Colonizzazione e decolonizzazione

Re: Colonizzazione e decolonizzazione

Messaggioda Berto » dom feb 24, 2019 10:42 am

Il voto farsa nella Nigeria dei golpe: duello tra il ras islamico e il suo vice
Luigi Guelpa - Dom, 24/02/2019

http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 50857.html

Gli obiettivi: via i cattolici dal parlamento e affari da blindare

In una nazione che fabbrica colpi di stato (dodici dal 1960, anno dell'indipendenza dalla Gran Bretagna), ieri è andata in scena la più clamorosa farsa elettorale della storia dell'Africa.

Il presidente uscente della Nigeria Muhammadu Buhari si sta per assicurare un secondo mandato (gode di un margine del 15% sugli avversari) ai danni della lista civetta guidata dal suo più stretto collaboratore, Abubakar Atiku. Un'azione studiata a tavolino per blindare il risultato, preservare la vittoria dell'ala islamica e cancellare dai banchi del parlamento gli esponenti cattolici. I Boko Haram esultano sapendo di poter contare su un governo «amico» e continuano a colpi di attentati a sequestrare il nord del Paese. Proprio ieri mattina un blitz dei jihadisti dalle parti di Maiduguri (Stato del Borno) ha provocato la morte di nove persone, che si aggiungono alle oltre 10mila vittime da quando Buhari ha preso il potere. Il 29 maggio del 2015, giorno dell'insediamento dopo il trionfo sul cattolico Godlock Jonathan, Buhari dichiarò che i jihadisti sarebbero stati sconfitti. In realtà i qaedisti neri hanno preso il controllo di alcune città e di estesi territori del nord, rafforzandosi ulteriormente. Da alcuni mesi hanno intensificato attacchi e attentati, sono sbarcati in Camerun, creando decine di migliaia di nuovi sfollati e rifugiati, molti di loro in fuga verso il Mediterraneo. Questo è lo spaccato della Nigeria: la nazione potenzialmente più ricca, ma più corrotta del continente nero e controllata dall'islam più integralista.

A sfidarsi sono stati appunto Muhammadu Buhari, presidente in carica dal 2015, leader dell'Apc, All Progressive Congress, ex militare, già presidente tra il 1983 e il 1985 grazie a un colpo di stato, originario del Katsina, uno dei 12 stati a maggioranza islamica che in violazione della costituzione hanno adottato la sharia, la legge coranica, e Abubakar Atiku, un tycoon nato nello stato orientale di Adamawa, comproprietario di una impresa di servizi petroliferi, per due volte eletto vicepresidente, leader del Pdp, People's Democratic Party, ma soprattutto «delfino» di Buhari. La vittoria quindi diventa irrilevante all'atto pratico: entrambi hanno concorso (mano nella mano), non per realizzare un progetto politico virtuoso, bensì per conservare, o conquistare, il controllo delle istituzioni politiche, necessario per disporre delle risorse del Paese e servirsene. È quanto è successo poche settimane fa nella Repubblica democratica del Congo, dove un candidato, Felix Tshisekedi, ha vinto grazie a un accordo sottobanco con il presidente uscente Kabila.

La Nigeria ha potenzialità straordinarie e tuttavia è sotto minaccia costante di implosione. È il paese africano più popoloso: 196 milioni di abitanti, un africano su sette è nigeriano. È il primo produttore di petrolio e la prima economia del continente. È anche il paese africano con più miliardari. Ma è anche una delle nazioni più devastate da malgoverno e corruzione che alimentano il tribalismo, di per sé un fattore critico che in Nigeria assume forme estreme, esasperate dall'appartenenza religiosa. Durante il voto si sono segnalati parecchi incidenti: dalle schede consegnate in ritardo, che hanno costretto le autorità a posticipare di tre ore la chiusura dei seggi fino all'assassinio di un presidente di seggio e alla morte di altre 15 persone in vari tafferugli.
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Re: Colonizzazione e decolonizzazione

Messaggioda Berto » mer mar 06, 2019 10:28 pm

Islam in Africa: la verità storica sul ruolo svolto dalla colonizzazione e della schiavitù arabo-islamica
https://www.facebook.com/watch/?v=546121419239523
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Re: Colonizzazione e decolonizzazione

Messaggioda Berto » mer dic 02, 2020 11:05 am

L'ultima del filosofo francese Badiou: "Non fidatevi dei bianchi"
Roberto Vivaldelli
7 maggio 2019

http://www.occhidellaguerra.it/alain-badiou-bianchi


“Diffidate dei bianchi, abitanti della riva!” (in francese, Méfiez-vous des blancs, habitants du rivage!), è il titolo dell’ultimo saggio del filosofo Alain Badiou, già presidente dell’École normale supérieure (Ens) di Parigi e fondatore della facoltà di Filosofia dell’Université de Paris VIII con Gilles Deleuze, Michel Foucault e Jean-François Lyotard. Insomma, non propriamente uno sconosciuto.

L’82enne nato a Rabat, in Marocco, autore di L’Être et l’événément (1988) (L’Essere e l’evento, trad. it. 1995) e di numerosi saggi politici, è un volto noto della sinistra radicale francese e nel 1968 fece parte di gruppi comunisti e maoisti come l’Ucfml e la Sinistra Proletaria. L’ultimo saggio di Badiou è un tripudio di cosmopolitismo e terzomondismo politicamente corretto – “la nostra patria è il mondo” – e di razzismo anti-bianco, come il titolo dell’opera suggerisce.

L’intellettuale francese Alain Badiou: “Non fidatevi dei bianchi”

Al centro dell’opera ci sono loro, gli immancabili “migranti”, visti come i nuovi proletari, elemento rivoluzionario imprescindibile.”Non importa quanta attenzione sia prestata alla giustapposizione strettamente nazionale del movimento dei gilet gialli – spiega l’autore – così come alla sprezzante testardaggine del potere dominante, dobbiamo rimanere fermi sulla convinzione che oggi, tutto ciò conta davvero, è che la nostra patria è il mondo”.

“Il che ci riporta ai cosiddetti migranti” afferma. “Dobbiamo agire per non tollerare più annegamenti e arresti e per motivi di origine o status. Ma oltre a questo, è necessario sapere che non esiste una politica contemporanea se non con coloro che, da noi, rappresentano il proletariato nomade universale”. Un “proletariato nomade universale” che l’autore definisce “il nuovo comunismo”.

“Società razzista, colpa del colonialismo”

In una recente intervista pubblicata su VersoBooks, Alain Badiou afferma che viviamo in una società dove la segregazione razziale è ancora realtà: “Le statistiche ufficiali lo confermano. Se sei nero o arabo, hai venti volte più probabilità di essere arrestato per strada che se sei bianco. Vi è una segregazione di fatto nella nostra società tra “cittadini rispettabili” e coloro che si ritiene che non lo siano. Questo pervade la nostra intera società in modo intollerabile” sottolinea.

C’è un pensiero coloniale, osserva, “che risale a molto tempo fa ed è ancora molto forte. Resta nell’inconscio collettivo. Prende la forma di una certezza, incredibile per me, che il nostro mondo sia superiore a qualsiasi altro”. Insomma, tutta colpa dell’uomo bianco, del colonialismo, e di quel senso di colpa che affligge gli intellettuali della sinistra chic e terzomondista, sempre impegnati a dare ascolto ai bisogni degli “ultimi”, purché siano “migranti” e meglio se di colore. Di tutti gli altri lavoratori, che con il colonialismo non hanno nulla a che fare e magari devono subire ogni giorno gli effetti nefasti dell’immigrazione di massa, questi “intellettuali” post-marxisti se ne infischiano altamente.

La deriva culturale della sinistra-chic

Nel suo ultimo libro Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi (Utet, 2019), Francis Fukuyama descrive perfettamente questa “deriva” culturale e ideologica della sinistra occidentale: ” Ora, in molte democrazie, la sinistra si concentra meno sulla creazione di un’ampia uguaglianza economica e più sulla promozione degli interessi di un’ampia varietà di gruppi emarginati, come le minoranze etniche, gli immigrati e i rifugiati, le donne e le persone Lgbt” osserva l’autore di The End of History? .

Durante l’era della globalizzazione, afferma Fukuyama, “la maggior parte dei partiti di sinistra ha cambiato la propria strategia. Piuttosto che costruire solidarietà attorno a grandi collettività come la classe lavoratrice o gli sfruttati, ha iniziato a concentrarsi su gruppi sempre più piccoli […] Le diminuite ambizioni della sinistra per una riforma socioeconomica su vasta scala convergono con il suo spostamento verso una politica dell’identità multiculturale negli ultimi decenni del XX secolo. La sinistra continua a essere definita dalla sua passione per l’uguaglianza, ma il suo programma si è spostato dalla precedente enfasi per la classe lavoratrice alle richieste di un circolo sempre più ampio di minoranze emarginate”.

Non c’è da stupirsi, dunque, se i lavoratori preferiscano i movimenti sovranisti agli intellettuali alla Badiou, sconnessi dalla realtà e interessati solamente ai diritti dei migranti e delle altre minoranze.
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Re: Colonizzazione e decolonizzazione

Messaggioda Berto » mer dic 02, 2020 11:06 am

Nessuno tocchi il colonialismo europeo. I mali dell'Africa hanno ben altri responsabili

Alessandro Della Guglia

https://www.ilprimatonazionale.it/appro ... ca-120866/

Questo articolo, che smonta alcune leggende sul colonialismo europeo in Africa, è stato pubblicato sul Primato Nazionale di giungo 2018.

Il complesso di colpa verso i popoli dell’Africa, le cui pessime condizioni di vita – a detta del pensiero politically correct – sarebbero da imputare al colonialismo, si configura, sempre di più, come un autentico mito storiografico inculcato nell’homo europaeus e finalizzato a giustificare l’attuale invasione allogena, secondo il teorema dell’africano sfruttato che viene in Europa a farsi ripagare. Ma è veramente così? Si tralasceranno, in questa sede, spiegazioni aborrite dall’attuale relativismo culturale che impone categoricamente di concepire le singole civiltà come prodotto di differenti sviluppi storici non equiparabili tra loro e tutte egualmente dignitose e meritevoli di rispetto. Di conseguenza, si esamineranno esclusivamente i fatti, tentando di ricostruire come, in realtà, siano andate veramente le cose. Si badi che non si vuole affatto negare che siano avvenuti guerre e massacri, ma circoscriverli nella «normalità» delle relazioni internazionali del tempo. Ciò che si vuole negare, invece, è che tutti i mali attuali del continente nero risiedano in quella che è stata definita «età dell’imperialismo».

