Schiavi dell'Islam o del nazismo imperialista maomettano

Schiavi dell'Islam o del nazismo imperialista maomettano

Messaggioda Berto » ven mag 20, 2016 8:26 pm

Dagli eunuchi all'Isis: la schiavitù sotto l'islam
A Gorizia si discute di tratta e asservimento a partire dall'antichità. Con ampio spazio dedicato anche alle vicende della Mezzaluna
Matteo Sacchi - Ven, 20/05/2016

http://www.ilgiornale.it/news/spettacol ... 61263.html

La schiavitù attraversa come un fiume, di sangue e violenza, la storia dell'uomo. A volte è stata praticata in modo palese, come in gran parte della storia antica, a volte ha continuato a sopravvivere nonostante tutti i tentativi di renderla illegale, basti pensare oggi ai territori controllati dall'Isis o alla Mauritania.

E proprio la questione della schiavitù è quest'anno al centro del festival goriziano èStoria, giunto alla 12ª edizione.

Tra i vari interventi ce n'è uno dedicato proprio al perdurare della schiavitù in Mauritania, dove i vari tentativi di eliminarla sono culminati in una legge del 2007 che però ha avuto pochissimi effetti pratici. A rendere critica la situazione nel Paese è la stratificazione sociale, antica e solidissima, che vede i bidanes (letteralmente «i bianchi») detenere il potere, mentre gli haratin sono al fondo della piramide sociale. Non pensate a qualche retaggio di razzismo coloniale. I bidanes sono i discendenti di clan berberi e arabi che avevano occupato la Mauritania del nord a partire dalla fine del X secolo. Gli haratin sono i discendenti di gruppi di origine bantu che vivevano lungo il fiume Senegal, nel sud del Paese. Per secoli gli haratin sono stati considerati schiavi dei bidanes, al punto che venivano considerati parte dell'eredità che passava da una generazione all'altra. Persino oggi decine e decine di migliaia di haratin vivono in una situazione di totale asservimento, mentre la stragrande maggioranza degli altri haratin (circa 600mila, il 20% della popolazione) sopravvive in una situazione di asservimento parziale. Prima della citata legge del 2007 la schiavitù in Mauritania è stata abolita almeno tre volte nel secolo scorso (l'ultima nel 1981). Ma è servito a poco.

Su questo tema al festival intervengono oggi (alle 17 nella tenda Erodoto) Yacoub Diarra (attivista anti-schiavista ) e Gianmarco Pisa, coordinati da Giampaolo Cadalanu. Nel suo intervento Diarra spiegherà con chiarezza un fatto che noi occidentali tendiamo a dimenticare, e cioè che in alcune aree del mondo lo schiavismo non arretra di un passo: «Nel nostro Paese vige un sistema clientelare che favorisce gli arabo-berberi in tutti i settori dell'economia nazionale: dall'estrazione mineraria alla pesca, ai servizi. Più del 90% dei portuali e dei domestici è haratin, l'80% della popolazione analfabeta è haratin. Eppure, ancora nel 2013, solo 5 su 95 seggi dell'Assemblea Nazionale erano occupati da questo gruppo nazionale. I mori bianchi fanno profitto, i mori neri sono manodopera. Si calcola che, su 3,5 milioni di abitanti, siano almeno 700mila le persone costrette a vivere, del tutto o in parte, alle dipendenze di un padrone. Sono anche detti schiavi neri e affini alle etnie indigene (wolof, soninke, bambara, pular), che nell'insieme costituiscono la metà della popolazione mauritana». Ma gli haratin non sono gli unici schiavi contemporanei. Nell'incontro intitolato «L'esercito dei 3.241.000», in cui interverranno Frank Dikötter e Claude Chevaleyre (domenica pomeriggio alle 18 nella tenda Apih), si discuterà del fenomeno della schiavitù di fatto in certe zone della Cina e dei retaggi del maoismo.

Ma a destare attenzione è soprattutto il legame duraturo tra schiavitù e mondo islamico. Per lungo tempo il mercato degli schiavi africani fu controllato dai mercanti arabi, solo poi (e in parte) subentrarono gli europei. Gli storici stimano, per quanto sia difficile avere cifre precise, che 10-18 milioni di africani furono fatti schiavi dai mercanti di schiavi arabi e portati attraverso Mar Rosso, Oceano Indiano e deserto del Sahara tra il 650 e il 1900. A essi si deve aggiungere un numero enorme di africani uccisi durante le razzie o morti durante i trasferimenti. E questa tratta proseguì sino alle soglie del XX secolo.

Uno dei mercanti di schiavi più famosi del mondo arabo, Tipu Tip, morì nel 1905. E la tratta, con il ritorno di movimenti islamici radicali come il Califfato, è tornata a farsi vedere anche se molto più sottotraccia. Se ne discuterà domani alla Tenda Apih (Giardini pubblici corso Verdi, dalle 10 alle 12) nell'incontro «Essere schiavi nell'impero ottomano», a cui parteciperanno Ehud Toledano, Dror Zeevi, Vito Bianchi e Farian Sabahi . Paradossalmente, come spiegherà Toledano, direttore del programma di studi Ottomani e Turchi presso l'Università di Tel Aviv, la situazione attuale rispetto a quella dell'Impero Ottomano si configura come molto più feroce.

Nella più grande potenza islamica dell'età moderna era fortissima la presenza di schiavi rapiti nei Paesi cristiani o importati dall'Africa: ma esisteva almeno un sistema legale di tutela e in certi casi la possibilità di liberarsi, persino di folgoranti carriere (a patto di convertirsi). Basti pensare ai temuti giannizzeri, ad alcuni capi corsari di grande successo e addirittura a svariati gran visir. Oggi invece, secondo Toledano, «con la decisione di riportare in vita, ostentandola con orgoglio, l'efferata pratica della schiavitù si assiste al rigetto di un millennio di sforzi esegetici per adattare gli insegnamenti del Corano e della vita del Profeta all'evolversi della realtà sociale».
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Re: Łi s-ciavi de łi xlameghi, de łi arabi, de łi turki

Messaggioda Berto » mer mar 08, 2017 9:44 am

La Rivolta degli Schiavi Zanj (869-883): Parte 1 - ZHISTORICA

http://zweilawyer.com/2015/03/26/la-riv ... 83-parte-1

Questo articolo traduce, sintetizza ed integra un eccellente studio sulla Rivolta degli Schiavi Zanj pubblicato in tedesco dal Prof. Theodor Noldeke e tradotto in inglese da John Sutherland Black per il volume Sketches From Eastern History nel 1892.

Oltre a narrare le straordinarie (e sconosciute ai più) vicende della ribellione di schiavi neri (“Zanj” sta per “negro” in persiano. “Zanzibar” infatti si traduce come “Terra dei Negri”) più rilevante di sempre, il testo tocca, in via incidentale, degli argomenti che non mancheranno di suscitare la vostra curiosità: le correnti interne all’Islam, la presenza degli “Zutt”, ovvero degli zingari, nell’Iraq meridionale del IX secolo, l’intolleranza del Califfo Mutawakkil nei confronti degli altri culti, l’abbattimento dell’albero sacro degli Zoroastriani e molto altro.

Quando il Califfo Mutawakkil venne assassinato, per ordine di suo figlio, l’11 o il 12 Dicembre 861, la struttura dell’Impero Abbaside iniziò a collassare. Le truppe, sia quelle Turche che le altre, insorsero e deposero i Califfi; i generali, molti dei quali un tempo erano stati schiavi come quelli che ora comandavano, lottavano per un potere che spesso dipendeva dall’umore dell’esercito. Nelle province nacquero nuovi governatori che, nella maggior parte dei casi, pensavano non fosse necessario riconoscere il Califfo come loro signore, anche solo dal punto di vista formale. Nelle grandi città della regione del Tigri ci furono gravi tumulti popolari. La pace e la sicurezza erano garantite solo dove il governatore, in pratica indipendente, esercitava il potere in modo ferreo.
I DHIMMI SOTTO Al-MUTAWALKKIL

Al-Mutawakkil non ebbe mai grande apprezzamento per le altre fedi presenti nell’Impero. Nell’850 emanò un decreto che costringeva i Dhimmi (in maggioranza Ebrei e Cristiani) a vestire abiti che li distinguessero dai Musulmani. Inoltre i loro luoghi di culto furono distrutti e furono estromessi dalle cariche pubbliche.

Quelli cui andò peggio furono i Zoroastriani, poiché Mutawakkil ordinò di abbattere il loro albero sacro, il Cipresso di Kashmar, per utilizzarlo nella costruzione del suo nuovo palazzo. Per sua sfortuna, fu assassinato prima dell’arrivo dell’albero.

