dell’islam in Kenya e in Etiopia sta vivendo una vera e propria “primavera islamica”.

Un noto Imam africano durante le sue prediche nelle moschee della Somalia era uso affermare che “è sbagliato parlare di islamizzazione dell’Africa ma è più corretto parlare di africanizzazione dell’Islam”. La differenza solo in apparenza sottile è invece notevole. L’africano è tendenzialmente più violento dell’arabo. Lo stesso Imam ricordava infatti che “se gli africani avessero avuto i mezzi finanziari degli arabi il mondo sarebbe già islamico”.

La cosa, che non deve essere presa per una forma di razzismo ma come una analisi realistica della situazione, deve invece far riflettere molto attentamente. Siamo così concentrati nell’osservare e analizzare quello che avviene in Medio Oriente da non vedere la bomba islamica che sta crescendo in Africa. E con milioni di africani che premono alle porte d’Europa la cosa assume ancora maggiore importanza e merita ben più di una semplice riflessione ma necessita di una particolare attenzione da parte nostra e in particolare da parte dei Governi Europei.

L’Islam in Africa sta facendo quello che non è riuscito a fare il cristianesimo con i suoi tanti missionari, riunire attorno a un ideale religioso – l’Islam – una enorme quantità di gruppi diversi. In Africa ci sono 3.000 gruppi etnici distinti e oltre 2.000 lingue, eppure i “missionari islamici” sono riusciti a dare a molte popolazioni africane un unico ideale che le unisce sotto una unica bandiera, un’unica identità e un’unica cultura, quella dell’Islam.

“L’Islam ha sempre assimilato le culture dei popoli che converte così come l’acqua consuma la roccia. Non esiste una cultura africana, esiste una cultura islamica africana” [islamandafrica.com]

Le potenzialità dell’Africa sono state ben comprese dai maggiori gruppi terroristici islamici. Al Qaeda controlla la Somalia e parte dell’Africa occidentale. L’ISIS è in forte espansione in Nigeria dove Boko Haram ha aderito alla causa del Califfo, e in Nord Africa dove ha convinto molti aderenti ad Al Qaeda a passare nelle fila del Califfato. Ma attenzione a considerare tutto questo come una guerra interna tra gruppi terroristici, una specie di guerra tra bande. Non lo è. Al Qaeda è destinata a confluire nello Stato Islamico proprio perché l’ISIS garantisce quella identità islamica comune che gli africani vanno cercando. Non solo, lo Stato Islamico garantisce agli africani quello che fino ad oggi è a loro mancato, i mezzi per combattere quello che loro considerano il nemico, l’occidente ex colonialista e sfruttatore di risorse.

E per tornare a quanto si diceva prima, non siamo di fronte a una islamizzazione dell’Africa ma a una africanizzazione dell’Islam il che rende il tutto terribilmente più pericoloso. Riflettiamoci un attimo prima di proseguire con la nostra politica terzomondista.

Scritto da Antonio M. Suarez




A Parigi e nessuno interviene a difendere questa ragazza bianca maltrattata vergognosamnete da questa schifezza umana
https://www.facebook.com/stophaineblanc ... 1955103652

Africani a Parigi
https://it.wikipedia.org/wiki/Attentato ... rlie_Hebdo

Africano tunisino a Berlino
https://it.wikipedia.org/wiki/Attentato ... _a_Berlino
Anis Amri era giunto per la prima volta in Europa nel 2011 su un barcone di migranti, arrivando presso l'isola di Lampedusa. Fingendo di essere minorenne, venne inviato al centro di accoglienza temporanea sull'isola, dove aveva partecipato a una rapina e una rivolta particolarmente violenta (il centro era stato dato alle fiamme e diverse persone rimasero ferite): per questo era stato condannato a quattro anni di carcere, scontati in due carceri in Sicilia. Rilasciato nel 2015, rifiutò il rimpatrio in Tunisia offerto dalle autorità italiane e si diresse in Germania. Amri apparteneva alla rete salafita chiamata "La vera religione" cresciuta intorno a Abu Walaa, un noto reclutatore dell'ISIS in Germania recentemente arrestato.