Un’armonia fittizia

Innanzitutto, bisogna chiedersi come sia stato possibile che in meno di un secolo – dal 1884, anno della Conferenza di Berlino voluta dal cancelliere tedesco Bismarck (†1898), in cui venne decisa la spartizione dell’Africa in zone d’influenza, agli anni Cinquanta del XX secolo, inizio del processo di decolonizzazione – l’Europa sia stata in grado di distruggere la decantata armonia politica, economica e culturale del continente africano, applicando persino forme diverse di dominio che andavano dal semplice protettorato – con il mantenimento di istituzioni e dinastie locali – al governo diretto. Evidentemente, questa tesi non regge.

Due i casi esemplari: Liberia ed Etiopia. La prima fu una repubblica indipendente fondata nel 1847 da afroamericani – già schiavi negli Usa e poi affrancati – e fu l’unico Stato africano a non subire un’occupazione e un dominio coloniale, con un governo presidenziale modellato su quello statunitense. Ebbene, le condizioni di vita nel Paese sono, ancora oggi, catastrofiche, soprattutto dopo la terribile guerra civile iniziata nel 1980, a seguito del colpo di stato del generale Samuel Doe. Da rammentare che la guerra fu combattuta tra la popolazione nera autoctona e i discendenti degli ex schiavi statunitensi, che monopolizzavano il potere politico. L’Etiopia, invece, fu l’ultimo Stato africano a subire un dominio coloniale (quello italiano) per soli cinque anni (1936-1941): un periodo di tempo troppo breve – durante il quale furono investiti capitali, attuate bonifiche, costruite città – per pensare che ciò che avvenne dopo (carestia, desertificazione, colpo di stato del colonnello Menghistu e morte misteriosa del negus nel 1975, conflitti con la Somalia per il possesso dell’Ogaden) possa essere imputabile al colonialismo italiano[1].

Colonialismo e pace

La verità è che l’armonia africana era imposta dalla pax delle potenze coloniali e venne meno al momento dell’indipendenza, in molti casi ottenuta con modalità pregiudizievoli per gli stessi interessi africani. Si consiglia, per restare in argomento, la visione del documentario del noto regista Gualtiero Jacopetti (†2011) Africa Addio, che illustrò molto bene i danni prodotti dalla decolonizzazione e, con grande preveggenza, ravvisò proprio in essa la causa principale dei drammi del continente africano (un film che, nonostante le infondate accuse di razzismo, vinse nel 1966 il David di Donatello). Infatti, nella gran parte dei casi – si pensi al Congo (1960) – l’estromissione degli europei dai gangli della vita politica, amministrativa e molto spesso economica, privò i nuovi Stati di quella «capacità di fare» e di quel bagaglio di esperienza e professionalità che avrebbero potuto essere efficacemente sfruttati anche nel nuovo contesto politico[2]. Nel 1970, ad esempio, Gheddafi espulse ben 20mila italiani, privando la Libia di una preziosissima borghesia economica e imprenditoriale.

Odi tribali e dittatori

Caduti i governi coloniali, le rivalità clanico-tribali, contenute dalla presenza coloniale, emersero in tutta la loro violenza. Si pensi alla secessione del Katanga, in Congo, o a quella del Biafra, in Nigeria, che causarono guerre con milioni di morti, o al genocidio Hutu-Tutsi, nel Ruanda degli anni Novanta del secolo scorso, o alla guerra civile somala e alla guerra del Darfur. D’altronde, i nuovi Stati decisero di conservare le frontiere delle vecchie colonie anche se non disponevano di personale militare, né di sistemi giuridici e competenze per poterli tutelare anche da aggressioni esterne. Spesso i beni dei coloni furono espropriati e nazionalizzati – come avvenne nella Rhodesia del Sud e in Kenya – e gli europei furono vittime di eccidi ad opera di formazioni paramilitari come la setta dei Mau Mau o la «Lancia della nazione», facente capo all’African National Congress di Mandela (†2013). Ancora oggi, ad esempio, in Sudafrica il governo dell’Anc sta portando avanti una campagna di progressivo spossessamento fondiario ai danni dei discendenti dei coloni europei, ricorrendo alla forza o facendo pressioni sul sistema bancario, attraverso la negazione dei prestiti o il pignoramento dei beni dati in garanzia degli stessi[3].

Leggi anche: I Boeri: storia di una lunga e tenace «resistenza etnica»

Molti dei leader africani, esaltati come intellettuali finissimi – si pensi a Jomo Kenyatta (†1978) – non erano altro che capi tribali che, improvvisamente, si ritrovarono alla guida di burocrazie complesse ed entità statali territoriali, senza saperle gestire. Ovviamente, il fatto che questi leader imitassero, nello stile e nei comportamenti, gli statisti europei, non mutava la sostanza delle cose: nel 1977, ad esempio, il dittatore della Repubblica Centrafricana, Bokassa (†1996), noto «cannibale», si fece addirittura incoronare imperatore in una cerimonia dal sontuoso stile napoleonico. Difficile dunque dar torto a Ian Smith (†2007), primo ministro della Rhodesia del Sud (odierno Zimbabwe) e guida del Fronte Rhodesiano, quando definì l’Organizzazione dell’Unità Africana come un «conciliabolo dei dittatori». È anche comprensibile perché, in un contesto del genere, personaggi come Mugabe, Siad Barre (†1995), Amin Dada (†2003) e Mobutu (†1997) non siano stati l’eccezione, ma la regola: essi sono quanto di meglio l’Africa sia riuscita a produrre in termini politici.

Jean-Bedel Bokassa (1921-1996), dittatore della Repubblica centrafricana

Gran parte degli Stati nati dall’indipendenza si diedero una forma monopartitica e dittatoriale, ma i leader furono privi della capacità di sfruttare il potere assoluto a beneficio delle rispettive popolazioni, anzi, tale potere fu lo strumento per annientare clan o tribù rivali. Si pensi al massacro dei Matabele, in Zimbabwe, perpetrato dagli Shona (tribù di Mugabe) o al genocidio dei Masai (in Kenya) ad opera dei Kikuyu, tribù di Kenyatta. Il Sudafrica ha conservato una parvenza di civiltà solo perché la minoranza boera è rimasta più a lungo che altrove al potere ma, dopo la fine dell’apartheid nel 1994, riesplosero i conflitti interetnici tra le due principali etnie bantu, gli Zulu e i Xhosa. D’altronde, il regime di apartheid sudafricano nasceva proprio dalla consapevolezza politica della classe dirigente anglo-boera di ciò che sarebbe avvenuto, se non si fosse tentato uno sviluppo separato delle diverse comunità abitanti il Paese. Le previsioni del primo ministro sudafricano Hendrik Verwoerd (†1966), docente di psicologia all’Università di Stellenbosh e ideatore dell’apartheid, furono profetiche, tanto che molti capi aborigeni si schierarono contro l’abolizione del sistema dello sviluppo separato, cosa molto spesso taciuta. Nel Sudafrica, lo zulu Buthelezi, capo del partito Inkatha, fu un sostenitore del sistema dell’apartheid, consapevole dell’eccessivo potere che avrebbe acquisito l’etnia avversaria Xhosa in caso di vittoria dei seguaci di Mandela. Infatti, non fu raro il caso di molti leader indipendentisti che furono uccisi dai loro stessi connazionali, come il congolese Patrice Lumumba (†1961).

Il malgoverno

L’incapacità dei nuovi politici africani, inoltre, apparve subito chiara. Al momento dell’indipendenza, gran parte degli stati africani aveva ricevuto in eredità dalle potenze europee città, infrastrutture, codici normativi, burocrazie integre, di cui avrebbe potuto fare buon uso – cosa che, però, non si è verificata. Le città, vere e proprie enclave architettoniche europee in terra africana, oggi sono in gran parte devastate dall’incuria e dalla proliferazione di slums, mentre in Sudafrica è diffusissimo il fenomeno dei plakkers, gli occupanti abusivi di suolo pubblico – con baracche o altre costruzioni improvvisate – all’interno di quelli che, un tempo, erano considerati contesti urbani civili. Uno scenario che, tra alcuni anni, potrebbe riproporsi in Europa. Lo stesso discorso può essere fatto per le enormi ricchezze del continente (fauna, flora, risorse minerarie), ancora allo stato integro al momento dell’indipendenza. Lo sfruttamento delle risorse africane (soprattutto minerarie) da parte dell’Occidente europeo, del resto, non rappresenta la causa principale dei mali, soprattutto se si considera che, attualmente, i maggiori investitori di capitali finanziari nel continente sono l’Arabia Saudita e la Cina (più di 2mila imprese cinesi presenti in Africa e circa 2 milioni di operatori economici cinesi)[4].

Ancora all’incapacità delle classi dirigenti africane è imputabile il disastro eco-ambientale del continente nero. Si pensi alla caccia indiscriminata a particolari specie animali (rinoceronti, elefanti) per ricavarne avorio o pelli da smerciare sui mercati internazionali (soprattutto quello arabo) o alla pesca di frodo, alla deforestazione selvaggia o allo sversamento di rifiuti tossici, la cui responsabilità ricade, principalmente, sui governi locali, assolutamente incapaci – per ragioni culturali connesse al sostrato tribale – di vedere nell’ambiente un bene da tutelare. Non a caso le politiche di tutela ambientale sono considerate dai governi africani, ancora oggi, residui della mentalità coloniale. L’interesse fondamentale è fare affari con i Paesi capitalisticamente avanzati, smerciando pellicce, minerali e quant’altro, per avere in cambio valuta pregiata oppure armi e risorse alimentari[5]. Esempi istruttivi di tale follia sono offerti dal governo della Namibia – fino al 1989 sotto amministrazione sudafricana – e dall’attuale governo del Sudafrica. Il primo può considerarsi responsabile del massacro di centinaia di foche al fine di ricavarne carne e pellicce, il secondo della progressiva desertificazione di regioni come il Transvaal.

Colonialismo e sottoalimentazione

Anche la tanto vituperata sottoalimentazione è, in buona parte, un problema connesso alla decolonizzazione: basti pensare che gran parte degli Stati africani si è progressivamente trasformata da esportatore di alimenti in importatore. Valgano gli esempi del Kenya e dello Zimbabwe, il cui fabbisogno alimentare dipende – per circa il 70% – dalle importazioni. Parallelamente, si assiste all’incapacità dei governi di rallentare il fenomeno della desertificazione – più di 100mila Kmq all’anno – in parte determinata da uno sfruttamento eccessivo ed errato del territorio, attraverso il ricorso a pratiche come il debbio e la salinazione.