Questa situazione interna ci aiuta a comprendere come, un avventuriero intelligente e senza scrupoli possa essere stato in grado di creare, non lontano dal cuore dell’Impero, un dominio che per lungo tempo divenne il terrore delle regioni confinanti. Egli riuscì inoltre ad accaparrandosi il supporto delle classi più disprezzate della popolazione. Il suo regno si piegò solo dopo 14 anni di attacchi da parte del Califfato, che nel frattempo era riuscito a recuperare parte della sua antica forza.

Alì inb Muhammad, proveniente da un villaggio non lontano dall’odierna Teheran, si proclamò discendente di Alì ibn Abi Talib e di sua moglie Fatima, la figlia del Profeta. Visto che nel IX secolo i discendenti di Alì (non tutti persone di buona nomea) erano ormai migliaia, la sua affermazione poteva essere vera così come poteva essere una semplice invenzione.

A detta di alcune autorità la sua famiglia proveniva dal Bahrein, una regione dell’Arabia nord-orientale, ed apparteneva ad un ramo della tribù di Abdalkais, che risiedeva lì. Ad ogni modo, egli passò per essere un uomo di sangue Arabo.

Prima di rivelarsi al mondo, si narra che Alì rimase per qualche tempo, assieme ad altri avventurieri , in Bahrein, cercando di farsi un seguito lì. Questa notizia sembra essere confermata dal fatto che diversi dei suoi seguaci più importanti provenivano da quella regione.

Fra questi c’era lo schiavo liberato nero noto con il nome di Sulaiman, figlio di Jami, uno dei suoi generali più capaci. L’ambizioso Alì, sfruttando una situazione di prevalente anarchia, cercò di assicurarsi una base a Basra. Questa grande città commerciale, dopo Bagdad il luogo più importante delle province centrali, era in grave sofferenza a causa del conflitto tra due fazioni, con ogni probabilità rappresentate dagli abitanti di due differenti quartieri della città. Qui Alì non ebbe grande fortuna; alcuni dei suoi seguaci, e anche i membri della sua famiglia, furono imprigionati, una sorte che evitò fuggendo a Bagdad. Poco dopo però, in seguito a un cambio di governatore, a Basra ci furono nuovi scontri, le prigioni furono aperte, e Alì si recò nuovamente in loco.
african slaves iraq
studio monografico sulla rivolta degli Zanj (per chi fosse interessato ad approfondire ulteriormente)

Egli aveva già esaminato in modo accurato il terreno adatto ai suoi piani.

Conosciamo solo marginalmente il luogo degli accadimenti relativi all’ascesa di Alì. Sappiamo che, in quel tempo, l’Eufrate, si immetteva in una regione di laghi e acquitrini, connessi al mare da canali di marea.

La più importante di queste acque era vicino a Basra, che si trovava più a ovest rispetto alla moderna, e molto più piccola, città con lo stesso nome (Bussorah). Questo luogo e le sue vicinanze erano attraversati da moltissimi canali (si dice più di 120.000). Sempre in quel periodo, il ramo principale del Tigri era quello a sud, ora chiamato Shatt al Hai, su cui sorgeva la città di Wàsit.

C’erano quindi alcune differenze geografiche rispetto a oggi, anche perché allagamenti e argini rotti avevano trasformato molte terre fertili in paludi; mentre, all’opposto, il prosciugamento e la costruzione di argini ne avevano bonificato molte altre.

In linea di massima, quella che era una terra ridente era divenuta selvaggia a causa dell’espansione degli acquitrini e dal riempimento di limo e ostruzione dei canali di drenaggio. Erano cambiati anche i letti dei fiumi. In considerazione di quanto detto, possiamo seguire solo in modo vago i riferimenti topografici molto precisi dettagliati dalle fonti nel descrivere le campagne contro Alì ed i suoi uomini.

A poca distanza a est di Basra c’erano ampi piani, attraversati da fossi, in cui un gran numero di schiavi neri, la maggior parte provenienti dalla costa orientale africana, la terra degli Zanj, erano impiegati per scavare via la superficie nitrosa del suolo e mettere a nudo il fertile terreno sottostante. Al tempo stesso, questi venivano utilizzati anche per raccogliere il salnitro presente nello strato superiore del terreno.

Il lavoro degli schiavi era massacrante e la supervisione molto stretta. Il sentimento di affetto che, in Oriente, legava lo schiavo alla famiglia in cui viveva ed era cresciuto, era qui del tutto assente.

D’altro canto però, in simili masse di schiavi che lavorano insieme nasce facilmente una comunione di sentimenti, un comune senso di rabbia verso i padroni, e, sotto determinate condizioni favorevoli, la presa di coscienza della propria forza; queste, opportunamente combinate, sono le condizioni di un’insurrezione su larga scala. Avvenne questo durante le guerre combattute contro gli schiavi nell’ultimo secolo della Repubblica Romana, e la stessa cosa accadde qui.


I procacciatori di schiavi catturavano gli schiavi direttamente (specie le tribù nomadi), o tramite compravendite con i regni locali, come ad esempio quello del Ghana, l’Impero Gao o, in seguito, l’Impero del Mali. In questo caso, tutto quello che i musulmani dovevano fare era recarsi presso i vari mercati regionali (Gao, Aghordat, o altri locali) ed acquistare i prigionieri catturati nelle guerre interne.

Oltre a questo, i regni vassalli venivano spesso costretti a pagare un tributo in schiavi. Il primo fu istituito nel 652 a carico del regno di Nubia, e prevedeva l’invio di 360 schiavi l’anno (un numero che probabilmente fu aumentato nel tempo), oltre a elefanti e altri animali selvatici. Il regno di Nubia continuò a pagare ininterrottamente per circa cinquecento anni.

Musa bin Nusair, uno dei più grandi generali arabi di tutti i tempi, ridusse in schiavitù 300.000 Berberi infedeli, di cui 30.000 divennero schiavi-soldato. Successivamente, durante la campagna che lo portò a disintegrare il regno Visigoto (711–15), Musa riuscì a riportare in nord-Africa 30.000 vergini gote.

Alì comprese la forza latente di quegli schiavi neri. Il fatto che egli fu in grado di mettere in moto questa forza, e di svilupparla in una potenza che richiese molto tempo ed enormi sforzi per essere stroncata, dimostra che egli fu un uomo di grande acume. Il “capo degli Zenj”, “Alid” o il “falso Alid” gioca un ruolo molto importante negli annali dei suoi tempi, tanto che è facile comprendere perché la nostra fonte principale, Tabarì, preferisse chiamarlo “l’abominevole”, “il malvagio” o “il traditore”.

A Babilonia già una volta uno Arabo di talento e senza scrupoli aveva sfruttato un periodo di confusione istituzionale per far nascere un regno basato su pretesti religiosi con l’aiuto delle classi più disagiate. Lo scaltro Mokhtàr aveva fatto appello alla popolazione Persiana e ai mezzo-sangue Persiani delle grandi città, in particolare Cufa, cui i dominatori Arabi, in quei primi anni dell’Islam, guardavano con grande disprezzo (685-687). Ma Alì andò molto più a fondo, e rimase al potere molto di più di Mokhtàr.

Prima di rivelarsi apertamente, Alì aveva cercato fra gli strati più derelitti della popolazione (in particolare fra gli schiavi liberati) gli strumenti adeguati all’esecuzione dei suoi piani.

All’inizio del settembre 869 si recò presso il distretto del salnitro sotto le mentite spoglie dell’uomo d’affari di una ricca famiglia, e iniziò a provocare gli schiavi. Secondo le fonti, egli si rivelò definitivamente il 10 settembre 869.

Aizzò gli schiavi neri sottolineando quanto fossero infime le loro condizioni d vita e promise loro che, se lo avessero seguito, avrebbero ottenuto libertà, benessere e… schiavi. Avete capito bene, Alì non aveva alcun interesse a predicare la necessità l’uguaglianza universale o un generale benessere, ma cercava di convincere gli schiavi neri che dovevano essere loro a primeggiare.

Ovviamente, Alì non si fece problemi a mascherare il suo piano da questione religiosa. Davanti ai suoi seguaci, egli proclamava la restaurazione della vera giustizia e che nessuno, a parte loro, erano veri credenti o destinati a rivendicare i diritti terreni e divine del vero Musulmano.

In un tempo di superstizioni e feroce utilizzo delle posizioni religiose, Alì riuscì a fare presa sia sui sentimenti più nobili che su più bassi delle masse disagiate. Il suo fu un successo completo.

