All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Re: All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » gio nov 21, 2019 10:07 pm

Prendi i soldi e scappa...in Europa. Furti per emigrare
Anna Bono
20 novembre 2019

https://lanuovabq.it/it/prendi-i-soldi- ... 0.facebook


Un reportage in Sierra Leone realizzato dal giornalista Tim Whewell rivela che molti giovani africani commettono furti anche ai familiari per raccogliere i soldi necessari alla traversata del deserto e del Mediterraneo, per arrivare in Europa. Al loro rientro si sono bruciati i ponti e restano emarginati. Un'associazione, la Anaim, li aiuta in patria.

Freetown

Le Chiese africane da tempo cercano di far capire ai giovani e alle loro famiglie che l’Europa non è affatto un Eldorado dove c’è abbondanza di tutto per tutti, basta arrivarci, e che emigrare illegalmente affidandosi a organizzazioni criminali è estremamente rischioso. Le loro campagne di informazione hanno ottenuto dei risultati. Ad esempio, sembra che cresca il numero delle famiglie che non sono disposte a mettere insieme il denaro necessario per far emigrare un parente: meglio investire in progetti più sicuri.

Ma tanti giovani continuano a voler partire, contro ogni logica, e quindi lo fanno di nascosto, eventualmente informando i parenti quando hanno già lasciato il paese. Succedeva anche in passato, ma non di frequente come adesso, e inoltre sembra siano molti i casi in cui, per procurarsi il denaro necessario, lo rubino ai famigliari non più disposti ad aiutarli: “arraffano tutto il denaro su cui riescono a mettere le mani – spiega il giornalista della Bbc Tim Whewell – arrivando persino a vendere gli atti di proprietà delle terre di famiglia”.

Whewell è autore di un reportage realizzato in Sierra Leone grazie al contributo di Advocacy Network Against Irregular Migration (Anaim), una associazione di volontariato che aiuta a rifarsi una vita gli emigranti illegali di ritorno a casa, quelli che non sono riusciti a raggiungere l’Europa e hanno usufruito di programmi di rimpatrio assistito. Per molti di essi, di “ritorno a casa” in effetti non si può parlare: di loro i famigliari non ne vogliono sapere perché sono stati appunto derubati e ancora pagano le conseguenze del danno subito.

Fatmata, 28 anni, ad esempio è arrivata a Freetown, la capitale, nel dicembre del 2018, grazie all’Oim, Organizzazione internazionale per le migrazioni, che ne ha pagato le spese di rimpatrio. Da allora non ha ancora visto sua madre nè sua figlia di otto anni. Suo fratello, al quale aveva telefonato per dire che era in città, le ha intimato di non osare presentarsi a casa: “dovevi morire là dove eri” le ha detto. Per poter partire Fatmata ha rubato a una zia 25 milioni di leones, circa 2.600 dollari al cambio attuale, che valevano molto di più due anni fa quando è andata via. Sua zia che si fidava di lei le aveva dato il denaro perché acquistasse una partita di tessuti da rivendere. Il furto ne ha mandato in rovina l’attività. Inoltre ha guastato i rapporti tra le famiglie della zia e di Fatmata perché la zia pensa ingiustamente che la mamma di Fatmata fosse al corrente del piano della figlia.

Jamilatu, 21 anni, è tornata da due anni. Per procurarsi il denaro necessario a partire, ha rubato alla madre una borsa con l’equivalente di 3.500 dollari in contanti. Quei soldi non erano di sua madre. Glieli avevano prestati dei vicini di casa e facevano parte di un programma di microcredito. Dopo la partenza di Jamilatu, i creditori inferociti assediavano la casa della mamma, minacciando di ucciderla se non avesse restituito il denaro. Alla fine la mamma è dovuta scappare a Bo, la seconda città del paese, lasciando a casa il marito e gli altri tre suoi figli. Anche dopo che il giornalista della Bbc ha provato a farle incontrare, la donna ha detto che non vuole Jamilatu sotto il suo tetto finché non restituisce il denaro ai creditori.

Alimamy ha 31 anni. È partito tre anni fa dopo aver rubato e venduto una macchina per l’imbottigliare l’acqua molto costosa di proprietà di uno zio che doveva servire ad avviare una redditizia attività. È stato rimpatriato nel 2017 e non ha ancora osato farsi vivo con la famiglia. Whewell ha cercato di convincere Sheik Umar, il fratello maggiore, a incontrarlo. I due erano molto uniti prima del furto. La sua risposta è stata che se mai rivedesse Alimamy farebbe in modo che fosse arrestato, processato e condannato come merita: “e se morisse in prigione – ha detto – non avrei rimpianti, sono certo che nessuno in famiglia ne avrebbe perché ci ha tutti disonorati”. L’attività che Alimamy avrebbe dovuto gestire poteva fruttare di che mantenere tutta la famiglia: “invece lui ha sprecato quella opportunità e adesso siamo tutti nei guai. Dovunque vada la gente mi prende in giro. Nostra madre si è ammalata, ha preferito andare a vivere al villaggio. Quell’attività doveva essere la nostra speranza e lui ha rovinato tutto”.

Molti dei circa 3.000 emigranti rientrati in Sierra Leone raccontano storie simili di famiglie rovinate, di danni economici spesso irreparabili che oltre tutto hanno creato insanabili contrasti famigliari. L’Oim, oltre a rimpatriare gli emigranti illegali che lo richiedono, offre loro un contributo pari a 1.500 euro grazie a un fondo di 347 milioni di euro finanziato principalmente dall’Unione Europea. Per evitare che venga sperperato o usato per restituire il maltolto, l’importo è erogato in mezzi per avviare una attività economica. Alimamy aveva ottenuto di che acquistare una motocicletta da affittare a gente che doveva usarla come un taxi. Ma dopo appena quattro mesi uno degli autisti è sparito con la moto e l’affare è andato a monte. Fatmata e Jamilatu invece non hanno ottenuto contributi perché sono tornate passando dal Mali in un periodo in cui dei loro connazionali in Mali si fingevano emigranti provenienti dal Sahara per poter viaggiare sui pullman dell’Oim e ottenere il contributo. Quando se ne è accorta, l’Oim ha cancellato dal programma chiunque provenisse dal Mali. Entrambe adesso sono senza lavoro e dipendono interamente dall’Advocay Network. Insieme ad altri rimpatriati partecipano a eventi organizzati dall’associazione. Girano per le strade con altoparlanti per informare i giovani dei pericoli dell’emigrazione illegale e per esortarli a rimanere nella “dolce Sierra Leone”.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » ven nov 29, 2019 9:14 pm