Criminalità e disoccupazione

La criminalità dilagante e la disoccupazione fanno il resto. In alcune aree dell’Africa nera, infatti, la disoccupazione investe più dell’80% degli abitanti, mentre la mortalità infantile è del 30. L’unica cosa che, in Africa, cresce senza sosta è la popolazione, con tassi anche del 5% annuo[6]. Il regime demografico africano, infatti, è quello delle società primitive, caratterizzato da un alto tasso di mortalità, accompagnato da alto tasso di natalità, senza che il primo, però, annulli gli effetti nefasti del secondo, la causa del quale, in parte, va ricercata anche nell’ostilità perenne della chiesa cattolica ad ogni politica di controllo demografico e di diffusione, tra gli aborigeni, di pratiche anticoncezionali. Le epidemie (malaria, lebbra, meningite, colera e tubercolosi) contribuiscono a rendere più interessante il quadro complessivo fin qui descritto, e fanno dell’Africa un vero e proprio serbatoio epidemiologico[7].

Un disastro sociale

Ovviamente, il rimedio degli aiuti finanziari agli Stati africani da parte delle potenze occidentali o di organizzazioni internazionali è assolutamente fallace, poiché gran parte di questi soldi contribuisce ad alimentare i conflitti militari interni o finisce nelle tasche dei politicanti locali, com’è dimostrato dai circa 180 miliardi di dollari riversati sul continente nero tra il 1975 e il 1985 e letteralmente dissoltisi al vento. Neppure il clan Mandela fu esente da accuse di corruzione, mentre le stereotipate accuse dei governi locali alle ex madrepatrie coloniali, in realtà, occultano veri e propri finanziamenti illeciti, molto diffusi soprattutto nel periodo della Guerra fredda quando – al di là di roboanti dichiarazioni di non allineamento – gli Stati africani facevano a gara per ottenere armi e risorse dall’Urss o dagli Usa.

Un altro degli effetti esorbitanti della decolonizzazione è il proliferare della schiavitù delle popolazioni del luogo, costrette dai dittatori di turno – molto spesso anche con metodi brutali – ai lavori minerari o di piantagione. Genocidi e guerre sono alimentati anche dal fondamentalismo islamico che, soprattutto negli ultimi anni, sta prendendo piede e che, ben presto, consentirà il sorpasso del cristianesimo come religione della maggioranza degli abitanti non professanti culti animistici. Non a caso l’Isis ha costituito basi in Egitto e in Libia, mentre sono sempre di più i gruppi terroristici preesistenti affiliati, si pensi a Boko Haram in Nigeria[8]. Ma anche i culti animistici africani hanno la loro parte di responsabilità nel degrado socio-economico generale, con il loro seguito di assassinii (si pensi ai bambini albini), di cannibalismo e di sterminio di intere specie animali per scopi cultuali[9].

Miliziani del gruppo islamista nigeriano Boko Haram

A tali culti, molto probabilmente, è imputabile anche la diffusione dell’Aids (patologia africana per eccellenza) che affliggerebbe circa il 40% della popolazione del continente con punte altissime in Sudafrica (circa 10 milioni). Infatti, a quanto pare, il virus si propagò tra le tribù del lago Vittoria a metà degli anni Settanta a causa dell’usanza di iniettare e ingerire sangue infetto della scimmia azzurra, ritenuto afrodisiaco secondo i riti locali. In un contesto del genere, quindi, non ci si deve meravigliare di dichiarazioni come quelle dell’ex presidente sudafricano, lo zulu Jacob Zuma, secondo il quale l’Aids andrebbe curato con qualche doccia in più, né del fatto che, a metà degli anni Novanta del secolo scorso, stregoni kenioti consigliavano di curare l’Aids immergendo il pene in acido da batteria o stuprando fanciulle!

Al di là dell’uso della tecnologia occidentale, la gran parte degli Stati nati dalla decolonizzazione sono, ancor oggi, entità fantasma, pertanto assolutamente incapaci di esercitare il pieno controllo del proprio territorio e delle relative popolazioni, anche ai fini del contenimento del massiccio flusso migratorio in direzione dell’Europa. Pensare che pagare questi governi risolva il problema è pertanto una follia. Poiché il tribalismo la fa da padrone, è vano illudersi di trattare alla pari con chi non è al proprio livello civile, né è una soluzione proporre ai Paesi africani modelli di sviluppo capitalisti e industriali, perché essi non hanno una storia simile a quella europea, soprattutto se si considera che, molto spesso, questa via di sviluppo si traduce nella distruzione sistematica del patrimonio ecologico-ambientale.

Pie illusioni

Dalle considerazioni svolte, emerge l’esito fallimentare che hanno avuto parole d’ordine come «autodeterminazione dei popoli», «panafricanismo» o «negritudine», enunciate negli anni Cinquanta all’indomani dell’inizio del processo di decolonizzazione. Molti dei problemi strutturali dell’Africa sono e resteranno insolubili e l’unica alternativa per l’Europa è cercare di farsi coinvolgere il meno possibile. L’estromissione violenta e repentina dell’homo europaeus da ogni responsabilità di governo, all’indomani dell’avvio del processo d’indipendenza, rende l’Europa di oggi non responsabile dei drammi che affliggono il continente nero. Al termine di questa disamina, resta solo da aggiungere, per dovere di verità, che la decolonizzazione non ha prodotto, ovunque, le stesse tragiche conseguenze registrabili in Africa, com’è dimostrato dai casi del Giappone, della Cina, della Corea e dell’India: Paesi che, nonostante i loro problemi interni, sono riusciti a mettersi al passo, dal punto di vista politico, economico e militare, con le potenze occidentali.

Tommaso Indelli

[1] Cfr. F. Fiorani – M. Flore, Grandi imperi coloniali, Giunti, Firenze-Milano 2005.

[2] Sul processo di decolonizzazione africana, cfr. C. Coquery-Vidrovitch – H. Moniot, L’Africa nera dal 1800 ai nostri giorni, Mursia, Milano 1977.

[3] Cfr. in proposito G. Bruno, Uccidere un Afrikaner non è reato: il genocidio bianco in Sudafrica, «Il Primato Nazionale», maggio 2018, pp. 21-23; T. Indelli, I Boeri: storia di una lunga e tenace «resistenza etnica», ivi, pp. 24-29.

[4] Sul punto, T. Indelli, Europa e immigrazione. Precisazioni necessarie, Gaia, Salerno 2017.

[5] Per questi aspetti, frutto anche delle personali esperienze dell’autore, cfr. S. Waldner, La deformazione della natura, Edizioni di Ar, Padova 1997.

[6] Attualmente, la popolazione africana si aggira su circa 1 miliardo e 300 milioni di persone. Sull’esplosione demografica dell’Africa subsahariana, cfr. B. De Rachewiltz, Sesso magico nell’Africa nera, Basaia, Milano 1983.

[7] C. Coccia, Un futuro senza avvenire? La generazione della decisione, Edizioni di Ar, Padova 2017.

[8] Sull’avanzata dell’islam in Africa, cfr. S. Parent – A. Girard – L. Pettinaroli, Il cristianesimo in 100 mappe, LEG, Gorizia 2016.

[9] Sui culti animistici africani, cfr. E. Volhard, Der Kannibalismus, Strecker und Schröder, Stuttgart 1939.
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Re: Colonizzazione e decolonizzazione

Messaggioda Berto » mer dic 02, 2020 11:06 am

I complessi di colpa dell'Occidente: il colonialismo non è causa di tutti i mali del mondo
Atlantico Quotidiano
Michele Marsonet
2 dicembre 2020

http://www.atlanticoquotidiano.it/quoti ... del-mondo/

Da molto tempo si assiste in Occidente al tentativo, da parte di ambienti di sinistra tanto laici quanto cattolici, di indicare il colonialismo come causa primaria – se non unica – di tutti i mali che affliggono il mondo contemporaneo. I complessi di colpa sono cresciuti a dismisura in Europa e, anche se per motivi parzialmente diversi, negli Stati Uniti.

Una certa vulgata, diffusa in molti circoli intellettuali ed accademici, punta a convincere gli studenti, e in genere le nuove generazioni, che i Paesi colonizzati erano, prima dello sbarco degli europei, un grande Eden pacifico e tranquillo, i cui abitanti conducevano una vita felice e spensierata, basata sull’eguaglianza e la condivisione pacifica delle risorse.

Naturalmente il mito del “buon selvaggio”, propagandato soprattutto da Rousseau, ha svolto un ruolo fondamentale in questo processo. Da una parte i “buoni”, vale a dire i popoli colonizzati, e dall’altra i “cattivi”, cioè noi che occupando i loro territori abbiamo causato la rottura di un equilibrio pressoché perfetto che Dio (o la Natura) avevano creato.

Esempio principale è ovviamente l’Africa, che secondo questa lettura della storia sarebbe stato un continente privo di problemi, poi diventato povero e degradato proprio a causa del colonialismo e dello schiavismo.

Eppure, è la storia stessa a dirci che il succitato Eden non è mai esistito. Africa e America erano sede di conflitti permanenti e di lotte sanguinose tra popoli diversi anche quando, sul loro suolo, degli europei non v’era traccia.

I conflitti tribali e le pulizie etniche, come quelli attualmente in corso nell’Etiopia del premier Abiy Ahmed Ali, l’anno scorso purtroppo insignito del Premio Nobel per la Pace, si verificavano anche in epoca pre-coloniale, come del resto gli storici africani ammettono.

Risulta patetico il tentativo di incolpare il colonialismo dello stato di guerra permanente che si verifica nell’Africa odierna, giacché l’odio tribale ed etnico è pure esistito anche in quel contesto, come in ogni altra parte del mondo, del resto.

E che dire dell’America Latina? Neppure là, prima dell’arrivo di spagnoli e portoghesi, esisteva il “buon selvaggio” esaltato da Rousseau. In realtà c’erano dei grandi imperi come quello Inca o Azteco, nei quali la stragrande maggioranza della popolazione veniva schiavizzata da élite guerriere, che persero il conflitto con gli europei soltanto a causa del loro potenziale bellico più antiquato.

Neppure nell’America del Nord c’erano i “buoni selvaggi”. Le tribù si combattevano con ferocia inaudita e quelle sconfitte erano spesso destinate all’annientamento totale. Una nota descrizione letteraria di fatti di questo tipo è stata fornita da James Fenimore Cooper nel suo capolavoro “L’ultimo dei Mohicani”.

Tornando all’Africa, si tende a dimenticare che lo schiavismo fu introdotto, e praticato su larga scala, dagli arabi ben prima che dagli europei. Per secoli la tratta degli schiavi neri fu appannaggio pressoché esclusivo dei commercianti arabi, per l’appunto. Gli europei hanno chiesto scusa per tale fenomeno imperdonabile, ma non risulta affatto che qualche nazione araba si sia scusata.