In pratica si fece passare per un messaggero divino, e ai neri sembrò effettivamente esserlo, ma che ne fosse davvero convinto è difficile a credersi. Da quello che sappiamo di lui, sembra che Alì fosse un freddo calcolatore, anche se in realtà conosciamo meglio le sue gesta militari che non la sua vera personalità.

Alì affermò dunque di essere un discendente di Alì, il genero di Maometto, e quindi ci si poteva aspettare che, come avevano fatto altri, iniziasse a sbandierare la natura divina della sua famiglia e fondasse una setta Sciita. Al contrario, egli si dichiarò a favore della dottrina dei nemici più decisi della legittimità di quella Sciita. Questi erano i Khargiti, i quali sostenevano che solo i primi due Califfi erano stati legittimi, mentre ripudiavano Othmàn e Alī ibn Abī Ṭālib, perché avevano fatto proprie idee secolari. Sostenevano anche che avrebbe dovuto regnare solo “l’uomo migliore”, anche se fosse stato uno “Schiavo Abissino”. Visto che si consideravano gli unici veri musulmani, non si facevano problemi a uccidere e schiavizzare i loro nemici musulmani e le loro famiglie.

Alì portava la scritta “Alì, figlio di Maometto” sul suo stendardo, ma gli schiavi non lo avrebbero seguito basandosi solo sulla sua presunta discendenza. Il passo decisivo fu proprio far credere loro di essere gli unici veri Musulmani e legittimi massacratori o padroni di tutti gli altri.

Nello scegliere la dottrina adatta ad infiammare gli animi degli Zanj, Alì, quasi sicuramente, tenne anche in considerazione la scarsa popolarità della dottrina sciita a Basra. E questa sua scelta ebbe una ripercussione rilevante, visto che probabilmente spiega il motivo per cui Qarmat, fondatore dei Carmati (setta ismaelita, a sua volte corrente sciita), non abbia mai voluto supportarlo.

Tornando ad Alì, bisogna notare che la conformazione territoriale (cui abbiamo accennato) favoriva il buon esito di una rivolta. Una quarantina di anni prima, nelle paludi fra Wàsit e Basra, si erano stabiliti degli Zingari (in arabo “Zutt”) le cui file si erano ingrossate grazie all’arrivo di emarginati e ribelli. Nonostante il Califfato fosse allora in pieno vigore, era stato difficile farli capitolare, quindi gli schiavi neri, più forti fisicamente (nell’articolo originale si legge “più coraggiosi”) e più numerosi, avevano buone possibilità di avere successo.
1000px-Zanj_Rebellion.svg
I luoghi della ribellione [immagine presa dalla pagina inglese di wikipedia]

Dell’inizio della rivolta degli Zanj abbiamo diverse testimonianze dirette. Un gruppo di schiavi dopo l’altro iniziò a seguire il nuovo messia, e il numero dei ribelli arrivò prima a cinquanta, poi a cinquecento e così via. La loro furia si abbatté sui loro guardiani, perlopiù essi stessi schiavi o schiavi liberati, ma Alì , dopo averli fatti pestare, scelse di risparmiare le loro vite.

I proprietari degli schiavi supplicarono Alì di riconsegnarglieli e gli offrirono cinque pezzi d’oro per ciascuno schiavo oltre all’amnistia per le sue azioni. Egli rifiutò sempre queste offerte e giurò ai suoi seguaci (infastiditi da questo tipo di negoziazioni) che non li avrebbe mai traditi.

L’etnia di africani più rappresentativa fra gli schiavi era quella degli Zanj, che in pratica non parlavano neanche arabo, tanto che Alì fu costretto ad usare un interprete per comunicare con loro. I Nubiani invece, e gli altri africani del nord, già parlavano arabo. Agli operai delle cave di salnitro si unirono anche schiavi fuggiti da città e villaggi e uomini bianchi, mentre invece ci fu poca adesione da parte del proletariato urbano. Di sicuro un buon incremento del potere dei rivoltosi fu dovuto all’ammutinamento di soldati neri del Califfato, specie dopo che le truppe di quest’ultimo venivano sconfitte da Alì. Ad esempio, proprio all’inizio della rivolta un contingente dell’esercito fu sconfitto dagli schiavi (quasi disarmati), e più di trecento soldati neri si unirono a loro.

Purtroppo non disponiamo di informazioni dettagliate sull’organizzazione interna dello stato di Alì, ma la storia delle sue battaglie e della sua resistenza al Califfato ci è nota, e l’affronteremo la settimana prossima, nella seconda parte dell’articolo.
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Re: Łi s-ciavi de łi xlameghi, de łi arabi, de łi turki

Messaggioda Berto » mar lug 18, 2017 9:34 pm

Kafala, la schiavitù del terzo millennio
Lug 17, 2017
CHIARA CLAUSI

http://www.occhidellaguerra.it/kafala-l ... -millennio

Una nuova forma di schiavitù moderna. E, in Medio Oriente, legalizzata. Si chiama kafala, la traduzione in arabo di fideiussione. Un istituto di diritto islamico che dovrebbe dare garanzie alle lavoratrici, soprattutto domestiche. Ma che si è trasformato in una forma di abuso con la complicità dello Stato. In Libano riguarda 250mila donne. Il 65% delle lavoratrici hanno avuto esperienza di lavoro forzato e schiavitù. Sono spesso violentate, messe incinte, abusate, picchiate, separate dai loro bambini, sfruttate, isolate, mal pagate e quando non servono più, rispedite nel Paese di origine da parte dei loro datori di lavoro. Tra gennaio 2016 e aprile 2017, 138 lavoratori migranti sono stati rimpatriati dopo la loro morte.

Oltre al Libano, la kafala è pratica comune in Bahrein, Iraq, Giordania, Kuwait, Oman, Arabia Saudita e Emirati. Il Libano è meta di tante lavoratrici provenienti soprattutto da Sri Lanka, Etiopia, Bangladesh e Filippine. Il sistema richiede che questi lavoratori dispongano di uno “sponsor” nazionale. Di solito “lo sponsor” è il loro datore di lavoro, che anticipa le spese per il permesso di lavoro ed è anche responsabile del visto e dello status giuridico. Ha quindi un enorme potere su di loro.

Questa pratica è stata criticata da molte organizzazioni per i diritti umani. I livelli salariali di questi lavoratori sono bassi, in alcuni casi meno di 200 dollari al mese. Un datore di lavoro libanese su cinque non fa uscire il lavoratore di casa. La motivazione è quella di salvaguardare l’investimento finanziario: per l’assunzione spende tra i 2mila e i 3mila dollari, che si potrebbero perdere qualora il lavoratore decidesse di scappare. La scusa è che il lavoratore domestico non dovrebbe avere relazioni al di fuori della casa, perché potrebbero avere l’effetto di distrarlo o di “corrompere” la famiglia.

Il funzionamento del sistema è semplice: le lavoratrici che vogliono emigrare per lavoro, entrano in contatto con degli agenti nel loro Paese. Questi hanno rapporti con agenzie nel paese dove le lavoratrici migreranno che procurano loro uno sponsor in cambio di un compenso. Oneroso. Le donne spesso si indebitano con la speranza di cambiare vita. E si ritrovano schiave.

Aisha, 20 anni, etiope, è arrivata da Adis Abeba. Si è salvata perché si rivolta alla ong “Immigration community center”. La incontriamo nelle sede di Mar Mitr, nel centro di Beirut, indossa una gonna corta nera e una t-shirt con su scritto “I love Paris”. Ma lei ha già sperimentato quanto gli uomini possano fare del male. Aisha ha lavorato per una famiglia di Beirut, ed è arrivata in Libano con grandi speranze.

“Sognavo una vita normale. Invece sono stata ingannata – racconta, con lo sguardo basso -. Mi trattavano peggio che una bestia. Lavoravo dalle 14 alle 16 ore al giorno. Non mi davano da mangiare. Non mi facevano dormire. Mi picchiavano, umiliavano. Non mi pagavano. Mi costringevano, quelle rare volte che mi era concesso, a dormire sul balcone. È stato un inferno”.

Lynn, invece, ha 40 anni, e viene dalle Filippine. Ha i cappelli ossigenati e le unghie delle mani colorate e disegnate. Un po’ come le donne libanesi. Ma lei è di Manila. È a Beirut da 20 anni. Era una ragazzina quando è arrivata. Scherzando dice che in questi anni però “è riuscita ad imparare l’arabo, perché “la madame” in casa voleva che si parlasse solo arabo”. “Prima di arrivare a Beirut ho vissuto qualche mese in Arabia Saudita, – racconta -, lì lavoravo in un ospedale, dopo mi hanno trasferito a Beirut, mi hanno detto che sarei rimasta qui solo 6 mesi, invece sono passati 20 anni”.