Spreco di cibo, la realtà è diversa dai falsi miti
Anna Bono
28-11-2019

https://lanuovabq.it/it/spreco-di-cibo- ... 9.facebook

L’agenzia dell’Onu per l’alimentazione afferma in un nuovo rapporto che non c’è correlazione tra spreco di cibo nei Paesi ricchi e fame in quelli in via di sviluppo. Anzi, moltissimo cibo va perduto anche nei Paesi poveri. Diversi sono però i modi in cui il cibo si butta via, legati alle diverse fasi della catena alimentare.

Non c’è correlazione tra spreco di cibo nei Paesi ricchi e fame in quelli in via di sviluppo. Lo afferma un rapporto appena pubblicato dalla Fao, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, sulla situazione alimentare nel mondo, dal titolo “Lo stato del cibo e dell’agricoltura. Verso una riduzione della perdita e dello spreco di cibo”.

Un minore spreco di generi alimentari nei Paesi sviluppati non serve a combattere la fame nel mondo, che esiste non perché centinaia di milioni di persone scartano enormi quantità di cibo, ma perché centinaia di milioni di persone non ne producono abbastanza per il loro fabbisogno, anche perché una parte dei raccolti e dei prodotti lavorati va perduto, o non guadagnano abbastanza da poter acquistare tutto il cibo di cui hanno bisogno.

Al contrario di quel che si può pensare, spiega inoltre la Fao, moltissimo cibo va perduto anche nei Paesi poveri. A scoprirlo già nel 2011 era stato l’Istituto svedese per l’alimentazione e la biotecnologia di Goteborg, incaricato dalla Fao di svolgere una ricerca sullo spreco e la perdita di cibo nel mondo. L’indagine, intitolata Global food losses and waste, aveva dato risultati inaspettati. Il primo riguardava la quantità globale di derrate alimentari sprecate e perse ogni anno: circa 1,3 miliardi di tonnellate, pari - e questo fa capire meglio l’enormità dello spreco - a circa un terzo del cibo prodotto per il consumo umano. Altri dati sorprendenti riguardavano appunto dove e come si perde e spreca il cibo. L’idea è che a trattare con negligenza il cibo sia eventualmente chi ne ha in abbondanza e non teme di rimanerne mai senza, quindi gli abitanti dei Paesi ricchi, industrializzati. Invece, Paesi industrializzati e in via di sviluppo sono quasi pari nel dissipare cibo: 670 milioni di tonnellate i primi e 640 milioni i secondi.

Diverso è però il modo in cui il cibo si butta via. Avendo individuato cinque fasi nella catena alimentare (produzione agricola, raccolta-trasporto-immagazzinamento, lavorazione, distribuzione e consumo), per “perdita” i ricercatori hanno inteso tutto il cibo che per qualsiasi motivo si deve scartare senza poterlo riutilizzare in qualche altro modo, nelle fasi di raccolta, trasporto, immagazzinamento e lavorazione; per “spreco” tutto il cibo che per qualche motivo non si vende e non si consuma dopo averlo acquistato, dunque nelle due fasi finali. Il rapporto del 2011 indicava più spreco nei Paesi sviluppati e più perdite in quelli in via di sviluppo. Si era calcolato che ogni anno in Europa e in Nord America lo spreco di cibo fosse di 95-115 chilogrammi per persona rispetto ai 6-11 chilogrammi dell’Africa sub-sahariana e del Sud Est asiatico. Nei Paesi in via di sviluppo le perdite ammontavano al 40% del totale, dovute in gran parte alle condizioni in cui vi si svolgono le prime tre fasi della catena alimentare.

A partire da quella prima ricerca, le Nazioni Unite hanno deciso di approfondire la rilevazione del fenomeno separando, per meglio analizzarle, le due modalità e affidando alla Fao la realizzazione di un indice della perdita di cibo e all’Unep, il Programma Onu per l’ambiente, un indice dello spreco di cibo.

Il dato generale che emerge dal nuovo rapporto della Fao è che ogni anno - escludendo gli sprechi in fase di distribuzione e consumo - il 14% dei generi alimentari va perduto. La stima è approssimativa, spiegano i ricercatori, perché tanti Paesi, soprattutto africani e asiatici, hanno fornito informazioni molto incomplete, ma sostanzialmente conferma i risultati della ricerca condotta nel 2011.

Il rapporto conferma anche i fattori che determinano un simile danno, concentrati nei Paesi in via di sviluppo, inclusi quelli emergenti del gruppo Brics: sono le tecniche di coltivazione arretrate, i magazzini, sili e granai che non proteggono i raccolti da insetti e parassiti, le infrastrutture carenti e maltenute, l’ignoranza degli andamenti dei mercati da parte di milioni di coltivatori, i difetti di lavorazione, confezionamento e imballaggio. Per di più, a ogni stagione milioni di coltivatori perdono i raccolti ancora nei campi o se ne vedono ridotta la resa a causa di inondazioni, siccità, insetti e parassiti. Ultima ma non minore causa di cibo perso nei Paesi in via di sviluppo è, spesso, l’inadeguatezza delle politiche e degli investimenti statali a sostegno del settore agroalimentare.