Il fardello della colpa, insomma, ricade totalmente sulle spalle degli occidentali. Si rammenti, a tale proposito, che il colonialismo è stato praticato in passato (e pure ora, in alcuni casi) dagli imperi cinese, russo e ottomano. Lungi dallo scusarsi, i cinesi continuano a colonizzare territori non loro, e Erdogan, pure lui lontanissimo da alcun tipo di scusa, progetta un revival dell’impero ottomano.

I complessi di colpa da cui l’Occidente è afflitto stanno generando una curiosa situazione. Per espiare i nostri peccati coloniali dovremmo accogliere senza alcuna limitazione immigrati non europei che, una volta giunti, cercano subito non solo di trasferire, ma addirittura di imporre, i loro costumi e la loro visione del mondo.

E, in effetti, ci stanno riuscendo. In interi quartieri di Parigi, Londra, Bruxelles e altre grandi città lo Stato di diritto viene sostituito dalla sharia, senza che le autorità riescano a impedire questo passaggio di poteri. E chi combatte tale stato di cose, come per esempio il presidente francese Macron, è costantemente minacciato. Non v’è dubbio che il colonialismo sia un fenomeno deprecabile e da condannare con fermezza. Noi l’abbiamo fatto, a volte anche esagerando. Sarebbe dunque lecito chiedere che lo facciano pure gli altri. Altrimenti le nuove generazioni, spesso indottrinate da libri di testo faziosi, perderanno ben presto coscienza di far parte di una civiltà, come quella occidentale, che al mondo ha fornito contributi fondamentali in ogni campo del sapere umano.


Gino Quarelo
Infatti io personalmente non mi sento e non sono responsabile del colonialismo e di eventuali crimini predatori da esso compiuti a cui io non ho partecipato e di cui non ho beneficiato minimamente.
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Re: Colonizzazione e decolonizzazione

Messaggioda Berto » ven gen 22, 2021 7:09 pm

Lo Zimbabwe risarcirà gli agricoltori bianchi espropriati vent'anni fa
Istituto Liberale
17 gennaio 2021

Gli ultimi decenni non passeranno certo alla storia come "l'epoca d'oro" dello Zimbabwe. Quando, nel 1980, il regime segregazionista della Rhodesia ebbe fine, i cittadini della neonata Repubblica dello Zimbabwe si schierarono in massa dietro il leader comunista Robert Mugabe, sperando in un futuro migliore. Così non è stato.
Una volta al potere, Mugabe in breve tempo trasformò il Paese in un regime monopartitico di stampo sovietico, dominato dal suo partito, lo ZANU-PF. Per consolidare ulteriormente la sua presa sulla nazione, autorizzò numerosi massacri contro la minoranza Ndebele (alla quale appartenevano molti dei suoi oppositori politici), in cui vennero sterminate decine di migliaia di civili.
La dittatura di Mugabe, però, iniziò a vacillare all'inizio del nuovo secolo, quando nel 2000 ad un referendum volto a conferirgli nuovi poteri vinse il "No", grazie agli sforzi del Movimento per il Cambiamento Democratico (MDC).
Per screditare il MDC, Mugabe lo accusò di essere uno strumento della minoranza bianca, in particolare dei ricchi proprietari terrieri. Lo ZANU-PF, quindi, promosse una politica di ridistribuzione forzata delle terre dei bianchi, che vennero assegnate a fedeli sostenitori di Mugabe.
Molti di questi di agricoltura ne sapevano poco o niente, e la produzione agricola ne risentì. Così, in breve tempo, il "granaio dell'Africa" si ritrovò ad affrontare una grave crisi alimentare, i cui effetti sull'economia dello Zimbabwe sono ancora oggi ben visibili.
Eppure, forse oggi qualcosa sta cambiando nello Zimbabwe, una volta tanto in meglio. Nel settembre 2020, a tre anni dalla caduta di Mugabe, il nuovo governo ha finalmente acconsentito a riparazioni economiche per gli agricoltori bianchi le cui terre sono state espropriate ormai vent'anni fa.
Nello specifico, il governo progetta di versare a titolo di risarcimento un totale di 3,5 miliardi di dollari (metà entro 12 mesi, il resto entro 5 anni), da suddividere fra circa 3500 agricoltori. Con questo gesto, il governo spera di ricostruire l'immagine pubblica dello Zimbabwe, al fine di attirare gli investimenti esteri di cui il Paese ha disperato bisogno per uscire dalla spirale distruttiva in cui l'ha spinto Mugabe.
Ad oggi, è difficile dire se queste generose promesse verranno mantenute. Molti economisti pensano che, senza importanti riforme, difficilmente il governo riuscirà a trovare i fondi necessari. In ogni caso, questo gesto di buona volontà comunica un messaggio importante: lo Zimbabwe sta venendo a patti con il passato, e sta finalmente guardando al futuro.
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Re: Colonizzazione e decolonizzazione

Messaggioda Berto » mer mar 17, 2021 8:56 pm

Eni, crolla il teorema dei pm: Scaroni e Descalzi sono assolti
Luca Fazzo
Mer, 17/03/2021

https://www.ilgiornale.it/news/cronache ... 1616000761

Asfaltato il traballante castello d'accusa con cui la procura aveva portato sul banco degli imputati l'Eni e i suoi due massimi dirigenti

Tutti assolti. Bastano poche ore di camera di consiglio ai giudici del Tribunale di Milano (settima sezione, presidente Marco Tremolada) per asfaltare il traballante castello d'accusa con cui la Procura della Repubblica aveva portato sul banco degli imputati l'Eni e i suoi due massimi dirigenti, l'ex amministratore delegato Paolo Scaroni e il suo successore Claudio Descalzi.

L'accusa di corruzione internazionale legata all'appalto per lo sfruttamento dell'Opl 245, gigantesco giacimento di grezzo al largo delle coste della Nigeria, viene liquidata con poche righe di dispositivo della sentenza che assolve l'azienda, Scaroni e Descalzi, e insieme a loro la Shell, il colosso petrolifero alleato di Eni nella cordata per l'appalto nigeriano. Per la seconda volta consecutiva le indagini della Procura milanese contro Eni si risolvono in un nulla di fatto. Era giù successo con il processo gemello per le presunte tangenti in Algeria: tutti assolti, Scaroni e l'ente, sentenza confermata in appello e in Cassazione, "il fatto non sussiste". Ora arriva il bis, con le assoluzioni in blocco per il caso Nigeria. Per il pm Fabio De Pasquale, che a questa indagine ha dedicato quasi per intero gli ultimi anni di lavoro, una sconfitta plateale di fronte alla quale, mentre il tribunale legge la sentenza, nasconde a stento il suo disappunto. Per Scaroni e Descalzi il rappresentante dell'accusa aveva chiesto otto anni di carcere a testa. Assolto anche Luigi Bisignani, ex giornalista e procacciatore di affari, accusato di avere fatto da intermediario tra Eni e i faccendieri africani.

Per arrivare all'assoluzione è servito un processo durato quasi tre anni, reso impervio dalle difficoltà di traduzione con i testimoni nigeriani che l'accusa portava in aula a sostegno della sua tesi: ovvero che il miliardo e trecento milioni di dollari versati da Eni e Shell al governo nigeriano per ottenere la licenza di sfruttamento fossero in realtà una gigantesca tangente destinata a una serie di politici del posto, con in testa il presidente della Repubblica Jonathan Goodluck. A sostegno della tesi, una serie di analisi bancarie e di testimonianze, tra cui quella di una "gola profonda" interna ad Eni: Vincenzo Armanna, già capo delle attività di estrazione Eni a sud del Sahara, secondo cui sia Scaroni che Descalzi (che all'epoca dei fatti guidava la direzione Esplorazione e produzione) erano consapevoli che l'enorme somma versata sul conto governativo aveva ben altre destinazioni.

Ma a mancare sono stati i riscontri, gli elementi di fatto a sostegno della versione del pentito: come pure per lo scenario più grave adombrato dalla Procura nel corso del processo, secondo cui una parte non piccola della tangente uscita dalle casse di Eni e Shell sarebbe alla fine rientrata nelle disponibilità del management italiano. Il tribunale ha preso novanta giorni per depositare le motivazioni: dopodichè la Procura valuterà se ricorrere in appello. Ma che De Pasquale si arrenda appare assai improbabile (prescrizione permettendo, essendo i fatti vecchi ormai di una decina d'anni).
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Re: Colonizzazione e decolonizzazione

Messaggioda Berto » mar apr 06, 2021 7:57 pm

Poveri africani sempre vittime dei predatori non africani vero, vecchi e nuovi colonizzatori?
Ma la realtà è un'altra e il vittimismo non paga e non aiuta a responsabilizzarsi.



???
Nell’Africa comprata dai nuovi padroni, dove i contadini perdono le loro terre

In 20 anni 35 milioni di ettari acquistati da cinesi, emiratini e americani. È il nuovo colonialismo globale
Nell’Africa comprata dai nuovi padroni, dove i contadini perdono le loro terre
Domenico Quirico
04 Aprile 2021


https://www.lastampa.it/topnews/primo-p ... 1.40109005

È strano. I viaggiatori e i fotografi colgono dell’Africa innumerevoli immagini: le riserve naturali, i masai e i tuareg con i loro «pittoreschi costumi», gli animali selvaggi, le spiagge, i più consapevoli anche le sterminate e disperate bidonville e le guerre feroci. Ma pochissimi si raccolgono a fissare i gesti, i volti, la fatica dei contadini. Eppure l’Africa è un continente di contadini: che vivono, anzi meglio sopravvivono, su meno di un ettaro (l’ottanta per cento), con poca acqua, senza fertilizzanti, senza trattori.



Leader corrotti e tribalismo, l’Africa dimenticata si getta tra le braccia della jihad
Domenico Quirico
17 agosto 2020

https://www.lastampa.it/topnews/primo-p ... 1.39200977

L’Africa? Sessant’anni dopo le sacrosante ma azzoppate indipendenze, la stiamo perdendo ogni giorno: la perdiamo in quello che davvero dovrebbe contare, la possibilità di una vera democrazia che non sia elezioni truffa, lo sviluppo per un proletariato immenso e non solo per complici rapaci di una mondializzazione ipocrita, la tolleranza, etnica religiosa politica umana. E coloro che fuggono, i senza nome, i reietti, l’estremo limite, il termine della notte? Non dovrebbe essere quella la nostra Africa?

Non dovremmo prendere partito per la gente senza scuole e senza scarpe? Baratro nero e spalancato, è il progetto islamista che avanza verso Sud, rode, arruola, infetta, convince.



!!!