Racconta che in casa della famiglia per cui ancora oggi lavora “tutto è controllato con telecamere e registratori. In casa faccio di tutto, mi occupo di tutte le persone della famiglia. Nel week-end ci spostiamo in montagna. Lì nel giardino coltivano anche delle piante di marjuana per lo spaccio. Ma io non posso dirlo. Devo sottostare e subire. Lavorare per loro è peggio che lavorare per la mafia”.

La situazione è comune a centinaia di lavoratrici tanto che istituzioni e ong sono sempre più impegnate nel cercare di frenare sfruttamento e violenza. In prima fila ci sono l’Unione europea, la Caritas Libano, l’Ilo, l’ong Kafa (Basta) e il Migrant Community Center. Ghada Jabbour, direttrice di Kafa, ha raccontato che spesso queste lavoratrici sono in “trappola”, subiscono “violenze fisiche e sessuali, vengono isolate, non mangiano, lavorano nelle case di tutti i componenti della famiglia, non sono retribuite per il loro lavoro”.

Per Zeina Mezher, national project coordinator dell’Ilo è proprio lavoro forzato: “Sono costrette a lavorare per una determinata persona, sono rinchiuse in casa, non hanno una vita sociale, non possono trovarsi un altro lavoro. L’Ilo si sta adoperando perché il governo libanese firmi un protocollo che condanni il lavoro forzato nel nostro paese”.

Ma non c’è tempo da perdere perché si stanno moltiplicando i casi di suicidio. Lo conferma Farah Salka, direttrice del Migrant Community Center: “Molte tentano di scappare e muoiono saltando nel vuoto. Un mese fa una lavoratrice etiope si è buttata dal balcone della sua agenzia di collocamento, ed è morta”. All’inizio di giugno, un’altra etiope è stata trovata morta nella città di Blida, nel sud del Libano, appesa ad un ramo di un albero, vicino alla casa dei suoi datori di lavoro, con una piccola sedia accanto a lei. E chi invece riesce a scappare il più delle volte viene arrestato. Solo ad aprile sono stati 337.
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Re: Łi s-ciavi de łi xlameghi, de łi arabi, de łi turki

Messaggioda Berto » mar dic 19, 2017 7:58 pm

Il genocidio nascosto – Italia Israele Today
16 dicembre 2017
Gerardo Verolino

http://www.italiaisraeletoday.it/il-genocidio-nascosto

Per tutti quelli che “giustificano” o hanno umana compassione (sic) per i terroristi dell’Isis perché, poveretti, risarcirebbero i torti storici subiti dai loro antenati africani per mano degli empi conquistatori europei, sappiate che c’è stato nella storia qualcosa di molto peggio, e assai più cruento, del colonialismo occidentale. Ed è stato quello perpetrato dagli arabi musulmani (in genere i nordafricani) nei confronti dei neri subsahariani e che è durato ben oltre i quattrocento anni di dominazione europea cominciando nel VII secolo dopo Cristo, protrattasi per oltre tredici, e perdurando, in verità, ancora oggi.

A squarciare il muro del silenzio su uno dei più grandi genocidi della storia che ha visto l’eliminazione fisica di 17 milioni di neri, dopo indicibili torture, sopraffazioni, umiliazioni e sofferenze (i maschi venivano regolarmente evirati, le donne riempivano gli harem) sono stati la pubblicazione di alcuni encomiabili libri. Niente in rapporto alla sterminata pubblicistica sulla tratta dei neri verso le Americhe.

Fra gli altri quello di uno scrittore franco-senegalese Tidiane N’Daye che, in un volume del 1988, “Le génocide voilé” (“Il genocidio nascosto”) racconta di come “i popoli arabi hanno fatto razzie, castrato e ridotto in schiavitù le popolazioni nere senza interruzione per 13 secoli- e aggiungendo che, ancora oggi “in pieno XXI secolo continuano a martirizzare i negri del Maghreb e a sottoporre le donne nere a schiavitù in Medio-Oriente”.

O anche John Azumah, uno studioso di origini ghanesi, che in “The legacy of Arab-Islam in Africa” ricorda che lo schiavismo arabo è una storia fatta di abusi, violenze inenarrabili e conversioni forzate per rispettare il libro sacro dell’Islam. “Il Maafa, l’olocausto africano non è finito- scrive Antonella Sinopoli una giornalista-blogger-perchè non è generato da motivi economico-commerciali. Ma dall’odio, dal disprezzo, dalla convinzione profonda dell’inferiorità degli africani neri” secondo il precetto islamista.

La parola “Abd” in arabo vuol dire schiavo. Declinato al plurale “Abeed” vuol dire neri. Per l’arabo musulmano il nero e lo schiavo sono la stessa cosa.

Nel libro di uno dei più noti storici inglesi dell’Islam, Bernard Lewis,”Razza e colore nell’Islam” che smonta tutte le leggende sull’assenza di discriminazioni razziali nell’islamismo si racconta di come venivano considerati i neri dagli schiavisti arabi. Un autore musulmano, nel nono secolo dopo Cristo, ad esempio, Jahiz, osserva che i neonati neri dell’Iraq “vengono alla luce come qualcosa di intermedio tra il nero e il melmoso, maleodoranti, puzzolenti, con i capelli crespi, le membra difettose, la mente deficiente e passioni depravate”.

Un altro autore, Maqdisi, afferma che “non esiste fra loro il matrimonio, il bambino non conosce il padre e si cibano di carne umana”. E ancora: “La loro natura è quella degli animali selvatici”. Il grande geografo Idrisi ricordando che i neri hanno piedi rugosi e sudore fetido aggiunge che differiscono dagli animali “solo perchè le due mani sono sollevate dal terreno”.

Mentre “la scimmia antropoide ha più capacità di apprendimento di loro”. Per ben millequattrocento anni, gli arabi musulmani, soprattutto dell’Africa del Nord, egiziani e persiani in testa, hanno ridotto in catene quelli al Sud del Nilo quando questi ultimi non sono periti lungo i mille km di marcia a piedi, senza acqua nè cibo, in condizioni atmosferiche proibitive. “Marciano tutto il giorno.

Di notte quando si fermano per dormire-scrive Henry Drummond-gli vengono distribuite poche manciate di sorgo”. Dopo sessanta giorni di marcia neanche meno della metà giunge viva a destinazione. Quando un viaggiatore perde la strada dell’Africa equatoriale, si dice, ad indicarla saranno le migliaia di scheletri dei negri che la pavimentano (mentre nelle vituperate tratte coloniali ordite dagli occidentali verso l’America muore meno del dieci per cento di schiavi). Ma chi sopravvive alle traversate spesso perde la vita a causa, come detto, delle castrazioni. Questa orribile pratica viene usata per garantire la virilità dell’arabo sul nero descritto come in preda a irrefrenabili appetiti sessuali e per soddisfare la pressante richiesta di eunuchi a guardia dell’harem. Quasi nessuno fra i bambini neri sopravviverà alla terribile mutilazione.

Gli storici calcolano che dal VII al XX secolo i neri schiavizzati dagli arabi sono stati circa 17 milioni. A cui vanno aggiunti quelli morti durante il tragitto e si arriva a 75 milioni. Più i trucidati durante le spedizioni e si supera i 100 milioni di morti nel volgere di tredici, quattordici secoli.

Per questo motivo, e per l’annullamento della propria sessualità, non hanno lasciato orme della loro millenaria permanenza nei luoghi della deportazione; mentre i discendenti degli schiavi traghettati in America, oggi circa 70 milioni, si sono sedimentati in quei Paesi, integrandosi, emancipandosi e lasciando tracce significative nelle arti, nello sport, nello spettacolo e persino nella politica se uno di loro è riuscito a diventare Presidente degli Stati Uniti, lo Stato considerato da tutti i suoi nemici come la culla del capitalismo e quindi degli “sfruttatori”.
LONG ISLAND, NY - MAY 17: Cassius Clay, 20 year old heavyweight contender from Louisville, Kentucky poses for the camera on May 17, 1962 in Long Island, New York. (Photo by Stanley Weston/Getty Images)

Quando Cassius Clay, il celebre pugile, cambia il suo nome in Mohamed Alì, in onore del profeta Maometto, probabilmente, ignora, come altri milioni di suoi concittadini, cosa abbia rappresentato l’Islam per il suo popolo: morte, tortura, sopraffazione e perdita dell’identità civile, culturale e religiosa. Quella che lui, col suo provocatorio gesto, ha pensato di rivendicare. Ed invece ha, involontariamente, infangato.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Łi s-ciavi de łi xlameghi, de łi arabi, de łi turki

Messaggioda Berto » ven dic 21, 2018 8:14 am

1801, la prima guerra al terrorismo islamico degli Stati Uniti
8 Gennaio 2017e 4 Febbraio 2018
Islamicamentando

https://www.islamicamentando.org/prima- ... 93HEzcjqGk

La prima guerra barbaresca, nota anche come guerra tripoliana o the Barbary Coast War, combattuta tra il 1801 e il 1805, fu la prima delle due guerre combattute tra Stati Uniti e gli Stati musulmani della costa nord-ovest africana, conosciuti come stati barbareschi. Queste erano le province ottomane di Tripoli, Algeri e Tunisi, che godevano di una grande autonomia, come pure il sultanato indipendente del Marocco.