Africano tunisino a Nizza
https://it.wikipedia.org/wiki/Strage_di_Nizza
Il colpevole è stato identificato in un cittadino nizzardo di trentuno anni con doppia nazionalità francese e tunisina: i documenti che ne hanno permesso l'identificazione sono stati trovati nel camion.
L'attentatore, Mohamed Lahouaiej-Bouhlel, nato a Susa in Tunisia, era già noto alla polizia per piccoli casi di criminalità minore, in particolare violenze e uso di armi, ma nessun fatto legato al terrorismo.

...
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Re: A l'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » lun apr 03, 2017 7:49 pm

Dall’Etiopia all’Italia: migranti economici o forzati? - Alle radici della retorica delle politiche migratorie europee.

https://www.actionaid.it/informati/noti ... -o-forzati
Benché il flusso migratorio proveniente dall’Etiopia sia di portata contenuta e riguardi solo lo 0,74% della popolazione - 740.702 persone nel 2015, secondo l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM) - in realtà si tratta di un fenomeno sistemico iniziato ormai da decenni.

Tre sono le principali rotte percorse dai migranti del Corno d’Africa:
verso Nord, passando per il Sudan con destinazione Libia, Europa, Egitto o Israele;
verso Est, passando per il Golfo di Aden verso Yemen e Arabia Saudita;
verso Sud, attraversando il Kenya per raggiungere il Sudafrica (quest’ultima rotta percorsa da un numero esiguo di persone).

Spesso le persone raccontano degli abusi e delle gravi violazioni dei diritti umani subiti sia nei Paesi di destinazione sia durante il viaggio per raggiungerli. Un pericolo frequente sono i rapimenti, che possono durare anche diversi mesi e il cui scopo è quello di ottenere un riscatto. Se poi a essere coinvolte sono le donne, il rischio di trattamenti inumani e degradanti, torture, stupri e violenze sessuali è estremamente elevato.

Alla base della scelta di migrare ci sono una serie di fattori, per cui diventa molto difficile individuare una sola causa: la gestione delle risorse naturali e l’espropriazione dei terreni agricoli costringe i contadini a cercare altrove i mezzi di sussistenza, circostanze che possono generare flussi di migrazione interna verso le città e progetti di migrazione transfrontaliera. Allo stesso tempo, i cambiamenti ambientali e gli eventi climatici estremi, quali la siccità e le inondazioni, possono considerarsi fattori di spinta.

Non è quindi semplice distinguere tra la migrazione definita “forzata” e quella più di natura economica e, quindi, spontanea.

La questione si pone anche nel momento d’ingresso sul suolo europeo perché l’Unione e i suoi Stati membri continuano a tenere separare queste due tipologie di migrazioni: se quindi da un lato si sottolinea la necessità di rafforzare il sistema di accoglienza e protezione per chi viene classificato come migrante forzato, dall’altro si limitano le possibilità di ingresso per chi viene considerato - spesso in base al solo Paese di origine - un migrante economico.

Nel rapporto “Dall’Etiopia all’Italia: migranti economici o forzati?”, recentemente pubblicato da ActionAid, si è cercato di esaminare, anche con interviste, il fenomeno migratorio dal Corno d’Africa e in particolar modo dall’Etiopia. Da questa analisi emerge la necessità, da parte di tutti gli attori coinvolti nella gestione dei flussi migratori provenienti dall’Etiopia, di tenere in considerazione anche la complessità della situazione in termini di accesso alle risorse fondamentali e implementare politiche appropriate per ridurre la povertà direttamente nel paese con conseguente riduzione del fenomeno migratorio.

Per questo ActionAid chiede una maggiore coerenza delle politiche su migrazione e sviluppo, evitando di usare la cooperazione allo sviluppo come strumento per azioni di controllo delle frontiere e investendo invece in progetti di co-sviluppo che abbiano come criterio fondamentale il riferimento al rispetto dei diritti umani e a forme di governo democratico.


https://www.actionaid.it/app/uploads/20 ... granti.pdf



Alberto Pento
Basta fermare il flusso non accogliendo e respingendo anche se rischiano di affogare, tanto affogano lo stesso; respingere uno o due barconi con determinazione per dare l'esempio, così nessuno poi si sognerebbe di imbarcarsi in una traversata. Non abbiamo alcun dovere verso questa gente africana, Prima dobbiamo pensare ai nostri poveri, ai nostri disoccupati, ai nostri disabili, anziani e ammalati, alle nostre famiglie, ai giovani che non hanno lavoro e che non possono metter su casa, farsi una famiglia e dei figli. Preoccuparsi di questi africani e trascurare la nostra gente è semplicemente demenziale e criminale. Andarli a prendere sulla costa libica è mostruoso!