Il rapporto, al di là dei dati, contiene delle interessanti considerazioni. Spiega tra l’altro che si deve comunque mettere in conto una certa sovrabbondanza di cibo prodotto e poi non consumato se si vuole disporre di riserve indispensabili per far fronte a eventuali crisi alimentari. Avverte inoltre che il risparmio di cibo - sia in termini di perdita che di spreco - non porta beneficio a tutti e bisogna esserne ben consapevoli. Ad esempio, sprecare e perdere meno cibo nelle fasi finali della catena alimentare può danneggiare i coltivatori facendo diminuire il prezzo dei prodotti e la quantità di generi alimentari richiesti dai mercati. Se ridurre perdite e sprechi di cibo non risolve il problema della fame nel mondo e può persino risultare in un danno per molti, giova invece all’ambiente. La Fao avverte che va preso seriamente in considerazione l’impatto che il cibo prodotto e non consumato comunque esercita sull’ambiente. Il quinto capitolo del rapporto contiene dati sul consumo di energia e di acqua, sull’inquinamento, sulla produzione di gas serra che si potrebbero evitare riducendo gli sprechi.

L’agenzia Onu è giustamente preoccupata di organizzare al meglio il vitale settore della produzione agricola a scopo alimentare, come le compete. È difficile che ci riesca, però, finché si avvale di un indicatore screditato, l’impronta ecologica, e di una congettura, il riscaldamento globale di origine antropica.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » dom ago 02, 2020 9:53 pm

Deputato tunisino: "Prima di minacciare blocco, Di Maio pensi a accordi"
Elvira Terranova
31/07/2020

https://www.adnkronos.com/fatti/esteri/ ... QyKDN.html

"Il ministro degli Esteri Di Maio prima di minacciare il blocco dei fondi per la Tunisia dovrebbe pensare ai rapporti storici che ci sono tra l'Italia e la Tunisia e nello stesso tempo dovrebbe prima vedere prima cosa prevedono gli accordi presi in passato tra i due paesi". A parlare, in una intervista esclusiva all'Adnkronos, è Sami Ben Abdelaali, deputato tunisino ma che vive tra Palermo e Tunisi.

Il deputato tunisino si dice "molto dispiaciuto" per le dichiarazioni rese oggi dal capo della Farnesina che chiede "di sospendere lo stanziamento di 6,5 milioni di euro" per la Tunisia "in attesa di un piano integrato più ampio proposto dalla viceministra del Re" e di "un risvolto nella collaborazione che abbiamo chiesto alle autorità tunisine in materia migratoria". Di Maio ha chiesto al comitato congiunto per la cooperazione allo sviluppo della Farnesina di rimandare la discussione sullo stanziamento di fondi della cooperazione in favore di Tunisi.

"La collaborazione e la cooperazione tra due paesi è come il matrimonio - dice ancora Sami Ben Abdelaali -nella buona e nella cattiva sorte. Quando ci sono disagi in un paese bisogna intervenire con il dialogo e non minacciando di bloccare i fondi. Non è questa la condizione ottimale per i nostri rapporti". "Io sono davvero dispiaciuto per le parole espresse dal ministro Di Maio che non traducono i rapporti storici di cooperazione tra l'Italia e la Tunisia- dice ancora il politico sposato con una donna italiana- L'Italia ovviamente prima di pretendere che la Tunisia mantenga suoi impegni e i suoi accordi dovrebbe anche mantenere gli impegni presi nel 2011 nell'accordo tra governo italiano e governo tunisino. Perché dal 2017 l'Italia ha bloccato gli aiuti previsti nell'accordo, per l'acquisto di strumenti e tecnologici e per controllare le coste tunisine". "Addirittura ci sono oltre 30 milioni che dovrebbe pagare l'Italia nella tranche 2020-2022 e solo dal 2017 risultano 3 milioni di euro non pagati".

Perché, come ricorda il deputato tunisino, "per controllare le coste tunisine ci vogliono uomini e mezzi e l'Italia non ha mantenuto i suoi impegni dal 2017. In più le condizioni climatiche ottimali hanno incoraggiato le persone a tornare in Italia, oppure persone rimpatriate o cittadini che hanno perso il lavoro. C'è un disagio sociale che ha fatto sì che la gente cerchi altre soluzioni".

Il deputato tunisino poi parla della nuova rotta tunisina verso l'Italia. Nei giorni scorsi il Procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio in una intervista all'Adnkronos aveva lanciato l'allarme sui flussi tunisini e aveva parlato di un "serio problema di ordine pubblico". "Il problema - dice Sami Ben Abdelaali -è che oggi c'è un governo ad interim e l'ambasciatore italiano a Tunisi sta facendo grandi sforzi per dialogare con le autorità competenti per affrontare questo flusso migratorio. Voglio anche ricordare che nei giorni scorsi la ministra dell'Interno Lamorgese è volata a Tunisi". "C'è un disagio sociale notevole, dovuto al coronavirus e alla disoccupazione che aumenta giornalmente - spiega ancora il politico - Per noi l'Italia è il nostro primo partner commerciale e non vogliamo perdere i rapporti con questo paese".

Ma qual è la soluzione? "Rafforzare i controlli, ma prima di arrivare in Italia - dice - oggi controllare dalla Tunisia è complicato, bisogna controllare al confine delle acque internazionali. Bisogna aumentare la sicurezza e superare questa fase finché non nasca il nuovo governo con cui poi avviare delle interlocuzioni. E bisogna anche intervenire con aiuti concreti sui giovani, ad esempio, per bloccare l'immigrazione verso l'Italia, anche attraverso l'aiuto l'Unione europea".

Sulla convocazione di Di Maio dell'ambasciatore tunisino per accelerare i rimpatri, il deputato dice: "Per il numero dei rimpatri l'accordo già c'è, bisogna intervenire con il governo. Appena intorno al 20 agosto si farà il nuovo governo si può provare a trovare delle soluzioni. Ma nel frattempo bisogna avviare i canali diplomatici". Per ci tiene a sottolineare: "I numeri dei flussi migratori di oggi non sono eccezionali, ricordo che in passato erano molto più alti".


Gino Quarelo
No assoluamente no, all'Africa in generale e a quella mediterranea e maomettana non dobbiamo nulla e l'invasione clandestina va considerata come un crimine tra i più gravi e violenti, più dello stupro e della rapina, va trattata con durezza e repressa anche con la violenza per legittima difesa.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » mer dic 30, 2020 7:55 am

Il gigante vacilla

Nigrizia

https://www.nigrizia.it/notizia/il-gigante-vacilla

In un rapporto pubblicato il 28 agosto dall’Ufficio nazionale di statistica (Nbs) risulta che nel secondo trimestre 2020 gli investimenti esteri hanno subito un tracollo del 78% rispetto al primo trimestre. Da gennaio a marzo, prima che la pandemia arrivasse nel continente, gli investimenti esteri hanno toccato i 5,85 miliardi di dollari. Nel trimestre successivo si è scesi a 1,29 miliardi di dollari.