La guerra ebbe inizio quando il neo-presidente Thomas Jefferson si rifiutò di pagare gli alti tributi imposti agli Stati Uniti e per le continue azioni di pirateria, durante le quali le imbarcazioni statunitensi venivano saccheggiate e gli equipaggi schiavizzati nel tentativo di ottenere un riscatto.

Questa fu la prima guerra che gli Stati Uniti hanno combattuto su mari e territori stranieri.

I pirati islamici hanno rappresentato un flagello nel mediterraneo per più di mille anni. Secondo Robert Davis, soltanto tra XVI° e il XIX° secolo tra 1 e 1,25 milioni di europei sono stati catturati dai pirati musulmani e venduti come schiavi. 1

Nel 1786, Jefferson e l’allora presidente John Adams incontrarono l’ambasciatore di Tripoli in Gran Bretagna. Chiesero a questo diplomatico con quale diritto la sua nazione attaccattaccava le navi americane e ridottuceva in schiavitù i cittadini, e perché questo musulmano mostrava così tanta ostilità verso la loro giovane nazione (gli Stati Uniti), con cui né Tripoli né qualsiasi altra nazioni musulmana aveva avuto alcun contatto precedente.

La risposta dell’ambasciatore Sidi Haji Abdul Rahman Adja fu molto significativa e venne riferita in questi termini:

“E’ stato scritto nel loro Corano, che tutte le nazioni che non avevano riconosciuto il Profeta erano peccatrici, ed il loro diritto e dovere di fedeli [musulmani] era che ovunque venissero trovati, dovevano renderli schiavi e prenderli come prigionieri e che ogni musulmano che veniva ucciso in battaglia erano sicuri che sarebbe andato in Paradiso. Ha detto anche che il primo uomo che saliva a bordo di una nave oltre che alla sua parte di bottino aveva diritto anche ad uno schiavo, e che quando saltano sul ponte della nave di un nemico, ogni marinaio tiene un pugnale in ogni mano e un terzo in bocca” 2


Pirati barbareschi

Eppure, nonostante le riluttanze di Jefferson, il presidente John Adams ritenne opportuno continuare a cedere al ricatto dei terroristi islamici, per il timore che la marina militare degli Stati Uniti non fosse ancora abbastanza forte per affrontarli, per cui il tributo venne pagato per altri 15 anni.

Poco prima dell’elezione di Jefferson nel 1801, il Congresso americano approvò una legge navale che, tra le altre cose, prevedeva sei fregate che dovevano rimanere a disposizione per “proteggere il nostro commercio e castigare la loro insolenza affondando, buciando e distruggendo le loro navi” qualora ce ne fosse stato il bisogno.

Quando Jefferson divenne il nuovo presidente degli Stati Uniti, il Pascià di Tripoli inviò una richiesta per il nuovo leader americano, per il pagamento immediato di 225.000$ e 25.000$ all’anno su base continuativa. Jefferson rifiutò categoricamente, il che condusse il Pascià a tagliare l’asta della bandiera del Consolato americano e dichiarare guerra agli Stati Uniti. Il resto degli Stati islamici lo seguirono.

Jefferson cercò ugualmente di mantenere la pace con gli stati islamici, tuttavia niente servì per cambiare la decisione del Pascià. Una reazione armata fu quindi inevitabile.


Il capitano William Bainbridge rende omaggio al capo di Algeri, 1800

Vista la potente reazione degli Stati Uniti, Algeri e Tunisi abbandonarono rapidamente la fedeltà a Tripoli.


Il Philadelphia incagliata al largo di Tripoli, ottobre 1803

Il vero punto di svolta nella guerra fu la battaglia di Derna (aprile-maggio 1805), quando il Corpo dei Marines, insieme a cinquecento mercenarie greci, arabi e berberi, marciarono attraverso il deserto da Alessandria, in Egitto, per conquistare la città tripolitana di Derna. Questa fu la prima volta che la bandiera degli Stati Uniti è stata fissata su una terra straniera in segno di vittoria. L’azione viene tutt’oggi ricordata in una frase dell’Inno dei Marines: “the shores of Tripoli” (“Dalle sale di Montezuma, alle spiagge di Tripoli, combattiam le patrie guerre”). La cattura della città spinse i nemici ad accettare i negoziati per garantire il ritorno degli ostaggi e la fine della guerra.


Il tenente Presley O’Bannon a Derna, aprile 1805

Il 10 giugno 1805 Tripolì firmò un trattato di cessazione delle ostilità. All’articolo 2 del trattato si legge:

Il Pascià di Tripoli, quando lo squadrone americano sarà ormai fuori da Tripoli, rilascia tutti gli americani in suo possesso; e tutti gli ostaggi della in possesso degli Stati Uniti d’America saranno consegnati a lui; il numero di americani in possesso del Pascià di Tripoli ammonta a circa trecento persone; il numero di ostaggia in mano agli americani a circa è di circa un centinaio; il Pascià di Tripoli riceverà dagli Stati Uniti d’America, la somma di sessanta mila dollari, come un pagamento per la differenza tra i prigionieri ivi menzionati. 4

Tuttavia, il problema della pirateria islamica non fu risoltao definitivamente. Due anni dopo, nel 1807, Algeri tornò ad impossessarsi delle navi americane sequestrando gli equipaggi. Occupati nella guerra anglo-americana del 1812, gli Stati Uniti non furono in grado di rispondere fino al 1815, con la seconda guerra Berbaresca, la cui vittoria portò ai trattati che terminano tutte le estorsioni nei confronti degli Stati Uniti. 5

________________

Christian Slaves, Muslim Masters: White Slavery in the Mediterranean, the Barbary Coast and Italy, 1500–1800
“American Peace Commissioners to John Jay,” March 28, 1786, “Thomas Jefferson Papers,” Series 1. General Correspondence. 1651–1827, Library of Congress. LoC: March 28, 1786 (handwritten). Philip Gengembre Hubert (1872). Making of America Project. The Atlantic Monthly, Atlantic Monthly Co. p. 413. (some sources confirm this wording, other sources report this quotation with slight differences in wording.)
Woods, Thomas (7 July 2005) Presidential War Powers. LewRockwell.com
“Treaty of Peace and Amity, Signed at Tripoli June 4, 1805” .
Gerard W. Gawalt, America and the Barbary Pirates: An International Battle Against an Unconventional Foe , US Library of Congress .
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Re: Łi s-ciavi de łi xlameghi, de łi arabi, de łi turki

Messaggioda Berto » mer mar 06, 2019 10:32 pm

Islam in Africa: la verità storica sul ruolo svolto dalla colonizzazione e della schiavitù arabo-islamica
https://www.youtube.com/watch?v=_aGEYrGPYb8
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Re: Schiavi dell'Islam o del nazismo imperialista maomettano

Messaggioda Berto » lun dic 14, 2020 6:24 am

LA REALTÀ DEI LAVORATORI IN ARABIA SAUDITA È MOLTO VICINA ALLA SCHIAVITÙ. COL PASSAPORTO TRATTENUTO DALLO “SPONSOR” LA LIBERTÀ DI USCIRE ED ENTRARE NEL PAESE DIPENDE DALLA DISPONIBILITÀ DEL DATORE DI LAVORO. QUESTA SITUAZIONE STA PER CAMBIARE PER ALCUNE CATEGORIE DI LAVORATORI.

https://www.facebook.com/groups/3168285 ... 8476177945

L’ARTICOLO NON MENZIONA LA DISPARITÀ DI TRATTAMENTO A SECONDA DELLA NAZIONALITÀ DEL LAVORATORE E DELLA SUA APPARTENENZA RELIGIOSA, CHE È OBBLIGATO A DICHIARARE ALL’INGRESSO DEL PAESE. LA SITUAZIONE È ANCOR PIÙ DRAMMATICA PER LE CAMERIERE, PROVENIENTI DA PAESI COME LE FILIPINE, CHE VENGONO PERQUISITE A FINE TURNO DI LAVORO E ABUSATE IN VARI MODI. IO STESSA HO ASCOLTATO I RACCONTI DI ALCUNE DI LORO.
TRATTO DALL’ARTICOLO:

Saudi 'kafala' labor reforms leave devil in the detail

https://www.dw.com/en/saudi-kafala-labo ... a-55511689

Quasi un terzo dei 34 milioni di persone dell'Arabia Saudita sono lavoratori migranti il cui status legale nel paese è controllato dal loro datore di lavoro, rendendoli esposti ad abusi e sfruttamento. La "kafala" del regno, o sistema di sponsorizzazione, è il più restrittivo del Golfo, un traffico di manodopera che equivale alla moderna schiavitù, secondo le organizzazioni del lavoro e dei diritti.
Ma questa settimana i funzionari hanno annunciato le riforme che vedrebbero circa 7 milioni di lavoratori a basso reddito autorizzati a lasciare il paese o cambiare sponsor, senza chiedere il permesso del loro capo, da implementare nel marzo 2021. Questa notizia è stata accolta con cauto ottimismo.
Latif, un informatico arrivato in Arabia Saudita dal Pakistan sette anni fa, si è detto felice che le autorità stiano cercando di apportare modifiche.
"Questo è stato richiesto da molto tempo", ha detto. "Ora stanno allentando alcune regole, sarà sicuramente d'aiuto."
Altri, tuttavia, sono confusi o pessimisti poiché i dettagli chiave rimangono imprecisi. Anche circa 3,7 milioni di persone più vulnerabili, inclusi lavoratori domestici, autisti, agricoltori, giardinieri e guardie, sono stati esclusi dalle riforme.
"Sono quelli che hanno maggiori probabilità di essere soggetti a situazioni di lavoro forzato", ha detto Rothna Begum, ricercatore di Human Rights Watch (HRW). "Abbiamo documentato situazioni di lavoratori domestici che sono stati confinati nelle case dei loro datori di lavoro, i loro passaporti confiscati, costretti a lavorare per ore eccessive senza riposo o giorni di riposo, e sono stati oggetto di forme molto specifiche di abuso fisico e sessuale."
In tanti hanno molti dubbi sul fatto che si tratti di un passo significativo verso la fine del sistema, come hanno propagandato i media locali e regionali, ma che sia semplicemente una mossa di propaganda mentre Riyadh si prepara ad ospitare il G20 alla fine di questo mese.
I lavoratori oggetto delle riforme sono i lavoratori edili, al dettaglio o informatici. Essi non avranno bisogno di chiedere il permesso al loro capo per lasciare o rientrare nel paese, visto come uno degli elementi più abusivi del sistema. Ma devono comunque fare una richiesta alle autorità, che possono negare l'uscita se eventuali debiti o multe sono in sospeso.
Questi lavoratori potranno anche trasferire la sponsorizzazione alla scadenza del loro contratto senza bisogno del consenso del loro sponsor esistente, a condizione che diano preavviso e vengano rispettate "misure specifiche", che devono ancora essere definite. Anche altri dettagli come la durata del periodo di preavviso non sono chiari, tuttavia i media locali hanno riferito che i lavoratori devono completare un anno di lavoro per poter ottenere un trasferimento.
"Questa è appena una riforma, poiché il problema principale è che i lavoratori sono intrappolati con il loro datore di lavoro e possono subire abusi durante il loro periodo contrattuale", ha detto Rothna Begum.
Molti commenti nei gruppi di espatriati sui social media hanno anche mostrato scetticismo sul fatto che le riforme avrebbero rappresentato un vero cambiamento.
Ciò è probabilmente alimentato dall'esperienza con altre misure annunciate negli ultimi anni, come un sistema per garantire che i lavoratori ricevano effettivamente il salario dovuto e la possibilità di "soluzione amichevole" per le controversie di lavoro. Secondo l'ente di monitoraggio Migrant-Rights.org, tali riforme non hanno avuto successo a causa della mancanza di attuazione e applicazione.
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Schiavi dell'Islam o del nazismo imperialista maomettano

Messaggioda Berto » sab ott 09, 2021 7:45 am

Il genocidio nascosto
16 dicembre 2017
Gerardo Verolino

http://www.italiaisraeletoday.it/il-genocidio-nascosto

Per tutti quelli che “giustificano” o hanno umana compassione (sic) per i terroristi dell’Isis perché, poveretti, risarcirebbero i torti storici subiti dai loro antenati africani per mano degli empi conquistatori europei, sappiate che c’è stato nella storia qualcosa di molto peggio, e assai più cruento, del colonialismo occidentale. Ed è stato quello perpetrato dagli arabi musulmani (in genere i nordafricani) nei confronti dei neri subsahariani e che è durato ben oltre i quattrocento anni di dominazione europea cominciando nel VII secolo dopo Cristo, protrattasi per oltre tredici, e perdurando, in verità, ancora oggi.

A squarciare il muro del silenzio su uno dei più grandi genocidi della storia che ha visto l’eliminazione fisica di 17 milioni di neri, dopo indicibili torture, sopraffazioni, umiliazioni e sofferenze (i maschi venivano regolarmente evirati, le donne riempivano gli harem) sono stati la pubblicazione di alcuni encomiabili libri. Niente in rapporto alla sterminata pubblicistica sulla tratta dei neri verso le Americhe.

Fra gli altri quello di uno scrittore franco-senegalese Tidiane N’Daye che, in un volume del 1988, “Le génocide voilé” (“Il genocidio nascosto”) racconta di come “i popoli arabi hanno fatto razzie, castrato e ridotto in schiavitù le popolazioni nere senza interruzione per 13 secoli- e aggiungendo che, ancora oggi “in pieno XXI secolo continuano a martirizzare i negri del Maghreb e a sottoporre le donne nere a schiavitù in Medio-Oriente”.

O anche John Azumah, uno studioso di origini ghanesi, che in “The legacy of Arab-Islam in Africa” ricorda che lo schiavismo arabo è una storia fatta di abusi, violenze inenarrabili e conversioni forzate per rispettare il libro sacro dell’Islam. “Il Maafa, l’olocausto africano non è finito- scrive Antonella Sinopoli una giornalista-blogger-perchè non è generato da motivi economico-commerciali. Ma dall’odio, dal disprezzo, dalla convinzione profonda dell’inferiorità degli africani neri” secondo il precetto islamista.

La parola “Abd” in arabo vuol dire schiavo. Declinato al plurale “Abeed” vuol dire neri. Per l’arabo musulmano il nero e lo schiavo sono la stessa cosa.

Nel libro di uno dei più noti storici inglesi dell’Islam, Bernard Lewis,”Razza e colore nell’Islam” che smonta tutte le leggende sull’assenza di discriminazioni razziali nell’islamismo si racconta di come venivano considerati i neri dagli schiavisti arabi. Un autore musulmano, nel nono secolo dopo Cristo, ad esempio, Jahiz, osserva che i neonati neri dell’Iraq “vengono alla luce come qualcosa di intermedio tra il nero e il melmoso, maleodoranti, puzzolenti, con i capelli crespi, le membra difettose, la mente deficiente e passioni depravate”.

Un altro autore, Maqdisi, afferma che “non esiste fra loro il matrimonio, il bambino non conosce il padre e si cibano di carne umana”. E ancora: “La loro natura è quella degli animali selvatici”. Il grande geografo Idrisi ricordando che i neri hanno piedi rugosi e sudore fetido aggiunge che differiscono dagli animali “solo perchè le due mani sono sollevate dal terreno”.

Mentre “la scimmia antropoide ha più capacità di apprendimento di loro”. Per ben millequattrocento anni, gli arabi musulmani, soprattutto dell’Africa del Nord, egiziani e persiani in testa, hanno ridotto in catene quelli al Sud del Nilo quando questi ultimi non sono periti lungo i mille km di marcia a piedi, senza acqua nè cibo, in condizioni atmosferiche proibitive. “Marciano tutto il giorno.

Di notte quando si fermano per dormire-scrive Henry Drummond-gli vengono distribuite poche manciate di sorgo”. Dopo sessanta giorni di marcia neanche meno della metà giunge viva a destinazione. Quando un viaggiatore perde la strada dell’Africa equatoriale, si dice, ad indicarla saranno le migliaia di scheletri dei negri che la pavimentano (mentre nelle vituperate tratte coloniali ordite dagli occidentali verso l’America muore meno del dieci per cento di schiavi). Ma chi sopravvive alle traversate spesso perde la vita a causa, come detto, delle castrazioni. Questa orribile pratica viene usata per garantire la virilità dell’arabo sul nero descritto come in preda a irrefrenabili appetiti sessuali e per soddisfare la pressante richiesta di eunuchi a guardia dell’harem. Quasi nessuno fra i bambini neri sopravviverà alla terribile mutilazione.