È difficile aiutare l’Africa quando l’Africa non vuole aiutare se stessa
Franco Nofori
03/04/2021
Un’analisi oggettiva anche se dolorosa

https://www.italiettainfetta.it/e-diffi ... se-stessa/



Ricevo da un amico lettore lo sfogo di un imprenditore keniano che non potrebbe spiegare meglio perché l’Africa non decolla, ma sceglie di schiavizzare se stessa svendendo la propria credibilità al resto del mondo. Si tratta di un appello accorato e tristemente sincero che fa comprendere come un grande continente, dotato di enormi risorse naturali, si condanna alla perenne indigenza, all’illegalità e alla disparità sociale. Non ci sarà mai modo si aiutare efficacemente l’Africa, finché l’Africa non saprà offrirsi al resto del mondo come un partner onesto, capace e affidabile. Tutto il resto è melensa retorica.

Sono il titolare di un’azienda manifatturiera in Kenya che gestisce anche la commercializzazione dei propri prodotti. Le maggiori difficoltà che incontro nel condurre la mia attività, non sono rappresentate dalle frequenti interruzioni di corrente e neppure dall’assenza di adeguate infrastrutture, ma dalla difficoltà di trovare personale onesto e affidabile. Sembra che la missione di ogni persona che assumiamo sia quella di rubare quanto più possibile; falsificare fatture; registrare incassi inferiori all’importo reale e alterare anche la quantità di articoli prodotti. La parte peggiore di questa strategia truffaldina è che non è solo attuata dal singolo, ma si realizza attraverso la collusione di tutti i settori, da quello produttivo a quello commerciale, finanziario e logistico, fino a coinvolgere l’intero corpo dirigenziale.

In un solo anno sono stato costretto a sostituire per ben tre volte tutte le posizioni direttive della mia azienda, ma solo per ripiombare nella stessa situazione, finché ho trovato un rimedio: ho affidato le posizioni di maggiore responsabilità a dirigenti indiani espatriati che si sono rivelati molto più onesti, efficienti e responsabili dei loro equivalenti africani. Inizialmente ero piuttosto dubbioso su questa scelta. La difficoltà a ottenere i necessari permessi di lavoro, la sistemazione abitativa e il personale domestico, comportavano costi non indifferenti, ma la rapida riduzione dei furti e delle truffe ai danni della mia azienda compensarono presto e largamente le spese di questa decisione che produsse anche livelli di efficienza mai ottenuti prima.


Scelta umiliante ma necessaria
Furto delle ruote a un auto parcheggiata in Sudafrica

Oggi tutto il mio staff dirigenziale è composto di espatriati indiani, mentre al personale africano restano affidate le sole mansioni di scarsa influenza gestionale. Si è trattato di un provvedimento che non avrei mai immaginato di adottare, poiché io stesso ero sempre stato apertamente critico nei confronti delle grandi aziende nazionali che impiegavano un gran numero di personale straniero, quando molti cittadini africani erano disoccupati, ma adesso comprendo la necessità di queste scelte, per quanto esse restino umilianti e dolorose. Il punto dolente non è rappresentato dall’incompetenza, perché chiunque sia privo di esperienza, può essere opportunamente istruito, ma chi è disonesto resta disonesto, anche se titolare di una laurea ottenuta a pieni voti.

Noi africani siamo usi a lamentarci per la situazione economica e per la difficoltà a trovare uno stabile impiego, eppure conosco molte aziende straniere che sarebbero pronte a investire massicciamente in Africa creando grandi opportunità di lavoro, ma non lo fanno per le troppe esperienze negative di chi li ha preceduti e per l’impossibilità di trovare africani qualificati e onesti cui affidare la gestione dei propri investimenti. Anche molti africani dotati di sufficienti disponibilità economiche, sono restii a creare attività imprenditoriali, per le stesse ragioni e preferiscono far fruttare il proprio denaro investendolo in buoni del tesoro o altre speculazioni finanziarie che non li espongano ai rischi di furto da parte dei propri connazionali.

L’Africa potrebbe creare milioni di opportunità di lavoro, attraverso partnership internazionali, ma ne è impedita a causa della vasta corruzione dell’apparato governativo, cui si aggiunge il costante impulso di rubare tutto il possibile anche da parte di una grande fetta della sua popolazione. Quella stessa popolazione che si lamenta del proprio governo corrotto, ma che è subito pronta a comportarsi nello stesso modo, appena si trova nella possibilità di farlo. Che si tratti di una grande impresa, o di una piccola attività rurale, l’impulso ad appropriarsi dei beni altrui, resta comunque irresistibile. Provate a condurre un modesto allevamento di pollame e vi ruberanno le uova. Vi diranno di aver trovato dei polli morti durante la notte, così da poterseli portare a casa per cena.


Perché non seguire gli esempi virtuosi?
L’aeroporto internazionale di Kigali, capitale del Ruanda

Qualunque sia l’attività che avete intrapreso, scoprirete che quando voi siete presente, essa renderà dieci volte di più di quando non ci siete, perché in vostra assenza, gran parte del denaro incassato finirà nelle tasche del vostro staff. Affittate loro un’auto e guardate come la porteranno rapidamente allo sfascio. Aprite un ristorante e vedrete come metà delle provviste che acquistate passeranno rapidamente dalla vostra alle loro cucine domestiche. Non si renderanno mai conto di quanto il loro comportamento sia dissennato, poiché oltre a privarvi del vostro denaro, stanno distruggendo l’attività grazie cui sopravvivono loro e le loro famiglie, uccidendo la speranza del proprio paese e del proprio futuro.

Eppure li vedrete sempre puntare l’indice accusatore verso la classe politica al potere, mentre se loro non hanno potuto rubare le stesse quantità di pubblico denaro, è solo perché non ne hanno avuta l’opportunità. Voi, pochi africani onesti, siete un’esigua minoranza e tutti vi guarderanno come degli idioti, ma non siete idioti, siete quelle poche persone di cui l’Africa avrebbe disperato bisogno. Come possiamo sperare in uno sviluppo di negozi, supermercati, aziende, ospedali, scuole, imprese pubbliche, ecc. quando il personale dell’Azienda elettrica ruba i cavi di rame; i medici si appropriano di farmaci, coperte, cuscini, lenzuola, viveri per poi rivenderli sul mercato nero?

A tutti i livelli sono gli africani il vero e grande problema dell’Africa. Chi ci potrà mai salvare da noi stessi? Eppure basterebbe seguire i pochi ma illuminanti esempi virtuosi, come il Ruanda. Un Paese risorto da una terribile strage e ora ammirato dal mondo intero, dal quale raccoglie importanti investimenti internazionali, perché sanno che in Ruanda la corruzione è energicamente bandita sia nel settore pubblico e sia in quello privato. Ecco perché sotto la guida di Kagame, il Ruanda fiorisce ponendosi come esempio all’intero continente africano. Facciamone tesoro e ridiamo speranza alla nostra amata Africa.
K.W. Kariuki

Giornalista e scrittore, fin dall’epoca del liceo, quando si occupava di cronaca cittadina. Nel 1983 si è trasferito in Africa, facendo base in Kenya e inviando a testate nazionali e straniere, molti reportage sulle situazioni africane di cui è diventato un profondo conoscitore. Nell’anno 2000 ha fondato e diretto, per quattordici anni, il periodico d’opinione “Out of Italy” rivolto alle comunità italiane dell’est-Africa. Ha scritto oltre mille articoli e pubblicato tre libri. Fino al 2018 ha anche ricoperto l’incarico di consigliere dell’Ambasciata Italiana in Kenya.




Nella stampa del Kenya torna il tormentone della “mafia italiana di Malindi”
Franco Nofori
6-8 minuti

Inchiesta
Franco Nofori
08/04/2021

Puntuale, inesorabile e fastidiosa come un ciclo mestruale, ricompare ancora una volta l’acredine che la stampa del Kenya riversa sulla presunta “Mafia italiana di Malindi”. Questa volta, a cimentarsi nella bisogna, provvede un certo John Kamau, articolista del Nation, che per trovare lo spunto a esprimere il suo bilioso attacco, va addirittura a riesumare, il tragico evento della morte di Edoardo Agnelli avvenuta oltre vent’anni fa e – nel suo articolo di domenica scorsa – s’ingegna a guarnirla con una lunga e disgustosa serie d’illazioni che coinvolgono non solo, lo sventurato erede suicida, ma anche suo padre, dipinto come un Tycoon anaffettivo e sesso-dipendente.

Chi mi segue da tempo, sa che non sono mai stato tenero nei confronti di alcuni connazionali che, soprattutto sulla costa del Kenya, tenevano e tengono, comportamenti non proprio edificanti ai fini di salvaguardare l’immagine del proprio Paese. Queste prese di posizione, mi hanno spesso assoggettato a valanghe di piccate reazioni e d’insulti, dimostrando quanto, tra questi trasgressori, fossero diffuse le code di paglia, cui la verità provocava effimere indignazioni di “Lesa Maestà”. Tuttavia, com’è stato più volte detto, queste discusse figure, pur se in numero non trascurabile, non sono mai state tali da rappresentare l’intera comunità italiana che vive e lavora in Kenya e che, mantiene grandi meriti nello sviluppo del Paese che la ospita.


“No Italians, no Malindi”

Cos’erano Malindi e Watamu prima dell’avvento dell’imprenditoria italiana? La risposta la danno gli stessi abitanti di queste due cittadine: “No Italians, no Malindi”, recitano. E questa indiscussa verità trova conferma nella golden age degli anni ’90, quando gli afflussi turistici si costituirono come la prima voce nell’economia keniana. Le due località costiere, prima dell’avvento degli italiani, erano due sparuti e miseri villaggi di pescatori, afflitti da una costante indigenza e quasi totalmente abbandonati al proprio destino dalle autorità centrali. Oggi, grazie soprattutto agli italiani, questi villaggi si sono rapidamente trasformati in fiorenti centri commerciali dove tutti i funzionari pubblici sono disposti a pagare decine di migliaia di euro per esservi trasferiti. Perché il solerte John Kamau del Nation non si chiede la ragione di questo possente desiderio di approdare sulla costa keniana?

Se il nostro Kamau si ponesse questa domanda, forse potrebbe definire meglio il suo concetto di “Mafia Italiana”, scoprendo che più spesso, anziché di corruzione mafiosa, si tratta di vera e propria “estorsione” attuata proprio da quei pubblici funzionari che, approdati a Malindi, si sono subito dati alacremente da fare per recuperare l’esborso di cui si erano fatti carico per raggiungere l’ambito scopo. Allora, Kamau, di quale mafia stai parlando, quando la migliore espressione mafiosa è proprio quella offerta dai tuoi connazionali che rivestono cariche pubbliche? Il maggio scorso a un posto di blocco in Mtwapa, un poliziotto mi aveva dichiarato in arresto perché avevo una strisciata sul parafango sinistro e quindi “non provvedevo un’adeguata manutenzione alla mia auto”. Nella sua eccelsa magnanimità, l’agente in questione, era tuttavia disposto a concedermi il “perdono” contro un modesto obolo d 2.000 scellini (circa 15 euro).
Corruzione o estorsione?