Gianni Lombardi
Il vostro rapporto l'ho letto fin dall'inizio. Il mio lavoro mi ha portato a girare il mondo, compresi 10 anni in Medio Oriente. Potete elencare anche 100 argomenti a riguardo ma la sostanza non cambia. Non siamo attrezzati per accogliere centinaia di migliaia di africani, specialmente ora che il Nord Europa è saturo.

Alberto Pento
Saturo e pieno di problemi, con povertà, disoccupazione, specialmente all'Est e nel Mediterraneo. Non si può e chi usa le risorse dei cittadini europei per questa gente è un ladro, un malversatore, un criminale che manipola e nega i diritti umani dei citttadini europei nativi. E' demenziale pensare che possimo farci carico di tutti i bisognosi o poveri o perseguitati della terra. Se non lo fa direttamente Dio con la sua onnipotenza non possiamo certo farlo noi che non riusciamo nemmeno a risolvere i nostri prolemi in Italia ed in Europa.
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Re: A l'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » lun apr 03, 2017 8:29 pm

Congo la Patria della Kyenge la cui cultura e civiltà vorrebbe esportare qui da noi per insegnarci a vivere.

La scorsa estate i militari hanno ucciso un capo tradizionale locale dando il via alla rivolta. Il caos è culminato con il sequestro, il 12 marzo, di due esperti inviati dalla Nazioni Unite per investigare sulle fosse comuni. Volontari italiani in fuga: "Avrebbero potuto ucciderci tutti". Don Jeanot Mandefu: "I soldati sono entrati all'università e hanno rastrellato gli studenti". La presidente del COE Scandella: "Verrebbe da pensare che il motivo sia quello di far fuori quanti più giovani possibile in una regione scomoda perché si oppone al potere centrale"
di Giusy Baioni e Thomas Mackinson | 3 aprile 2017

http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/04 ... ni/3495609

Immagini atroci, di quelle che non si vorrebbero mai vedere. Sono le foto e i video arrivati alla redazione de ilfattoquotidiano.it e che documentano la mattanza in corso nella Repubblica Democratica del Congo. Immagini, alcune delle quali non possiamo mostrarvi, ben più crude di quelle che già stanno circolando in rete in queste ore. Immagini di uccisioni, di corpi massacrati, ammassati, gettati dai camion in fosse comuni.

Siamo nel Kasai, provincia centrale di quell’enorme Paese che è la RDC. Una regione fino a non molto tempo fa tranquilla e risparmiata dalle guerre che da vent’anni insanguinano soprattutto l’est del Paese. Tutto però è cambiato dalla scorsa estate, quando uno chef coutumier, un capo tradizionale locale, è stato ucciso dai militari regolari: i suoi fedelissimi, unendosi in una milizia chiamata Kamuina Nsapu, hanno iniziato una rivolta che per qualche mese è rimasta più o meno “a bassa intensità”. Fino all’inizio di quest’anno, quando nella regione è stato inviato un reggimento delle FARDC, l’esercito regolare. Ed è iniziata la mattanza.

Ilfattoquotidiano.it ha raccolto la testimonianza di un volontario italiano che proprio in queste ore è su un volo che lo riporta a casa. L’uomo (che chiede di restare anonimo per motivi di sicurezza) era in missione con la famiglia per conto del COE (il Centro di Orientamento Educativo), associazione che gestisce un ospedale a Tshimbulu, proprio la zona epicentro degli scontri. E nel mezzo alle violenze si sono ritrovati anche loro. “Il secondo giorno di scontri in città”, racconta, “abbiamo ricevuto la visita dei miliziani che hanno cercato di entrare in casa, hanno cercato di forzare le porte, ma le avevamo blindate. Li ho visti dalla finestra, erano una trentina, con loro diversi bambini di meno di dieci anni”. E prosegue: “Il giorno successivo il colonnello della polizia e un colonnello dell’esercito sono venuti per accompagnarci a Kananga (il capoluogo di provincia), su un camion militare con a bordo un capitano, il colonnello dell’esercito e numerosi militari di scorta. Nel viaggio siamo stati bersaglio dei tiri dei fucili tradizionali dei miliziani per almeno 40 km. I militari hanno risposto al fuoco con migliaia di colpi e cinque di loro sono stati feriti. Gli ufficiali che erano in cabina con noi ci hanno assicurato che i colpi non potevano entrare in cabina perché blindata. Siamo rimasti a Kananga tre notti, poi ci hanno accompagnati all’aeroporto da dove siamo partiti per la capitale Kinshasa. Durante i due giorni di permanenza a Kananga, la città è stata attaccata due volte con decine di vittime. Potevamo essere uccisi tutti, sarebbe bastato che i miliziani avessero sbarrato la pista con un grosso tronco e ci avrebbero sterminati.”