Gli storici calcolano che dal VII al XX secolo i neri schiavizzati dagli arabi sono stati circa 17 milioni. A cui vanno aggiunti quelli morti durante il tragitto e si arriva a 75 milioni. Più i trucidati durante le spedizioni e si supera i 100 milioni di morti nel volgere di tredici, quattordici secoli.

Per questo motivo, e per l’annullamento della propria sessualità, non hanno lasciato orme della loro millenaria permanenza nei luoghi della deportazione; mentre i discendenti degli schiavi traghettati in America, oggi circa 70 milioni, si sono sedimentati in quei Paesi, integrandosi, emancipandosi e lasciando tracce significative nelle arti, nello sport, nello spettacolo e persino nella politica se uno di loro è riuscito a diventare Presidente degli Stati Uniti, lo Stato considerato da tutti i suoi nemici come la culla del capitalismo e quindi degli “sfruttatori”.
LONG ISLAND, NY - MAY 17: Cassius Clay, 20 year old heavyweight contender from Louisville, Kentucky poses for the camera on May 17, 1962 in Long Island, New York. (Photo by Stanley Weston/Getty Images)

Quando Cassius Clay, il celebre pugile, cambia il suo nome in Mohamed Alì, in onore del profeta Maometto, probabilmente, ignora, come altri milioni di suoi concittadini, cosa abbia rappresentato l’Islam per il suo popolo: morte, tortura, sopraffazione e perdita dell’identità civile, culturale e religiosa. Quella che lui, col suo provocatorio gesto, ha pensato di rivendicare. Ed invece ha, involontariamente, infangato.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Schiavi dell'Islam o del nazismo imperialista maomettano

Messaggioda Berto » sab ott 09, 2021 7:45 am

Nobel a Gurnah contro il colonialismo. Quello europeo, non quello arabo
Anna Bono
9 ottobre 2021

https://lanuovabq.it/it/nobel-a-gurnah- ... k.facebook

Il premio Nobel per la letteratura è stato conferito allo scrittore tanzaniano Abdulrazak Gurnah. Nelle motivazioni c'è la sua "intransigente e compassionevole analisi" degli effetti del colonialismo. Di quale colonialismo si parla? Di quello europeo. Eppure il colonialismo arabo a Zanzibar, in 13 secoli, deportò 12 milioni di schiavi.

Mercato degli schiavi a Zanzibar

Il premio Nobel 2021 per la letteratura è stato conferito allo scrittore tanzaniano Abdulrazak Gurnah, residente dal 1967 in Gran Bretagna dove ha insegnato inglese e letterature post coloniali presso l’università del Kent fino alla pensione. Gurnah è autore di dieci romanzi e di diversi racconti e saggi. I suoi personaggi, spiega la fondazione Nobel “si trovano in uno iato tra culture e continenti, tra una vita che era e una vita emergente” con il merito di “rifuggire dalle descrizioni stereotipate” e di “aprire il nostro sguardo su un’Africa orientale culturalmente diversificata, sconosciuta a molti in altre parti del mondo”.

La fondazione Nobel ha ragione. Le coste e le isole dell’Africa orientale sono state nei secoli uno straordinario luogo di incontro di etnie, culture e religioni. In quelle del Kenya e del Tanzania è nata e si è sviluppata la società swahili, urbana, una delle poche realtà africane proiettate verso l’esterno, con regolari rapporti commerciali lungo l’Oceano Indiano, fino in Cina, già a partire dall’VIII Secolo, con una lingua antica come quella italiana. Che sia un “melting pot”, un crogiuolo di culture ed etnie, come sostengono alcuni antropologi è opinabile. L’evidenza, lì come in altri contesti, è piuttosto di una supremazia della componente più forte: in questo caso, imposta dalla popolazione arabo-islamica – i Waswahili – e subita dalle tribù bantu originarie e da ogni altra componente via via aggiuntasi, almeno finché la regione non è stata colonizzata da Gran Bretagna e Germania alla fine del XIX Secolo.

Abdulrazak Gurnah è nato nel 1948 a Zanzibar, l’isola da cui per secoli gli arabi, la cui colonizzazione del continente africano è iniziata subito dopo la morte di Maometto nel 632, hanno controllato le coste africane e gestito il commercio sia con l’interno del continente sia con i Paesi asiatici. Gli schiavi erano una delle merci: uomini, donne e bambini comprati o catturati, più di dodici milioni di persone nell’arco di 13 secoli. La tratta degli schiavi è stata proibita sulla costa swahili dalla Gran Bretagna all’inizio del XX Secolo, ma il risentimento, il desiderio di rivalsa delle popolazioni bantù è rimasto vivo. Non si spiega diversamente la feroce rivolta delle popolazioni bantu di Zanzibar che nel 1964, istigate da due partiti di ispirazione comunista (Che Guevara all’epoca si stava illudendo di fare dell’Africa il centro da cui iniziare la rivoluzione comunista mondiale), hanno ucciso da 5mila a 12mila Waswahili su un totale di 22mila. Abdulrazak Gurnah e i suoi famigliari sono tra i sopravvissuti che hanno lasciato l’isola non appena hanno potuto, finendo per ottenere asilo in Gran Bretagna.

Il protagonista di Paradise, il romanzo che lo ha fatto conoscere al grande pubblico anglofono nel 1994, è un ragazzino venduto dal padre per pagare un debito. Descrive una situazione comune un tempo. Di solito erano le famiglie bantu dell’entroterra swahili a vendere i figli, preferibilmente le femmine, in caso di necessità. Oppure, durante una carestia, scambiavano un figlio con del mais che ai Waswahili della costa non mancava mai. Forse è questo mondo che Gurnah racconta nei suoi libri, insieme alla sua personale esperienza di profugo. La fondazione del Nobel ha deciso di conferirgli il premio “per la sua intransigente e compassionevole analisi degli effetti del colonialismo e del destino del rifugiato nel divario tra culture e continenti”.

Ma quando, riferendosi all’Africa, si dice “colonialismo”, senza specificare, si intende sempre unicamente il colonialismo europeo, non altri, di cui si dimentica o si rifiuta di ammettere l’esistenza. Forse quindi alla fondazione Nobel, di Gurnah, è piaciuto che nei suoi libri descriva i traumi culturali e sociali prodotti dall’impatto con la società occidentale, non quelli patiti a causa della colonizzazione arabo-islamica che pure tante sofferenze ha inflitto e continua a infliggere in Africa, dove l’intolleranza islamica, combinata con il tribalismo, fa vittime e danni anche quando non assume i caratteri estremi del jihad.

Quanto ai rifugiati e al loro destino, l’ammirazione per l’analisi “intransigente e compassionevole” contenuta nei libri di Gurnah sarebbe condivisibile se non fosse che, come ormai fanno in tanti, lui confonde rifugiati ed emigranti illegali. “L’Europa dovrebbe accogliere gli emigranti con compassione invece che fermarli con il filo spinato – ha detto all’agenzia di stampa Reuters che lo ha intervistato il giorno in cui ha vinto il Nobel – e attualmente il governo britannico si comporta in modo davvero molto brutto con i richiedenti asilo e con chi chiede di entrare nel paese”. Non è che Gurnah non capisca la differenza. Come tutti i sostenitori dei “porti aperti”, delle frontiere aperte la conosce e semplicemente non la accetta. “Sembra così sorprendente al governo britannico – dice – che della gente che arriva da luoghi difficili voglia venire in un paese ricco? Perché si meraviglia tanto? Chi non vorrebbe venire in un paese più prospero? C’è della cattiveria nella sua risposta”.

E, seduto nel suo giardino di Canterbury, all’ombra di un acero – così lo descrive Reuters – parla in toni lirici dell’esperienza di emigrare, di lasciarsi alle spalle la famiglia e una parte della propria vita per vivere in una nuova società in cui si sentirà sempre in parte un estraneo.