Kenya: Un agente del traffico mentre sollecita la bustarella al conducente di un veicolo

Grazie alla mia pluridecennale esperienza di Kenya, lo mandavo a quel paese e ripartivo, infischiandomene della sua espressione tra l’attonito e il risentito, ma quanti altri stranieri, residenti o turisti, avrebbero subito messo mano al portafoglio per evitare di finire in carcere? Tu, caro Kamau, avresti forse il coraggio di definirli “corruttori”, oppure incolpevoli vittime del ricatto e della prevaricazione attuati da un tutore della legge? Tu, Kamau, sei un meschino imbrattacarte, fazioso e menzognero. Hai semplicemente fatto un copia e incolla di quanto scritto dai colleghi che ti hanno preceduto per gettare fango su un’intera comunità. Tu parli di “mafia” senza avere la più pallida idea di cosa la “mafia” realmente sia e quel “paradiso mafioso” che citi è proprio quello costituito dall’entourage dei tuoi connazionali che con il loro comportamento avvelenano il vivere del proprio Paese, ma tu, di loro, ti guardi bene dal parlare e quindi, definirti “giornalista” è un oltraggio all’intera categoria.
John Kamau, autore dell’articolo sulla “mafia italiana” in Kenya

Evidentemente la mia opinione su John Kamau non è condivisa dal “Media Council of Kenya” (MCK) che nel 2016 gli ha conferito nientemeno che l’awards come migliore giornalista dell’anno. Eppure, leggendo ciò che scrivi, è piuttosto ostico ritenerti tale, caro Kamau. Come puoi non renderti conto che il tuo Paese è un’inesauribile fonte di corruzione, soprusi, malversazioni e degradi di cui potresti più attivamente occuparti, anziché lordare una comunità che, pur nelle sue imperfezioni, ha portato e porta al Kenya occupazione, assistenza e benessere? Ma è ovvio che tu sei supinamente sodale con la linea tracciata dai tuoi padroni ai quali ti genufletti, facendo forfait della tua dignità professionale e umana. Poteva essere legittimo che tu stigmatizzassi qualche discutibile comportamento italiano, se avessi messo in altrettanta evidenza tale comportamento con il fertile humus locale che lo favoriva, ma evidentemente l’obiettività non è una tua caratteristica e con il tuo scritto, ciò che hai voluto offrire ai tuoi lettori e all’intero mondo editoriale, è uno spettacolo infimo e rivoltante.

Giornalista e scrittore, fin dall’epoca del liceo, quando si occupava di cronaca cittadina. Nel 1983 si è trasferito in Africa, facendo base in Kenya e inviando a testate nazionali e straniere, molti reportage sulle situazioni africane di cui è diventato un profondo conoscitore. Nell’anno 2000 ha fondato e diretto, per quattordici anni, il periodico d’opinione “Out of Italy” rivolto alle comunità italiane dell’est-Africa. Ha scritto oltre mille articoli e pubblicato tre libri. Fino al 2018 ha anche ricoperto l’incarico di consigliere dell’Ambasciata Italiana in Kenya.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Colonizzazione e decolonizzazione

Messaggioda Berto » dom giu 20, 2021 8:59 am

Le cause del sottosviluppo dell'Africa: riporto Un'ottimo articolo sulla micidiale influenza negativa dell'indeologia comunista con il suo vittimismo, il suo anticapitalismo, anti euroamericanismo, il suo razzismo antibianchi a cui però aggiungere il tribalismo congenito con anche la mentalità predatoria e schiavista e certe tradizioni religiose e la nefasta influenza del nazismo maomettano in buona parte dell'Africa.


In Africa la povertà aumenta a causa della mentalità anti-capitalista
17 giugno 2021

https://www.francescosimoncelli.com/202 ... causa.html

Ripassiamo ancora una volta perché il capitalismo di libero mercato offre più benefici di qualsiasi altra organizzazione socio-economica. X non ha lavoro e non possiede mezzi di produzione. Per dar da mangiare alla sua famiglia ha solo le mani, da usare per produrre beni e sopravvivere. La produttività di X sarà vicina allo zero e la sussistenza è il massimo a cui può sperare. Per essere più produttivo ha bisogno di beni capitali e quindi aumentare la sua produttività. X si trova di fronte ad una scelta: acquisire beni capitali da utilizzare per produrre beni, o andare a lavorare per un capitalista che fornisce mezzi di produzione con cui X può combinare il suo lavoro in cambio di un salario. Ci sono tre vantaggi principali forniti dal capitalista che portano X, e la maggior parte delle persone, a trovare più vantaggioso lavorare per un capitalista. 1) I beni capitali forniti dal capitalista rendono l'operaio molto più produttivo di quanto sarebbe stato da solo. La maggior parte degli individui ha risorse limitate e sarebbe in grado di ottenere relativamente meno beni capitali, o comunque meno produttivi, di quelli che il capitalista può fornire. Una maggiore produttività si tradurrà in salari più alti per il lavoratore rispetto alle entrate che avrebbe potuto generare producendo e vendendo beni da solo. 2) Lavorare in un'azienda consente al lavoratore di guadagnarsi da vivere immediatamente. Invece di dover attendere il completamento del processo produttivo e la vendita del prodotto finito, andare a lavorare per un capitalista consente al lavoratore di incassare subito il reddito. I salari degli operai sono di fatto un anticipo sul reddito dei prodotti finiti; un anticipo non concesso all'individuo che produceva egli stesso beni capitali. 3) Il capitalista si assume il rischio di potenziali perdite. L'appetito per il rischio è limitato, infatti la maggior parte delle persone non è disposta a rischiare di perdere i propri fondi (o i fondi presi in prestito che dovranno rimborsare) nel caso in cui i beni prodotti non siano valutati dai consumatori ad un prezzo superiore ai costi di produzione.

di Ferghane Azihari

Il progetto di punta dell'Unione Africana (AU), l'Africa Continental Free Trade Area (ACFTA), è infine entrato in vigore.

L'espansione globale dell'economia di mercato ha generato una prosperità senza precedenti per tutta l'umanità e ora anche gli africani vogliono accedere a questi guadagni. I vantaggi sono chiari: quasi l'80% degli esseri umani viveva in condizioni di estrema povertà all'inizio del XX secolo, rispetto a poco più del 10% di oggi. Alla fine della seconda guerra mondiale, metà della popolazione mondiale soffriva ancora di denutrizione. Ma ora questo flagello colpisce "solo" il 10% degli individui in tutto il mondo.

In generale, gli indicatori umanitari in tutto il globo continuano a migliorare. L'aspettativa di vita sta progredendo, la mortalità infantile è in calo, sempre meno bambini devono lavorare per sopravvivere e l'analfabetismo sta diventando l'eccezione.

L'Asia è stata l'obiettivo principale di questo progresso negli ultimi anni. Ma mentre la globalizzazione capitalista rompe il monopolio occidentale dell'opulenza, ci sono regioni in cui la penetrazione della ricchezza è ancora troppo lenta.

È il caso dell'Africa subsahariana. La percentuale di persone in condizioni di estrema povertà nel mondo è diminuita dal 36% al 10% tra il 1990 e il 2015 in tutto il mondo. Questo felice sviluppo, tuttavia, è stato più modesto nel continente nero: la povertà estrema è passata solo dal 54,3% al 41,1% nello stesso periodo, secondo i dati della Banca Mondiale. Le dinamiche demografiche unite a questi scarsi risultati economici fanno dell'Africa subsahariana una delle poche regioni in cui la povertà è aumentata negli ultimi anni in termini assoluti.

Si è tentati di guardare ai fattori storici, incolpando le potenze imperiali di un tempo; è vero, non hanno avvantaggiato i Paesi dominati più di quanto non abbiano servito le metropoli coloniali. Tuttavia la tesi antimperialista non può spiegare come alcuni Paesi abbiano fatto così tanti progressi partendo da zero. Nel 1950 il PIL pro capite della Corea del Sud era equivalente a quello della maggior parte dei Paesi dell'Africa subsahariana. Oggi la Corea è una forza trainante nell'economia globale e la sede di molte aziende che competono senza sosta con le più grandi multinazionali statunitensi.

Al contrario, molti Paesi africani hanno visto la loro situazione deteriorarsi sin dall'indipendenza. I pochi successi africani, come Botswana e Mauritius, si contano purtroppo ancora sulle dita di una mano. Non c'è bisogno di rifugiarsi nella geografia, geologia o emigrazione delle forze produttive del continente nero per spiegare la sua stagnazione: gran parte delle battute d'arresto africane è causata dalla mentalità anti-capitalista e dall'ostilità verso l'Occidente, cose che hanno prevalso sin dalla fine della colonizzazione.

In altre parole, il problema dell'Africa è ideologico oltre che economico. La maggior parte degli intellettuali affiliati ai movimenti nazionalisti e antimperialisti africani sono stati influenzati dal catechismo marxista-leninista. I seguaci di Lenin finirono per convincere le élite africane che l'economia di mercato era un complotto occidentale per schiavizzare il Terzo Mondo.

Che importa, ci dicono, se il collettivismo, a differenza del capitalismo, ha fallito ovunque sia stato attuato? Per alcuni l'aggiunta della lotta razziale alla lotta di classe prevale sull'adozione di ideologie e politiche che assicurano la prosperità economica. Gli anti-capitalisti insistono sul fatto che il sano pensiero economico debba essere respinto se le idee vengono dalle ex-potenze coloniali.

Questo discorso razzista ha molta più risonanza ora visto che è incorporato nelle scuole di pensiero postcoloniali la cui autorità si sta diffondendo in tutta Europa e negli Stati Uniti. Queste scuole tentano di fondere gli ideali universalisti della cultura liberale occidentale con gli sforzi per indebolire l'indipendenza e l'identità africane. Tuttavia se gli africani lo volessero, non dovrebbero essere liberi di abbandonare tratti ideologici e culturali locali meno utili per un tenore di vita più elevato? Se la conservazione della cultura indigena ha la meglio su tutto il resto, allora gli europei dovrebbero rifiutare le cifre indo-arabe a favore dei numeri romani più "tradizionali".

L'anti-capitalismo, alimentato da sentimenti ostili nei confronti dell'Occidente, è molto più paradossale in quanto condanna il continente nero a vivere sotto l'assistenza finanziaria delle odiate potenze. Il "fardello dell'uomo bianco", per usare il titolo del libro di William Easterly, diventa l'orizzonte esclusivo della lotta alla povertà attraverso l'attuazione di un "aiuto" inefficiente attraverso programmi di sviluppo paternalistici.