Il caos nella regione è culminato con il sequestro, il 12 marzo, di due esperti inviati dalla Nazioni Unite per investigare sulle fosse comuni. I corpi di Michael Sharp, 34 anni, statunitense, e Zaida Catalan, 36 anni, svedese di origine cilena, sono stati ritrovati una settimana fa, insieme a quello dell’interprete congolese Bete Tshintela. La svedese è stata decapitata. Un orrore che ha scosso tutte le più alte istituzioni e ha gettato un faro sui massacri in corso nel Kasai. Sono seguite prese di posizione ufficiali da parte delle Nazioni Unite, degli Stati Uniti, anche del procuratore della Corte Penale Internazionale dell’Aja. Il 2 aprile anche il viceministro degli esteri italiano, Mario Giro, ha diffuso un comunicato molto preoccupato sull’aggravarsi della situazione in RDC. E il Papa, durante la visita a Carpi, ha ricordato il travagliato Paese.

Per meglio comprendere il perché di queste stragi, abbiamo raggiunto al telefono don Jeanot Mandefu, che dopo un dottorato in Italia è tornato nel suo paese e insegna all’università di Kananga, nel locale seminario e nell’accademia militare, dove è cappellano. Un punto d’osservazione privilegiato, il suo. E da lui viene la denuncia che pochi giorni fa i militari sono entrati all’università rastrellando gli studenti. All’opposizione di don Jeanot Mandefu, il comandante ha risposto: “Sono tutti miliziani. Ora li fermiamo tutti, poi vedremo”. La popolazione dell’intero capoluogo è in fuga, i militari passano casa per casa, saccheggiano, uccidono e violentano, ci spiega ancora il sacerdote. Le voci si rincorrono, ben difficili da verificare. Una fonte anonima che ci viene riportato essere interna all’esercito parla di 2500 morti in due notti a Kananga. Intanto l’Ufficio congiunto delle Nazioni Unite ai diritti umani, che sta documentando le fosse comuni, ha fatto sapere che sono passate da 7 a 23.

Come spesso capita in questi casi, le due forze in campo (militari e miliziani) si rimpallano le responsabilità. Ma a metà febbraio in rete è circolato un video che mostra alcuni militari mentre sparano su civili disarmati. Non solo: un video in possesso de ilfattoquotidiano.it (che non può essere mostrato per la sua crudezza) documenta uomini in divisa militare che si accaniscono su giovani inermi, li massacrano e li gettano in una fossa comune. Anche secondo don Jeanot non ci sono dubbi sulle responsabilità: i miliziani non hanno armi, usano coltelli e machete, mentre i massacri in corso sono sistematici e organizzati. Impossibile dire quante persone siano state uccise finora, perché i corpi vengono fatti sparire.

Il caos fa il gioco del governo, che cerca ogni pretesto per rinviare il voto. Il Paese infatti si trova in una fase politica delicatissima: il secondo e ultimo mandato del presidente Joseph Kabila è scaduto lo scorso dicembre, ma finora non sono state indette nuove elezioni. Dopo mesi di faticosissime trattative, si era giunti a un accordo fra maggioranza e opposizione, detto l’“accordo di San Silvestro”, che prevedeva un anno di transizione e elezioni entro la fine del 2017. Ma tutte le fasi stabilite dall’accordo non vengono rispettate dal governo. Il Paese è sull’orlo del caos.

Ci sintetizza bene la situazione Rosella Scandella, presidente del COE: “Il Kasai è la regione di origine di Tshisekedi, lo storico oppositore morto da poco (a cui è subentrato il figlio) e lì la gente ha una forte opposizione a Kabila. I soldati sparano senza ritegno sulla popolazione e verrebbe da pensare che il motivo sia quello di far fuori quanti più giovani possibile in una regione scomoda perché si oppone al potere centrale”.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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