Dovendo fare i conti con una caduta drastica delle esportazioni a causa del Covid-19 e al rincaro dei beni importati, la Nigeria ha visto l’inflazione arrivare 12,4% nel maggio di quest’anno, il livello più elevato da due anni a questa parte, da quando cioè la moneta nazionale, il naira, si sta continuamente deprezzando rispetto al dollaro.

La Banca centrale (Cnb), che prevedeva un’inflazione del 9%, per evitare la recessione ha abbassato il tasso d’interesse al più basso livello degli ultimi quattro anni. Una manovra per ora senza effetto sulla attività economica e sulla dinamica dell’aumento dei prezzi al consumo. Basti pensare che nell’ultimo mese il prezzo dei carburanti è raddoppiato. Forti aumenti hanno fatto registrare gli alimenti, le bevande non alcoliche, l’acqua, gli alloggi, l’elettricità e il gas butano.

La chiusura delle frontiere terrestri con il Benin, nell’agosto 2019, ha dato una forte spinta all’inflazione. L’Nbs osserva che l’inflazione ha iniziato a salire a partire dal settembre 2019. Un altro focolaio di inflazione sono state le misure restrittive adottate nel quadro della lotta al Covid-19.

Secondo l’Nbs, la persistenza della pandemia ostacola la piena riapertura delle attività economiche, soprattutto perché frena la circolazione delle persone. Una situazione che nuoce gravemente ai produttori di derrate alimentari che hanno difficoltà ad accedere alle fattorie. Così il diminuire degli approvvigionamenti dei mercati e la corsa della gente alle derrate alimentati fa salire i prezzi.

Dipendenza dal petrolio

Nonostante sia stata più volte dichiarata la volontà di diversificare l’economia, la Nigeria subisce oggi le conseguenze della sua dipendenza dal prezzo del petrolio, che assicura più dell’80% delle entrate da esportazioni e più del 50% delle entrate pubbliche. Votato nel dicembre 2019, il budget pubblico 2020 di 35 miliardi di dollari contava su una produzione quotidiana di poco più di 2 milioni di barili di petrolio a 57 dollari il barile.

A marzo, il budget ha subito una riduzione di circa 5 miliardi di dollari per il fatto che il barile si vende a 30 dollari. Un prezzo che non cessa di scendere, nonostante l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio abbia ridotto la produzione. Con questo quadro, la Banca mondiale ritiene che altri 5 milioni di nigeriani siano a rischio povertà.

Iperdollarizzazione

Secondo la società finanziaria americana Moody’s «le banche nigeriane devono fare i conti con una penuria di divise straniere per via delle deboli entrate petrolifere. (…) La mancanza di dollari andrà a intensificarsi nel corso dei prossimi 12-18 mesi se persisteranno i bassi prezzi del petrolio».

L’analista economico Godwin Owoh avanza una spiegazione: «Ciò che sta avvenendo oggi in Nigeria è una iperdollarizzazione dell’economia. Tutti vogliono fare scorta in dollari dei loro guadagni: è per quello che, una volta chiusi gli aeroporti e adottate restrizioni sui visti, la domanda di dollari si moltiplica. (…) Per uscire dall’inflazione è necessario ridurre la dipendenza dalle importazioni e aumentare le possibilità di esportazione, perché i beni prodotti in Nigeria implicheranno una circolazione locale di denaro».

Aldilà delle formule, è necessario ricordare che se la Nigeria entra in recessione, ne risentiranno anche i paesi dell’area. Il Benin ne è un esempio. La frontiera con il vicino è chiusa e l’economia beninese ne soffre.

La Nigeria produce ed esporta parte della sua produzione, soprattutto nei paesi vicini. Prendiamo il riso: ne vengono prodotte non meno di 180 tonnellate al giorno, ma la stragrande maggioranza viene assorbita dal mercato interno e solo il 10% va venduto all’estero. E se anche quel poco non trova uno sbocco regionale, sono problemi.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » mer dic 30, 2020 7:56 am

Responsabilità africane, che si arrangino in tutto e per tutto. Basta derubare gli europei per aiutare l'Africa che gli africani si arrangino. E basta accogliere i clandestini dall'Africa a nostre spese e a nostro danno, specialmente se nazi maomettani.

Persi dall’Africa 836 miliardi di dollari in 15 anni
28-12-2020

https://www.lanuovabq.it/it/persi-dalla ... 8.facebook

“I flussi finanziari illeciti e la corruzione stanno inibendo lo sviluppo africano prosciugando i cambi, riducendo le risorse interne, soffocando il commercio e la stabilità macroeconomica e peggiorando la povertà e la disuguaglianza”. Ad affermarlo è Mukhisa Kituyi, segretario generale dell’Unctad, la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo, a commento del rapporto 2020 sullo sviluppo del continente africano. “I flussi finanziari illegali privano l’Africa e i suoi abitanti di prospettive – ha aggiunto – ne pregiudicano la trasparenza e l’affidabilità e intaccano la fiducia nelle istituzioni africane”. L’agenzia Onu stima che tra il 2000 e il 2015 siano andati persi, trasferiti illegalmente fuori dal continente, 836 miliardi di dollari, molto più del debito estero totale africano che ammonta a 770 miliardi di dollari. Dal 2013 al 2015, gli ultimi tre anni per i quali sono disponibili dei dati, in media l’Africa ha perso quasi 89 miliardi di dollari all’anno. Per un confronto, in quel periodo l’Africa ogni anno in media ha ricevuto in assistenza allo sviluppo e in investimenti esteri diretti un totale di 102 miliardi. Tre stati – Nigeria, Egitto e Sudafrica - sono responsabili di oltre i quattro quinti del totale dei flussi illegali. Di quei quattro quinti, metà provengono dalla sola Nigeria. I flussi finanziari illeciti sono costituiti principalmente da esportazioni di prodotti di elevato valore, furti, corruzione ed evasione fiscale. L’Unctad ritiene che, per quanto le somme stimate siano elevate, l’ammontare effettivo dei flussi illegali sia ancora superiore.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » mar apr 06, 2021 7:51 pm