Questo paternalismo è tanto più perverso in quanto le dipendenze che crea indeboliscono ogni dubbio sulle istituzioni che ostacolano lo sviluppo del continente. In un momento in cui i flussi migratori sono sempre meno tollerati dall'opinione pubblica occidentale, diventa urgente decostruire le ideologie che impediscono agli africani di prosperare nelle loro terre d'origine. Chi avrà il coraggio di affrontare questo grande progetto culturale?


È davvero colpa del COLONIALISMO se l'Africa è un FALLIMENTO?
https://www.youtube.com/watch?v=xAJEyMWVVnw

Colonizzazione e decolonizzazione dell'Africa
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 194&t=1822



Agra, il fallimento agricolo africano targato Bill e Melania Gates
Autore Andrea Massardo
11 giugno 2021

https://it.insideover.com/ambiente/agra ... gates.html

Doveva essere un progetto in grado di portare una vera e propria rivoluzione all’interno del panorama agricolo africano, ma nonostante la cifra astronomica raccolta tramite le donazioni, superiore al miliardo di dollari, il progetto Agra (Alleanza per la rivoluzione verde in Africa) è stato fino a questo momento un tragico fallimento. Nato dalla spinta propositiva della Gates Foundation e supportato dalla Rockefeller Foundation, Agra aveva l’obiettivo di ammodernare, secondo gli standard occidentali, la metodologia di semina e raccolta nel continente africano e di aumentare la ricchezza delle famiglie locali. In 15 anni, però, il reddito medio degli agricoltori ghanesi e burkinabé non è cresciuto di nemmeno 100 dollari annui pro capite, dissipando però al tempo stesso il patrimonio di oltre un miliardo di dollari.

Usato un metodo sbagliato

Le accuse principali rivolte ai fautori del progetto si focalizzano principalmente sulla presunzione di poter applicare un sistema di agricoltura rivelatosi funzionante nell’emisfero boreale a uno scenario agricolo completamente differente come quello del Sahel e della Tanzania. E in modo particolare, come messo in evidenza dalla fondazione Rosa Luxemburg (vicina al partito tedesco Die Linke), il progetto non avrebbe tenuto conto dei costi esorbitanti rispetto alle controparti locali delle sementi “sponsorizzate” da Agra.

Secondo quanto emerso anche dalle analisi della Ong “Bread for the world”, molti agricoltori africani continuano, nonostante le sovvenzioni del progetto, ad utilizzare i prodotti indigeni, poiché più redditizi e soprattutto meno costosi. Soprattutto poiché nei 15 anni di affiancamento i risultati promessi non sono mai stati nemmeno lontanamente ottenuti, accrescendo la sfiducia egli agricoltori africani nei confronti di un progetto diventato giorno dopo giorno una mera utopia.

Ma non solo. A differenza del mais, i sementi africani necessitano di dosi meno importanti di pesticidi e fertilizzanti per essere coltivati, abbattendo i costi di produzione e permettendo alle colture di non danneggiare in modo invasivo i pochi terreni coltivabili a disposizioni. In uno scenario che, in conclusione, evidenzia quanto la bontà del progetto sia andata incontro a difficoltà che si sarebbero dovute tenere in considerazione.

Progetti utopici ma pochi risultati: il paradosso dei Gates

A livello internazionale, la Gates Foundation si può considerare la più grande Ong personale in termini di investimento nei territori svantaggiati del pianeta. Tuttavia, nonostante le ingenti somme a disposizione, la capacità di attrarre donatori e il folto numero di progetti seguiti, nel corso degli anni i risultati ottenuti sono sempre stati scarsi o comunque inferiori alle attese. Impossibile, dunque, non notare come ciò sia stato nella quasi totalità dei casi dovuto al tentativo di applicare pedestremente le strategie occidentali al mondo africano, senza mai cercare invece di sviluppare metodologie alternative che fossero in simbiosi con le logiche e le possibilità locali.

Rimanendo sul tema dell’Agra, però, l’errore è appunto da ricercarsi nel tentativo di “riprodurre” un metodo che ha dato i suoi frutti nei Paesi industrializzati senza cercare, al contrario, di migliorare e ammodernare le tecniche agricole locali, risultate a loro modo vincenti in relazione alle poche disponibilità. Evidenziando ancora una volta come, per fare beneficienza, non sia sufficiente una capacità di fuoco in termini di disponibilità economiche quasi illimitata se, al tempo stesso, i progetti non vengono contestualizzati negli scenari locali.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Colonizzazione e decolonizzazione

Messaggioda Berto » dom ago 08, 2021 8:35 am

Miseria del terzomondismo
Lucio Leante
6 agosto 2021

https://opinione.it/editoriali/2021/08/ ... omondismo/

Molti non sono pienamente coscienti del fatto che la diffusa tesi secondo cui l’Occidente, con il suo colonialismo imperialista ed il suo “neo-colonialismo” delle multinazionali, sarebbe ancor oggi “la causa” di tutti i persistenti mali dei Paesi poveri africani ed asiatici (e quindi anche dei flussi migratori attuali) è una balla colossale che trova origine nell’ideologia para-comunista, fintamente umanitaria e in realtà anti-occidentale del terzomondismo. Il terzomondismo sembrava essere morto come il marxismo da cui è nato e di cui costituiva un’eresia ed un surrogato. E, invece, una delle ideologie più perniciose per gli stessi Paesi del cosiddetto “terzo mondo”, pur sconfessata e smentita dalle dure repliche dei fatti e della storia, continua a vivere sotto altre sembianze e altre denominazioni. Oggi continua a serpeggiare quasi soltanto in Occidente mentre nel “terzo mondo” le nuove generazioni di intellettuali, economisti, sociologi e antropologi lo considerano obsoleto e, anzi una delle principali cause ideologiche della persistente arretratezza dei loro Paesi e persino una forma di vero neocolonialismo mascherato dietro gli “aiuti esteri”.

Rifugio dei post-comunisti (e cattolici di sinistra)

In Occidente è divenuto il rifugio – spesso inconfessato e travestito di aspirazioni alla giustizia universalista ed egualitaria – di molti ex-post-comunisti e di “cattolici di sinistra”. Per i post-ex-comunisti il terzomondismo ha sempre rappresentato un’eresia del marxismo ed un ripiego ideologico e teorico finalizzato a salvare la prospettiva rivoluzionaria ad opera non più – come prevedeva Karl Marx – del proletariato industriale dei Paesi avanzati (già da Lenin considerato nel suo testo “L’Imperialismo fase suprema del capitalismo” – almeno nelle sue “aristocrazie” – “integrato” nel sistema capitalistico-borghese perché “corrotto dai corrotti riformisti”), ma delle masse povere e diseredate dei contadini dei Paesi arretrati, per di più considerate portatrici di una purezza e innocenza primigenia, che prefiguravano comunque un diverso tipo di “uomo nuovo” dal cuore antico, frugale, austero e anti-consumista. Ai contadini che Marx considerava alla stregua di “sacchi di patate” e che Lenin e Stalin non nascondevano di volere sterminare “come classe” (nobile progetto poi in gran parte realizzato) i terzomondisti attribuivano invece nientemeno che la funzione di motore di massa per la rivoluzione mondiale. Marx aveva previsto un socialismo ricco ed i terzomondisti ne proponevano uno povero e anzi misero. Una bella giravolta, che però consentiva loro di mantenere viva la prospettiva “rivoluzionaria” e cioè quella della distruzione dell’Occidente e della sua civiltà cristiana e liberale.

Per i cattolici di sinistra il terzomondismo riproduce soprattutto temi pauperisti, sempre risorgenti come un fiume carsico non solo in vari movimenti ascetici e in qualche misura gnostici (e pelagiani) non tutti e non sempre dichiarati eretici, come i catari, i valdesi, i poveri di Lione, gli umiliati, gli apostolici, le beghine e soprattutto gli ordini mendicanti tra cui i francescani. Nella storia stessa del cristianesimo ortodosso la povertà programmatica è un tema ricorrente. Una vena pauperista e terzomondista anti-occidentale è certamente presente anche nell’attuale papa Bergoglio, che non a caso ha scelto il nome di Francesco. Non è forse scritto che “è più facile che un cammello passi per la cruna dell’ago che un ricco entri nel regno di Dio”? (Matteo 19–23–30).

Il pauperismo è insomma il cemento ideologico-religioso che tiene insieme i terzomondisti: gli ex-post comunisti e i cattolici umanitari. Particolare curioso è che entrambi da un lato si stracciano le vesti per la povertà del “terzo mondo” (accusandone l’Occidente), ma dall’altro entrambi esaltano le virtù salvifiche della povertà. I comunisti come strada per il paradiso terrestre comunista popolato da quel particolare “uomo nuovo” molto simile al mitico “buon selvaggio” russoviano. I cattolici la esaltano come strada per la salvezza ultraterrena nel regno di Dio.
Istanze nettamente terzomondiste (e pauperiste) si ritrovano poi ai nostri tempi mascherate nell’ideologia multiculturalista, nella “cancel culture”, nel movimento “Black lives matter”, nelle aspirazioni alla cosiddetta “decrescita felice”, nell’atteggiamento pregiudizialmente filopalestinese e anti-israeliano di molti e in generale in tutte le ideologie anti-occidentali contemporanee. Del terzomondismo di un tempo esse sono le ultima variante e incarnazione. In ogni caso il terzomondismo può considerarsi oggi una teoria ideologica smentita dai fatti.

Le dure repliche dei fatti

Gli europei che arrivarono in Africa nel XIX secolo non trovarono un Eden che poi avrebbero distrutto, ma carestie, epidemie, tratte di schiavi (anche tra indigeni) malattie endemiche e guerre tribali. Il colonialismo fu un fenomeno complesso che qui sarebbe impossibile analizzare perché di colonialismi ve ne furono diversi e vari. Comunque secondo la maggior parte degli storici non può essere ridotto alla categoria ottocentesca dello sfruttamento e della rapina come fanno semplicisticamente i terzomondisti. Certo, di crimini i colonialisti europei ne hanno commessi: dalla repressione inglese del grande ammutinamento indiano del 1857, ai massacri nel Congo belga, al genocidio dei popoli Herero in Namibia, allo sterminio dei ribelli cirenaici nella Libia occupata dagli italiani. Ma tali fatti, seppur tragici e ripugnanti, non confermano affatto la semplicistica versione terzomondista sull’intricato rapporto tra colonialismo e sviluppo mancato. Su questo punto la vera “colpa” dei colonialisti è stata di non avere creato una vera classe dirigente locale responsabile, una vera borghesia grande e piccola ed un’economia di mercato.