Africa e Europa, schiavitù, colonizzazione e migrazione
viewtopic.php?f=175&t=1204


Le demenziali menzogne sull'Africa del vittimismo africano
https://www.filarveneto.eu/forum/viewto ... 175&t=2953
https://www.facebook.com/Pilpotis/posts/877868459456592
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Re: Schiavi dell'Islam o del nazismo imperialista maomettano

Messaggioda Berto » lun ago 08, 2022 8:03 pm

Gli schiavisti di Allah: cade un tabù, lo si può dire. Occorre farlo conoscere
Corriere della Sera -Rassegna Stampa
Analisi di Stefano Montefiori
10.12.2017

Riprendiamo da LETTURA del Corriere della Sera di oggi, 10/12/2017, a pag.13, con il titolo "Gli schiavisti di Allah", l'analisi di Stefano Montefiori

Consigliamo ai nostri lettori insegnanti (ma non solo a loro) di stampare questa pagina per farne oggetto di dialogo con gli studenti. Si rompe per la prima volta il tabù dello schiavismo, da sempre attribuito al colonialismo occidentale. Finalmente appare in tutta la sua mostruosità quello islamico. E' un dovere farlo conoscere.

https://www.informazionecorretta.com/ma ... ign=buffer


L'inchiesta della giornalista Nima Elbagir e di tre colleghi della Cnn sui mercati degli schiavi in Libia ha provocato polemiche sul ruolo dell'Italia e dell'Europa, che hanno stretto un accordo con le autorità libiche per frenare gli sbarchi di migranti, senza vigilare abbastanza — questa è l'accusa — sulle attività delle organizzazioni criminali. Nell'appello firmato da tante celebrità francesi (dall'attore Omar Sy agli scrittori Alain Mabanckou e Jean-Christophe Rufin), per esempio, c'è tutta l'indignazione per le mancanze dell'Unione Europea e della comunità internazionale. Altri, come lo scrittore e saggista Pascal Bruckner, preferiscono sottolineare un altro aspetto: le migliaia di neri africani che lasciano i loro Paesi per mettersi nelle mani di trafficanti, venendo talvolta poi venduti come merce, seguono le stesse rotte percorse per molti secoli dagli schiavisti arabi. Quel mercato vergognoso non è, o non è solo, il prodotto di un patto più o meno scellerato concluso dalle solite potenze ex coloniali; è anche il frutto di una tradizione di schiavismo praticato dagli arabi nordafricani a danno nei neri subsahariani. La tratta degli schiavi a opera delle poteme europee è stata molto studiata e denunciata, fa parte del panorama intellettuale e culturale dell'Occidente ed è uno dei pilastri del suo — in linea di massima giustificato — senso di colpa. In Francia, la legge Taubira del 21 maggio 2001 definisce «un crimine contro l'umanità» la tratta degli schiavi, e si dà per scontato che sia quella organizzata dagli europei per rifornire di manodopera le loro colonie d'oltremare. Ma accanto a questi crimini occidentali, che restano gravi, ci sono quelli commessi dai mercanti arabi. Atrocità meno note, anche perché il mondo arabo-musulmano sembra fare fatica a tornare sulle pagine meno nobili del suo passato. Tra i pochi ad avere il coraggio di farlo c'è, ricorda Pascal Bruckner, lo storico franco-senegalese e musulmano Tidiane N'Diaye, autore nel 2008 di un importante libro edito da Gallimard, Le génocide voilé. «La tesi che difende N'Diaye — scrive Bruckner in un lungo intervento su "Le Point" — è semplice quanto netta: se la tratta transatlantica (organizzata dagli europei, ndr), che è durata quattro secoli, è qualificata a giusto titolo come crimine contro l'umanità, la tratta dei neri d'Africa compiuta dal mondo arabo-musulmano, cominciata a partire dal VII secolo dopo Cristo e conclusa ufficialmente nel XX, può essere assimilata a un genocidio: secondo le stime fece 17 milioni di vittime, tra uccisi e castrati. Mentre 70 milioni di discendenti degli schiavi o di meticci africani popolano il continente americano, dagli Stati Uniti al Brasile, solo pochi neri sono riusciti a sopravvivere in terra d'Islam». N'Diaye sostiene che la conquista dell'Egitto da parte degli arabi, nel VII secolo, è coincisa con l'asservimento delle popolazioni della Somalia, del Mozambico e del Sudan. I Nubiani, continuamente sottoposti agli assalti dei combattenti della «guerra santa», preferirono cercare un accordo e conclusero nel 652 un trattato con l'emiro Abdallah ben Saïd, che impose loro la consegna di 360 schiavi neri all'anno. Uomini, donne e bambini venivano poi rivenduti in Turchia, Persia, Penisola arabica e Nord Africa, secondo due rotte principali: una terrestre attraverso il Sahara, l'altra marittima a partire dai porti della costa orientale africana. Secondo lo storico è difficile stabilire quante furono le vittime, perché nei secoli le prove documentali della tratta dei neri a opera degli arabi sono state cancellate o manomesse. Grazie anche agli studi dell'africanistica americano Ralph Austen, è possibile tuttavia supporre che, dal VII al XX secolo, 7,4 milioni di neri siano stati deportati dall'Africa subsahariana; a loro bisogna aggiungere i 6 milioni di prigionieri morti durante il viaggio e altri 370 mila rimasti nelle oasi. Poi, nelle regioni prossime al Mar Rosso e all'Oceano Indiano, potrebbero essere stati portati otto milioni di neri, arrivando così al totale di circa 17 milioni. Tra loro, molti morirono per le infezioni e le sofferenze indotte dalla castrazione, che veniva praticata come prassi perché si pensava in questo modo di mantenere la supremazia anche virile degli arabi. II guaio è che quegli eventi storici, poco indagati e ancor meno conosciuti, hanno prodotto guasti che si perpetuano ancora oggi. «I popoli arabo-musulmani — dice N'Diaye — hanno fatto razzie, castrato e ridotto in schiavitù le popolazioni nere senza interruzione per i3 secoli E in pieno XXI secolo continuano a martirizzare i neri nel Maghreb e a sottoporre le donne nere a schiavitù in Medio Oriente» . Lo storico parla di un razzismo poco conosciuto che ancora continua, quello dei nordafricani arabi, dalla pelle chiara, nei confronti degli africani neri. Lo schiavismo e il razzismo verso i neri praticati non dai bianchi occidentali, ma dagli arabi, sono al centro anche di due notevoli romanzi usciti negli ultimi anni, prova che il silenzio comincia a rompersi. Tra i finalisti dell'ultimo premio Goncourt c'era Bakhita (Rizzoli) di Véronique Olmi, storia di «madre Moretta», schiava e poi santa, nata in Darfur nel 1869 e morta a Schio (Vicenza) dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Bakhita, «Fortunata», è il nome che le venne dato per beffa dopo che due uomini andarono a rapirla nel villaggio di Olgassa, nel Darfur, quando aveva sette anni. Al grande mercato di El Obeid venne comprata da un ricco arabo che la portò a casa come un trofeo, regalandola alle figlie. Le ragazze mostrano alle amiche questa schiava così bella «che sa fare tante cose», come imitare le scimmie e prendere con la bocca i frutti lanciati in aria. Un altro romanzo che denuncia il razzismo di tanti arabi verso i neri è Il matrimonio di piacere (La nave di Teseo) di Tahar Ben Jelloun, in parte ambientato in Marocco. «La macchina fotografica di Salem (uno dei protagonisti, ndr) fu confiscata. All'inizio lui protestò, disse che era marocchino, il padre di Fès e la madre senegalese, ma nessuno fece attenzione a lui. Ricevette un colpo sulla nuca e gli sembrò di sentire un agente che diceva: "tutti i marocchini sono africani, ma non tutti gli africani sono marocchini". Salem capì che il colore della sua pelle lo aveva già condannato e che nessun discorso avrebbe mai potuto farci niente». II romanzo di Ben Jelloun, marocchino, parla di un uomo d'affari arabo che contrae un «matrimonio di piacere», permesso dall'Islam, con una bellissima donna senegalese che frequenta nei viaggi di lavoro a Dakar, ma anche del rapporto tra arabi e neri in Nordafrica. «I pochi discendenti degli schiavi — dice Tahar Ben Jelloun — sono considerati dei cittadini di secondo rango dagli arabi, che hanno la pelle più bianca e si sentono più civilizzati. A questo atteggiamento che ha radici antiche nella tratta degli schiavi, si è aggiunto il razzismo contro i neri che passano dal Maghreb e dalla Libia nella speranza di raggiungere l'Europa». Bruckner critica da sempre il monopolio occidentale del pentimento, a cominciare da Il singhiozzo dell'uomo bianco, pubblicato in Francia nel 1983 (Longanesi, 1983; Guanda, 2008). Ora invita il mondo arabo-musulmano a cominciare l'autocritica sullo schiavismo, «a chiedere perdono per il suo ruolo nella "caccia ai neri" e a interrogarsi sul suo razzismo. Il senso di colpa va spartito tra tutti i popoli che hanno commesso gravi torti».
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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