È difficile aiutare l’Africa quando l’Africa non vuole aiutare se stessa
Franco Nofori
03/04/2021
Un’analisi oggettiva anche se dolorosa

https://www.italiettainfetta.it/e-diffi ... se-stessa/


Ricevo da un amico lettore lo sfogo di un imprenditore keniano che non potrebbe spiegare meglio perché l’Africa non decolla, ma sceglie di schiavizzare se stessa svendendo la propria credibilità al resto del mondo. Si tratta di un appello accorato e tristemente sincero che fa comprendere come un grande continente, dotato di enormi risorse naturali, si condanna alla perenne indigenza, all’illegalità e alla disparità sociale. Non ci sarà mai modo si aiutare efficacemente l’Africa, finché l’Africa non saprà offrirsi al resto del mondo come un partner onesto, capace e affidabile. Tutto il resto è melensa retorica.

Sono il titolare di un’azienda manifatturiera in Kenya che gestisce anche la commercializzazione dei propri prodotti. Le maggiori difficoltà che incontro nel condurre la mia attività, non sono rappresentate dalle frequenti interruzioni di corrente e neppure dall’assenza di adeguate infrastrutture, ma dalla difficoltà di trovare personale onesto e affidabile. Sembra che la missione di ogni persona che assumiamo sia quella di rubare quanto più possibile; falsificare fatture; registrare incassi inferiori all’importo reale e alterare anche la quantità di articoli prodotti. La parte peggiore di questa strategia truffaldina è che non è solo attuata dal singolo, ma si realizza attraverso la collusione di tutti i settori, da quello produttivo a quello commerciale, finanziario e logistico, fino a coinvolgere l’intero corpo dirigenziale.

In un solo anno sono stato costretto a sostituire per ben tre volte tutte le posizioni direttive della mia azienda, ma solo per ripiombare nella stessa situazione, finché ho trovato un rimedio: ho affidato le posizioni di maggiore responsabilità a dirigenti indiani espatriati che si sono rivelati molto più onesti, efficienti e responsabili dei loro equivalenti africani. Inizialmente ero piuttosto dubbioso su questa scelta. La difficoltà a ottenere i necessari permessi di lavoro, la sistemazione abitativa e il personale domestico, comportavano costi non indifferenti, ma la rapida riduzione dei furti e delle truffe ai danni della mia azienda compensarono presto e largamente le spese di questa decisione che produsse anche livelli di efficienza mai ottenuti prima.


Scelta umiliante ma necessaria
Furto delle ruote a un auto parcheggiata in Sudafrica

Oggi tutto il mio staff dirigenziale è composto di espatriati indiani, mentre al personale africano restano affidate le sole mansioni di scarsa influenza gestionale. Si è trattato di un provvedimento che non avrei mai immaginato di adottare, poiché io stesso ero sempre stato apertamente critico nei confronti delle grandi aziende nazionali che impiegavano un gran numero di personale straniero, quando molti cittadini africani erano disoccupati, ma adesso comprendo la necessità di queste scelte, per quanto esse restino umilianti e dolorose. Il punto dolente non è rappresentato dall’incompetenza, perché chiunque sia privo di esperienza, può essere opportunamente istruito, ma chi è disonesto resta disonesto, anche se titolare di una laurea ottenuta a pieni voti.

Noi africani siamo usi a lamentarci per la situazione economica e per la difficoltà a trovare uno stabile impiego, eppure conosco molte aziende straniere che sarebbero pronte a investire massicciamente in Africa creando grandi opportunità di lavoro, ma non lo fanno per le troppe esperienze negative di chi li ha preceduti e per l’impossibilità di trovare africani qualificati e onesti cui affidare la gestione dei propri investimenti. Anche molti africani dotati di sufficienti disponibilità economiche, sono restii a creare attività imprenditoriali, per le stesse ragioni e preferiscono far fruttare il proprio denaro investendolo in buoni del tesoro o altre speculazioni finanziarie che non li espongano ai rischi di furto da parte dei propri connazionali.

L’Africa potrebbe creare milioni di opportunità di lavoro, attraverso partnership internazionali, ma ne è impedita a causa della vasta corruzione dell’apparato governativo, cui si aggiunge il costante impulso di rubare tutto il possibile anche da parte di una grande fetta della sua popolazione. Quella stessa popolazione che si lamenta del proprio governo corrotto, ma che è subito pronta a comportarsi nello stesso modo, appena si trova nella possibilità di farlo. Che si tratti di una grande impresa, o di una piccola attività rurale, l’impulso ad appropriarsi dei beni altrui, resta comunque irresistibile. Provate a condurre un modesto allevamento di pollame e vi ruberanno le uova. Vi diranno di aver trovato dei polli morti durante la notte, così da poterseli portare a casa per cena.


Perché non seguire gli esempi virtuosi?
L’aeroporto internazionale di Kigali, capitale del Ruanda

Qualunque sia l’attività che avete intrapreso, scoprirete che quando voi siete presente, essa renderà dieci volte di più di quando non ci siete, perché in vostra assenza, gran parte del denaro incassato finirà nelle tasche del vostro staff. Affittate loro un’auto e guardate come la porteranno rapidamente allo sfascio. Aprite un ristorante e vedrete come metà delle provviste che acquistate passeranno rapidamente dalla vostra alle loro cucine domestiche. Non si renderanno mai conto di quanto il loro comportamento sia dissennato, poiché oltre a privarvi del vostro denaro, stanno distruggendo l’attività grazie cui sopravvivono loro e le loro famiglie, uccidendo la speranza del proprio paese e del proprio futuro.