In ogni caso l’era coloniale è terminata oltre 60 anni fa, tra la fine della Seconda guerra mondiale e la fallita spedizione anglo-francese a Suez nel 1956. “Il bilancio deve cominciare da allora, non da cent’anni prima. E l’esame di coscienza devono farlo anzitutto i ‘decolonizzati’, non i colonizzatori” – ha scritto tra gli altri Sergio Romano. E la sua opinione è ampiamente condivisa oggi da molti giovani intellettuali africani ed asiatici stanchi della vulgata terzomondista finalizzata a esportare tutte le “colpe” al “perverso Occidente”.

Subito dopo la fine del colonialismo, molti leader dell’indipendenza contro il colonialismo divennero capi di Stato, adottando politiche socialiste (e tribaliste), sotto influenza sovietica, per contrapporsi all’ “imperialismo” occidentale.
Il Ghana del leader storico Nkrumah, filo-socialista e nazionalista, la Guinea del filosovietico Sékou Touré, al potere per oltre un ventennio, fino allo Zimbabwe di Robert Mugabe, tutti dominati da leader terzomondisti, panafricani ed anti-occidentali, non sono stati soggetti per lunghi periodi alle politiche neocoloniali. Tutti quei Presidenti hanno nazionalizzato le compagnie straniere, cacciato via le deprecate multinazionali. Anzi Mugabe cacciò via nel 2000 tutti gli europei bianchi dallo Zimbabwe e spartì delle loro terre tra gli autoctoni (anche se poi nel 2020 il nuovo governo dello Zimbabwe ha dovuto restituire le terre agli ex coloni risarcendoli persino). Eppure i loro Paesi sono in condizioni non meno tragiche di altri.

Il fallimento del socialismo terzomondista

Quelle loro politiche socialiste erano estranee alla cultura locale e furono fallimentari per le economie locali come lo furono in tutti i Paesi socialisti del mondo che hanno subito lunghi periodi di scarsezza e di illibertà. Il risultato è che da tempo l’Africa è costretta ad importare prodotti alimentari per decine di miliardi di dollari (secondo recenti stime siamo oggi attorno ai 100 miliardi annui) dall’estero, mentre nel deprecato periodo coloniale era un esportatrice netta di cibo. Lo Zimbabwe quando era Rhodesia e la Repubblica Democratica del Congo quando era Congo belga esportavano cibo, ma oggi le loro popolazioni non riescono a sfamarsi. La stessa Tanzania e la Sierra Leone erano un tempo auto-sufficienti.

Questa ed altre circostanze, come le continue guerre politico-tribali, la stagnazione sociale, i faraonici arricchimenti dei dittatori e dei loro clan e tribù dominanti a spese delle popolazioni, la corruzione dilagante, le epidemie ricorrenti, la mancanza infrastrutture scolastiche ed ospedaliere, hanno indotto molti giovani intellettuali africani ad abbandonare l’ideologia terzomondista ed anzi ad accusare i terzomondisti occidentali di essere la vera causa ideologica dei disastri dei loro Paesi . Mentre un tempo, l’intellighenzia, influenzata e blandita dai terzomondisti occidentali, seguiva i leader africani filo-sovietici che accusavano la colonizzazione europea per tutti i mali dell’Africa, oggi una buona parte della nuova generazione di intellettuali incolpa soprattutto i dittatori locali di avere assorbito dall’Urss e dai terzomondisti occidentali il dogma del collettivismo comunista e la convinzione che il libero mercato e o stato di diritto fossero “roba da bianchi” anche se non soprattutto perché quell’ideologia garantiva loro ed alle loro tribù e clan un potere totalitario immenso e incontrollato. “Un grande ostacolo alla crescita economica dell’Africa è stata la tendenza di incolpare le forze esterne per i nostri fallimenti… il progresso sarebbe potuto arrivare se avessimo provato a rimuovere la polvere dagli occhi” – ha scritto l’intellettuale ghanese Said Akobeng Eric, in una lettera all’editore di Free Press.

La nuova intellighenzia africana

La parte più sveglia della nuova intellighenzia africana e asiatica nutre ormai ben pochi dubbi sull’efficacia del libero mercato e dello stato liberale di diritto nell’arricchire e migliorare l’economia dei Paesi che li adottano: è inequivocabile la forte relazione tra libertà economica, civile e politica e i maggiori indicatori di ricchezza e benessere. Lo dimostrano i casi della Cina e del Vietnam (e di altri Paesi ) che sistematicamente hanno cominciato a crescere non certo da quando sono divenuti indipendenti dal dominio coloniale, ma da quando hanno scelto il libero mercato e hanno abbandonato la ricetta collettivista e statalista. Anche in Africa il Rwanda, il Botswana e l’Etiopia stanno cominciando a vedere i primi risultati positivi delle incipienti liberalizzazioni. Per converso tutti i Paesi che si sono attardati e hanno conservato la vecchia ricetta statalista e collettivista come Cuba, il Laos e vari Paesi africani languono nella miseria e stagnano nel sottosviluppo.
Anzi l’economista ghaniano George Ayittey, pur non negando le responsabilità e le malefatte dei colonialisti, sostiene che la vera tragedia per lo sviluppo dell’Africa sia nata non con il colonialismo, ma con l’indipendenza (v. George B. N. Ayittey, Defeating Dictators: Fighting Tyranny in Africa and Around the World, Ed. St. Martin’s Griffin, 2012, Pp. 396–406).

Secondo vari studiosi, sia occidentali, sia africani il vero neocolonialismo oggi non è quello delle multinazionali, ma quello dagli aiuti esteri degli stati occidentali, delle organizzazioni internazionali, dei progetti delle varie agenzie di cooperazione e delle Ong, unificati da una stessa perniciosa ideologia: quella del terzomondismo sia pure in versione non più rivoluzionaria, ma gradualista. Sono gli “aiuti” internazionali che, infatti, hanno perpetuato le dittature collettiviste, causa principale dei mali dell’Africa. (per una più completa documentazione si veda Anna Mahiar Barducci, Aiutiamoli a casa loro? Lo stiamo già facendo, ma male, Fondazione Einaudi, 26 aprile 2020). Lo stesso economista ghaniano Ayittey ha scritto: “Abbiamo rimosso i colonialisti bianchi e li abbiamo rimpiazzati con neo-colonialisti neri” mantenuti al potere ed arricchiti, insieme con i loro clan, tribù e greppie di potere proprio dagli aiuti internazionali e dalla loro ideologia terzomondista (v. therisingcontinent.com 25 Ottobre 2011).

Il vero neo-colonialismo: gli aiuti esteri

Il giornalista ugandese Andrew Mwenda, definisce da vari anni gli aiuti come antitetici alla crescita, perché creano gli incentivi sbagliati e distorcono la relazione tra Stato e cittadino. A causa degli aiuti internazionali, il governo non ha più alcun interesse a dialogare con la popolazione e a cercare consensi, perché sostenuto economicamente dall’esterno (v. Andrew M Mwenda: aid creates the wrong incentives for progress, theguardian.com 24 luglio, 2008.).

Sembra pertanto sempre più chiaro che anche la formula “aiutiamoli a casa loro”, che può sembrare una valida alternativa all’immigrazione incontrollata e illimitata sia solo una formula semplicistica e propagandistica destinata a non funzionare, almeno per come è impostata adesso la cooperazione internazionale. Si sta facendo sempre più forte l’idea che un Piano Marshall per l’Africa possa risollevare i Paesi africani e frenare così l’emergenza migranti. Ne hanno parlato con enfasi sia l’allora presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, sia la cancelliera tedesca Angela Merkel. Tuttavia, sia gli aiuti internazionali, sia un eventuale Piano Marshall, promuoverebbero soltanto trasferimenti “da governo a governo”, ovvero incentiverebbero solo lo statalismo, con le sue solite dispersioni e distorsioni e non la “libera impresa”, la libertà economica ed il libero mercato. Nemmeno il supposto Piano Marshall per l’Africa sembra una soluzione. Già nel 2002 l’ex Presidente del Senegal Abdoulaye Wade, dichiarò: “Non ho mai visto Paesi svilupparsi grazie agli aiuti… I Paesi che si sono sviluppati come gli Stati Europei, l’America, il Giappone…hanno tutti creduto nel libero mercato. Non c’è alcun mistero. L’Africa ha preso una strada sbagliata dopo l’indipendenza”.

La economista dello Zambia, Dambisa Moyo, ha scritto nel suo famoso libro “Dead Aid” (“Aiuto morto”): “Il foreign aid sostiene i governi corrotti (africani) – fornendo loro denaro utilizzabile liberamente. Questi governi corrotti interferiscono con lo Stato di diritto, con la creazione di istituzioni civili trasparenti e con la protezione delle libertà civili”. Ed ha poi aggiunto: “In risposta all’aumento della povertà, i Paesi donatori danno più aiuti economici, continuando così la spirale della povertà. Questo è il circolo vizioso degli aiuti. Il circolo che strozza il bisogno di investimenti, che infonde la cultura della dipendenza, e facilita la corruzione sistematica, con deleterie conseguenze per la crescita. Questo è il circolo che perpetua il sottosviluppo e garantisce il fallimento economico dei Paesi poveri, dipendenti dal foreign aid.”.

La soluzione per la Moyo è pertanto chiara: innanzitutto cancellare gli aiuti, una proposta che ha suscitato le vivaci e terrorizzate critiche di molte Ong dirette da noti terzomondisti, che da (e su) quegli aiuti ci campano discretamente (v. D. Moyo, “Dead Aid”, Penguin, London 2009). Il discorso sull’Africa (e sul terzomondismo) dovrebbe continuare, e lo continueremo. Il fine di questo articolo era solo quello di sottolineare il fallimento e la cialtroneria dei terzomondisti, la cui vera “passion predominante” non è affatto la cura umanitaria per i popoli degli “ultimi” o “dannati della terra”, come vorrebbero fare credere. A costoro essi non hanno apportato che danni enormi e irreparabili. La loro vera passione è un’avversione pregiudiziale per l’Occidente, vissuto come colpa collettiva di tutti i mali del mondo. Un’avversione che essi hanno ereditato dal marxismo e che è anche un paradossale e patologico odio di sé.


Menzogne e calunnie demenziali per demonizzare, criminalizzare e disumanizzare, per istigare alla paura, al disprezzo e all'odio etnico-ideologico-politico-religioso, al fine di depredare, schiavizzare e impedire il libero esercizio dei diritti umani, civili, economici e politici del prossimo.
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Il Politicamente corretto (PC): il peggiore crimine contro l'umanità
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La menzogna, l'inganno, l'illusione del Politicamente corretto e le sue violazioni dei diritti umani
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