Eppure li vedrete sempre puntare l’indice accusatore verso la classe politica al potere, mentre se loro non hanno potuto rubare le stesse quantità di pubblico denaro, è solo perché non ne hanno avuta l’opportunità. Voi, pochi africani onesti, siete un’esigua minoranza e tutti vi guarderanno come degli idioti, ma non siete idioti, siete quelle poche persone di cui l’Africa avrebbe disperato bisogno. Come possiamo sperare in uno sviluppo di negozi, supermercati, aziende, ospedali, scuole, imprese pubbliche, ecc. quando il personale dell’Azienda elettrica ruba i cavi di rame; i medici si appropriano di farmaci, coperte, cuscini, lenzuola, viveri per poi rivenderli sul mercato nero?

A tutti i livelli sono gli africani il vero e grande problema dell’Africa. Chi ci potrà mai salvare da noi stessi? Eppure basterebbe seguire i pochi ma illuminanti esempi virtuosi, come il Ruanda. Un Paese risorto da una terribile strage e ora ammirato dal mondo intero, dal quale raccoglie importanti investimenti internazionali, perché sanno che in Ruanda la corruzione è energicamente bandita sia nel settore pubblico e sia in quello privato. Ecco perché sotto la guida di Kagame, il Ruanda fiorisce ponendosi come esempio all’intero continente africano. Facciamone tesoro e ridiamo speranza alla nostra amata Africa.
K.W. Kariuki

Giornalista e scrittore, fin dall’epoca del liceo, quando si occupava di cronaca cittadina. Nel 1983 si è trasferito in Africa, facendo base in Kenya e inviando a testate nazionali e straniere, molti reportage sulle situazioni africane di cui è diventato un profondo conoscitore. Nell’anno 2000 ha fondato e diretto, per quattordici anni, il periodico d’opinione “Out of Italy” rivolto alle comunità italiane dell’est-Africa. Ha scritto oltre mille articoli e pubblicato tre libri. Fino al 2018 ha anche ricoperto l’incarico di consigliere dell’Ambasciata Italiana in Kenya.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » mer set 29, 2021 9:30 pm

All'Africa non dobbiamo nulla, né aiuti né risarcimenti, nulla di nulla!


Greta è stufa: basta chiacchiere. Ma è già pronta la nuova leader
Alberto Giannoni
29 settembre 2021

https://www.ilgiornale.it/news/politica ... 1632906184

«Bla bla bla» verde. Greta si è stancata. L'attivista svedese ormai è un marchio globale, dialoga a tu per tu con capi di Stato e leader religiosi, buca ancora lo schermo e i social con trovate comunicative di prim'ordine, eppure a 18 anni compiuti (il 3 gennaio saranno 19) la sua stella sembra sul punto di offuscarsi, per essere magari soppiantata da una nuovo astro nascente, una 24enne di nome Vanessa e di colore, tributaria di un'autentica standing ovation nel primo giorno «Youth4Climate».

Le due giovani sono state le star indiscusse del prologo di questo grande evento milanese di tre giorni, in cui centinaia di giovani si sono dati appuntamento per discutere delle strategie per combattere il cosiddetto «riscaldamento globale». Il ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani, che ha aperto la kermesse, le ha definite «personaggi iconici» della lotta al cambiamento climatico. Ad ascoltarle in estasi, a meno di una settimana dal voto per le Comunali, il sindaco Giuseppe Sala, riscopertosi verde: «Si parte delle città» ha detto, facendosi forte delle misure adottate in un fazzoletto di Milano, cuore di una pianura padana che peraltro da oltre 20 anni vede migliorare la qualità dell'aria. «Basta con questo fashion green» lo ha liquidato il rivale, Luca Bernardo.

Magliettina azzurra a maniche corte, giacchetta legata alla vita e scarpe da ginnastica intonate, Greta ha esordito con un colpo a effetto. «Non si può più andare avanti con il bla bla bla». Greta è stufa dei bla bla bla, cioè dei discorsi. É stato, insomma, il suo, il giorno dell'impazienza. «Le nostre speranze e sogni - ha avvertito - annegano in tutte queste vuote parole e promesse» (dei leader)». «Sono 30 anni che sentiamo bla bla bla e dove siamo?». Quindi, ha concluso arringando la platea con una raffica di interrogativi retorici e risposte assertive. «Cosa vogliamo? Giustizia climatica. Quando la vogliamo? Ora. Noi vogliamo un futuro sicuro e una giustizia climatica» ha detto, evocando inconsapevole il «tutto e subito» di altre stagioni.

Ma poco prima di lei, aveva appena finito di parlare la nuova «amica», Vanessa, attivista ugandese. Un intervento - il suo - che ha insistito molto sulle disuguaglianza sociali, sugli effetti del «cambiamento climatico» e sui costi diversi, da Paese a Paese. «Vivo in Uganda - ha detto - un Paese che ho visto soffrire molto per l'impatto dei cambiamenti climatici. Per tradizione storica l'Africa è responsabile solo 3% emissioni Co2, ma gli africani subiscono impatti più negativi: uragani, inondazioni, siccità».

E alla fine del suo discorso, tornando al suo posto, si è commossa per gli applausi ricevuti. Vanessa ha fatto capire qual è l'antifona in tema di «aiuti». Non saranno più tali, ma risarcimenti. «Servono finanziamenti - ha avvertito - ma non prestiti, ma sussidi a fondo perduto». «Non vogliamo conferenze vuote, dovete mostrarci il denaro».

Il suo slogan è «we cannot eat coal, we cannot drink oil»: non possiamo mangiare carbone e bere petrolio. Vanessa non vuole solo meno emissioni, Vanessa batte cassa a nome dell'Africa, e ha appoggiato ovviamente i movimenti «antirazzisti», compresi quelli ambigui come il «Blm». «Sono un attivista per il clima - ha scritto lo scorso anno - Ma ho assaggiato il razzismo a modo mio. Sto ancora combattendo per l'azione per il clima. Ma non posso tacere in un momento in cui le vite dei neri sono in pericolo. Sono sempre stati in pericolo. Mi unisco a tutti gli altri per dirvi che BlackLivesMatter»

Una Greta non europea, ugandese, e più «sociale», non può che avere un'autostrada mediatica davanti a sé. E ora i volti planetari della giustizia climatica (e sociale!) sono due. «Al di là dei modi di esprimersi diversi, legati anche a fattori generazionali, sono state dette le stesse cose» ha assicurato il ministro. «Vanessa Nakate e Greta Thunberg hanno detto due cose importanti».
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla

Messaggioda Berto » sab dic 11, 2021 8:56 am

Paradosso Africa: tutti vantano programmi di aiuti, ma intanto si buttano milioni di vaccini
Anna Bono
11 Dic 2021

https://www.atlanticoquotidiano.it/quot ... i-vaccini/

Dal 15 al 20 novembre il segretario di Stato Usa Antony Blinken ha svolto il suo primo viaggio in Africa. Nel corso dei colloqui con le autorità dei Paesi visitati – Kenya, Nigeria e Senegal – Blinken ha illustrato le linee politiche per l’Africa della nuova amministrazione statunitense. “Troppe volte i Paesi africani sono trattati come partner minori o peggio – ha detto durante l’incontro con il presidente nigeriano Muhammadu Buhari – è ora di considerare l’Africa come un soggetto, non come un oggetto di scelte geopolitiche”. Senza citarla, ma chiaramente riferendosi alla Cina, “troppo spesso – ha aggiunto – gli accordi internazionali in materia di infrastrutture sono poco trasparenti, coercitivi. Caricano i paesi di debiti ingestibili. Sono deleteri per l’ambiente. Non sempre vanno a beneficio delle popolazioni. Noi ci comporteremo diversamente. Gli Stati Uniti saranno trasparenti e sostenibili”.

Partito Blinken il 20 dal Senegal, il 29 e 30 novembre la capitale senegalese Dakar ha ospitato il vertice di cooperazione Cina-Africa, un incontro che si svolge ogni tre anni a partire dal 2000. Alla vigilia del summit il Consiglio di Stato cinese aveva diffuso un documento programmatico intitolato: “Cina e Africa nella nuova era: una partnership tra pari”. “Nella lotta per la liberazione nazionale e l’indipendenza – si legge nell’introduzione – la Cina e i paesi africani si sono aiutati a vicenda (…) sostenendosi nel perseguimento dello sviluppo economico. Entrando nella nuova era, il presidente Xi Jinping afferma i principi della politica cinese per l’Africa: sincerità, risultati concreti, amicizia e fiducia”.

Al di là delle dichiarazioni di intenti, sembra tuttavia che l’immagine dell’Africa continui a essere quella di un continente in costante bisogno di assistenza, di doni, aiuti, incentivi, prestiti che i donatori decidono come, quando e in che misura concedere. La Cina, nel corso del vertice, ha assicurato che donerà all’Africa, come già annunciato nei giorni precedenti, un miliardo di dosi di vaccini contro il Covid-19: 600 milioni arriveranno direttamente e il rimanente verrà fornito sotto altre forme, ad esempio investendo in centri di produzione di vaccini in Africa. Inoltre ha confermato che nei prossimi anni sarà aperta una linea di credito pari a 10 miliardi di dollari.

Blinken da parte sua ha garantito il proseguimento della Prosper Africa Initiative, creata per incrementare commercio e investimenti, la Growth and Opportunity Act, meglio nota come AGOA, voluta dal presidente Clinton per consentire accesso preferenziale al mercato Usa da parte di Paesi in via di sviluppo, e il Build Back World, una iniziativa avviata nel giugno del 2021 dai Paesi del G7 che fa concorrenza alla Cina nel campo dello sviluppo di infrastrutture. Inoltre ha promesso che il suo Paese donerà oltre 1,1 miliardi di dosi di vaccini anti Covid-19, in gran parte a Paesi africani, e contribuirà a far sì che gli africani siano presto in grado di fabbricare i vaccini di cui hanno bisogno.

Se saranno diversi d’ora in poi i rapporti di Stati Uniti e Cina con l’Africa resta da vedere. Quanto all’Italia, anche il nostro Paese sostiene di voler fondare su una partnership paritaria le relazioni con il continente. “Il rapporto con i Paesi del Continente e le sue organizzazioni – si legge nell’introduzione a “Il partenariato con l’Africa”, testo programmatico del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale – è oggi basato su una partnership paritaria, orientata ad uno sviluppo condiviso e ad affrontare insieme le molteplici sfide globali, superando così la tradizionale visione donatore/beneficiario”. L’Italia, ricorda inoltre il Ministero degli affari esteri, “ha da sempre svolto un ruolo apprezzato e riconosciuto a favore del Continente africano, contribuendo in maniera determinante a far mobilitare risorse maggiori verso l’Africa, con una serie di iniziative e proposte”. Deve continuare a farlo “nei diversi fora internazionali, in primis le Nazioni Unite e l’Unione Africana, al fianco dell’UE e dei suoi singoli Stati membri”.

Proprio per questo ruolo che l’Italia vanta di svolgere è importante porre finalmente alcuni interrogativi fondamentali a proposito dei progetti di aiuto e sviluppo per l’Africa, siano essi ideati e realizzati da stati, agenzie Onu, organizzazioni non governative, fondazioni private, nell’ambito della cooperazione bilaterale o multilaterale.

La prima domanda riguarda la effettiva realizzabilità dei progetti internazionali di cooperazione. Blinken, Xi Jinping hanno parlato di iniziative per miliardi di dollari come se non sapessero o ritenessero irrilevante il fatto che i 54 stati del continente, quasi senza eccezioni, sono alle prese con serie crisi sociali e politiche, oltre tutto in molti casi persistenti; 12 stati africani sono sotto la minaccia jihadista. Gruppi armati affiliati ad al Qaeda o allo Stato Islamico infestano e controllano vaste estensioni dei loro territori nazionali. Sei altri Paesi hanno subìto in passato attacchi islamisti e potrebbero essere colpiti di nuovo. Lo scontro politico e sociale, già di per sé violento in Africa, è degenerato in conflitto armato, oltre che in Libia, in sei Paesi, in tre dei quali negli ultimi 12 mesi il governo è stato deposto con un colpo di stato militare (per due volte in Mali).

La crisi del Covid-19 ha dimostrato, e non per la prima volta, quanto sia difficile realizzare un programma di aiuti in tali contesti. L’Africa ha il tasso di vaccinazioni più basso del mondo. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità a fine ottobre solo il 6 per cento degli africani erano stati vaccinati. Ma questo non dipende soltanto dal fatto che i governi africani non ricevono dosi di vaccino sufficienti, come sostiene l’Oms. Nel continente, che ha poco più di 1,3 miliardi di abitanti, sono già arrivati 384 milioni di dosi. Il Botswana, che ha 2,3 milioni di abitanti, ha ricevuto circa 2,4 milioni di dosi; il Sudafrica ne ha ricevuti 32,5 milioni su una popolazione di circa 40 milioni di adulti. La lentezza delle campagne di vaccinazione dipende dall’estrema carenza di personale sanitario e dalla mancanza di infrastrutture.

Ma un ostacolo ulteriore sono i territori fuori controllo, resi insicuri e impraticabili dalla guerra, dalla presenza di jihadisti, trafficanti, contrabbandieri, gruppi armati antigovernativi. Il risultato è che diversi stati lasciano scadere i vaccini e li devono distruggere (insieme a quelli inutilizzabili perché conservati male). Il Sudan del sud ad aprile ha distrutto 59 mila dosi scadute e ne ha restituite 72 mila. Il Malawi ne ha lasciate scadere e gettate via quasi 20 mila. La Repubblica democratica del Congo aveva ricevuto 1,7 milioni di vaccini all’inizio di marzo 2021. Due mesi dopo aveva vaccinato solo mille persone e ha restituito 1,3 milioni di dosi. La Nigeria nei prossimi giorni dovrà distruggere addirittura un milione di dosi scadute.

I risultati conseguiti da programmi di aiuti umanitari e di cooperazione allo sviluppo costati mesi e anni di lavoro e milioni di dollari possono, ed è successo spesso, essere annullati o resi inservibili in poche settimane da una crisi politica, una guerra, una rivolta armata, l’avanzata del jihad, e anche da disastri naturali che nessuno si è preoccupato di prevenire. La seconda domanda dunque è se sia prudente e giusto continuare a investire così tante risorse umane, finanziarie e tecnologiche quando in un Paese mancano fondate garanzie di stabilità politica e sociale.

Una terza domanda è come mai l’Africa, 60 anni dopo che, terminata la breve epoca coloniale europea, i suoi Paesi sono diventati indipendenti, continui a essere talmente povera da aver bisogno di aiuti e prestiti agevolati per realizzare i suoi progetti umanitari e di sviluppo. Il prodotto interno lordo del continente cresce costantemente da 25 anni. Dal 2010 al 2019 la crescita media annua del Pil della Repubblica democratica del Congo, ad esempio, è stata del 6,1 per cento, quella del Rwanda del 7,6 per cento, del Niger del 5,9 per cento, del Tanzania del 6,7 per cento.

Soltanto il Pil di cinque stati africani è diminuito, quattro dei quali produttori di petrolio. Il caso della Guinea Equatoriale dà la risposta alla terza domanda. Il Paese è spesso citato quando si parla di “paradosso” o “maledizione” della ricchezza. È uno dei dieci maggiori produttori africani di petrolio e, da quando negli anni ’90 del secolo scorso sono stati scoperti grandi giacimenti di petrolio e di gas naturali, ha il Pil pro capite più alto del continente: 7.143 dollari annui nel 2020 (un massimo di 22.942 dollari nel 2008). Tuttavia è 146° nell’Indice di sviluppo umano dell’Undp e ha una speranza di vita alla nascita di 58,7 anni (oltre 20 anni meno di quella dei Paesi ad alto reddito). La spiegazione di questo paradosso è che il presidente della Guinea Equatoriale Teodoro Obiang Nguema e i suoi famigliari si considerano i padroni del Paese e delle sue ricchezze e vi attingono senza ritegno, scrupoli e limiti, lasciando gran parte degli 1,4 milioni di abitanti in povertà. Nguema è il capo di stato africano da più tempo in carica (ha preso il potere con un colpo di stato nel 1979) e uno dei più spregiudicati e brutali. Suo figlio Teodolin, che detiene la carica di vicepresidente, sciala milioni di dollari concedendosi lussi sfrenati e stravaganti.

La Guinea Equatoriale è un caso esemplare. Tuttavia tanti altri africani che occupano cariche governative e amministrative si comportano come gli Nguema. La corruzione è diffusa ovunque nel continente. Come dicono in Nigeria, è diventata uno “stile di vita” che la maggior parte dei governi non desiderano, né possono, contrastare. Il più recente scandalo di grandi proporzioni risale al 19 novembre. Una fuga di dati da una banca ha rivelato che le imprese possedute da famigliari e amici dell’ex presidente della Repubblica democratica del Congo, Joseph Kabila, in carica dal 2001 al 2019, hanno dirottato milioni di dollari di fondi pubblici nei loro conti bancari. Peraltro già nel 2012 si diceva che Kabila avesse stornato dalle casse pubbliche 5,5 miliardi di dollari. Nel 2002 una commissione dell’Onu aveva denunciato lo sfruttamento, il saccheggio delle immense risorse minerarie del Congo da parte delle leadership al potere. “Noi siamo congolesi – era stata la risposta ufficiale dei politici accusati – e quindi possiamo fare quel che vogliamo del nostro Paese, le sue risorse ci appartengono, non si può dire che le stiamo saccheggiando”.

Sarebbe bastato prestar fede ad autori come Axelle Kabou, “E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo?”, 1991, Dambisa Moyo, “La carità che uccide”, 2009, Michela Wrong, “It’s our turn to eat”, 2010; e, risalendo nel tempo, Jacques Giri, “L’Africa in crisi”, 1986, Jacques Dumont, “L’Afrique noire est mal partie”, 1961. Sembra che nessuno, tra le persone che contano, lo abbia fatto.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Precedente

Torna a Africa ed Europa

Chi c’è in linea

Visitano il forum: Nessuno e 2 ospiti

cron